L’insegnamento della Psicologia come scienza in Italia Carlotta Longhi, Luigi D'Elia

Sull’ultimo numero dell'International Journal of Psychology [Volume 41, Number 1, Number 1/February 2006, pp. 42-50(9)] troviamo una monografia sull'istruzione universitaria di psicologia nel mondo. Si tratta di una panoramica internazionale che comprende molte nazioni: Australia, Brasile, Cina, Germania, Grecia, Iran, Filippine, Russia e USA, ed anche l'Italia. L’articolo che commentiamo è proprio quello sul nostro “belpaese” ed è a cura di Carlo Prandini (Università di Bologna) e Sherri McCarthy. (Università del Nord Arizona, Yuma, Arizona, USA)

Leggendo l’articolo colpisce la discrepanza tra i dati sull’insegnamento della psicologia in Italia presentati e commentati nella prima parte e la descrizione della situazione occupazionale degli psicologi nella seconda parte.
Dopo aver ricostruito la storia della psicologia e dell’insegnamento della stessa in Italia, gli autori approfondiscono l’attuale scenario, fotografando in dettaglio i percorsi universitari.

La crescita e la proliferazione dei corsi di laurea e delle facoltà di psicologia in Italia sono presentate come un segnale di positiva crescita della disciplina: “Se consideriamo il numero di articoli di psicologia in riviste internazionali che hanno come autori studiosi italiani, il numero di corsi di psicologia nelle università, e il numero di psicologi professionisti laureati come indicatori validi della crescita dell’insegnamento della psicologia, oggi l’Italia può essere posta allo stesso livello, in proporzione, degli altri paesi occidentali (…) In un paese con una superficie equivalente allo stato del Nevada negli USA e una popolazione di 56 milioni di persone, 26 università situate in 22 città offrono corsi di laurea in psicologia. Più di 50000 studenti sono attualmente iscritti a questi corsi di laurea e ci sono attualmente più di 35000 professionisti psicologi in Italia, secondo i dati di Sarchielli e Fraccaroli (2002), pari a 0.6 per 1000 abitanti, una percentuale simile agli standard europei”.

Gli autori non sembrano tenere conto del rovescio della medaglia, costituito dall’enorme quantità di laureati che escono ogni anno dai corsi di laurea in psicologia, andando ad incrementare il fenomeno della cosiddetta pletora, che può essere considerato uno dei principali fattori della difficoltà occupazionali attuali degli psicologi. Inoltre, la nascita di numerosi corsi di laurea è presentato come un dato positivo a prescindere dal fatto che alcuni di questi corsi nascano in atenei che non possono garantire standard di qualità formativa e in contesti territoriali in cui è del tutto assente una tradizione sia di ricerca che di applicazione della psicologia. Si omette quindi il discorso relativo alle motivazioni della crescita esponenziale dei corsi di laurea in psicologia: non solo positivo radicamento della disciplina in Italia, ma anche creazione di posti di lavoro accademici senza considerazione della possibilità di assorbimento lavorativo delle persone che vengono formate.

Rispetto alla valutazione dell’insegnamento della psicologia in Italia, gli autori riportano dati estremamente positivi: “La valutazione generale degli studenti della qualità dei corsi è positiva. Secondo una ricerca di Perussia e Miglietta (1995), il 90% degli studenti ha espresso soddisfazione per i suoi studi, e il 92% ha apprezzato la preparazione offerta dalla facoltà”. Da notare innanzitutto che si tratta di dati antecedenti il 1995, quindi risalenti a più di 10 anni fa, ad un contesto oggi profondamente modificato: sia per la notevole proliferazione in questi ultimi 10 anni di corsi di laurea in psicologia sia perché in questo periodo è stata attuata la riforma dell’ordinamento degli studi universitari, con il passaggio da laurea quinquennale a laurea triennale più laurea specialistica. Tali cambiamenti hanno avuto notevoli ripercussioni sulla qualità della formazione: sarebbe pertanto utile riferirsi alla valutazione di studenti che vivono le condizioni odierne all’interno del sistema universitario.

Stupiscono ancora di più i dati riportati relativi all’occupazione dei laureati (fonte ISTAT 2003). Si specifica che si tratta di dati relativi ai laureati che lavorano nel campo specifico, quindi non stiamo parlando di occupati in generale, ma di quelle persone che sono inserite nel campo in cui si sono laureate. La percentuale relativa ai laureati in psicologia, a tre anni dalla laurea, è del 77.9%. il dato, che contrasta pienamente con la percezione quotidiana di ogni giovane psicologo, può essere ridimensionato pensando che si tratti di giovani professionisti che svolgono qualche attività in campo psicologico, anche per un numero estremamente ridotto di ore settimanali, a fianco di altre attività in campo non psicologico. La tendenza dei giovani psicologi a dedicarsi ad un elevato numero di attività al fine di garantirsi un’entrata economica adeguata può spiegare almeno in parte il dato, che dovrebbe essere a questo punto riformulato come “percentuale di laureati che fanno qualcosa anche in campo psicologico”. I dati sull’occupazione a tre anni dalla laurea sono comunque poco informativi se non accompagnati da ulteriori approfondimenti: basti considerare che la percentuale di laureati in medicina occupati nel campo specifico risulta essere del 20%, percentuale che può essere spiegabile solo se si ipotizza la non considerazione degli specializzandi come “occupati”.

