Franco Fornari "Psicoanalisi della guerra"
Feltrinelli, Milano, 1966, Cap 1 | 2 | 3

Cap. 1- Il fenomeno guerra

L’opera del sociologo Gaston Bouthoul (1) può essere considerata il tentativo più serio finora fatto di impostare i problemi della guerra in modo scientifico. I risultati ai quali la sua indagine è pervenuta, sotto molti aspetti, possono essere utilmente accostati ai dati dell’indagine psicoana­litica.

Bouthoul prende in esame le opinioni e le teorie sulla guerra, la sua morfologia, i suoi aspetti tecnici, demografici, economici e psicologici. Prima di provarsi a enucleare le leggi dinamiche fondamentali del fenomeno guerra, Bout­houl pone in rilievo alcuni ostacoli allo studio scientifico delle guerre, che possono essere riconosciuti anche dalla psicoanalisi e che consistono 1) nella pseudoevidenza della guerra per cui questa è intesa come un fatto noto del quale ognuno crede di conoscere le cause; 2) nell’illusione che la guerra dipenda interamente dalla volontà cosciente degli uomini, mentre al contrario le motivazioni coscienti della guerra sarebbero da ritenere epifenomeni o motivazioni aggiunte o addirittura accessorie, tali cioè da impedire di raggiungere la conoscenza delle tendenze bellicose profonde e il loro rapporto con alcune modificazioni della struttura della società, nel momento in cui essa si dà alla guerra; 3) nell’illusionismo giuridico, vale a dire in quell’insieme di razionalizzazioni giuridiche che hanno cercato in ogni tempo di teorizzare la guerra legalizzandola. Nella storia del diritto internazionale, troviamo agli inizi la con­cezione teologica, che considera il combattente come la proiezione terrestre di una lotta di divinità. Tale concezione permane ai nostri giorni sotto forma di mitizzazioni laiche della guerra come “strumento del destino, incaricato di portare a compimento i disegni misteriosi della Storia.”

(1) GASTON BOUTHOUL Le guerre - Elementi di Polemologia, Ed. Longa­nesi & c., Milano, 1961.

Successivamente la mitologia teologica della guerra è stata sostituita dalla mitologia dello Stato, con l’apoteosi della sovranità, con il diritto di conquista, di quello del pri­mo occupante, del principio dinastico, aristocratico e po­polare e, infine con l’ipostatizzazione della nazione e della razza. Tipica mitizzazione dello Stato in rapporto alla guerra è la posizione hegeliana, per cui la guerra è il punto culminante della vita dello Stato, perché attraverso la guer­ra lo Stato giunge “alla più alta coscienza di se stesso.”

Un altro ostacolo allo studio scientifico della guerra è la concezione antropomorfica del diritto internazionale, secon­do la quale la guerra viene assimilata alle liti private tra cittadini.

Mettendo in guardia contro il semplicismo di una ridu­zione artificiale della guerra ad una causa unica, Bouthoul precisa che durante la guerra assistiamo “ad una modifica­zione radicale e brusca” della nostra sensibilità e a un ca­povolgimento di senso di tutti i valori sia morali che economici.

Per la fondazione della polemologia Bouthoul auspica una metodologia che comprenda: la descrizione dei fatti ma­teriali, la descrizione dei comportamenti psichici, un primo grado di spiegazione, (corrispondente alle spiegazioni date alle guerre particolari dagli storici), un secondo grado di spiegazione (comprendente tutte le opinioni e le dottrine sulla guerra in generale).

Successivamente, dopo aver preso in considerazione i fatti tecnici, psicologici, economici, demografici della guerra, cerca di stabilire le vere e proprie funzioni della guerra, che, al di là di ogni soprastruttura, vengono identificate come pure e semplici funzioni distruttive.

Il carattere più specifico della guerra è il suo essere un fenomeno collettivo.

La finalità della guerra, sul piano soggettivo, è diversa dagli scopi dell’aggressività individuale; la guerra è una lotta armata, che richiede solidarietà in vista di una organizzazione, ma soprattutto essa ha un carattere etico­giuridico cogente per tutti gli individui del gruppo.

Per Clausewitz “la guerra è un atto di violenza il cui scopo è di forzare l’avversario ad eseguire la nostra vo­lontà.” Bouthoul propone la definizione di guerra come “lotta armata e sanguinosa tra gruppi organizzati.”

1.        Fattori tecnici delle guerre

Il susseguirsi storico delle varie tecniche di guerra, (cioè di vari tipi di armi) in quanto puro dato obiettivo di realtà, sembra avere per lo psicoanalista uno scarso interesse.

E’ noto che le tecniche della guerra hanno seguito e spes­so stimolato molte conquiste tecniche dell’umanità. Viste nell’ambito delle modalità spaziali (distanza tra belligeranti) in cui le azioni di guerra si esplicano, il fatto più evidente è che le conquiste tecniche hanno progressivamente portato alla possibilità di colpire il nemico sempre più da lontano, con una rapidità, con una radicalità, che tende a corrispon­dere all’assoluto delle fabulazioni magiche (vedi lampada di Aladino che distruggeva gli eserciti nemici in un sol colpo). Tale fatto ha portato a una differenziazione sempre maggiore tra le modalità della aggressività interindividuale diretta del corpo a corpo e le modalità in cui le azioni di­struttive si esplicano tra gruppi. La scoperta dell’energia atomica, aprendo alla guerra la prospettiva pantoclastica, ha portato la guerra a coincidere infine con le originarie individuati fantasie di onnipotenza sadica distruttiva. Tutto ciò mi pare meriti una riflessione psicoanalitica. Se paragoniamo i simbolismi inconsci, nei quali le armi vengo­no rappresentate, all’evoluzione tecnica della guerra tro­viamo che questa sembra aver camminato — rispetto al­l’inconscio — in senso regressivo. Le armi più primitive (spada, gladio, lancia) esplicando la loro azione attraverso l’intrusione diretta nel corpo dell’altro, operata reciproca­mente tra due individui, sembrano collegabili alla fantasmatizzazione del sadismo genitale e sono in realtà molto vicine alle modalità dell’aggressione interindividuale.

Le armi da fuoco, che implicano il proiettile, cioè qual­cosa che dall’arma viene lanciato contro il nemico, sembrano riconducibili invece nella fantasmatizzazione del sadismo anale.

La guerra chimica e le armi atomiche, in quanto hanno aperto la prospettiva pantoclastica in un orizzonte di di­struttività e di contagio malefico, sembrano più facilmente interpretabili in un universo fantasmatico dominato dall’onnipotenza e dalle angosce di influenzamento e di annienta­mento, che sarebbero tipiche del sadismo orale. Questa sconcertante evoluzione regressiva delle risonanze inconsce, per cui lo sviluppo tecnico delle guerre sembra cor­rispondere nell’inconscio ad una mobilizzazione dei livelli di risonanza fantasmatica sempre più regressivi, pone dei problemi oscuri, Se dovessimo impiegare tale sconcertante evoluzione regressiva come punto di riferimento prognostico, saremmo portati a trarre delle conclusioni del tutto infauste. La psicoanalisi ci ha familiarizzato con l’idea che la regressione domina il passaggio dalla psicologia dell’in­dividuo alla psicologia del gruppo.(2) Ma il riscontro di livelli di fantasmatizzazione sempre più regressivi che accompagnano lo sviluppo delle tecniche delle guerre, ci suggerisce un’ipotesi imprevista ed agghiacciante: sembra cioè che l’evoluzione tecnica della guerra, traguardata attraverso le risonanze inconsce, con il suo procedere paradossalmente regressivo, rappresenti attualmente la verificazione di quegli stadi che siamo ormai abituati a considerare come points de repère dei processi psicotici. Per quanto catastrofica possa essere la prognosi ricavata dai livelli di risonanza inconsci, essa ha tuttavia la possibilità di incon­trarsi con una diagnosi della guerra che l’uomo da sempre ha fatto, ma che ora soltanto è in grado di rivelare aperta­mente a se stesso: essere cioè la guerra la normalità e nello stesso tempo la malattia mentale dell’uomo. Paradossalità dunque che diventa sempre più evidente quanto più si realizza storicamente, come se la prognosi imprevista ed ag­ghiacciante, che più sopra abbiamo fatto, dovesse anche costituire il punto di partenza di una prognosi meno infausta: quella che potrebbe nascere finalmente dal progressivo rivelarsi del fatto che la guerra è originariamente il risul­tato di processi psicotici.

