MONTAIGNE,
CARTESIO E LA PROSSIMA GUERRA MONDIALE *
di Luigi Bonanate
Abstract: L'autore riassume l'immagine delle relazioni internazionali che va sotto il nome metaforico della "palla da biliardo" (una non-teoria in quanto rifiuta razionalità e teorizzazione) alla quale imputa il pregiudizio sull'inspiegabilità e dunque anche sull'imprevedibilità delle relazioni internazionali. Nell'esplicitare le ragioni culturali che hanno visto nell'anarchia la "causa" di tutto ciò, fa risaltare l'antecedente culturale rappresentato dai principi della teoria fìsica di Cortesio, meccanicistica quanto l'idea, ad esempio, di un altro illustre conterraneo, Michel de Montaigne, era invece spirituale. Cerca infine di ribaltare tutto ciò sulla previsione relativa alla prossima guerra mondiale - che dovrebbe scoppiare nel periodo compreso tra il 2010 e il 2035 - sollevando qualche perplessità sulla sua attendibilità, ma non sulla fondatezza del procedimento seguito per formularla. L'autore ritiene che lo sviluppo degli studi internazionalistici possa aiutarci a capire meglio il mondo in cui viviamo e quello in cui vivranno i nostri figli.
1. Un calambour davvero imprevedibile
L'unica vera e propria previsione sul futuro dell'umanità alla quale
riconosco - mio malgrado - un diritto all'attendibilità (se non addirittura
una certa qual forza di convincimento) è quella secondo la quale
la prossima grande guerra mondiale dovrebbe scoppiare nel periodo compreso
tra il 2010 e il 2035, con un massimo di approssimazione intorno al 2020.
Ora, a parte il dibattito che si potrebbe dedicare all'affidabilità
dei calcoli empirico-statistici che suffragano questa previsione (che lascio
agli specialisti), non c'è dubbio che la storia del mondo moderno
(quello cioè che inizia nel XVI secolo e che dunque sta ormai concludendo
il suo primo mezzo millennio) presenti almeno una regolarità davvero
stupefacente. Si tratta del fatto che il primo quarto di ciascuno dei cinque
secoli in questione è stato contraddistinto da una grande guerra
- di portata globale per il sistema internazionale. Infatti, nel 1521, l'Impero
asburgico di Carlo V inizia il suo programma espansivo diretto all'eliminazione
degli antagonisti (primo fra tutti Francesco I di Francia) con una serie
di successivi conflitti, conclusi in sostanza dall'assunzione da parte di
Carlo V del più vasto impero mai riunito sotto una sola autorità;
nel 1618 inizia la Guerra dei trent'anni, al termine della quale, con la
pace di Westfalia (codificata nei trattati di Mùnster e di Osnabruck),
la storia delle relazioni internazionali entra nella sua fase matura; tra
il 1701 e il 1713 tutti gli stati più importanti d'Europa si trovano
coinvolti nella guerra di successione spagnola, conclusa dalla pace di Utrecht;
le guerre che le coalizioni anti-napoleoniche muovono alla Francia post-rivoluzionaria
durano in sostanza dal 1803 al 1815; la Prima guerra mondiale inizia nel
1914, finisce nel 1918, ma secondo molti studiosi la Seconda guerra mondiale
non ne sarebbe che la ripresa dopo un ventennio di tregua.
Ed ecco, al termine di questa instancabile ripetizione che scandisce, secolo
dopo secolo, con una precisione impressionante, il ritmo delle grandi guerre
e delle grandi sistemazioni dell'ordine internazionale, rinascere l'araba
fenice della guerra mondiale che puntualmente, allo scadere del nuovo centenario,
intorno al 2020, ridefinirà - dopo averlo sconvolto - l'assetto mondiale.
Davvero difficile sembra chiudere gli occhi di fronte a tanta costanza,
che esibisce un'esattezza cronologica invidiabile; ma come nasconderei la
contraddizione che subito balza all'occhio? Com'è possibile, cioè,
che la disciplina certo più arretrata e primitiva tra tutte quelle
che costellano il complesso delle scienze dell'uomo - le relazioni internazionali
- risulti improvvisamente e imprevedibilmenle l'unica capace a impegnarsi
in un esercizio tanto ardito e tanto nitido? Se non è davvero un
calambour, è però una ben curiosa coincidenza che sappia fare
previsioni proprio la disciplina dalla quale meno ci saremmo aspettati qualche
cosa del genere!