Infine, l’ultimo dato presentato per la valutazione dell’insegnamento della psicologia in Italia è l’età media alla laurea, che non viene in alcun modo commentata, e risulta essere di 29-30 anni. Colpisce la discrepanza tra la valutazione elevatissima di soddisfazione relativa al corso di laurea da parte degli studenti a fronte di una durata degli studi pari a circa 10 anni.

Da questi dati, gli autori concludono comunque che: “Le informazioni sopra riportate suggeriscono che l’insegnamento della psicologia nelle università italiane sia relativamente soddisfacente e che possa continuare a svilupparsi in modo favorevole.”

In totale contrasto con queste considerazioni, nel paragrafo conclusivo sulle tendenze future, sono riportati una serie di dati allarmanti e ben conosciuti dagli psicologi italiani, sulla situazione occupazionale attuale.
Scopriamo infatti, che, nonostante le valutazioni ottime per la qualità dei corsi di laurea, “Una considerevole percentuale di studenti di psicologia frequenta il corso di laurea principalmente per interesse culturale, o per migliorare il proprio lavoro in un’altra attività lavorativa”. In ogni caso, “Molti studenti che scelgono psicologia devono trovare lavoro in un campo differente. Non c’è equilibrio tra domanda e offerta al momento.” e “negli ultimi 6 anni, il tasso di occupazione degli psicologi si è abbassato del 5.2%”.

Le ragioni sono, a parere degli autori, in parte legate ad una difficoltà più generale nella società italiana: “In Italia (…) trovare una professione adatta agli studi universitari è un problema diffuso. La popolazione tende ad avere un buon livello di istruzione, ma i posti di lavoro che richiedono un’istruzione superiore sono limitati”. Inoltre, ci sono motivazioni specifiche che riguardano la professione di psicologo: “questa difficoltà è peggiorata dal fatto che i servizi sociosanitari hanno riempito la maggior parte delle posizioni da psicologo durante gli anni ’80 e questi psicologi non sono ancora andati in pensione. Quindi, oltre che nella libera professione, ci sono pochi posti disponibili e, siccome l’offerta di psicologi è maggiore della domanda dei loro servizi nella pratica privata, molti si guadagnano da vivere in altri modi.”. Si riconosce quindi che l’offerta di psicologi è molto superiore alla domanda dei loro servizi, anche se, curiosamente, questo dato non viene messo in relazione con la questione dell’elevato numero di psicologi che si laureano ogni anno, e dell’enorme numero, in continua crescita, degli studenti che si iscrivono a psicologia.

La conclusione, dai toni che suonano francamente utopistici, è che “Una relazione più stretta tra la psicologia accademica e la società potrebbe essere utile. Potrebbe diventare una priorità degli psicologi accademici quella di rafforzare il ruolo e il numero dei professionisti nei servizi pubblici e sociali, specialmente nelle scuole. Questo probabilmente non risolverebbe il diffuso livello di disoccupazione tra i giovani laureati in psicologia, ma potrebbe servire a migliorare la qualità della vita in Italia.”. Non si capisce come gli accademici potrebbero rafforzare la presenza degli psicologi nei servizi pubblici, e soprattutto perché invece gli accademici non si concentrino su quello che potrebbero fare direttamente a vantaggio della professione, ovvero riflettere su che senso abbia continuare ad immatricolare e a laureare decine di migliaia di psicologi nel momento in cui la possibilità per loro di trovare un’occupazione sta diminuendo in modo drammatico.

In ogni caso, ci sembra che, questo articolo dimostri nelle conclusioni, ancora una volta, la drammaticità del distacco tra mondo accademico e mondo professionale, come uno dei tanti motivi della difficoltà delle giovani generazioni di laureati nel mondo del lavoro. La politica dei numeri (alti) contro la politica della qualità e della responsabilità, questo sembra essere il motto della formazione dello psicologo italiano; tutti (accademici e scuole postuniversitarie) si sentono in prima linea nel “titolarlo”, ma nessuno si assume la responsabilità di seguirne e verificarne la formazione in relazione all’inserimento fattivo e riconosciuto nel tessuto sociale. Con buona pace di tutti.