2.             Fattori demografici della guerra

L’interessante capitolo che Bouthoul dedica ai fattori demografici della guerra ci rivela una delle più inquietanti funzioni di quest’ultima. Per chiarire tale funzione egli parte dalla constatazione empirica che ogni guerra porta all’aumento della mortalità, cosicché essa può apparire una distruzione volontaria di riserve di vite umane previamente accumulate, un atto compiuto con l’intenzione implicita di sacrificare un certo numero di uomini. Per quanto tale intenzione non sia esplicita e cosciente, Bouthoul ritiene che essa sia specificamente operante. Partendo dalla costata­zione empirica della distruzione dei figli dell’uomo operata

(2) Alix Strachey, The Unconscius Motives of War, Allen and Unwin, London, 1957.

dalla guerra, questa viene concepita come un infanticidio differito. Poiché la sola caratteristica demografica costante e generale di un conflitto armato è un aumento della martalità, Bouthoul, scavalcando qualsiasi altra motivazione più o meno razionalizzata (e quindi sovrastrutturale) considera la guerra una istituzione distruttiva volontaria: in particolare una istituzione distruttiva che prende di mira gli uomini giovani.

La guerra casi appare come l’accumulazione in una determinata società di un capitale umano, di cui una parte, ad un determinato momento, viene buttata via.

Allorché una società ha un eccesso di uomini giovani, presenta secondo Bouthoul una struttura sociale esplosiva, come se la giovane generazione, quando è eccedente, costituisse un elemento di disturbo della società. La eccedenza di aggressività che costituisce la impulsione bellicosa viene così identificata con la eccedenza di uomini giovani. L’enor­me e brusco aumento della salute fisica dei popoli europei, iniziato con la vaccinazione lenneriana, avrebbe determinato perciò, come sostituta di epidemie biologiche, l’instaurarsi di una disposizione alla guerra come epidemia psichica, il cui scopo sarebbe ora quello di eliminare l’eccedenza delle nascite sulle morti. La guerra avrebbe quindi il compito di perpetuare la specie sacrificando alcuni individui.

Bouthoul assegna al fattore demografico della guerra un ruolo primario e dà a tale fattore il primato su tutti gli altri, in quanto assorbirebbe in sé anche il fattore economico. L’equilibrio economico sarebbe cioè costituito, nella sua forma più generale, da due varianti: da una parte la popo­lazione e dall’altra l’insieme dei beni di consumo e dei mezzi di produzione. Ciò che incide sul fattore demografico ha una ripercussione diretta sul fattore economico. La struttura esplosiva legata ad una eccedenza di maschi gio­vani, non sarebbe però la causa determinante della guerra, bensì un elemento predisponente che va a rinforzare e a rendere più virulente le altre cause. Il fattore demografico agirebbe inconsciamente determinando la risposta alle sti­molazioni bellicose.

D’altra parte, secondo il sociologo Thompson, non sarebbe tanto la pressione demografica in sé e per sé, ma la coscienza che se ne ha, cioè la pressione sentita, che deci­derebbe delle concrete modalità in cui il fattore demografica influenza i problemi politici internazionali. Allo stesso modo , un paese che non ha provato la inflazione, la può  tollerare per lungo tempo, perché non ne ha coscienza, mentre un paese che ha già provato l’inflazione, al semplice annuncio di inflazione, reagisce in modo drammatico, perché questa è più sentita (mobilizzazione di ansia).

L’indagine storica sui rapporti tra demografia e impulsi bellicosi sembra confermare l’intimo legame tra le due entità come rapporto di causa ed effetto. “Laissez faire a Vénus et vous aurez Mars” aveva scritto Bergson nel 1936. D’altra parte la stessa disposizione bellicosa può essere cau­sa di aumento di popolazione in quanto l’esistenza di un surplus di giovani (battaglia demografica) viene considerato un mezzo per difendersi. Ma questo surplus è a sua volta generatore di spirito di aggressione e in tal modo l’ef­fetto diventa a sua volta la causa e l’antinomia rimane, al­meno finora, insolubile.

La rivoluzione demografica iniziata dalla seconda metà del XIX secolo, (fino ad allora la mortalità infantile rag-giungeva fino il 70%) si troverebbe in stretto rapporto con l’aumento della bellicosità dell’Europa.

Oltre alla guerra, le società possono disporre di istitu-zioni distruttive che si aggiungono alla morte naturale, Bouthoul prende in esame l’infanticidio, l’infanticidio in-diretto creato dalla condizione proletaria, la castrazione, il monachismo, la castità imposta, la schiavitù, il diritto repressivo che isola i criminali.

La super-popolazione non deciderebbe perciò necessariamente e automaticamente una guerra: essa mette in opera istituzioni distruttive ed eliminatrici di cui la guerra sarebbe il caso limite, e più clamorosamente istituzionalizzato. Cosi la pace romana, verificatasi tra la fine delle guerre pu­niche e Diocleziano, avrebbe avuto la sua istituzione distruttiva, anziché nella guerra, nei milioni di schiavi sacrificati. La pace cinese, oltre ad essere garantita da guerre interne dì brigantaggio e dalle epidemie, avrebbe avuto i suoi so­stegni nel disprezzo generale della vita. La longevità in Cina era infatti considerata come un favore eccezionale de­gli dei.

La pace britannica, avutasi nell’800, nonostante il forte aumento della popolazione, viene rapportata ai grandi sacrifici delle classi povere e al lavoro infantile, che falcidiava le giovani generazioni. In nessun paese come in Inghilterra si verificava una differenza così forte tra morta­lità dei ricchi e dei poveri. A Bath la durata media della vita di un gentleman era di 55 anni; quella di un operaio di 25.

Considerazioni analoghe valgono infine per la pace indù, che dura dalla fine del XVII secolo. L’India, che prima della conquista inglese era uno dei paesi più bellicosi del mondo, divenne pacifica attraverso le continue lotte tra i principi indù, aggravate dal fanatismo religioso. Va notata però una funzione distruttiva particolare: l’altissima mortalità infantile.

I mezzi di rilassamento demografico riscontrabili storicamente sarebbero: 1) l’impedimento sistematico dell’au­mento della popolazione imponendo l’aborto e l’infanticidio. Tale politica fu adottata dalla feudalità dell’antico Giappone e da alcuni paesi dell’Oceania e della Malesia (soluzione insulare); 2) la creazione di condizioni per una larga mortalità di giovani (soluzione asiatica); 3) l’esercizio della guerra (soluzione europea).

Ne deriva il corollario che la guerra, come infanticidio differito, si produce in misura direttamente proporzionale alla diminuzione della mortalità infantile.

Il fattore demografico implicherebbe dunque la messa in opera di funzioni distruttive in genere: la guerra è una di queste. Le strutture demoeconomiche sarebbero pertanto le radici dell’aggressività, mentre le ideologie e i problemi politici non sarebbero che sovrastrutture o meglio istanze esecutive delle fondamentali funzioni distruttive espresse dalla guerra.

Secondo Bouthoul, la previsione di Marx che la società capitalistica avrebbe prodotto una miseria crescente nei paesi capitalistici, non si è verificata in Europa, perché l’Europa occidentale gode da un secolo del frenaggio demografico. La miseria crescente si verificherebbe invece, indipen­dentemente dai regimi politici, nei paesi in cui non c’è freno demografico. Nei paesi con pianificazione autoritaria applicata solo alla produzione e non all’aumento della po­polazione, il risultato della pianificazione economica viene falsato, perché, allorché attraverso sacrifici si arriva a produrre per cento milioni di uomini, ci si trova di fronte, se non c è frenaggio demografico, al fatto che i cento milioni sono diventati centotrenta.

Fin qui Bouthoul; partendo dalla sua tesi, io vorrei ora sviluppare alcune considerazioni psicoanalitiche.

Pur senza voler entrare nel merito della teoria demografica della guerra, l’affermazione di Bouthoul, per cui il fat­tore demografico agisce inconsciamente nel rendere suscettibili alle stimolazioni bellicose, esige una chiarificazione da parte della psicologia dell’inconscio. Il fattore demografico, infatti, non è, in sé e per sé, un elemento inconscio, bensì un elemento di realtà. Si pone quindi il problema di comprendere in che modo un elemento cosciente possa agire in modo inconscio.

Di fatto La situazione demografica può essere impiegata come uno dei maggiori elementi di propaganda bellica. Essa però non viene adoperata nel senso descritto da Bouthoul, cioè nel senso di dire “Siamo in troppi; una parte di noi deve morire.” Nel ventennio fascista, il regime faceva leva sulla immagine dell’Italia “proletaria” per “giustificare” la guerra alle democrazie “ricche” che erano accusate di avere un basso tasso di natalità. Secondo questo schema la situazione demografica viene fatta sentire nell’inconscio mobilitando fantasie inconsce, prevalentemente di tipo orale, in cui i figli numerosi vengono omologati al bambino che muore di fame (inconsciamente carenzato di madre), che viene autorizzato a dirigere la sua aggressività verso il fratello ricco (amato) in un attacco invidioso.

Per diventare operante inconsciamente il fattore demo­grafico deve essere implicato nella vita fantasmatica in-conscia. In caso di propaganda bellica, il fattore demografico viene di fatto adoperato per attivare fantasie invidiose.

