Economia virtuale: smascheriamo le finte comunità

La speranza di una economia “nuova” ha fatto perdere di vista alcune regole insormontabili circa la creazione di valore. Il valore si crea per consenso. E’ l’interdipendenza fra il possesso di qualcosa ed il desiderio di quella cosa, a creare il valore. Certo, la storia del capitalismo ha mostrato vistose eccezioni a questa regola, ma sono state poche e di breve durata. Un’ alterazione alla regola dell’interdipendenza consiste nel far credere che esista un bisogno di possesso o un desiderio d’uso di una cosa che dunque acquista valore. Il massimo si raggiunge (questo cercano di fare molte imprese della “new economy”) quando si fa credere all’acquirente che esiste la necessità di acquistare una cosa che è già in suo possesso. Se a questo si aggiunge la manipolazione per cui chi acquista qualcosa che è già suo, diventa grato e appartenente all’impresa che vende, ecco raggiunto il miracolo: creare valore dal nulla.

Molte imprese della new economy si basano su questo principio, ma la loro vita è brevissima. Nessuno ha ancora fatto il calcolo dei portali e delle cosiddette “comunità” che sono nate, e dopo un anno si sono trasformate, fuse, riciclate oppure hanno semplicemente chiuso, ma si tratta di migliaia. Il fatto è che queste non hanno mai avuto nulla da offrire che fosse davvero appetibile: solo informazioni e servizi insignificanti, spesso incomprensibili, di basso costo, dunque replicabili da chiunque.
Di fatto queste sedicenti “comunità” hanno solo cercato di allestire un nuovo canale pubblicitario, peraltro molto fragile in quanto gestito dagli stessi consumatori. E’ come se un’impresa inventasse un canale pubblicitario chiamato “casa del consumatore”. Mediante un certo impatto pubblicitario e l’omaggio di qualche gadget, questa impresa convince 1.000.000 di persone ad allestire a casa propria uno spazio per la pubblicità, da creare a piacere e da animare, invitando i vicini a sostarvi davanti.

Primo: non si capisce perché queste persone, appena ci riflettono, debbano effettivamente allestire uno spazio casalingo. In cambio di qualche perlina luccicante, offrono gratis il loro lavoro per aumentare il valore delle azioni di un’impresa che non possiedono.

Secondo: perché i vicini dovrebbero perdere tempo a visitare uno spazio pubblicitario in casa d’altri ? (al massimo ne faranno uno proprio).

Terzo: cosa impedirebbe a 10.000 nuove imprese di entrare in questo mercato artificiale, competendo con le prime che hanno rischiato? Così hanno fatto e continuano a fare molte sedicenti comunità-imprese della new economy. Aprono un portale che chiamano “comunità”, e su questo offrono:

  • servizi solitamente banali, comunque uguali dappertutto (e-mail, chat, spazio web, qualche software gratuito e qualche giochino on line)
  • informazioni irrilevanti (meteo, oroscopo, notizie ANSA), che sono reperibili gratuitamente ovunque
  • un linguaggio largamente criptico (inglese, informatico, giovanilista)

In cambio di questo le imprese-comunità chiedono:

  • identikit dell’utente, da vendere sul mercato pubblicitario
  • il riempimento dello spazio (contenuti, foto, musica, interazioni, ecc.) da parte degli utenti stessi
  • gestione di certi servizi (bacheche, liste, ecc)
  • l’assorbimento di molta, moltissima pubblicità
  • la completa accettazione delle regole imposte dall’impresa (ivi comprese le decisioni relative alla modifica, chiusura o attivazione di nuovi servizi)
  • la accettazione di qualsiasi membro possibile, in quanto potenziale consumatore (per cui la massaia si trova a chattare col metallaro, indifferentemente)

Se questo baratto, molto simile a quelli che proponevano gli spagnoli al popolo maja, riesce, la società diventa famosa, e si fa assorbire da una società più grossa a suon di miliardi, oppure si quota direttamente in Borsa. Per piazzare le azioni a un prezzo cospicuo magari, si spacciano i primi 200.000 entusiasti passanti dal portale come membri della comunità e dunque potenziali “utenti fidelizzati”, del mercato globale. L’ultimo che prende il cerino fallisce, ma la comunità, come una Fenice, risorge sotto altro nome e ricomincia il giro, con altri giocatori d’azzardo.