Simonetta Costanzo
Terroristi e kamikaze: psicodinamica di una perversione

KAMIKAZE O NO?
Kamikaze significa vento divino, così fu chiamato il vento di tempesta che affondò nel XVI secolo la flotta di Kublai Kan il tartaro che, dalla Cina, partì per invadere il sacro arcipelago giapponese, mai profanato sino ad allora. Di fronte alla necessità di colpire duramente la pur sempre forte potenza navale nemica, vennero selezionati volontari, nelle migliori università giapponesi per essere arruolati come piloti suicidi, che si sarebbero sacrificati gettandosi con i loro aerei sugli obiettivi avversari. Questi piloti erano dei samurai, educati ad un rigido codice d'onore, il bushido, cui lo scintoismo, religione patriottica, assicurava il paradiso degli eroi. Questi guerrieri non si votavano, però, in guerra, alla morte per finalità religiose, bensì quale atto estremo necessario per compiere fino in fondo ed al meglio il loro dovere di samurai nell'interesse del loro signore e del loro onore di samurai: tant'è che alla pratica del suicidio rituale mediante hara kiri o Seppuku comunemente si faceva ricorso per ristorare l'onore comunque compromesso e nei casi in cui le mancanze al bushido lo richiedevano.
Successivamente ai piloti suicidi di aeroplano si affiancarono anche kamikaze marini, i kaiten, dei siluri umani che violarono anche la base australiana di Sidney. Va notato che il suicidio militare, in quanto tale, è un fenomeno tanto antico quanto diffuso nelle più varie popolazioni, che forse tradisce il ricordo di sacrifici umani propiziatori praticati in tempi più remoti in occasione di partite di caccia o di battaglie importanti. Famose sono le devotiones dei Deci. Il console Publio Decio Mure, nell'affrontare l'esercito latino alle falde del Vesuvio nel 340 a.c., si sacrificò appena vide cedere le sue legioni schierate all'ala sinistra. Ciò avvenne perché si era appreso da un sogno e dagli aruspici che per la vittoria si esigeva il sacrificio di uno dei consoli e si era deciso che si sarebbe immolato quello il cui esercito avesse cominciato a piegare. Così pure nella battaglia di Sentino, contro sanniti, galli, etruschi ed umbri, suo figlio, anch'egli Publio Decio Mure, quando vide l'ala sinistra da lui comandata piegare dinanzi ai galli, votò se stesso ed i nemici agli dei inferi e, gettandosi nella mischia, scongiurò il momento di pericolo per l'esercito romano in combattimento e decise la vittoria romana. Ancora il nipote, anch'egli Publio Decio Mure, console nel 279 a.c., inviato contro il re Pirro, aveva deciso il suo sacrificio durante la battaglia di Ascoli (ma, nel parlare della sua devozione, alcune fonti dicono che egli rinunziò al suo sacrificio quando seppe che Pirro, che era stato avvertito, aveva dato ordine alle sue truppe che Decio non venisse assolutamente ucciso).
Nel mondo antico rimase famoso il monito severo col quale le madri spartane salutavano i loro figli che partivano per la guerra "torna, figlio mio, con lo scudo o sullo scudo": volendo significare piuttosto che gettare lo scudo per facilitarti nella fuga, muori e ritorna ucciso deposto sullo scudo. I Galli usavano anche lanciarsi, come narra Cesare, in battaglia completamente nudi e armati di spada, per dimostrare di non avere paura della morte. Tra i Longobardi, i guerrieri dediti al culto di Wotan, indossavano una maschera col muso di cane e combattevano nei punti dove più alto era il rischio di morire, fino alla morte. Presso i Vichinghi esisteva un gruppo di guerrieri suicidi, i berserker, che in battaglia si votavano alla morte in onore di Odino. Anche tra i Pellerossa vi erano dei guerrieri, presso le tribù Sioux e Cheyen, in battaglia si legavano ad un palo che piantavano sul posto con una lunga corda e lì così combattevano esposti ad un rischio mortale. Ma, tutti gli esempi di questo tipo, come anche quello relativo all'episodio di Pietro Micca, che durante l'assedio di Torino, nel 1706, per salvare Torino dall'irruzione di truppe francesi attraverso una galleria, preferì fare saltare una mina e crollare la galleria, sacrificando la sua vita, poiché non aveva il tempo di fuggire, dimostrano che l'obiettivo di chi sceglie la morte, in questi casi, non è il suicidio, bensì l'inchinarsi ad una necessità che li porta a morire poiché non si vedono altre vie praticabili per difendere un principio superiore, quale quello della Patria, dell'Onore etc., come fanno fede i trecento spartani che si sacrificarono contro i persiani alle Termopili per consentire ai greci di organizzarsi e, così, consentire la vittoria di Maratona. Quindi, nella storia, più che notizia di suicidi militari si ha notizia del fenomeno che guerrieri addestrati e consapevoli che, a prescindere dal misticismo del conseguimento di un premio oltre la vita terrena, posti dinanzi all'ineluttabile, sacrificano senz'altro la propria vita. Suicidi altruistici ed ideologici o religiosi come quelli dei bonzi che si davano fuoco sulla strada per far porre fine alla guerra del Vietnam, o come quello di Ian Palach che intendeva protestare contro 1' invasione della sua patria da parte dei Sovietici non hanno ugualmente, a nostro parere, nulla anche vedere con i terroristi islamici di questi ultimi tempi.