Ritornando all’affermazione di Bouthoul, secondo la qua­le la guerra è un infanticidio differito, si deve precisare che essa può essere inserita nel contesto della psicologia dell’inconscio solo se si ammettono operanti nell’uomo in genere, e in particolare negli uomini-genitori, impulsi ostili e omicidi verso i figli, impulsi ai quali gli psicoanalisti sono da tempo familiarizzati dal cosiddetto complesso di Edipo e di Crono3 e, negli ultimi decenni, attraverso le in­dagini sulla schizofrenia, come una delle evoluzioni della risposta del figlio all’ostilità dei genitori

Se quindi si vuole tenere valida l’affermazione che il fattore demografico agisce inconsciamente, allora esso finisce per perdere il suo carattere aritmetico per essere invece inserito in un universo di situazioni istintive profonde che

(3) Complesso di Edipo. Dai mito greco di Edipo. Per complesso edipico si intende un insieme di vicende inconsce per cui il bambino fantastica di uccidere il padre e di sposare la madre, traendone gravi sentimenti di colpa e paura di essere punito con la castrazione.

Complesso di Crono. Il complesso di crono è l’inverso del complesso di Edipo. Esso è un complesso che esprime soprattutto la rivalità e l’osti­lità inconscia del padre verso i figli che fantastica di castrare, schiacciare, umiliare ecc. Nel mito greco Crono divora i figli.

non ci permettono più di osservare la guerra “comme une chose,” come una cosa obbiettivizzata, come un fenomeno naturale, ma come un fatto umano che implica responsa­bilità di ogni uomo-genitore in quanto genitore, in quanto cioè ogni genitore porterebbe al di dentro di sé l’ostilità verso: propri figli e desidera ucciderli. Se il fattore demo­grafico ha il senso che gli attribuisce Bouthoul di funzione inconscia della guerra, la conoscenza psicoanalitica dell’inconscio ci porta a rivelare ad ogni uomo il fatto sorprendente per cui la guerra è desiderata inconsciamente dai padri per far uccidere i propri figli. Non solo, ma poiché il complesso di Crono non è che la trasformazione del complesso edipico, si arriva alla conclusione che la modalità inconscia in cui il fattore demografico agisce nella guerra si collega alle trasformazioni finali del desiderio dei figli di uccidere i padri, rovesciato nel desiderio dei padri di uccidere i figli.

Affermazioni di questo genere sono evidentemente in­quietanti. ma sembra difficile eluderle, qualora si accetti la teoria sociologica del fattore demografico come funzione della guerra, e in particolare la definizione della guerra come infanticidio differito. A questo punto però ci accorgiamo che l’applicazione delle scoperte dell’inconscio al fenomeno guerra, in quanto trasformazione finale di impulsi inconsci, ci pone di fronte ad un problema di verificazione del tutto diverso da quello che incontriamo nell’analisi dei rapporti tra la vita inconscia e la vita individuale. Allorché noi ana­lizziamo un individuo, il suo complesso di Crono o di Edipo noi lo troviamo espresso in forma sublimata o lo troviamo implicato in una nevrosi, quindi nei sentimenti di colpa. Possiamo in tal caso analizzare sintomi nevrotici come misure difensive per fronteggiare impulsi omicidi puramente fantasticati nell’inconscio; attraverso l’esame di realtà, noi possiamo portare il soggetto a verificare il ca­rattere illusorio (o per lo meno inflazionato) della crimino­sità e dei sentimenti di colpa, cosi come sono vissuti nella vita psichica inconscia.

Ma quando confrontiamo i dati della teoria demografica della guerra con gli inconsci impulsi omicidi verso i pro­pri padri o verso i propri figli, noi siamo allora costretti a dover ammettere che esiste una verificazione degli im-pulsi omicidi inconsci verso i propri figli nella realtà della guerra. Con l’aggravante che, mentre sul piano individuale noi ci colpevolizziamo di infanticidi mai commessi, sul piano collettivo ci decolpevolizziamo dell’infanticidio realiz­zato.

Così il processo di verificazione che lo psicoanalista fa nel suo studio privato e il processo di verificazione che lo psicoanalista fa, in quanto pone in rapporto la vita incon­scia con i fatti sociali, sono del tutto diversi e anzi anti­tetici per quello che riguarda il rapporto tra impulsi e di-fese (e in modo particolare il rapporto tra impulsi crimi­nosi e sentimenti di colpa). Ne viene di conseguenza che una teoria psicoanalitica della guerra implica una chiarifi­cazione dei rapporti antitetici che esistono fra le istanze psichiche nel fenomeno guerra, in quanto fenomeno messo in atto dagli individui umani nell’esperienza politicizzata di gruppo. Così il problema della doppia legalità (che è uno degli aspetti più impressionanti della psicologia di pace e della psicologia di guerra) diventa allora il punto cruciale per la descrizione dei processi che si instaurano negli uo­mini, in quanto uomini che fanno la guerra. Tutto il pro­blema della guerra visto attraverso ‘la riduzione all’inconscio non ci rivela una situazione umana eccezionale rispetto alle tendenze istintive coinvolte nella situazione di pace, ma un diverso rapporto tra gli istinti e le difese. In altri termini, la singolarità del fenomeno guerra non è quello di rivelarci impulsi istintivi diversi da quelli che riscontriamo nell’inconscio degli individui, bensì una strutturazione di­versa degli stessi impulsi che agiscono sia nella guerra sia nella vita individuale e nella vita pacifica. In particolare la singolarità del fenomeno guerra sembra consistere in una radicale diversità nella strutturazione dei rapporti tra le istanze psichiche: Io, Es e Super-Io. L’indagine sulla di­versa strutturazione dei rapporti tra le diverse istanze psi­chiche nel fenomeno guerra dovrà essere chiarita nella sua natura, ma il significato autentico di tale indagine non po­trà in definitiva essere ricavato che dai criteri di verifica­zione che comunemente agiscono nella nostra costituzione di realtà, cioè nel rapporto tra le istanze psichiche in base alle quali l’individuo in prima persona verifica i significati del mondo interno nel mondo esterno. Se nella nostra in­dagine ci troveremo di fronte al fatto che nella guerra si assiste alla coincidenza dell’Es con il Super-Io, la verificazione del significato di normalità o anormalità non potrà cioè esser stabilita restando all’interno di una tale coin­cidenza operata dal fenomeno guerra, ma confrontando tale coincidenza con la normale distribuzione dei rapporti tra le istanze psichiche, che corrisponde alla normalità, come normalità del singolo individuo in prima persona, come in­dividuo normale. Sappiamo infatti che la coincidenza tra Es e Super-Io (poiché funzione del Super-Io è anche l’esame di realtà) trae con sé l’impossibilità della verificazione della realtà.

Il fattore demografico, come fattore di guerra diretta­mente proporzionale al numero degli abitanti rispetto ai beni economici disponibili, sembra pertanto riconducibile all’inconscio solo in quanto si collega, come già abbiamo accennato, all’insieme dei vissuti fantasmatici relativi al fatto che una madre sola deve distribuirsi ad un numero troppo grande di figli. La razione di madre, che in tal caso viene distribuita ai singoli figli, raggiunge facilmente i limiti di ciò che abitualmente si chiama frustrazione in­fantile precoce. Tutte le moderne indagini sulla carenza af­fettiva concordano nel ritenere che l’assottigliamento della razione di madre provoca frustrazione e la frustrazione mo­bilizza il sadismo primario come mobilizzazione dell’istinto di morte. Questa mobilizzazione può essere correlata ad un insieme di funzioni distruttive che da una parte vanno dalla depressione anaclitica al marasma e ad una forte incidenza della mortalità infantile, e dall’altra ad un insieme di fun­zioni distruttive dell’uomo adulto che vanno dai disturbi psichici in genere alla criminalità (i disturbi psichici, col­legandosi in modo specifico allo sviluppo della sessualità, come funzione riproduttiva, implicherebbero funzioni di­struttive indirette).

