La guerra è sempre un crimine
È possibile una politica di pace? Introdurre una risposta a questa
domanda non è possibile se non si ricorda quello che sta succedendo
in Libano o in Liberia, o cosa ancora è minaccioso nella ex-Jugoslavia.
Sarebbe astratto incominciare a pensare senza fare riferimento a tali
realtà, perché questi soli tre nomi significano sostanzialmente che
una politica di pace ancora non esiste.
Ci sono solo tentativi per sedare i conflitti, per chiudere delle
guerre. E tutto questo, che è solo una specie di balbettamento anche
se bene intenzionato, significa che nel pensiero politico non c’è
ancora una fondazione teorica sufficiente, e non voglio dire adeguata,
di una politica della pace.
Ci avventuriamo dunque su un terreno del tutto nuovo, instabile, incerto,
senza indicatori, ci avviamo su una strada da tracciare. Conviene
ricordare ciò, perché le cose che verremo dicendo sono di carattere
sperimentale e induttivo. E però, mentre sono sperimentali e induttive,
queste parole non sono così tranquille come quando si fa una riflessione
in laboratorio su una situazione stabile, perché sono mescolate con
vicende che non possono lasciarci indifferenti, sia per la carica
di ferocia e di disumanità che portano con sé, sia per la carica di
pericolo che in qualche modo esprimono. Non si tratta soltanto di
eventi calamitosi per i quali la nostra coscienza sobbalza e il nostro
cuore geme, ma si tratta di fatti calamitosi per i quali l’intera
nostra esistenza è minacciata, è messa in difficoltà: una qualche
ansia si insinua nelle nostre giornate, si aggiunge a quelle che già
ci sono, ma è un’ansia più greve, più profonda, più lancinante, perché
riguarda la possibilità di eventi così drammatici come sono le guerre.
D’altra parte io non posso nemmeno ricordare questa data senza pensare
che è così vicina al 25 aprile, una data che ricordo bene. Ero allora
ragazza, avevo fatto la guerra di resistenza, sono stata staffetta
partigiana nella mia città, Novara, una città importante nella guerra
partigiana, e mi ricordo non solo la gioia perché finalmente era finita,
ma anche la convinzione che fu allora delle giovani generazioni che
avevano partecipato alla Resistenza, di aver concluso l’ultima guerra
che si sarebbe mai combattuta. Questa convinzione non era soltanto
frutto di una giovanile improvvisazione o di puri desideri, ma era
talmente partecipata dai poteri politici, sia pure in forme che non
si sono realizzate, che di lì a poco la carta che fondava le Nazioni
Unite cominciava dicendo, dopo un breve accenno ai lutti e alle rovine
della seconda guerra mondiale, che si poteva da quel momento dire
che la guerra è sempre un crimine.
La riflessione su una possibile politica di pace parte da questa definizione:
la guerra è sempre un crimine.
Questa definizione capovolge una lunga riflessione del pensiero politico
e giuridico-politico, per la quale la guerra è stata definita un mezzo,
uno strumento per risolvere i conflitti, per riparare delle ingiustizie,
per misurare i rapporti di forza reali. Varie opinioni sono state
dette di questo evento: espressione dell’aggressività umana innata,
invincibile.
Tutta una serie di definizioni hanno considerato la guerra qualche
cosa intorno alla quale non si dà previamente un giudizio etico, ma
si cerca di capire che cosa è. In più, quando ci si approssimava ad
un giudizio etico, si cercava sempre di distinguere le guerre giuste
dalle guerre ingiuste: quindi l’approssimazione etica considerava
l’ipotesi che la guerra potesse essere anche una cosa giusta. Invece
la carta delle Nazioni Unite tronca questo pensiero, lo mette fuori
dalla storia, perché afferma che la guerra è un crimine, e quindi
va repressa. Questa definizione si sostituisce alla più celebre definizione
politica di guerra data da von Clausewitz nei suoi Pensieri sulla
guerra. Certamente è la riflessione più lucida che sia stata fatta
su questo evento, anche con grande onestà intellettuale. von Clausewitz
dice: "la guerra è la continuazione della politica con altri mezzi",
continuazione necessaria quando la politica non riesce più a risolvere
i conflitti che si sono annodati. Dunque fra guerra e politica von
Clausewitz mette una continuità.