Non dico ciò per ironizzare sugli studi ai quali ho dedicato la mia
carriera, ma per registrare semplicemente l'opinione corrente che fa della
problematica dei rapporti tra gli stati quanto di più oscuro, meno
ragionevole, più irregolare e quindi meno prevedibile - appunto -
si possa immaginare. Ma anche questa rotazione culturale non sarebbe altro
che una banalità se non fosse che di tutto ciò è possibile
scoprire una spiegazione, a sua volta invece tutt'altro che banale, e che
va diritta al cuore della problematica internazionalistica. Infatti, delle
scontate, ma insoddisfacenti, constatazioni relative all'astrusità
connaturata all'analisi dei rapporti reciproci tra entità tanto imponenti
quali sono gli stati (ma quante problematiche ben più complesse hanno
attirato tanto maggiori sforzi e investimenti intesi a rischiararle!), tra
i quali - che di per sé potrebbero anche essere accolte nella loro
indiscutibilità - non sono intercorsi, per secoli, se non rapporti
guerreschi, è infatti possibile individuare una matrice culturale
che offre una giustificazione di tale stato di cose, a modello del quale
potrebbe essere evocata una progenitura eccezionalmente nobile, tale da
risalire addirittura a Cartesio (anche se il grande filosofo francese non
se lo sarebbe mai aspettato). Riassumerò quindi dapprima l'immagine
delle relazioni internazionali che va sotto il nome metaforico della "palla
da biliardo" (una non-teoria, come si vedrà), alla quale imputerò
il pregiudizio sull'inspiegabilità (e dunque anche sull'imprevedibilità)
delle relazioni internazionali. Nell'esplicitare le ragioni culturali che
hanno visto nell'anarchia la "causa" di tutto ciò, farò risaltare
l'antecedente culturale rappresentato dai principi della teoria fisica di
Cartesio, meccanicistica quanto l'idea, ad esempio, di un suo altro illustre
conterraneo, Michel de Montaigne, era invece spirituale. Cercherò
infine di ribaltare tutto ciò sulla previsione relativa alla prossima
guerra mondiale, sollevando qualche perplessità sulla sua attendibilità
(ma non sulla fondatezza del procedimento seguito per formularla).
2. Un po' di archeologia delle relazioni internazionali
Anche
se non adottata da tutti i teorici delle relazioni internazionali, la metafora
della "palla da biliardo" riassume felicemente gran parte delle loro impostazioni:
essa muove dall'idea che ciascuno stato possa essere considerato come una
palla, appunto, situata all'interno di un tavolo da biliardo, dotato quindi
di sponde straordinariamente reattive. Ogni qual volta uno stato (una palla)
ne colpisce un altro, quest'ultimo reagisce all'urto in qualche modo: andando
a colpire altre palle, urtando contro una sponda e quindi colpendo di rimbalzo
altre palle, e così via: tutti abbiamo visto che cosa succeda su
un tavolo da biliardo. Così la metafora dello stato-palla-da-biliardo
sarebbe particolarmente adatta a introdurci all'osservazione della politica
estera degli stati, politica per definizione "reattiva", come si può
percepire facilmente non appena si faccia mente locale alle classiche giustificazioni
che gli stati sempre hanno dato del loro intervento in una guerra: quando
mai essi hanno iniziato una guerra non è sempre l'avversario a farlo?
Ebbene, anche le crisi internazionali sono (quasi) sempre (si fa per dire)
provocate dall'esterno: ne discende l'immagine secondo cui il singolo stato
- se non venisse turbato, scosso, colpito dall'esterno - vivrebbe tranquillo
e in pace, senza mai minimamente turbare l'ordine.