I dati sulla frustrazione infantile precoce in rapporto alla scarsa disponibilità materna rispetto al numero dei bambini potrebbero perciò coincidere abbastanza bene coi fatti collegati alle funzioni distruttive legate al fattore demografico. Ma se il fattore demografico viene collegato alle situazioni inconsce che ineriscono alla frustrazione infantile in genere, si deve rilevare che una determinata quantità di frustrazioni è indispensabile allo sviluppo psichico. Un certo scarto tra i bisogni da soddisfare e i mezzi a dispo­sizione per soddisfarli è cioè indispensabile per l’evoluzione dell’umanità, in quanto specie aperta a sempre nuovi og­getti (secondari) di soddisfazione dei bisogni primari. L’equilibrio perfetto tra popolazione e beni economici risulta perciò impensabile se non immaginando la specie umana come chiusa nella prospettiva di entomologizzazione quale ci è stata descritta da Huxley nel Brave New World. La mobilizzazione del sadismo primario, legata alla inevitabile frustrazione, partecipa dunque in modo essenziale allo sviluppo del Super-Io, nella riflessione sul soggetto dell’istinto di morte: il Super-Io sarebbe cioè una funzione i distruttiva internalizzata. Il problema è quindi complesso; la principale organizzazione distruttiva di cui l’uomo dispone, sarebbe in definitiva il Super-Io: cioè, in senso lato, la Morale inconscia. Si dovrebbe perciò pensare che sia proprio in questa direzione che vada ricercato l’ammortizzamento della tensione bellicosa, seguendo le stesse vie attraverso le quali ogni individuo, in prima persona, arriva all’ammortizzamento dei suoi impulsi distruttivi, anche se ciò ci conduce al problema della colpa, sul quale dovremo ritornare.

3.             Fattori economici delle guerre

Pur riconoscendo che alcune guerre hanno avuto origine da conflitti economici, Bouthoul sostiene che nel fenomeno guerra intervengono specifici accadimenti distruttivi. di beni economici accantonati. Questa constatazione em­pirica ci fa scorgere gli aspetti economici delle guerre più come funzioni di distruzione che non come funzioni economiche vere e proprie. Egli sottolinea il fatto che in genere le discussioni economiche sono per eccellenza il terreno del mercanteggiamento e del compromesso. Anche l’etnologo Davie fa rilevare che, al momento in cui nei popoli primitivi intervengono motivazioni economiche, la guerra si addol­cisce nella sua violenza originaria. La guerra nasce essen­zialmente dal rifiuto del compromesso e quando il compro­messo viene rifiutato è segno che interviene l’espulsione bel­licosa profonda, che cerca pretesti per soddisfarli. Perché un problema economico si trasformi in causa di guerra, è necessario che sopravvenga uno stato d’animo di intransi­genza. La convinzione, anche se erronea, che la situazione economica è insostenibile ed esige la guerra, divenuta suffi­ciente a determinarla. Le stesse teorie economiche della guerra a cui si crede, possono diventare, secondo Bouthoul, importanti fattori di guerra. Ciò perché non sarebbero in genere i fatti che impongono le guerre, ma l’interpretazione che ne è data, specialmente dai dirigenti. Quando i confini economici degenerano in guerra si aggiunge un altro fat­tore che rende i contendenti sordi ai propri interessi economici e allo stesso istinto di conservazione.

Seguendo il criterio di giudicare gli aspetti obiettivi della guerra desumendoli dai suoi effetti, Bouthoul trova che ilprincipale aspetto obiettivo e indiscutibile della guerra è quello di avere una funzione di distruzione. Come ha una funzione di distruzione di uomini, cosi la guerra ha anche una funzione di distruzione di beni economici, e si collega al sacrificio e al consumo di lusso. Il ruolo economico della guerra sarebbe quindi intimamente legato al ruolo della festa, in senso sociologico, intesa come dissipazione solenne. Parallelo al rovesciamento delle leggi morali, si avrebbe in guerra il rovesciamento delle leggi economiche. Se si approfondisce la loro motivazione, la maggior parte delle guerre economiche finiscono per diventare — secondo Bouthoul — guerre psicologiche.

Egli critica perciò la concezione che attribuisce alle crisi economiche la causa delle guerre. La stragrande maggioran­za delle guerre avrebbe avuto origine senza che siano state precedute da crisi economiche.

Dopo aver preso in considerazione attraverso indagini storico­economiche le congiunture economiche che precedono, accompagnano e seguono le guerre, Bouthoul arriva alla conclusione che le vicende economiche della guerra rappre­sentano un ciclo di prodigalità nel quale ritornano inconsciamente, nelle società moderne costumi di dissipa­zione tipici delle tribù primitive. Tale ciclo di prodigalità ha un significato specificamente psicologico ed è particolarmente evidente nella pace armata che ci viene offerta dalla cosiddetta guerra fredda. Questa presenterebbe tutte le caratteristiche del potlach o dono di rivalità (Marcel Mauss e Georges Bataille). Il potlach è il dono solenne di ricchezze considerevoli, offerto da un capo al suo rivale, allo scopo di umiliarlo, sfidarlo e obbligarlo. Colui che ha ricevuto il potlach deve cancellare l’umiliazione e raccogliere la sfida: deve cioè soddisfare l’obbligo contratto accettando il dono; egli non potrà che rispondere un po’ più tardi con un nuovo potlach più generoso del primo, deve insomma “rendere con usura.”

Il potlach non si attua solo con il dono. Nella sua forma più accentuata esso consiste in una distruzione solenne di ricchezze. Un capo tlingit si presentava a qualche rivale per sgozzare davanti a lui degli schiavi. La distruzione di schiavi veniva replicata dal rivale attraverso un’uccisione di un numero ancor più grande di schiavi. Il potlach è, cioè, una distruzione ostentatoria, il cui scopo è di intimidire il rivale. E’ un rincaro che dà, in ultima analisi, prestigio al donatore o al distruttore. L’attuale corsa frenetica agli armamenti sembra cioè un ciclo di “prodigalità-sfida,” nel quale ognuno degli avversari, distruggendo un’enorme quan­tità di ricchezza nel fabbricare armi, spera di intimidire l’altro e indurlo a riconoscere la propria superiorità. (4)

(4) Gaston Bouthoul, ibid, p. 263

Le teorie, largamente diffuse, che sostengono l’origine economica delle guerre, sembrano confermate dai soli casi di guerre vere e proprie fra gli animali (api e formiche). Bouthoul fa rilevare che le api e le formiche sono gli unici animali ad avere una economia sotto forma di beni accan­tonati. In alcune specie di api e di formiche troviamo cioè tutti i caratteri di una guerra collettivamente organizzata, il cui scopo è il saccheggio. Egli fa però notare che in tali animali la proprietà è rigidamente collettiva e non esiste traccia di proprietà privata: situazione che sembra confermare — e nello stesso tempo e in modo curioso sembra contraddire, su un piano etnologico, — le teorie marxiste della guerra.

L’acquisizione di beni economici, che una guerra vittoriosa determina attraverso il saccheggio nelle sue varie forme, si collegherebbe perciò al problema della tendenza all’appropriazione di beni economici con la violenza. A tale proposito Glover fa rilevare che il furto, che un tempo era con­siderato come un comportamento determinato da motivazioni economiche, oggi è considerato come un comportamento a motivazioni psicopatologiche. All’esame di realtà, la distruzione di beni economici, che è determinata da una guerra moderna, può essere facilmente verificata come eccedente la quantità di beni economici di cui si spera di venire o di cui si viene effettivamente in possesso con una vittoria. Si a l’acquistare che il perdere beni economici entrano cioè ambedue nella realtà della guerra. La tendenza generale a scotomizzare la perdita induce perciò a ritenere che nel fenomeno guerra intervengano distorsioni di realtà che hanno una certa analogia con alcune situazioni psicopatologiche quali il gioco d’azzardo e la tossicomania.

Riesce perciò spontaneo paragonare l’atteggiamento di chi affronta la guerra, in vista di vantaggi economici, alla psicologia del gioco d’azzardo. Anche nel gioco d’azzardo c’è la possibilità di venire in possesso, con la vincita, di beni economici, ma come il giocatore d’azzardo si sobbarca alla perdita, cosi un popolo che entra in guerra si espone alla sconfitta. E’ però curioso rilevare che sia il giocatore d’azzardo, sul piano cosciente, sia il popolo che entra in guerra, sono in genere incapaci di rappresentarsi obbiettivamente la perdita o la sconfitta cui si espongono.

Allo stesso modo un tossicomane non sa di rappresen­tarsi la propria rovina come prodotta dalla droga che anzi continua a considerare come una difesa dal danno che essa stessa gli produce. Oltre che col gioco d’azzardo la guerra può dunque essere messa a confronto con la tossicomania. Sia nel gioco d’azzardo che nella tossicomania sono forte­mente operanti le implicazioni sadomasochistiche, mascherate nel primo caso dalla rappresentazione della vincita e nel secondo caso dalla rappresentazione dell’euforia pro­dotta dalla droga. Sappiamo inoltre che tali implicazioni sadomasochistiche vengono scotomizzate (5) nel soggetto da distorsioni dell’Io, che operano nel senso di difendere il sog­getto da specifiche angosce attraverso una negazione di realtà. Le motivazioni economiche della guerra agirebbero pertanto come razionalizzazione e occultamento delle sue funzioni distruttive, le quali in definitiva sarebbero a loro volta riconducibili (in base alla ricerca fatta da Bouthoul sugli aspetti economici della guerra come festa di dissipazione e di distruzione solenne, potlach ecc.) all’universo sa­domasochistico dell’uomo (Glover, Garma ecc.). Capita tuttavia molto spesso che quando si discute sul problema della giustificazione o della condanna della guerra, coloro che giustificano la guerra obbiettino a quelli che la condannano:

“Se voi vi trovate davanti al problema di un popolo schiavo, sfruttato, che non ha altro mezzo per liberarsi dalla dominazione ingiusta che il ricorso alla violenza, voi cosa decidete di fare?”