Per questa ragione non vi è motivo di scandalo: si può dire che vi
sono degli eccessi, ma questi ci sono anche nella politica. Interviene
in questo modo una sorta di giudizio etico di seconda istanza sugli
eccessi, ma non sul fatto in sé. Von Clausewitz, dunque, raccoglie
la riflessione sulla guerra a lui preesistente, e da’ questa lucidissima
e intellettualmente onesta definizione: la guerra è la continuazione
della politica, quando questa si trova di fronte a problemi così annodati
che non possono essere più risolti con metodi "politici". Questa definizione
contiene anche altre osservazioni molto acute. Ad esempio von Clausewitz
osserva che la guerra è uno strumento assoluto: dopo che la politica
ha usato tutti gli strumenti possibili e non è riuscita a risolvere
i problemi, in extremis dà il via a quest’altro strumento, la guerra,
che dunque è assoluto. Tanto che, aggiunge von Clausewitz, chiunque
parla di limitazione, attenuazione, umanizzazione della guerra, o
mente o non sa di cosa parla. In questo consiste la sua onestà intellettuale.
Siccome la guerra è uno strumento assoluto è inutile pensare che lo
si possa contenere: sarebbe una contraddizione in termini. Se un mezzo
è assoluto, allora si dispiega fino a quando non ha finito. Non si
può dire: facciamo "un po’" di guerra, facciamo una guerra in tono
minore, facciamo una guerra con contenimento umanitario. Questo non
è possibile, ed è in contraddizione con l’idea di guerra, che è di
per sé uno strumento assoluto, che non ammette contenimenti.
Credo che questa parte del ragionamento di von Clausewitz sia ancora
estremamente attuale: è vero che la guerra ha questa caratteristica
di non poter poi essere contenuta e limitata. Tutti i protocolli internazionali
sull’umanizzazione della guerra, sulla tutela delle popolazione e
dei prigionieri, valgono fino a quando un Hitler qualsiasi non dichiara
che tutti i trattati sono solo pezzi di carta e che lui fa quello
che vuole.
D’altra parte la stessa tutela delle popolazioni civili, dalla seconda
guerra mondiale in poi, quando Hitler individua nella popolazione
civile il punto debole della possibile resistenza del nemico riconoscendo
nelle città obiettivi militari, viene esclusa dalla gestione delle
guerre. Questo è stato il punto in cui l’assolutezza della guerra
si è mostrata nella sua Forma estrema. La città, che è il luogo in
cui comunemente la popolazione civile rimane, e che quindi viene generalmente
dalla guerra. Scartata (le città subiscono assedi oppure sono saltate
perché lo Scontro si fa sul campo, e rimanevano in qualche modo isolato
dall’essere Considerate direttamente obiettivi militari), la città
diventa per la guerra da Hitler in poi il principale obiettivo militare.
E’ probabile che non riusciamo più ad avere la sensazione sconvolgente
di questo mutamento, perché ormai ci abbiamo vissuto in mezzo tanti
anni. Ma quando avvenne per la prima volta che una città fu colpita
a freddo bombardando la popolazione civile, l’emozione fu tale che
Picasso dipinse Guernica. Questo quadro rappresenta il primo bombardamento
a freddo dell’aviazione hitleriana di una piccola città nel corso
della guerra di Spagna, tanto che Guernica è diventata il simbolo
di tutte le città che sono state colpite come obiettivi militari non
per caso, ma intenzionalmente. Esiste anche una parola: "coventrizzare",
che significa bombardare Coventry, in Inghilterra, come fu fatto dall’aviazione
nazista e fascista durante la seconda guerra mondiale con l’intenzione
di ridurre la città in cenere. Poi naturalmente gli alleati replicarono,
e Dresda è una città ridotta dagli angloamericani in rovine. Quando
anche l’asilo urbano viene scientemente violato, siamo nella massima
espansione della definizione di guerra di Clausewitz come strumento
assoluto.
La conclusione è che dalla seconda guerra mondiale in poi le vittime
civili delle guerre sono più numerose dei caduti militari: è evidente
il carattere totale della guerra, che non lascia asili, luoghi marginali,
luoghi franchi, città aperte o altre cose del genere.
Ma nello stesso momento in cui la definizione di Clausewitz riceve
storicamente il massimo d’affermazione, l’evento Hiroshima mette quella
definizione in crisi, perché quando l’uso degli strumenti distruttivi
è tale da non lasciare adito alla continuazione della vita, allora
la guerra arriva a un tale livello di irrazionalità che giustamente
le Nazioni Unite la definiscono sempre un crimine.