E invece, come in una reazione a catena (ecco un'altra bella immagine deterministica),
gli stati si urtano, si colpiscono, combattono, si eliminano, rinascono
e ricominciano a combattere, in un incessante e - diciamolo - inspiegabile
e irrefrenabile movimento. Esiste, di questo paradossale stato di cose,
, una spiegazione tradizionale - e dominante nella letteratura internazionalistica
- che fa capo al concetto di anarchia, dipendente a sua volta dalla natura
sovrana degli stati i quali, non potendo riconoscere alcuna autorità
loro superiore, per questo solo fatto si trovano ad agire in un ambiente
pericoloso e fatto di sospetti, di minacce, di sorprese, tanto che nessun
principio interpretativo che vada al di là della raffigurazione anarchica
pare possa esser suggerito. Da Hobbes ai giorni nostri, questa è
rimasta la versione dominante della teoria delle relazioni internazionali
- e a prima vista essa appare tutt'altro che trascurabile. Ma non è
direttamente all'anarchia (la quale - sia detto per inciso, ma con particolare
riferimento al nostro tema attuale - rappresenta la ragione evidente dell'imprevedibilità
attribuita normalmente agli avvenimenti internazionali) che vorrei ora fare
riferimento, perché ciò ci porterebbe troppo lontano, quanto
piuttosto alla logica meccanicistica che la metafora della palla da biliardo
impone alla vita di rapporto tra gli stati. Ed è così, scorrendo
le pagine dell'opera curata da K. Pomian sul determinismo (il concetto capo
fila di questo tipo di impostazione), che mi sono imbattuto in una rappresentazione
del pensiero cartesiano sulla causalità fisica che si adatta perfettamente
al caso della "palla da biliardo"! Per Cartesio, infatti, "non è
possibile che un solo genere di effetti, il cambiamento degli stati delle
parti della materia, e un solo genere di cause, l'urto dei corpi gli uni
contro gli altri. Ne viene che, nel mondo materiale, "causare" equivale
a "cozzare" e una causa null'altro è se non un corpo che ne percuote
un altro" (Pomian 1991, 17). Ora, per quanto non fosse certo al determinismo
internazionale (!) che Cartesio pensava, la sua teoria non pare adattarsi
perfettamente anche agli stati-palla-da-biliardo? Esponendo le "leggi
naturali di questo nuovo mondo" Cartesio osserva che le parti della
materia sono tutte in contatto tra loro "senza che fra l'una e l'altra
vi fosse uno spazio vuoto [proprio come succede tra gli stati!]. Ne segue
necessariamente che, nel momento stesso in cui hanno cominciato a
muoversi,
esse hanno cominciato, urtandosi, a cambiare e a diversificare i propri
movimenti. (...) Ogni parte della materia, in particolare, conserva sempre
lo stesso stato fino a quando le altre [gli altri stati] urtandola, non
la costringano a cambiarlo" (Descartes 1986, 22-3). Sarebbe così
scoperta la legge generale del mutamento: le parti (gli stati) mutano soltanto
ed esclusivamente quando vengono urtate - proprio lo stesso tipo di logica
che presiede a quella della palla-da-biliardo e quindi anche delle relazioni
internazionali.
Mentre ovviamente non mi sogno neppure di discutere la fisica di Cartesio,
trovo particolarmente suggestivo l'evidentissimo collegamento che intercorre
tra la sua idea del mutamento e quella che dovrebbe guidare lo stesso tipo
di evento nella vita internazionale. Dalla sostituzione ad alcuni termini
cartesiani di altri relativi agli stati - come ho fatto prima mettendoli
tra parentesi quadre - discende una rappresentazione che moltissimi teorici
delle relazioni internazionali sottoscriverebbero, e che personalmente trovo
invece non soltanto paradossale, ma addirittura caricaturale e (quel che
più conta) colpevole persino dell'arretratezza degli studi internazionalistici
- figurarsi poi se da tale posizione si potranno azzardare delle previsioni.
In che cosa consisterebbe dunque la "caricatura"? Della logica cartesiana
potremmo facilmente offrire un'applicazione relativa a principio di causa:
la modificazione dello stato di una parte è causata dall'urto ricevuto.
