Contributi sul lavoro di strada come lavoro di comunità
L’ESPERIENZA BRASILIANA
(Jocimar Alves Borges, educatore di Pé no Chao)

 

E’ difficile parlare del tema del protagonismo infantile perché è molto vasto e dobbiamo anche vedere di che bambini stiamo parlando. Si parla in genere del protagonismo infantile dei bambini poveri, ma bisogna pensare anche a quello dei bambini ricchi, e non fare esclusivamente riferimento ad una categoria che connota solo una parte dell’infanzia. Per noi è importante parlare di protagonismo in senso più generale, aldilà delle divisioni di classe, perché per i bambini non esiste questo tipo di divisione, tutti i bambini si devono sentire protagonisti. Per noi il bambino è protagonista dalla nascita. Quando si nasce bisogna piangere per essere protagonisti; nella vita siamo abituati a riconoscere protagonismo solo a chi protesta. Anche all’interno della famiglia è difficile vedere il protagonismo infantile, il bambino deve piangere per attirare l’attenzione degli adulti. Si può anche vedere il protagonismo a partire dall’organizzazione naturale del bambino, per cercare di capire come si relaziona con gli altri. I bambini sono molto autoritari ed egoisti, escludono dal gioco chi non ritengono bravo, e quindi esistono situazioni conflittuali all’interno del gruppo. Bisogna definire in modo preciso quello che riteniamo essere l’obiettivo di un’azione educativa, ed individuare il protagonismo infantile riferito alla categoria particolare dei bambini di strada. La prima cosa che riteniamo basilare è che i bambini sono soggetti, ma in un rapporto educativo lo è anche l’educatore. Dobbiamo parlare anche di questo, perché altrimenti corriamo il rischio di fare quello che in Brasile si chiama "populismo pedagogico". Quindi non dobbiamo riferirci unicamente al protagonismo infantile, poiché il rapporto pedagogico si instaura tra due persone, bambino ed educatore. Anzi il protagonista per noi si manifesta nella terza persona che è il risultato del rapporto tra queste due persone. Se noi non riconosciamo il ruolo dell’educatore ci riferiamo in termini puramente istituzionali alla questione del protagonismo. Nella definizione di soggetto noi prendiamo in considerazione tre aspetti. Il primo riguarda il minore come soggetto intellettivo, quindi in grado di raggiungere una nuova consapevolezza nei rapporti con la realtà, ed anche sviluppare la potenzialità di cambiare il mondo. Il secondo aspetto è che essi sono soggetti di diritti, intesi non nel senso di diritti prestabiliti, che già esistono, come la "Dichiarazione universale dei diritti dei bambini" oppure lo "Statuto dei bambini e degli adolescenti". E’ necessario riconoscere ai minori la capacità di creare norme etiche proprie, anche in conflitto con quelle dominanti. A partire dalla loro esperienza e dalle loro modalità di aggregazione, essi possono creare un sistema di valori, e di darsi norme all’interno del gruppo naturale.Un esempio abbastanza classico, molto diffuso sia in Brasile che in molte altre parti del mondo, è il seguente. Se un bambino preso dalla polizia e vittima della repressione denuncia un membro del gruppo, ha solo due alternative: o scappa da un’altra parte, oppure lo ammazzano. Dal nostro punto di vista, si tratta di un comportamento insensato, mentre per loro ha senso, perché a partire da questa denuncia tanti altri bambini o ragazzi sono stati portati via dalle forze repressive, hanno patito atti di violenza, quindi all’interno del gruppo di minori questa norma etica è molto significativa. Dunque il protagonismo degli educatori deve interagire con questo contesto, in questa realtà. Se non partiamo soltanto dal fatto che loro sono l’unico soggetto, se non facciamo del "populismo pedagogico", il protagonismo dell’educatore consiste nella capacità di critica, ma anche di autocritica rispetto alle norme sociali ed etiche dominanti. Altrimenti abbiamo un approccio populistico, e quindi o tutto quello che il bambino fa va bene, oppure non gli riconosciamo la capacità di essere un soggetto in grado di esprimere un proprio sistema di valori.La nostra società è responsabile di garantire l’etica sociale, quindi la relazione e i diritti tra gli uomini. Chi ne è il garante? La polizia? Ma la polizia picchia quando si fa sciopero, che è un diritto dei lavoratori, oppure picchia i bambini, oppure organizza squadroni della morte. Quindi questa è l’immagine molto chiara che i bambini hanno della polizia. La prima possibilità dell’educatore di essere protagonista è la capacità critica verso la società, che in questo senso significa proprio fare una critica del contesto sociale in cui siamo inseriti. A