Una domanda di questo genere parte di solito dalla con­vinzione che le guerre abbiano origine dall’istinto di autoaf­fermazione e quindi dall’istinto di conservazione. Alla do­manda sopra posta abitualmente l’interlocutore reagisce con uno stato di confusione e con sentimenti depressivi, perché l’ansia suscitata da una tale domanda è in rapporto al sentirsi colpevoli di lasciare morire di fame i propri fratelli. Posto di fronte a tale alternativa, chi comanda la guerra finisce per sentirsi colpevole di lasciare morire di fame il prossimo. Però ho notato che raramente in tali discussioni chi interviene si ricorda che in realtà la guerra, anziché dar da mangiare agli affamati, crea penuria di cibo in quei paesi che in tempo di pace ne disponevano in abbondanza. E’ ragionevole perciò pensare che quando si affronta il problema della guerra, si verifica una mobilizzazione di ansie le quali tendono ad inibire le facoltà critiche di giudizio e il corretto esame della realtà. Vedremo più avanti i contenuti di tali ansie, soprattutto studiando il fenomeno guerra nei popoli primitivi. Dalla discussione sugli aspetti economici delle guerre, ci troviamo perciò indotti a passare alla discussione dei fattori psicologici.

(5) Scotomizzate: non viste

4.             Fattori psicologici della guerra

Il capitolo dedicato da Bouthoul agli aspetti psicologici del fenomeno guerra, mette in evidenza il mondo psicolo­gico nuovo, come trasformazione radicale di valori che si instaura con la guerra.

A parte i riti iniziatici dei popoli primitivi, dei quali dovremo occuparci più avanti, il passaggio alla situazione guerra è sancito da riti, alcuni dei quali implicano la ma­ledizione, altri un vero e proprio atto di accusa verso il nemico. Il rito dei feciali romani può essere considerato un rito di colpevolizzazione del nemico, attraverso una vera e propria litis contestatio, alla quale veniva chiamato come. testimone tutto il creato (dei, piante, animali, uomini, ma­gari passanti ignari). Parte integrante di tale rito di testimonianza era lo spezzare un bastone di corniolo — che rotto diventava rosso e il gettarlo nel territorio nemico.

La riflessione psicoanalitica sulla cerimonia , dei feciali ci suggerisce che la fantasia ad essa collegata può essere cosi espressa: “Sia ben chiaro a tutti — al mondo terreno e ultraterreno — che il nemico è nel torto — che è cioè cattivo.” La formula rituale è infatti: “Se il mio ricorso alle armi è ingiusto, che io non veda più la mia patria.”

La espulsione della colpa nel nemico, così tipica del rito dei feciali, ci apparirà nel suo pieno significato quando avremo chiaro il meccanismo di elaborazione paranoica del lutto come meccanismo nucleare della psicologia della guerra.

La colpevolizzazione del nemico sembra pertanto di im­portanza fondamentale per evitare il senso di colpa che la guerra provoca nell’uomo e segna un momento essenziale nella vicenda di rottura tra tempo di pace e tempo di guer­ra, nella cerimonia di apertura del mondo psicologico nuovo instaurato dalla guerra.

Dopo tale rito l’omicidio, il saccheggio, il ratto e lo stu-pro diventano leciti, per un periodo determinato. Da quelmomento gli uomini accettano di dare e di ricevere la morte violenta e di cercare di impossessarsi dei beni dell’avversario con la violenza, come di mettere a repentaglio il loro proprio, come se, benché eluso attraverso la proiezione, il sentimento di colpa implicasse tuttavia meccani­smi autopunitori. L’istinto di conservazione entra pertanto in crisi o meglio in una vicenda drammatica governata da un manicheismo radicale, regolato dalla scissione del mon­do in amico e nemico.

Tale scissione del mondo in amico e nemico ha il carat­tere di un’estrema semplificazione, per cui il bene e il male non vengono più integrati in una stessa situazione istintiva e m uno stesso rapporto oggettuale, ma la stessa situa­zione acquista caratteri diversi a seconda che venga consumata su sé o sull’altro nell’aforisma paranoico del “mors tua vita mea.” Tutto l’enorme peso umano dell’ambivalen­za si alleggerisce di colpo in quanto l’amore e l’odio tro­vano due oggetti diversi in cui investirsi.

Per Bouthoul la guerra acquista il carattere- della festa, che, secondo Durkheim, ha come compito essenziale quello di rendere più salda la solidarietà dei gruppi, aumentando il senso di unione.

Gli aspetti psicologici più tipici della festa in senso socio­logico sono: 1) il produrre un’unione materiale dei membri i del gruppo; 2) l’essere un rito di spesa e di sperpero; 3) il costituire una modificazione più o meno grande delle regole morali; 4) l’essere un rito di esaltazione collettiva; 5) l’instaurare una specie di annullamento della sensibilità fisica; 6) l’instaurare riti sacrificali. La guerra sarebbe quindi la festa suprema.

La teoria sociologica della guerra come festa suprema si incontrò, come vedremo, con l’interpretazione data da Abraham della guerra come festa totemica. La guerra sembra però una elaborazione successiva alla festa totemica: nella festa totemica è il proprio totem-padre che viene sacrificato-ucciso mentre nella guerra è ucciso l’estraneo: situazione che si collega a ciò che avremo modo di chiarire come elaborazione paranoica del lutto.

Il fatto che nei popoli primitivi la guerra sia accompagna­ta da attività di danza — situazione che oggi appare con­servata nelle parate militari — accentua il rapporto della guerra con la festa. Sempre nei popoli primitivi il carat­tere sacro della guerra è intimamente associato alla sacra­lità dei riti mortuari. Nei popoli primitivi, infatti, la guerra è intimamente unita all’idea di un sacrificio umano che  è gradito agli dei; essa è cioè intimamente unita al culto della morte e, come vedremo più avanti, alla elaborazione del lutto.

Nella civiltà occidentale, parallelamente all’affilevolirsi delle religioni, Bouthoul fa rilevare il rifiorire del culto dei morti in guerra, sotto forma del sacrario dei caduti e parco delle rimembranze, situazione intesa come il ritorno ne nostra civiltà di usanze arcaiche.

Il culto dei caduti in guerra tende perciò a rimpiazza il culto dei santi.

La guerra porta a verificazione spettacolare una situazione umana generale per cui la morte assume valore

soluto: le idee nel nome delle quali si muore hanno il di- ritto di verità, perché la morte diventa un procedimento dimostrativo: situazione questa che apre il capitolo del singolare problema psicologico della morte come criterio di verità, sul quale dovremo ritornare, per chiarire la misteriosa epistemologia della guerra, fondata sul postulato che è vero ciò per cui si muore, contraddetto però dall’altro postulato che è vero ciò che vince: per cui il vincitore viene così omologato al vero-giusto e il vinto al falso-ingiusto.

I singolari principi epistemologici della guerra hanno cu­riose conseguenze. Come vedremo, il “vero” uomo nei popoli primitivi è colui che ritorna alla propria tribù dopo aver ucciso per la prima volta un nemico. La guerra diventa quindi una specie di prova dell’esistenza e dell’autenticità, come se l’uomo, o almeno l’uomo primitivo, facesse la guerra per dare a se stesso una prova del proprio esistere come vero uomo.

Tutta l’esaltazione romantica dell’eroismo e l’idealizzazione della guerra in generale si basano in definitiva su postulati del genere.

Su tale sfondo la guerra ha alimentato atteggiamenti che vanno dalle poesie di Tirteo alla idealizzazione della corte­sia dei combattimenti cavallereschi medioevali e infine alla idealizzazione dello spirito di brutalità che ha imperversato nelle guerre in cui le nostre generazioni sono state coinvolte.

Bouthoul fa inoltre rilevare che nel rito della morte il soldato diventa pertanto sacrificatore e vittima. Presso i romani riti specifici sottolineano la sacralizzazione del soldato e la sua desacralizzazione quando abbandona l’esercito: situazione questa che accomuna ancor oggi gli appartenenti all’esercito ed alla chiesa.

Nei popoli primitivi come nella nostra odierna civiltà la particolare virtuosità del soldato sembra risiedere nell’assoluta dipendenza dei capi, nei confronti dei quali ogni ag­gressività viene repressa e nel fatto che tutta l’aggressività orienta verso il nemico.

