L'inconscio geopolitico
Analisi del terrorismo nel pensiero di Derrida
di IDA DOMINIJANNI

"Quelli che vengono chiamati "i terroristi" non sono "gli altri", assolutamente estranei, quelli che "noi occidentali" non saremmo più in grado di comprendere. Essi non sono "gli Arabi" in generale, né l'Islam, né il Medio Oriente arabo-islamico. Ognuno di questi gruppi è allo stesso tempo eterogeneo, agitato da tensioni, conflitti, contraddizioni essenziali e processi autodistruttivi, quasi suicidi. Vale lo stesso per "l'Occidente"". Così Jacques Derrida, intervistato da Giovanna Borradori (Filosofia del terrore, Laterza 2003) metteva all'opera il suo stile di pensiero nell'analisi del nome "terrorismo": non diversamente dagli altri nomi del lessico politico moderno, anche "terrorismo" va decostruito, sfogliandone una per una le stratificazioni e smontandone uno per uno i significati codificati; e in tal modo perderà la sua apparente evidenza e pienezza, mostrerà contraddizioni, vuoti, complicità con altri nomi che si vorrebbero opposti ad esso.
Complicità fra il terrorista e la sua vittima, ad esempio: si pensi alla forma dell'attentato dell'11 settembre - eseguito da dirottatori immigrati e addestrati negli Stati uniti, con una tecnologia americana, un aereo-bomba americano, in una città americana -, ed esso apparirà, dice Derrida, come un attentato che viene non tanto dall'esterno quanto dall'interno del sistema americano; più come una sua implosione che come una sua esplosione. Non solo. Si guardi alle definizioni giuridiche del termine "terrorismo", e si vedrà che nessuna di esse arriva a coprire in modo soddisfacente o coerente il fenomeno, oppure per coprirlo finisce col comprendere anche comportamenti che siamo lungi dal definire terroristici, e che non appartengono alle reti clandestine islamiche ma ai governi democratici occidentali. Un sintomo chiaro di come sia difficile "oggettivare" il terrorismo, collocarlo compiutamente al di fuori di noi. E infatti, se dal diritto passiamo alla storia scopriamo, continua Derrida, che la storia politica della parola "terrorismo" deriva in gran parte dal terrore rivoluzionario francese, esercitato in nome del monopolio statale della violenza. Che qualunque definizione odierna del "terrorismo" non esclude il terrorismo di stato, da cui peraltro tutti i terroristi del mondo sostengono di difendersi. Che la distinzione fra terrorismo nazionale e internazionale non regge nel caso delle vicende storiche dell'Algeria, dell'Irlanda del Nord, di Israele, dei Palestinesi. E che le distinzioni fra terrorismo e guerra, terrorista e combattente per la libertà, civile e militare, polizia ed esercito, interventi di mantenimento della pace e guerra, non reggono alla prova dei fatti di oggi.
Attenzione, Derrida non era un pericoloso estremista, né un militante no-global che se la cavava a buon mercato con la tesi che terrorismo e guerra sono solo due facce della stessa medaglia. Smascherando le false opposizioni che strutturano la logica della politica, non dice che tutto è uguale a tutto. Non giustifica niente, anzi sottolinea che se c'è oggi un ruolo del filosofo, è quello di tenere aperto lo iato fra comprendere e giustificare. E nel seguito del discorso, non esita ad affermare che, dovendosi schierare nel conflitto binario fra Occidente e terrorismo come oggi ci viene presentato, si schiererebbe dalla parte dell'Occidente, di un Occidente gravemente compromesso eppure ancora in grado di rivendicare un vantaggio culturale e politico rispetto al fondamentalismo, vantaggio che risiede nella capacità di lasciare aperto, "per principio e per legge", un futuro per la democrazia e il diritto. Il punto è un altro: dietro le certezze del lessico politico che strutturano "il terrorismo" come l'Altro, il Male assoluto, la Violenza di grado zero, c'è la forza del potere, "il potere dominante che giunge a imporre, e quindi a legittimare, se non a legalizzare, su una scena nazionale o mondiale, in una data situazione, l'appellativo e quindi l'interpretazione che gli conviene". Bisogna saperlo, saper fare questa tara, ogni volta che pronunciamo quell'appellativo di "terrorista".