Sempre aperto resterebbe il problema dell'origine dell'urto, cioè
della causa causante, per così dire. Come abbiamo visto, nel caso
delle relazioni internazionali la causa causante sarebbe sempre intravista
nella modificazione intervenuta nell'ambiente esterno al singolo stato,
il quale quindi non potrebbe fare altro che reagire - in qual modo, è
tutta un'altra questione. La teoria delle relazioni internazionali avrebbe
a questo punto già concluso il suo compito: non ci sarebbe null'altro
da capire o da spiegare. Che le guerre scoppino per ragioni di potenza può
anche essere una soluzione; ma perché gli stati non vi ricorrono
sempre e continuamente? Si dica pure che lo scopo di ogni stato sia l'affermazione
della propria potenza, ma in quale misura ciò ci aiuta a comprendere
il comportamento reale degli stati nei loro continuativi - e non intermittenti
come da questo immaginario discende - rapporti reciproci? L'unica cosa certa
che sappiamo, da questo punto di vista, è che la potenza mira a realizzare
l'interesse nazionale e che quest'ultimo può variare moltissimo nel
tempo e nel ricambio delle élite dirigenti: nella migliore delle
ipotesi riusciremmo per questa via a fare della storia delle relazioni internazionali,
ma non ne costruiremmo una teoria.
Si potrebbe anche pensare - come molti fanno - che l'ambito dei rapporti
tra gli stati non abbia alcun bisogno di una sua teoria specifica e che
l'osservazione diretta della realtà sia sufficiente - così
come quando si assiste a una partita di biliardo, quel che conta è
lo spettacolo. Ma non appena ci si soffermi a riflettere sul fatto che dai
rapporti tra gli stati possono derivare conseguenze di straordinaria importante
per ciascuno di noi, si fa avanti la consapevolezza che le cose non possono
stare così, e che una teoria (da intendere come insieme di ipotesi
che cerchino di spiegare, non soltanto di descrivere) sulla natura delle
relazioni internazionali dovrebbe invece a buon titolo avere diritto all'ospitalità
nella cittadella del sapere. Ben diversi sono infatti i piani della ricostruzione
motivazionale dei comportamenti e della comprensione delle motivazioni stesse,
della loro collocazione cioè in un quadro ipotetico che ne illumini
la formazione e che - questo è il punto che ci interessa - ci conduca
poi anche alla formulazione di previsioni. Ciò potrà avvenire
esclusivamente nel caso che i comportamenti degli stati abbiano una qualche
logica, una qualche direzione e non siano meramente delle risposte a urti
esterni. Che arrivare a qualche cosa del genere non sia facile è
ovvio, e già ce lo diceva Montaigne quando - sotto il titolo Dei
cattivi mezzi adoperati a buon fine - enunciava quello che ora chiameremmo
il principio dell'eterogenesi dei fini: "C'è una meravigliosa
relazione e corrispondenza in questo universale governo delle opere della
natura, che mostra bene che esso non è ne fortuito ne guidato da
diversi padroni" (de Montaigne 1992, 908) - appena più schematica
era la concezione tolstoiana: "Coscientemente, l'uomo vive per se stesso,
ma, incoscientemente, serve di mezzo per il raggiungimento dei fini della
storia" (Tolstoj 1961, 929). Una volta temperato l'ottimismo di questa
affermazione osservando che lo stesso meccanismo potrebbe operare anche
all'incontrario, e cioè che non si può escludere che mezzi
buoni finiscano di essere adoperati a fini cattivi, quel che conia è
che in tal modo il sogno della previsione si complica ulteriormente; già
difficile in un ambito meccanicistico, sembra diventare del tutto impossibile
se gli eventi contengono in loro stessi addirittura una vocazione al rovesciamento
del loro valore facciale.
3. E possibile una teoria delle relazioni internazionali?
Vorrei
ora portare qualche argomento favorevole a una soluzione positiva del dubbio
appena espresso: si, è possibile costruire teoria nelle relazioni
internazionali - a patto che si concettualizzi il campo problematico di
queste ultime in modo corretto. Nei suoi termini globali, il compito è
tuttavia troppo arduo perché possa essere affrontato qui; propongo
quindi di giustificare la positività della risposta adottando una
scorciatoia e semplicemente mostrando la necessità di una teoria
ai fini della comprensione di un evento politico internazionale molto recente,
caratterizzato da due circostanze che per noi sono particolarmente significative:
nessuno l'aveva previsto (almeno nelle sue modalità specifiche),
quasi tutti l'avevano giudicato persino impossibile - in altri termini,
praticamente imprevedibile. Si tratta dello sprofondamento dell'Impero sovietico
e della scomparsa di quello stato che si chiamava Urss (do per scontato
che nel riferimento a questi eventi si comprendano anche tutte le conseguenze
di carattere internazionale che ne discendono).