Il   ruolo dei capi, in rapporto alla trasformazione ope­rata dal fenomeno guerra, appare a Bouthoul quello di seguire la mentalità dei governati, piuttosto che di prece­derla e modificarla. I capi avrebbero la particolare abilità d’intuire ciò che i governati desiderano. Egli ci ricorda che Macchiavelli aveva consigliato ai capi di ricorrere alla guerra quando le difficoltà e i dissidi all’interno dello Stato sono troppo forti. I capi quindi devierebbero all’esterno una tensione aggressiva preesistente anziché crearla.

Dionigi tiranno di Siracusa incoraggiava i nemici e al­l’occorrenza dava loro anche degli aiuti per indurli a mo­strarsi minacciosi; in tal modo poteva consolidare il pro­prio dominio.

Quando però le cose vanno male si arriva alla paranoicizzazione al di dentro — è il capo stesso allora che diventa capro espiatorio della situazione depressiva.

In guerra tutti i capi possono disporre del dominio as­soluto. Un aspetto essenziale di questo è la idealizzazione del capo. I combattenti si muovono nel nome del capo e presso i romani il generale vittorioso acquista gli attributi di Giove. Il capo dello Stato ancor oggi finisce, in perfetta buona fede e con la più grande sincerità, con il confondere l’esistenza sua con quella di tutta quanta la nazione.

Rifacendosi alla storia di Abramo, Bouthoul fa rilevare che i momenti culminanti del potere patriarcale sono quelli in cui il padre ordina il sacrificio del figlio.

Per Bouthoul quindi la guerra implicherebbe da parte dei capi la concreta attuazione del desiderio di inviare al sacri­ficio per la patria i migliori cittadini. Ricorda a tale propo­sito la frase del vecchio granatiere della Guardia, quando Napoleone diede l’addio alle truppe a Fontainebleau: “Sire, non avremo più la gioia di morire al vostro servizio.”

L’idealizzazione e l’assoluta dipendenza dal capo non sono però una cosa semplice. Il bisogno di ribellarsi ai capi tende a manifestarsi nell’ammutinamento, considerato co­me la massima colpa. Da un punto di vista strettamente psi­coanalitico anzi il processo di idealizzazione serve a negare intensi impulsi ostili e ansie persecutorie nei riguardi del­l’oggetto stesso idealizzato.

Di solito però l’aspetto ostile dell’ambivalenza verso i capi trova espressione quando le cose vanno male. Presso gli assiri in caso di sconfitta essi erano sempre mandati al supplizio per primi. La tendenza a punire i capi si è riaffermata nei nostri tempi con il processo ai nazisti: tale condanna però è stata attuata e imposta dai vincitori e ciò pone problemi sui quali dovremo ritornare.

Uno degli aspetti più evidenti della guerra è — per Bouthoul — il suo essere dispensatrice del martirio. Non si può fare la guerra che attraverso l’educazione al sacri- ficio. Lo spirito di sacrificio viene intensificato fornendo al l’impulso bellico un aspetto entusiasmante. Lo spirito di sacrificio è intimamente unito alla necessità di un’ideologia e possibilmente di un’ideologia in nome della quale sacrificarsi. Le ideologie stesse però entrano in crisi in rappor­to alla guerra persa. Alla fine del primo conflitto mondiali i tedeschi avevano perso la fede nel Kaiser. Hitler riattizzò lo spirito bellicoso inaugurando una nuova ideologia. Così avvenne in Russia dove lo spirito di sacrificio si con­sumò come sacrificio per lo zar e risorse per la rivoluzione socialista come nuova ideologia.

Lo spirito di sacrificio viene di solito mobilizzato nei giovani. Sono i giovani che vengono spinti facilmente ad alienarsi per uno scopo ideologico. I giovani accettano l’idea di perdere la vita al servizio di un’idea con maggiore facilità degli adulti. A tale proposito Bouthoul sottolinea la va­lorizzazione dell’adolescente operata dal romanticismo.

Durante la guerra pertanto lo Stato diventa un’organizzazione rivolta alla distribuzione del sacrificio. I laici, che sorridono di fronte al martirio religioso, non riescono a vincere la commozione di fronte al martirio politico, considerandolo un valore di base della vita umana.

Bouthoul riconosce nell’idealizzazione del sacrificio un aspetto psicologico della guerra, ma il suo primum mo­vens sarebbe l’elemento demografico che spinge l’eccedenza di popolazione a votarsi al suicidio volontario. A parte la motivazione demografica, è indubbio che la fede in un’idea giusta legittima ogni sacrificio.

Anche gli spiriti pacifisti provano ripugnanza nel rinunziare alla violenza quando questa è in difesa di un ideale giusto. Quando le virtù militari sono poste al servizio della libertà, sembra che nessuno riesca a sottrarsi al loro valore. Ciò ci condurrà a scandagliare il signicato profondo dell’ideologia.

Affrontando il problema delle implicazioni emotive nel fenomeno guerra, Bouthoul arriva all’affermazione seguente: basta far credere ad un popolo che è minacciato, per indurlo a rinunziare alle sue libertà. In conseguenza egli definisce la sovranità come “il diritto concesso a uno di far paura agli altri.”

E' essenzialmente in base alla paura reciproca che due nazioni confinanti hanno il diritto di considerarsi ambedue in stato di legittima difesa.

Un altro degli aspetti psicologici che si collegano alla guerra è l’importanza che in essa assume il comportamento fanatico. Il fanatico non è spinto tanto dall’idea di salvare qualcosa; egli sembra piuttosto eccitato dalla prospettiva di partecipare ad un conflitto, con l’intenzione di ricevervi e di dispensare il martirio.

Contrariamente a quanto uno avrebbe potuto aspettarsi, con l’avvento dell’era scientifica si è avuto nella cultura moderna un particolare rigoglio del fanatismo. Nietzsche, Lawrence, Malraux (il coraggio di affrontare la morte per dar valore alla vita. — Ho pensato molto alla morte, ma da quando mi batto non ci penso più), Hemingway (esaltazione della corrida), Junger (quel che importa non è lo scopo per cui combattiamo, ma è il fatto che noi com­battiamo) vengono citati da Bouthoul come i campioni dell’idealizzazione fanatizzata dell’eroismo, in base alla quale non ce più bisogno di un valore per giustificare la guerra; la guerra stessa è il valore.

Descrivendo la trasformazione psicologica del dopo guerra, Bouthoul afferma che il fatto più importante è la brusca caduta dello spirito bellicoso. Dopo aver ritenuto intollerabile la loro rivalità o il loro disaccordo, ad un certo momento, i popoli si accorgono improvvisamente che pos­sono mettersi d’accordo.

L’aggressività si è placata come se la guerra costituisse una specie di orgasmo seguito da rilassamento. Sorge un’improvvisa incomprensione degli stati d’animo e delle azioni che un momento prima per gli interessati avevano la massima evidenza del mondo. Bouthoul paragona l’euforia della pace alla silenziosa e ipocrita gioia che regna, quando uno muore, attorno all’eredità: o alla distensione che avviene negli studenti dopo gli esami. Spesso il vinto trova una specie di soddisfazione al pensiero che la guerra lo ha liberato dai suoi errori e mostra una netta tendenza a mettersi alla scuola del vincitore. Le istituzioni del vinto vengono denigrate. La sconfitta viene razionalizzata come punizione per le colpe del vinto. Così la disfatta è una fonte di rinnegamenti. La nazione vinta ha meritato la sconfitta per i suoi errori: il vinto è il colpevole. Mentre il sacrificio partecipa alla guerra come procedimento propiziatorio per un male futuro, la penitenza, che segue la guerra, vuole essere riparativa per un male passato. Il costume del capro espiatorio sembra far parte dei riti di penitenza.

Un altro dei fenomeni del dopoguerra, e antitetico al­l’autoaggressività colpevolizzata nel vinto, è l’aumento della criminalità.

Riferendosi alle ricerche condotte sui rapporti tra aggressività e frustrazione, Bouthoul sottolinea il meccani­smo dello spostamento dell’aggressività generata dalla frustrazione, particolarmente evidente quando c’è una gerarchia rigorosa. Specie nell’esercito, la collera e la frustrazione possono risolversi in una pioggia di vessazioni dal­l’alto al basso della scala gerarchica.

L’aumento delle proiezioni di oggetti nefasti, come reazione alla frustrazione, risulta particolarmente evidente nella psicologia collettiva. Nel Middle-West americano è stato provato che, nei periodi di siccità, il partito politico al potere durante tale calamità naturale viene poi battuto alle elezioni.

Nel Sud degli Stati Uniti il maltrattamento dei negri varia con le frustrazioni collettive: si nota cosi una correla­zione tra il prezzo del cotone e il numero dei linciaggi.

Parallele alle reazioni paranoidi sono state sottolineate le reazioni depressive come risposta alla frustrazione. (6)

(6) John Dolhard, Frustration and Aggression, Yale Univ. Press, 1940; e Durbin e Bowlby, Personal aggressiveness and War, London, 1940.