Quando la distruzione di massa diventa così repentina, incontrovertibile,
eccezionale, diffusa e per di più con la possibilità di proseguire
i suoi effetti addirittura sulle generazioni future, come accade con
le radiazioni atomiche, siamo fuori persino dalla definizione della
guerra come continuazione della politica con carattere di assolutezza.
Abbiamo oramai una guerra come crimine contro la vita, contro la natura,
contro la storia. Il pensiero di una possibile politica di pace, o
il pensiero politico pacifista nasce con Hiroshima. Il pacifismo moderno,
e non il semplice anelito alla pace che c’è sempre stato ma non ha
fermato mai una guerra, il tentativo di definire in termini giuridico-politici
un altro modo di riflettere intorno alla guerra nasce con Hiroshima,
cioè con l’oltraggio insopportabile di strumenti di distruzione tali
che la loro permanenza minaccia il nemico fino a due generazioni seguenti.
Questo è un fatto importante, ma è anche un limite del pensiero pacifista
che ha sviluppato la sua politica di pace nei primi decenni seguenti
la seconda guerra mondiale essenzialmente puntando sulla paura del
nucleare. La paura del nucleare è assai razionale, chi non ha paura
del nucleare è pazzo, è folle. Come pure avere paura della guerra
è un fatto assolutamente umano e ragionevole. Non aver paura della
guerra non vuol dire essere eroi o coraggiosi, vuol dire essere pazzi,
fuori da qualsiasi razionalità. Però fondare esclusivamente sulla
paura del nucleare la formazione di una coscienza politica di pace
è insufficiente.
Infatti, dopo le grandi manifestazioni che in tutta Europa hanno dato
la misura di quanto le popolazioni europee, che pure non avevano subito
direttamente la minaccia atomica ma che continuamente temevano che
questa potesse presentarsi, il pensiero militare ha cambiato forma
dimostrando di essere più scaltro, avveduto e storicamente più fondato
di quanto non fosse il pensiero pacifista. Infatti sono state inventate
le guerre subatomiche, le guerre regionali, cioè delimitate per territorio,
le guerre che possono essere tenute sotto controllo.
La guerra del Golfo è la grande risposta del pensiero militarista
all’insufficienza politica del pensiero e della pratica pacifista,
perché dalla guerra del Golfo in poi la guerra comincia a rilegittimarsi
nella coscienza popolare. Cade questo schermo di rigetto sia pure
per paura e si ricomincia a pensare: "però, insomma, se avviene lontano,
se le bombe sono intelligenti, se si tratta di un’operazione chirurgica".
Se la guerra è presentata con un linguaggio simbolico che allude ad
una sua utilità, allora viene in qualche modo accettata. Voglio osservare
che la guerra viene presentata in questa nuova forma non come una
cosa giusta, ma come una cosa utile. C’è una specie di mutamento dello
spettro etico entro cui la guerra viene collocata. Non si dice più
che la guerra è giusta. D’altra parte è difficile commuovere le persone
sulla sorte degli emiri dell’Arabia Saudita,che non sono soggetti
facilmente portatori di emozioni positive nell’opinione pubblica mondiale:
dire "corriamo in soccorso degli emiri e degli sceicchi, difendiamoli
in nome della giustizia" non avrebbe commosso nessuno. Invece si introduce
l’elemento della guerra utile: "è un’operazione chirurgica". Nessuno
ama le operazioni chirurgiche ma sa che sono utili, nel senso che
risanano da una malattia.
In questa nuova edizione l’evento bellico non è più presentato come
qualcosa intorno a cui richiamare grande passioni come la difesa della
patria, della civiltà, dell’occidente, del cristianesimo, dell’islam,
tutti messaggi che danno una specie di giustificazione etica o addirittura
religiosa della guerra. La novità è che ci troviamo di fronte a una
giustificazione di tipo utilitaristico.
Siccome, peraltro, nel periodo in cui viviamo il tema dell’utilità
è molto sentito, questo strumento è molto efficace nel legittimare
nuovamente la guerra.