Dopo che nel corso di esattamente quarant'anni (dal 1945 al 1985, data dell'ascesa
al potere di M. Gorbacev) il duopolio sovietico-statunitense nel mondo si
era costituito, sviluppato, consolidato e infine mummificato - al punto
da essere considerato quasi unanimemente immodificabile, e in ogni caso
soltanto ed esclusivamente per mezzo di una grande guerra, verosimilmente
nucleare, il che rendeva tutto ciò altamente improbabile - ecco che
nello spazio di poco più di tre anni l'Unione Sovietica decide di
ritirarsi dalla competizione mondiale, di abbandonare l'Impero e di lasciare
gli alleati-sudditi ciascuno al proprio destino, acconsentendo persino alla
violazione di quello che era stato il dogma indiscutibile nel quale aveva
creduto insieme agli Stati Uniti: l'impossibilità della riunificazione
delle due Germanie. Ora, di fronte a tanto colossale sconvolgimento delle
nostre aspettative, due atteggiamenti sono possibili: il primo è
quello di chi assiste percosso, attonito (come succede alle popolazioni
della terra di fronte alle imprese napoleoniche nella poesia manzoniana)
e dunque è incapace di farsi una ragione di quel che è successo;
il secondo, invece, molto più prosaicamente, si sforza di stabilire
quali condizioni siano capaci (astrattamente parlando) di render conto di
tutto ciò. Ma anche di fronte a questa seconda possibilità
(che ovviamente è quella che mi interessa maggiormente) si aprono
due alternative: ricercare nel passato le precondizioni del presente (o
le sue cause), oppure muoversi a livello teorico e chiedersi quali regole
del gioco politico-internazionale siano chiamate in causa e che cosa sia
loro successo. Tra queste due scelgo ancora la seconda via (basti osservare,
riguardo alla prima, che la ricostruzione storiografica, per quanto tutt'altro
che inutile, non può spiegare, ma soltanto raccontare - a meno di
sconfinare nella filosofia della storia), e la imbocco chiedendomi subito
a quale altro tipo di evento una così globale trasformazione dell'assetto
dei rapporti politici internazionali possa assomigliare. Rispondo, e molto
facilmente, che l'unico evento che storicamente ha prodotto risultati della
stessa importanza è sempre ed esclusivamente stata la guerra, nel
suo tipo della guerra mondiale, o globale, o generale, o costituente. Le
trasformazioni epocali sono state rese possibili unicamente e soltanto da
un cataclisma mondiale; se questa è la regola generale, e la applichiamo
al caso attuale, delle due, ancora, l'una: o decidere che la fine del bipolarismo
e la scomparsa dell'Impero sovietico siano eventi "normali", oppure dubitare
della portata della stessa regola generale.
Poiché mi pare insoddisfacente una conclusione che non veda alcunché
di anomalo nelle trasformazioni recenti (per il semplice fatto che esse
hanno modificato drasticamente la composizione della gerarchia dell'ordine
internazionale), mi occupo della seconda possibilità, relativa all'eventuale
fallimento della regola della guerra-come-fonte della struttura del sistema
internazionale. Essa si fonda sull'autorità della storia, che risponderebbe:
è sempre successo così - mi pare quindi difficile da scardinare.
Ma non ci troviamo, per questo, in un vicolo cieco, o meglio: situazioni
affatto eccezionali richiedono spiegazioni che si pongano al loro stesso
livello. È proprio per questo che, a partire già dal 1987,
proponevo di considerare gli eventi che allora si profilavano all'orizzonte
come la conseguenza di una vera e propria "mutazione" della politica internazionale
(Bonanate 1987 e 1989), intendendo cioè proprio fare riferimento
all'intervento di un qualche fattore "mostruoso" (nel senso latino della
parola), di importanza tanto straordinaria da poter produrre in modo innaturale
quegli stessi risultali che il corretto corso della natura avrebbe raggiunto
per altra via - nel nostro caso, ovviamente si tratterebbe della guerra.