Anche nell’individuo la frustrazione dà origine sia a ri­sposte paranoidi che depressive, ma tali risposte sono di solito concomitanti e autoequilibrantisi. Sul piano collettivo tali reazioni alla frustrazione sarebbero più uniformi, e l’una o l’altra modalità sarebbero vissute come in cultura pura. La nota facilità delle folle all’esplosione improvvisa di aggressività, avrebbe come caratteristica il fatto che ci sia un leader che le mobilizzi. Il contenuto ditali reazioni può variare: le folle possono essere condotte facilmente sia all’aggressività che al misticismo.

Una delle differenze essenziali tra l’aggressività individuale e l’impulso bellico, puntualizzata da Bouthoul, consiste nel fatto che, mentre l’eccitazione aggressiva individuale è momentanea, passeggera, sentita specificamente come tale e di solito limitata ad un individuo, l’impulso bellico, in­vece, più che un’eccitazione aggressiva personalizzata, è uno stato emotivo generalizzato e profondo. Spesso è uno stato diffuso di accettazione e di approvazione delle violenze future piuttosto che la rappresentazione delle violenze stesse. Lo stato bellicoso cioè corrisponde ad un sentimento della necessità di un periodo di violenze e di distruzioni più che a una vera e propria eccitazione aggressiva. Prima di essere un’azione è una convinzione; qualche volta non è che una semplice rassegnazione ad una calamità conside­rata come inevitabile. L’apparente assenza di eccitazione aggressiva nella guerra come sagra distruttrice dell’umanità, è certamente un singolare problema sul quale dovremo ritornare.

A proposito del problema della frustrazione, Bouthoul rileva che le cause di questa per un gruppo sono svariate e possono andare dal desiderio di possedere il Santo Graal o di impadronirsi dei luoghi santi, alla rivendicazione insoddisfatta d’uno sbocco in un certo mare, o alla mancanza di pozzi petroliferi, o infine al rifiuto di frontiere che pure erano state accettate in passato.

Si dirà allora che la guerra è religiosa, economica, ideologica ecc. La cosa essenziale è però che, dopo aver trovato una motivazione, l’impulso bellico stimola la riattivazione di tutto un insieme di processi psicologici che dovremo chiarire.

Uno degli effetti più tipici dell’impulso bellico è di obnubilare lo spirito critico della gente, paralizzando innanzitutto la capacità di valutare razionalmente la distruzione. Bouthoul fa notare che, se si confrontano i guai che possono derivare ad una nazione dalla rinunzia alle richieste per le quali essa fa la guerra, e con i dolori e le sofferenze che essa le arrecherà, appare evidente che nell’immensa maggioranza dei casi i guai causati dalla guerra sono peggiori di quelli che si vuole evitare. Si riceve perciò l’impressione che l’impulso bellico che precede i conflitti provoca una specie di distorsione dell’esame di realtà.

E’ impressionante constatare come il combattente abbia di solito l’impressione che sfuggirà ai pericoli della guerra.

Una interessante ipotesi avanzata da Bouthoul è quella riguardante la possibilità che la guerra sia suscitatrice di realtà psichiche inconsce.

Secondo Bouthoul gli avvenimenti storici si incorporano nella nostra affettività inconscia. Egli sembra propendere per l’opinione secondo la quale i cambiamenti di struttura sociale, modificando il tono psicologico generale provocherebbero dei complessi negli individui. Questi complessi preparano le basi inconsce dello spirito collettivo e delle reazioni collettive, generatrici a loro volta di nuovi avvenimenti. Per quanto da un punto di vista psicoanalitico l’ipotesi dell’origine dei complessi da avvenimenti storici appaia poco ortodossa, essa potrebbe costituire tuttavia un punto di riferimento per approfondire il fatto generalmente accettato delle modificazioni storiche dei quadri psicopatologici, alcuni dei quali tendono a scomparire o a tradursi in una fenomenologia diversa da un’epoca all’altra.

La riflessione psicoanalitica sugli aspetti psicologici del-le guerre, così come vengono descritti da Bouthoul, ci per­mette di ricondurli in gran parte al fatto che l’ideale del gruppo si costituisce come oggetto d’amore, che prende il posto dell’originario e individuale oggetto d’amore rappre­sentato — per il bambino — dalla madre.

Certamente, una delle constatazioni meno edificanti e nello stesso tempo più ambigue ed inquietanti che, da un punto di vista psicoanalitico, possono essere ricavate dall’esame di molti degli aspetti psicologici dei conflitti armati, così come vengono descritti da Bouthoul, è quella relativa al significato etico o meglio etico-religioso delle guerre come sacrifizio-distruzione. Su un piano generale la constatazione che la guerra (in quanto massacro organizzato e ora in quanto probabile catastrofe dell’umanità) è sentita dagli uomini come un dovere particolarmente cogente sem­bra confermare una delle più profonde intuizioni di Freud che egli stesso descrive come “l’eresia di aver fatto deri­vare la morale dall’istinto di morte.”

Ma il fatto ancora più sorprendente è che la guerra come dovere sacrificale, nonostante assolva essenzialmente funzioni distruttive, ha per gli uomini il significato di una di­struzione messa al servizio della conservazione di ciò che si ama.

Il comportamento fanatico, la idealizzazione del capo, la necessità di sacrificio in nome di un ideale che rende uno Stato in guerra dispensatore di martirio, il dare appunto e il ricevere il martirio, l’essere il soldato in guerra sacrificatore e vittima nel rito sacrificale (v. più avanti il mito del cadavere nell’auto), tutti questi aspetti psicologici della guerra pongono una serie di problemi molto complessi. Espresse però in un modo semplificato tutte queste situa­zioni possono essere contenute in un quesito di questo genere: “Che cosa sta alla base di questa singolare tendenza dell’uomo a creare certi valori in nome dei quali gli si impone la necessità di sacrificio o addirittura di autodistru­zione come necessità inderogabile?”

La psicoanalisi ha cercato di far luce sull’atteggiamento sacrificale in genere collegandolo al problema generale del masochismo.

Nella sua espressione più elementare e inteso come il ricavare piacere da una esperienza dolorosa, il masochismo non è una prerogativa umana specifica. Con opportuni accorgimenti può essere provocato sperimentalmente nel ca­ne, attraverso esperienze di riflessi condizionati.

Nel laboratorio di Pavlov una situazione masochistica fu provocata sperimentalmente nel cane attraverso la associazione di uno stimolo doloroso (forte scarica elettrica) con la presentazione del cibo. Di fronte ad una situazione del ge­nere il cane all’inizio reagisce ribellandosi e aggredendo ciò che gli si configura come stimolo doloroso: ma dopo una serie adeguata di associazioni dello stimolo doloroso alla presentazione del cibo si osserva nel cane una risposta paradossale: anziché ribellandosi e aggredendo cioè, il cane risponde allo stimolo doloroso — oramai presentato da solo e non più associato al cibo — con una specie di rea­zione giubilatoria.

Si racconta che Sherrington, dopo aver assistito un gior­no ad un esperimento del genere nel laboratorio di Pavlov, esclamasse: “Finalmente capisco la psicologia dei santi !“

Riferendo un giorno questa battuta di Sherrington ad una assemblea laica, mi capitò di provocare notevole ila­rità. Ma quando subito dopo aggiunsi che questo esperi­mento pavloviano era anche il più adatto a farci capire la psicologia degli eroi, l’assemblea reagì con evidente di­sappunto.

In genere dunque siamo propensi ad accettare la dia­gnosi di masochismo quando si tratta del sacrificio fatto in nome degli ideali svalutati degli altri, mentre siamo più restii a fare la stessa operazione quando si tratta del sacri­ficio fatto in nome degli ideali in cui noi stessi crediamo. In questo secondo caso ciò che in altre condizioni conside­riamo masochismo diventa al contrario una specie di sur­valore.

Rimane dunque da chiarire che cosa sta alla base di questa tendenza umana a trasformare la necessità di sacrificarsi per un ideale in cui si crede in una specie di survalore.

Se restiamo nel campo dei riflessi condizionati e ci limitiamo alla esperienza che più sopra abbiamo riferita nel cane, il primum movens della situazione masochistica sembra essere costituito dalla necessità di cibo. Tutta la tec­nica dei riflessi condizionati si è fondata su una fistola praticata alle ghiandole salivari del cane. Il cibo dunque. per il cane è un valore incondizionato, (una specie di as­soluto) dal quale dipende lo svilupparsi di tutti i valori condizionali (cioè relativi) tra cui anche la esperienza maso­chistica più sopra descritta. Possiamo dire cioè che il cane scodinzola gioioso di fronte ad uno stimolo doloroso perché lo stimolo doloroso è diventato la presentificazione del cibo. Se però, dopo che il riflesso condizionato si è stabilito, la associazione stimolo doloroso-­cibo non viene reiterata, il riflesso condizionato si perde e il cane ritorna a reagire allo stimolo doloroso come ad un nemico.