Per quanto concerne, invece, il comportamento tenuto dai nuclei speciali del terrore islamico, la questione deve essere valutata sotto un diverso profilo e va considerata la differenza che c'è tra chi considera la vita un fine e chi considera la vita subordinata ad un fine, cioè tra quelli che agiscono come i Deci o i kamikaze e gli attentatori suicidi di Manhattan, i loro emuli e gli altri tutti terroristi suicidi islamici. Dice Ahmed Yassin, lo sceicco paraplegico loro padre spirituale, quanto all'attacco di New York che "tra quei martiri ed i nostri martiri passa la stessa differenza che c'è tra il giorno e la notte, tra il cielo e la terra. Loro hanno attaccato cittadini innocenti, persone senza colpa ... azioni di quel tipo vanno contro tutte le regole dell'Islam, contro i principi della nostra religione. I nostri martiri si sacrificano per proteggere il nostro popolo, danno la loro vita per liberare un paese occupato dall'invasione sionista. A New York non c'è nulla di tutto questo". E la condanna di quel gesto e dei suoi autori è unanime in molti capi dell'Islam che si dicono sgomenti e non vedono, in quella tragedia, neppure 1' ombra di Allah. Si afferma che l'Islam dà valore prioritario alla vita, rifiuta il suicidio e l'omicidio e considera musulmani tutti i bambini, anche quelli cattolici, fino all'età della ragione: quindi non può essere mai tollerato l'assassinio soprattutto di giovani vite. In sostanza, nell'Islam nulla può mai giustificare l'eliminazione fisica e, quanto agli uomini-bomba che hanno operato in Palestina, Ali Abu Schwaima, capo del centro islamico di Milano, afferma di pensare trattarsi di persone disperate, di gente ridotta all'ultimo stato esistenziale, di uomini depressi, malati o sconvolti. Gente che non ha più nulla da perdere, da chiedere e che quindi fa un ragionamento di questo tipo: "tu mi hai tolto tutto, mi hai annientato, distrutto, umiliato, tu mi stati uccidendo, ed io mi uccido da solo e porto anche te, mio nemico, nella stessa tomba". Ed invero, nel mondo coranico ad esercitare la funzione di guida sono i "sapienti", poiché il Corano, testo sacro rivelato da Allah al profeta Maometto non prevede alcuna figura trainante e tutte le autorità sono "costruzioni dei musulmani", cioè figure "superiori" con confini di competenze piuttosto labili, tutte nominate dal basso, dal popolo. Non esiste una investitura, è la fama che rende un maomettano Mufti, Imani o Ulema. Non esiste differenza tra diritto religioso e diritto statale negli stati totalmente islamici. In taluni casi sembra siano stati dati responsi favorevoli al suicidio nell'Islam come sembra sia accaduto per Bin Laden cui sembra sia stata accordata tale possibilità, insieme ad alcuni suoi seguaci, nell'interesse dell'Islam. Però, nei paesi dell'Islam, accade spesso che la religione venga usata con finalità politiche o comunque dalle autorità civili per interessi propri. In questa particolare interpretazione, si inserisce il concetto della Jihad, impropriamente definita "guerra santa" che, invece, per il Corano è "lo sforzo sulla via di Dio": e lo sforzo è quello di essere un buon musulmano, la "tensione per raggiungere qualcosa" ed anche, in determinati contesti, la "lotta". Orbene i terroristi suicidi, dunque, stando all'ortodossia della fede, andranno all'inferno. Autorevoli teologi islamici hanno ritenuto che il termine andasse inteso in senso morale e spirituale. L'idea che questo precetto dovesse essere inteso in senso militare, cioè di guerra per convertire gli infedeli, anche se oggi è prevalente, si è imposta poco per volta, venendo l'espressione interpretata come "obbligo del fedele di partecipare alle campagne militari per propagare la fede". Non si tratta, però, di uno dei cinque pilastri della fede bensì di un obbligo che si traduce in dovere solo quando un legittimo governante musulmano chiami 1' appello generale alle armi contro gli infedeli. Chi sdrammatizza 1'antico messaggio lo interpreta come un invito a lottare per convertire un infedele con la propria abilità oratoria, o con la forza del suo esempio, e c'è chi lo considera qualcosa di analogo al fioretto cattolico. Non si può, mai, però, convertire con la forza un aderente ad una delle "fedi del libro" cioè delle fedi che condividono una parte della Rivelazione: cristiani, ebrei, zoroastriani e mandei. Ad essi si potrebbe solo imporre una tassa ed uno stato di cittadini di rango inferiore. La possibilità di essere puniti con la morte sussisterebbe solo nel caso non si pagasse tale tassa. Fin dal 632 il califfo Abu Bakr dettò ai suoi guerrieri un rigorosissimo codice della Jihad dal quale si ricava che non tutti i mezzi sono leciti al musulmano per poter vincere