Ebbene, il punto era ed è che un quarantennio di politica nucleare
- di una vita internazionale condotta sull'orlo dello scontro apocalittico
tra i primi due mondi, sul quale si sarebbe inevitabilmente innestata la
distruzione della vita planetaria al termine di un più o meno lungo
"inverno nucleare" responsabile di una glaciazione incompatibile con ogni
forma di vita umana - aveva inciso sulla natura dell' "equilibrio del terrore"
(il deus ex machina al quale spettava di garantire la pace ricorrendo alla
più folle delle minacce!), consolidandolo al tal punto da fargli
perdere, paradossalmente, ogni efficacia. Con quale conseguenza? Quella
di una sorta di vera e propria "lobotomizzazione" (se mi si perdona la gravità
della parola) della politica internazionale, che poteva (solo in apparenza)
continuare sullo stesso binario esclusivamente per inerzia, destinata tuttavia,
a sua volta, a perdere ogni spinta non appena si fosse fatto ricorso proprio
alla sua logica per perpetuare l'ordine. Così, nel momento in cui
l'Unione Sovietica di Gorbacèv prendeva atto della propria manifesta
inferiorità economico-tecnologico-industriale-sociale avrebbe dovuto
succedere qualche cosa: i "vuoti di potenza" (ci insegnano gli storici)
non attirano forse le altre potenze nella divisione delle spoglie (per mezzo
di una nuova guerra)? E invece, per la prima volta nella storia ormai cinquecentenaria
delle relazioni internazionali - che si è realizzata in modo pacifico
- quest'altra circostanza, se non fosse fuori tema, comporterebbe considerazioni
di ben più ampia portata.
L'esperimento che ho proposto ha dunque raggiunto lo scopo: la comprensione
della mutazione delle relazioni internazionali contemporanee è possibile
soltanto se si ragiona teoricamente e non empiricamente o descrittivamente
della natura della cosa.
Quale previsione?
Se
il meccanismo cartesiano che se applicato allesempio storico
che ho fatto si limiterebbe a mostrarci la pur impressionante concatenazione
degli avvenimenti. Non ci aiuta, dovremo rifugiarci nellimperscrutabilità
suggerita da Montaigne, secondo la quale il disegno della natura sarebbe
comunque improntato al bene? In effetti, la logica della palla da biliardo
che agisce su un tavolo anarchico non può (né lo vorrebbe)
suggerirci alcuna indicazione, se non nel senso dal mio punto di
vista frustrante secondo cui razionalità e teorizzazione sono
inutili. Ma come nasconderci, daltra parte, che anche la soluzione
di Montaigne è deludente, dato che ci priva della capacità
di leggere direttamente e senza ribaltamenti la realtà? Neppure
in questo caso la palla da biliardo si muoverebbe liberamente, e
cadremmo da un determinismo palese a uno invisibile, oltretutto oscuro.