Il che non ci esime dall'analizzarlo in profondità e distintamente, per ciò che ogni volta significa, e per ciò che ogni volta produce, semina e sedimenta, al di là della logica quantitativa della conta dei morti e dei massacri. E qui, con uno dei suoi consueti insight in profondità, Derrida punta giustamente oltre la superficie della razionalità politica, nel meno misurabile ma non meno reale territorio dell'inconscio. Ne va dell'inconscio, nel terrorismo: di quel'"inconscio geopolitico" che dopo l'89, cioè dopo la fine del comunismo e dell'ordine bipolare, è avvolto, come il filosofo aveva scritto in Spettri di Marx, nella malinconia, in un lutto non elaborato.
Lutto della rivoluzione, o piuttosto lutto dell'ordine? Questa, io credo, è una domanda decisiva, quindici anni dopo l'89, e ancora una volta è una domanda da porre trasversalmente al terrore e alla guerra, ai terroristi e agli anti-terroristi. Ciò che muove la loro tragica confrontation di oggi è una pulsione di rivoluzione - la rivolta contro la superpotenza americana, contro le pretese onnivore dell'Occidente, contro le pretese omologanti della globalizzazione - o non piuttosto una nostalgia dell'ordine bipolare, della certezza dei confini fra Bene e Male, Noi e Loro, l'Occidente e il Resto del Mondo? Il terrore disordina o riordina? E a chi conviene, di chi fa il gioco? E se fear, la paura, stava alla base dell'antropologia politica su cui eresse la sua potenza il mostruoso Leviatano di Hobbes, non sarà alla vittoria di un nuovo, potente e mostruoso Leviatano internazionale che inconsciamente il terrorismo sta lavorando, fattualmente in coppia con la superpotenza che dice di voler attaccare?
Ne va, nel terrorismo, dell'inconscio geopolitico, e anche dell'inconscio individuale e collettivo. Anora Derrida: il messaggio del terrorismo, di un terrorismo senza volto e senza testa, invisibile, anonimo, reticolare come quello di oggi, è che il peggio deve ancora venire, è imperscrutabile e incalcolabile: non è vero che con l'attacco alle due torri si è toccato l'apice, perché davanti a noi potrebbero esserci attacchi batteriologici, chimici, informatici e quant'altri. Il terrorismo di oggi non è altro che il frutto della fine dell'equilibrio del terrore della Guerra Fredda; è terrore senza equilibrio e senza deterrenza. Squilibrio e asimmetria delle forze, senza misura comune, a differenza di quello che accadeva nella confrontation fra Usa e Urss. Lo sappiamo dalla cronaca: non c'è misura comune e non c'è confronto possibile fra la decapitazione di un ostaggio e un massacro di civili sotto un bombardamento: c'è più morte nel secondo caso, eppure il primo ci sconvolge di più, turba di più il nostro immaginario. Perché ci riporta a un altro tempo storico, quando le decapitazioni le faceva la ghigliottina nel campo nostro? Perché tocca il tabù dell'inviolabilità del prigioniero? Perché depotenzia la spersonalizzazione e l'automazione della violenza, le nostre "bombe intelligenti"lanciate dall'alto dei cieli schiacciando un bottone, e la riporta al corpo-a-corpo della relazione duale fra carnefice e vittima? O, ancora, per via di quella tecnica rozzamente pornografica con cui ogni volta il sacrificio dell'ostaggio viene immesso via Internet nelle vene della percezione occidentale? Forse è proprio qui, nel dettaglio della tecnica di comunicazione visuale scelta da un terrorismo insieme pre e post-moderno, che dobbiamo cercare qualche traccia per ulteriori domande. Perché è quando la potenza del desiderio è in crisi che la pornografia trionfa, e dunque quell'insistenza pornografica sintomaticamente allude a una crisi, e a una rimozione. Nelle settimane scorse, interrogandosi sul "terrorismo mediatico", qualcuno ha ricordato che anche ai tempi del sequestro Moro delle Br ci sconvolgeva il linguaggio mediatico, quella rozza fotografia del prigioniero davanti alla bandiera con la stella a cinque punte trasmessa ossessivamente da ogni comunicato. Io credo che al ricordo del sequestro di Moro dovremmo tornare più spesso, e con più attenzione: non per paragonare due terrorismi imparagonabili, ma per confrontare la nostra percezione del terrore di allora e di oggi, le nostre difese e le nostre rimozioni di allora e di oggi. Con la morte di Moro in Italia finì la Prima Repubblica e si palesò una crisi irreversibile dell'autorità della politica. Forse è di questo che parla il terrorismo anche oggi, di una fine irreversibile non dell'Occidente ma della politica occidentale come l'abbiamo conosciuta negli ultimi due secoli, ed è questa fine che continuiamo a rimuovere, coprendola con una corazza armata che non ne rianima né il desiderio né la potenza.

Nessuno può uccidere nessuno. Mai. Nemmeno per difendersi.