Per un nuovo pensiero politico pacifista
Se ho tracciato in maniera sommaria queste tappe sul pensiero intorno
alla guerra è perché vorrei che ci sforzassimo di considerare la fondazione
di una politica della pace come un’impresa teoricamente, culturalmente,
eticamente impegnativa e di grande fascino. Si tratta di dare risposta
ad una questione rimasta aperta dalla seconda guerra mondiale in poi,
quando finisce il possibile utilizzo positivo, storicamente accettabile
della definizione che von Clausewitz ha dato della guerra come continuazione
della politica con altri mezzi di carattere assoluto. La guerra non
è più questo, ma è, ad esempio, un intervento chirurgico sul tessuto
canceroso della convivenza umana, è un taglio brutale, ma necessario.
Questa è la nuova teoria della guerra, che ci viene presentata come
un intervento che risana un tessuto ammalato. La risposta che viene
data dalla pratica e dal pensiero pacifisti non è adeguata, perché
è rivolta all’indietro: la guerra è il mostro che fa paura, il che
è vero ma non basta, tanto che la guerra ha fatto di nuovo dei passi
in avanti nella coscienza comune. Non c’è più una immediata e istantanea
forma di ripulsa. E’ comune sentire persone che dicono: "quando proprio
non si può fare altro...", che è un modo popolare di riformulare la
definizione di Clausewitz. Anche alcuni pacifisti hanno detto: "...
beh, in Bosnia intervengano pure militarmente, cosa si deve fare,
piuttosto del massacro!". Questo ci fa capire che non siamo riusciti
ad elaborare un vero pensiero politico sulla pace, se noi stessi e
noi stessi pacifisti ci troviamo a non avere argomenti convincenti
per resistere alla richiesta di intervento armato che periodicamente
viene avanti.
Ritorniamo alla carta delle Nazioni Unite, che rimane un punto nettissimo,
un aggancio assai importante, benché il suo valore giuridico sia praticamente
nullo in quanto non è uno strumento di diritto internazionale, e non
ci sono sanzioni per chi la viola. Però si tratta di un alto messaggio
etico-politico, ed anche di qualcosa che ha dietro di sè grumi di
potere non del tutto indifferenti. Questa carta delle Nazioni Unite,
dopo aver definito la guerra un crimine, non prosegue dicendo che
tutti quelli che fanno la guerra sono "cattivi", perché uno strumento
politico fatto da stati assai potenti non può continuare in questa
maniera un po’ ingenua e moralistica di discutere intorno alla guerra.
Avendola definita un crimine, ovviamente richiama la risposta che
gli stati danno ai crimini: organizzano la pubblica sicurezza, la
polizia. Il crimine è definito, non si devono commettere crimini,
ma siccome non si può presumere idealisticamente che basti dire "non
devi rubare" perché nessuno rubi, allora si dice "non devi rubare,
e se rubi allora ti metto in galera". Ti becco, provo che hai rubato,
e ti condanno. Quindi intervengo con un’operazione di polizia e di
pubblica sicurezza. Infatti la carta delle Nazioni Unite parla di
un sistema di polizia internazionale che dovrebbe servire per intervenire
contro il crimine guerra. Questo è un punto che è stato pochissimo
e male elaborato. Inoltre questo aspetto della carta delle Nazioni
Unite non ha mai avuto un’adeguata esecuzione: tutti gli stati avrebbero
dovuto mettere a disposizione 5000 persone addestrate in operazioni
di polizia internazionale, mentre tutti gli stati mettono a disposizione
pezzi dei loro eserciti a cui cambiano l’elmetto: gli mettono il casco
blu e diventano polizia internazionale.
A questo punto c’è una prima osservazione da fare: la formazione di
un corpo di polizia è essenzialmente diversa dalla formazione di un
corpo militare. Il poliziotto può commettere abusi, ma comunque chi
fa parte di un sistema di pubblica sicurezza o di polizia è addestrato
a catturare il criminale possibilmente vivo, ad agire per la difesa
dei cittadini innocenti, e non a sparare nel mucchio, altrimenti commette
un abuso e può e deve andare sotto processo. Al contrario il soldato
è addestrato e ha il dovere di sparare contro chiunque abbia la divisa
di un altro colore. E’ sufficiente un diverso colore della divisa
perché uno senta dentro di se il comando di sparare. Non si può dunque
trasformare un pezzo d’esercito, per di più professionale, come sono
molti dei corpi utilizzati dall’ONU, in un’organizzazione di pubblica
sicurezza. Al massimo si possono utilizzare delle truppe di leva,
considerato il fatto che hanno paura anche loro e che quindi non si
espongono troppo, per il loro scarso tasso di militarismo, dunque.