Quale portata, allora, assegnare alla previsione secondo cui la prossima
guerra mondiale scoppierà intorno al 2020, di fronte alla mancata
pre-visione della "mutazione" della politica internazionale
che precede quella data di un trentennio? (Val la pena considerare che lo
sforzo scientifico che quella previsione comporta è tuttaltro
che disprezzabile, proprio per riuscire ad evitare le due trappole che ho
ricordato). Potrebbero rispondere i suoi sostenitori che questa fase sia
soltanto congiunturale (ed effettivamente gli indicatori economici su cui
quella previsione si fonda producono delle vere e proprie onde, il che ci
permetterebbe di considerare che la situazione attuale possa essere modificata
prossimamente da una fase di espansione produttiva piuttosto intensa, accompagnata
da un relativo aumento delle guerre e dei prezzi) (Goldstein 1988, 15-19)
e che quindi nulla abbia, per ora almeno, predeterminato (come nel caso
della palla da biliardo) l'andamento generale della storia futura. Ma potremmo
anche, forse più prudentemente (benché mi renda conto che
questa alternativa è tanto meno suggestiva dell'altra). concludere
che se una mutazione è intervenuta, ebbene ne sono possibili altre
che a loro volta potrebbero intaccare proprio quelle linee previsionali
(obbedendo all'eterogenesi dei fini?). Ma a questo punto, l'opposizione
principale che muoverei ai fautori delle teorie cicliche (tra le quali la
previsione ricordata certamente si colloca) riguarda, più che direttamente
l'imprevedibilità della mutazione che ho descritto, il carattere
straordinario che essa ha avuto, svolgendosi pacificamente. Non mi azzardo
a mia volta in ingenue previsioni, ma anche questo aspetto è davvero
anomalo e forse foriero di nuove mutazioni. Mi si potrebbe opporre che le
crisi nazionali succedute alla dissoluzione dell'Unione Sovietica hanno
avuto esiti violenti e non pacifici (la stessa Guerra del Golfo potrebbe
in qualche misura esservi ricollegata; la sua diretta conseguenza sono poi
la dissoluzione violenza della Jugoslavia e i vari conflitti nazionali ed
etnici nelle ex-repubbliche sovietiche); ma rimane pur sempre straordinario
- lo dico con il cinismo di chi è abituato a contabilizzare guerre
- il ridottismo (rispetto al passato) tasso di bellicosità che ha
contraddistinto la transizione dal bipolarismo a quello che i commentatori
e i politici chiamano il "nuovo ordine internazionale" - espressione
a mio modo di vedere del tutto priva di senso, se usata, come quelli fanno,
senza aver prima riconosciuto che anche quello precedente ne era uno e che
dunque quella condizione di permanente e connaturata anarchia a cui assegnavano
il ruolo analitico fondamentale nella teoria delle relazioni internazionali
era l'illusione o un pregiudizio o quanto meno il frutto di un errore interpretativo.
Troppe sono le innovazioni contenute nel breve arco di tempo che abbiamo
esplorato, per fidarci di una generalizzazione; quale che essa sia, a cui
dunque fondo il tradizionale e vecchio esercizio della logica ipotetico-deduttiva
sembra offrire ancora una valida alternativa.
Così, infine, una previsione, posso permettermela anch'io: poiché
la centralità - se non addirittura la priorità logico-politica
- delle dimensioni internazionali della realtà sta finalmente diventando
oggetto di incondizionato e universale riconoscimento, ecco che lo sviluppo
scientifico della ricerca internazionalistica (alla quale non assegno compiti
di policy, ma di spiegazione) potrà realizzarsi ed attestarsi
agli stessi livelli a cui altre ben più antiche e rispettate discipline
sono giunte. In fondo, anche uno dei grandi maestri della teoria delle relazioni
internazionali, Quincy Wright, tra i diversi metodi che si potevano seguire
per produrre delle buone previsioni, non aggiungeva, accanto alla estrapolazione
delle tendenze, alla periodicità delle crisi e all'analisi empirica
delle varie interrelazioni tra gli stati (esattamente le tecniche alle quali
la previsione della prossima guerra si rifà ), proprio l'opinione
degli esperti (Wright 1965, 1264)? Non sarò tanto ottimista da pensare
che lo sviluppo degli studi internazionalistici porterà con sé
la pace, ma ho dubbi che la crescita della cultura internazionalistica non
possa che aiutarci a capire meglio il mondo in cui viviamo e a preparare
quello nel quale vivranno i nostri figli - anche se continuiamo a non essere
in grado di preannunciarlo loro.
Riferimenti bibliografici
Bonanate
L., "La costituzione del sistema internazionale", Comunità,
XX-VII
Bonanate L., "Ne guerra ne pace?" in L. Bonanate (cur) Il futuro
della pace e la violenza del futuro, Edizioni città di Lugano, Lugano.
Bonanate L., "La mutazione post-moderna della politica internazionale",
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Bonanate L., "Etica e politica internazionale", Einaudi, Milano
Burton J.W., "World society", Cambridge UP, Cambridge
De Montaigne M., "Saggi", Adelphi, Milano
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*Estratto da FUTURIBILI, FrancoAngeli Editore, Milano, 1994, pag. 118-128
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