Passando ora all’uomo, qual è per l’uomo l’equivalente di ciò che è il cibo per il cane: che cosa è dunque questo qualcosa di assoluto e incondizionato che in qualche modo giustificherebbe l’instaurarsi di una posizione masochistico-­sacrificale, che a sua volta diventerebbe una specie di sur­valore in quanto messa al servizio di quel qualcosa di assoluto e incondizionato?

La risposta psicoanalitica a questa domanda, o almeno un certo tipo di risposta psicoanalitica, riconduce proprio e di nuovo al cibo, come dono materno originario, questo qualcosa di assoluto e incondizionato che l’uomo porta nel più profondo di sé come oggetto d’amore trasfigurato e in qualche modo assolutizzato, come un paradiso fruito alle origini e poi presto perduto, per cui la vicenda umana diventa vicenda più o meno fiduciosa o più o meno disperata di ritrovamento(7). Ad una di queste vicende di ritrovamento del cibo originario e dell’unione con la madre e del suo dono perduto sembra legata l’origine più profonda dell’uomo di costituirsi in gruppo.

Benché però sia il cane che l’uomo siano accomunati dal fatto che il cibo appaia legato alla costituzione di oggetti incondizionati e ai successivi condizionamenti, ciò che sembra distinguere l’uomo dal cane è il rimanere il cane tendenzialmente legato al cibo nella sua elementarità biologica, mentre nell’uomo il cibo come oggetto biologico si dilata enormemente nel simbolo e nelle vicende originarie di amore legate alla sua presenza e alle originarie presenze di odio legate alla sua assenza. Questo fa si che l’esperienza del cane sia in fondo più realistica, mentre l’arricchimento e il dilatarsi fantasmatico delle vicende affettive originarie

(7) v. F. Fornari La vita affettiva originaria del bambino, Feltrinelli, Milano, 1963.

porta l’uomo-bambino a costituire un mondo interno popo­lato di oggetti fantasmatici, che danno alla dimensione illusoria della vita psichica dell’uomo una estensione che gli altri animali sembrano ignorare. La proliferazione dell’illusorio sta forse alla base dei processi di verificazione e dell’esame di realtà, come processi particolarmente sviluppati nell’uomo; è però innegabile che il dilatarsi dall’illusorio espone l’uomo, forse più di ogni altro animale, all’esperienza della psicosi.

Avremo occasione di affrontare la problematica situazione legata a ciò nel capitolo in cui illustrerò i problemi relativi alla fondazione e alle funzioni del gruppo.

In un articolo dedicato alla chiarificazione dei problemi relativi all’origine delle leggi, come ideale del gruppo, e alla crisi della guerra, ho cercato di mostrare come al fenomeno guerra partecipino sia meccanismi paranoidei che mec­canismi depressivi.(8)

Gli aspetti psicologici delle guerre e cioè la crisi dell’istin­to di conservazione, l’idealizzazione della necessità del sacrificio, come pure l’idealizzazione del capo, sembrano tutti fenomeni che si verificano in base al fatto che gli individui formano un gruppo in base all’identificazione con un oggetto d’amore comune. Poiché l’ideale del gruppo (come oggetto d’amore e di identificazione) è fantasmatizzato co­me ciò che fa vivere gli individui nel gruppo, la salvezza del comune oggetto d’amore è sentita come funzione primaria rispetto alla salvezza dell’individuo. Una situazione del genere è specificamente umana e giustifica, in qualche modo, la necessità del sacrificio. Credo tuttavia di essere riuscito a dimostrare che l’ideale del gruppo, traducendo in una dimensione illusoria la funzione concreta e concretamente vitale dell’oggetto d’amore primario — e in qual­che modo usurpandola — fa evolvere la necessità originaria di sacrificio (espressa dalla primitiva necessità di colpa) in una dimensione tendenzialmente illusoria e inautentica.

Nella guerra, infatti, il sacrificio non è rivolto all’ammortizzamento delle parti cattive del Sé, come funzione di conservazione dell’originario oggetto d’amore minacciato dal Sé, come avviene nell’etica dell’individuo. Nella guerra il sacrificio viene sadicizzato tramite la proiezione sul nemico delle proprie tendenze distruttive, rivolte verso il proprio oggetto d’amore.

(8) F. Fornari Condizione depressiva e condizione paranoidea nell’origine delle leggi e nella crisi della guerra, “Aut aut,” 64, luglio 1961, Milano; e Psicanalisi della guerra atomica, Ed. di comunità, Milano, 1964 (riedito Sotto il titolo di Psicanalisi della situazione atomica, Rizzoli, Milano, 1970).

Il miglior esempio dell’illusorietà e della inautenticità, che la necessità del sacrificio acquista nella guerra, ci è offerto dal kamikaze. Nel kamikaze il sacrificio del Sé vale come negazione delle proprie necessità di colpa, legate agli impulsi ostili verso il proprio oggetto d’amore: processo che ci è rivelato dalla colpevolizzazione del nemico, nel rito feciale, presente, in una forma o nell’altra, in ogni guerra.

Un illustre esempio della necessità di sacrificio come au­tentico processo di riparazione ci è offerto da Socrate, quando egli sente di dover sacrificare se stesso perché il proprio oggetto d’amore (il proprio ideale etico) viva. Così mentre l’ideale di Socrate sembra essere stato reso real­mente imperituro attraverso il sacrificio del filosofo, il kamikaze è stato impotente a salvare l’ideale del Mikado. L’aspetto illusorio e inautentico del processo di riparazione, che si effettua in guerra attraverso il sacrificio, sembra dunque risiedere nel fatto che, in guerra, il sacrificio di Sé, pur essendo messo in moto da una necessità di amore, si esprime in realtà attraverso modalità etero-distruttive.

La guerra cioè — pur facendo rivivere agli uomini situa­zioni psichiche originarie, relative alle primarie necessità di amore o di colpa, in rapporto al proprio oggetto d’amore e di identificazione, minacciato di distruzione — tradisce le necessità di amore e di colpa, elaborandole nella modalità paranoidea, come potremo meglio comprendere dopo aver studiato il meccanismo di elaborazione paranoica del lut­to, soprattutto nella guerra nei popoli primitivi. Il verdetto di colpevolezza pronunciato contro il nemico vinto, che è un tipico fenomeno del dopoguerra, dimostra in modo esemplare come la difesa del giusto, con cui il conflitto ai suoi inizi trascina gli uomini, è una situazione illusoria, che con­duce infine la guerra a scoprirsi come un processo estra­neo ad ogni idea di giustizia, nella misura in cui è fonda­mentalmente legata all’assioma paranoideo del mors tua vita mea, in virtù del quale il vinto ha sempre torto.

Io penso dunque che la guerra ha avuto la possibilità di radicarsi così profondamente nel cuore degli uomini per­ché ha sempre potuto essere fantasticata come un male ne­cessario, in quanto non contiene solo funzioni distruttive ma ha in sé anche necessità d’amore. Ritengo però che uno dei contributi essenziali della ricerca psicoanalitica in rapporto al fenomeno guerra sia la scoperta che la guerra è forse la più grande inautenticità dell’amore.

La guerra nelle società primitive

L’indagine psicoanalitica sulla guerra non può prescin­dere dallo studio delle espressioni che essa assume nei popoli primitivi. Lo psicoanalista ha infatti l’impressione che la guerra, nelle società primitive, si trovi molto più vicina alle modalità in cui essa è fantasticata nell’inconscio.

Lo studiò sistematico della guerra nelle società primitive è stato fatto da Maurice R. Davie.(1)

I tempi preistorici ci hanno lasciato testimonianza della guerra; Alcuni antropologi sostengono però che l’uomo pitecantropo non praticasse la guerra propriamente detta.

Su quello che riguarda i tempi storici Burton ha osservato che nel Gabon e nel Basso Niger la guerra era meno praticata che nell’Africa Orientale.

A tale proposito è importante rilevare che la scarsa bellicosità nel Gabon e nel Basso Niger sembra sia dipesa dal fatto che la guerra non era decisa da un capo, ma richie­deva il consenso di tutti gli interessati (consiglio degli an­ziani e talvolta di tutti gli uomini che facevano parte della tribù). Nell’Africa Orientale, dove esisteva un’alta bellicosità, il potere monarchico era invece senza freno. (2) In Africa come in Polinesia cioè la dipendenza assoluta dai capi attraverso la istituzione della regalità ha avuto come conse­guenza diretta di togliere alla guerra ogni carattere giuridico.

(1) MAURICE R. DAVIE La guerre dans les societes primitives, Payot, Pa­ris, 1931.
(2) BURTON, Voyage au Grand Lac, p. 655, citato da Davie.


Nessuno può uccidere nessuno. Mai. Nemmeno per difendersi.