quella guerra, e meno che mai uccidere un bambino, un anziano, una donna (e perfino ammazzare una pecora, una mucca, un cammello se non per nutrizione). Risulta dunque ben chiaro il divieto di attentati che colpiscono i non combattenti, storpino le vittime e distruggano inutilmente proprietà e ricchezze. Quindi, le distruzioni delle torri gemelle sono peccati tali che non potrà mai essere accolto da Allah nel paradiso dei guerrieri chi li ha commessi. Nell'Islam di oggi l'intrecciarsi dell'assenza del principio di laicità e 1' affermarsi di forme di militanza politica radicale, anche molto aggressiva, impone la necessità di domandarsi quanto il sanguinario affacciarsi sulla scena internazionale dell'integralismo islamico dipenda dalla possibilità di trovare musulmani disposti a sacrificare la propria vita per combattere la guerra santa. Oramai, infatti, benché non si possa affermare che l'integralismo sia una caratteristica permanente ed essenziale dell'Islam, è però indubbio che l'Islam è esposta al rischio di tale degenerazione ed assume un valore indicativo quanto il califfo Metin Kaplan, un Imani turco di Colonia, insegnava ai suoi seguaci: "la guerra santa è la giusta risposta al nemico, ogni buon musulmano deve dare il suo contributo sapendo che riceverà in cambio due ricompense bellissime: o la vittoria o il martirio che gli aprirà le porte del paradiso". Un dato inquietante, solo che si consideri come l'addestramento alla Jihad deve cominciare sin da piccoli e le madri svolgono una funzione fondamentale in questa formazione pedagogica. Le donne islamiche hanno da sempre avuto una funzione determinante nella formazione dei futuri eroi kamilaze, l'educazione dei quali deve iniziare prestissimo sin da quando sono infanti, in grado di capire le parole, gli si narreranno le storie del profeta e delle guerre islamiche e gli si insegnerà che nei momenti di rabbia non deve mai colpire un musulmano ma dovrà sfogarsi sui nemici di Allah che combattono contro i musulmani.

Le precise regole pedagogiche da seguire, nella convinzione che una delle massime soddisfazioni di una donna islamica sia quella di diventare madre di uno "shiadid", martire per amore di Allah, oggi si trovano perfino su internet in un sito ad hoc facilmente consultabile. Si consiglia, dunque, di costruire un fantoccio nemico insegnando loro a dirigere lì la propria rabbia; la televisione va usata solamente per mostrare ai piccoli video che instilleranno loro amore per l'Islam e la Jihad; video di storia islamica e di addestramento militare; iniziarli al tiro al bersaglio con giocattoli ad hoc, spiegando bene chi dovrebbe essere il loro bersaglio e chi non; fare con loro giochi militari in maniera divertente per renderli interessanti; fare praticare sport mirati all'addestramento del perfetto shiadid, quali le arti marziali, nuoto, tiro con l'arco, gare di orientamento, atletica, sci, guidare diversi veicoli, campeggio e addestramento di sopravvivenza. Sotto il profilo culturale dall'età di due anni dovranno far leggere ai bimbi libri militari illustrati, mostrare loro fotografie di guerrieri islamici e spingerli ad emularli, regalare play station con video giochi militari o di strategia militare e poi, dovranno fare in modo che i figli, diventati grandi, intraprendano professioni adeguate alla Jihad ed al servizio della causa (piloti, scienziati, medici, ingegneri e fisici nucleari, tecnici qualificati). Le donne, inoltre, dovranno impegnarsi a raccogliere fondi in ogni modo, poiché Allah "ha comandato di impegnarsi alla Jihad con se stessi e con le proprie ricchezze". Queste madri non smetteranno mai di sollecitare e sostenere i figli con la preghiera e le parole. E quando tutti i loro insegnamenti andranno a buon fine ed il loro figliolo morirà, organizzeranno un funerale pieno di gioia ove non verranno versate lacrime, poiché la donna che piange per la morte del figlio, fratello, marito, padre è una vergogna agli occhi di Allah, bensì alzerà grida di giubilo e al funerale verrà offerto caffè dolce anziché amaro e lanciati al cielo confetti e caramelle, come ringraziamento alla grande bontà di Allah. E in quel momento saranno felici, perché sapranno che Allah le considererà sorelle privilegiate e degne di rispetto; da quel momento vivranno serene e certe che il loro figliolo, grazie al suo martirio per amore di Allah, grazie al suo sacrificio sarà in paradiso ove "si sposerà con settanta donne dagli occhi castani, potrà chiedere che settanta membri della sua famiglia vengano ammessi anch'essi in paradiso e, infine, si fregerà della corona della Gloria la cui pietra preziosa vale tutto questo mondo".

Nessuno può uccidere nessuno. Mai. Nemmeno per difendersi.