Ma quando si tratta di corpi speciali volontari addestratissimi, far
finta che, mettendogli in testa un casco blu, diventino dei corpi
di polizia, è proprio una finzione delle più balorde, che per di più
espone queste persone a rischi oppure a repliche indiscriminate e
violente.
Ora occorre affrontare il problema di come collocarsi di fronte a
questo grumo di questioni che si sono annodate negli ultimi decenni.
La guerra non può più in alcun modo essere definita uno strumento
risolutivo dei conflitti troppo annodati a cui la politica non riesce
a dare una risposta, e non può essere in alcun modo definita giusta.
Inoltre la guerra implica una grande sproporzione fra mezzi e fini,
fra offesa e risposta. Qualunque cosa un popolo ritenuto colpevole
abbia fatto, anche invaso un pezzo del tuo territorio, questo non
giustifica che tu lo distrugga, lo massacri, bombardi le sue città,
ammazzi i civili, fai delle rappresaglie. Tutte queste cose non sono
giustificabili.
Quindi la guerra resta un crimine: da questa definizione non conviene
tornare indietro, perché è un punto molto elevato, molto avanzato
della riflessione etico-politica.
Che fare?
La cultura che noi assorbiamo anche criticamente non ha dentro di
sè questa affermazione: che la guerra è sempre un crimine. Dobbiamo
rovesciare questa situazione, quindi dobbiamo incominciare a far politica
a partire dal fatto che la guerra è sempre un crimine. Persino nelle
Costituzioni in cui questo è detto, questa parte non è diventata cultura
politica. L’art. 11 della Costituzione italiana afferma che l’Italia
"ripudia la guerra". Il verbo ripudiare non è un termine giuridico,
e infatti nei testi giuridici non si trovano delle parole così emotive.
Ripudiare vuol dire una forma di rigetto esistenziale: la guerra mi
fa schifo, mi rovescia le budella, è qualcosa di molto profondo. La
parte dell’articolo che recita "L’Italia ripudia la guerra come offesa
alla libertà degli altri popoli" è stata imposta all’Italia, come
alla Germania e al Giappone, dai vincitori che hanno imposto agli
sconfitti di scrivere nelle rispettive Costituzioni che non avrebbero
fatto più guerre d’aggressione. Ma in più i nostri costituenti aggiunsero,
e questa è la parte più significativa e più carica di futuro, che
la guerra viene ripudiata anche "come strumento di risoluzione delle
controversie internazionali". In presenza di controversie internazionali,
anche quelle nelle quali noi avessimo ragione, non siamo legittimati
dalla nostra Costituzione nemmeno a pensare che potremmo fare una
guerra per risolvere a nostro favore la controversia.
Dunque la nostra Costituzione ci obbligherebbe da cinquant’anni in
qua a darci da fare a studiare come si fa ad aver ragione in una controversia
internazionale senza fare ricorso alla guerra, cioè come si fa una
gestione nonviolenta di un conflitto politico. Questa cosa non è viva
nel nostro dibattito politico, non è un meccanismo che scatta. Mentre
se c’è un attacco alla libertà di stampa o alla indipendenza della
magistratura, c’è un’emozione, almeno nella stampa, immediata, e anche
una qualche partecipazione popolare. Questa cosa ci scatta spontaneamente,
tanto che coloro che vogliono minacciare la libertà di stampa e l’autonomia
della magistratura sono obbligati a giustificarsi dimostrando che
ciò non è vero. Ormai nella coscienza popolare l’idea che la libertà
di stampa sia un prezioso valore, e che l’autonomia della magistratura
vada rispettata c’è.
Mentre quando si tratta di guerre non scatta una reazione analoga.
Questo torpore morale nei confronti della guerra è iniziato con la
spedizione italiana in Libano voluta dal governo Spadolini, spedizione
che era incostituzionale: soldati di leva, per di più, mandati fuori
dai confini per una operazione di tipo militare. Non disse niente
quasi nessuno.
Da quel momento in poi di invii di truppe italiane in varie parti
ce ne sono stati molti altri, e sempre più oramai di corpi professionali.