partire da qui è possibile anche per i bambini avere una capacità critica rispetto al proprio comportamento. Quando si ha questa capacità critica dalle due parti emerge un nuovo soggetto che non sono io, non è il bambino, ma è il risultato dell’interazione tra le due parti .La terza questione è il fatto di considerare il bambino soggetto di desideri. Questa magari è una delle cose più difficili da spiegare, perché, mentre gli altri aspetti del problema sono immediatamente tangibili, questo non lo è. Bisogna far emergere questo desiderio a partire da un percorso educativo. Facciamo un esempio. Nel seminario dell’anno scorso ho parlato di come anche il nostro pensiero sociale, la nostra visione rispetto ai bambini permette un cambiamento della loro identità. C’è un senso comune dominante e duplice. In Brasile è molto presente l’idea che i bambini di strada sono tutti delinquenti e che bisogna farli sparire. Oppure, e anche noi siamo responsabili di questo, c’è una visione pietistica dei bambini di strada.Qual è il risultato di questi punti di vista? Quando vai da un bambino di strada e gli chiedi come mai è finito lì, la prima risposta che dà è questa: "Mia madre mi ha abbandonato, i miei genitori mi hanno abbandonato!" Il che non è vero, perché più del 70% dei bambini di strada mantiene un rapporto con la madre e con la famiglia, in base a quanto risulta da una ricerca fatta da noi, ma anche da altre indagini nel resto del Brasile. In realtà questo è un modo per avere una nuova identità, in quanto "abbandonati". Ma il risultato è quello di togliere di mezzo il ruolo della famiglia, la famiglia in quel momento non c’è, mentre sono le strategie per sopravvivere che definiscono la nuova identità.Come fare emergere il desiderio della famiglia dove questa viene in apparenza negata? Non attraverso il dialogo verbale diretto ma attraverso l’attività educativa, a partire da una diversa forma di linguaggio. All’inizio si propone un disegno. La prima cosa che un bambino disegna è una casa; anche il bambino che sostiene di essere assolutamente abbandonato, messo di fronte ad un foglio, come prima cosa disegna una casa, perché la casa identifica un contesto relazionale. Per un bambino abbandonato sarebbe più semplice disegnare due linee per rappresentare un marciapiede, perché quello rappresenta la sua casa effettiva. Se proponiamo altre attività manuali, per esempio con l’argilla, poiché è molto difficile fare una casa con l’argilla i bambini fanno un tavolino, o un altro arredo domestico che in strada non ha alcun significato. Ciò dimostra che la famiglia c’è, e le attività educative possono far emergere questo desiderio. E’ un aspetto difficile su cui lavorare, perché noi spesso partiamo dal presupposto che loro non sono soggetti di desiderio, sono soggetti di necessità, sono persone che dipendono dalle necessità e per questo non hanno desideri, quindi qualunque cosa per questi bambini va bene. Quando noi pensiamo a cosa mangiare manifestiamo un desiderio, non ci limitiamo a manifestare una necessità. Invece ai bambini di strada non vengono riconosciuti desideri, l’importante è sfamarli. E questo è un modo di ragionare anche nostro, degli operatori di strada. Quando i bambini manifestano dei desideri, ad esempio nell’alimentazione, si tende a frustrarli, senza capire che questa manifestazione del desiderio è già un risultato concreto. Invece noi siamo abituati a ragionare e lavorare solo in termini di necessità. Per essere protagonisti sul piano sociale, che è la cosa più difficile, è tuttavia necessario passare dall’essere soggetto di desiderio ad essere soggetto desiderato, creando così un rapporto nuovo con la società. Non è sufficiente che i bambini imparino a individuare i propri desideri, ad esempio ad abbandonare la strada e tornare a scuola, è necessario che la scuola che ha espulso questi ragazzi si prenda cura di loro. Quando la scuola entra nella logica di "desiderare" questi ragazzi emerge un terzo soggetto che si confronta con il resto della società. Lo stesso succede con la famiglia, ed è ancora più difficile: si tratta del cambiamento dell’atteggiamento dei ragazzi rispetto alla famiglia, ma anche di un cambiamento della famiglia nei loro confronti. Infatti i genitori pensano di avere dei figli delinquenti quando non vengono più a casa, in base agli stereotipi negativi trasmessi dalla televisione, e tendono a rifiutarli. In conclusione noi riteniamo che il protagonismo infantile vada promosso a partire da questa dimensione, e quindi dall’aspetto più soggettivo, e solo in seguito, quando i bambini si sentono più desiderati, si possa affrontare l’aspetto più specificamente sociale.