Per questa strada si costruisce l’esercito professionale italiano,
che è sbocco quasi inevitabile. Ma il problema è che se viene costruito
attraverso questa strada, diventerà un esercito professionale che
chiederà la modifica dell’articolo 11. Di fatti la richiesta della
modifica dell’articolo 11 c’è già, nel senso che si chiede che l’Italia
faccia una politica di sicurezza con la possibilità di intervenire
ovunque gli interessi nazionali siano minacciati. Il passaggio da
difesa a sicurezza è un passaggio pericolosissimo. L’arbitrio interpretativo
dell’espressione "ovunque gli interessi italiani siano minacciati"
è tale da giustificare qualsiasi intervento. Tutto questo può succedere
perché fra i primi 11 articoli della Costituzione, quelli che ne caratterizzano
il volto, l’art.11 è particolarmente messo in dubbio e scavalcato
nella sua formalità dalla cosiddetta costituzione materiale. Così
il pratico modo di agire e la formazione dell’opinione intorno a questo
articolo sono già mutati, e questo dipende dal fatto che non siamo
riusciti a motivare e ad agganciare a queste affermazioni lo stesso
sentimento di democrazia minacciata come invece accade quando si verifica
un attacco ad esempio alle libertà individuali (art. 3) o alla libertà
di pensiero ed espressione. E’ vero che anche altri articoli non suscitano
sempre una grande emozione. Ad esempio il fatto che il razzismo sia
solennemente bandito dalla nostra Costituzione non fa sì che immediatamente
scatti una emozione popolare negativa quando avvengono fatti razzisti.
Generalmente si dice "sono ragazzate, episodi singoli". Ma quando
uno ruba, sarà un episodio singolo, ma resta un furto.
Analogamente un gesto razzista sarà un gesto singolo, ma resta un
gesto razzista e non un’altra cosa. Anche su questo la coscienza popolare
non è altrettanto viva come su altre cose. Quindi degli 11 articoli
che disegnano il volto della nostra Costituzione non tutti hanno lo
stesso radicamento nella coscienza democratica del paese. E a mio
parere, nonostante tutte le belle parole e gli orgogli con cui noi
sbandieriamo, e questo termine militare indica già una contraddizione,
il nostro art. 11, in realtà lo sbandieriamo perché molto spesso lo
violiamo.
Mi propongo, allora, di avviare una riflessione su come si può far
diventare di nuovo reale, se possibile, l’art. 11 della Costituzione,
su come si fa a radicare nella coscienza popolare l’idea che sia possibile
risolvere il conflitto senza fare ricorso alla guerra, nemmeno ad
una guerra chirurgica, limitata, fatta da eserciti professionali,
che tra l’altro hanno il torto di scaricare la coscienza comune dall’idea
di essere responsabili della guerra: "quando c’è l’esercito professionale
la guerra la fanno quelli che la vogliono". In primo luogo questo
non è vero, e poi comunque la paghiamo noi. E chi paga una cosa è
in un certo modo il mandante. Come non si può essere responsabile
di quelli che vanno a sparare con le armi costruite con le tasse che
si sono versate? Anzi è un po’ più bieco che dire: "mi espongo anch’io!".
E invece si pensa: "pago i killer, però io non conto perché loro sono
killer volontari". Questo è un rapporto facile dal punto di vista
etico, ma è un po’ rozzo e insoddisfacente, anche perché là dove ci
sono gli eserciti professionali non è vero che vanno a fare la guerra
quelli che vogliono fare la guerra, a parte gli alti ufficiali delle
accademie. Ad esempio l’esercito degli Stati Uniti, che da sempre
è professionale e volontario, è fatto per il 60% da neri, chicanos
e ragazze madri che sicuramente non sono il 60% della popolazione
degli Stati Uniti: la rappresentanza non è proporzionalmente adeguata.
Generalmente entrano nell’esercito persone che si trovano in grandi
difficoltà come studenti che non hanno i soldi per finire l’università,
oppure, cosa ancora più lamentevole e dolorosa, come neri e chicanos,
che dopo aver svolto il servizio militare sperano di aver dato una
prova di lealtà allo stato tale da poter essere accolti nella società
americana. Queste sono condizioni di libertà e di volontà un po’ dubbie.
Il dibattito sull’esercito professionale, inevitabile ormai, e altre
forme di servizio alla comunità, è di estremo interesse, ma ora non
possiamo trattarlo più a fondo.
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