Autodeterminazione versus Secessione (Irene Magistro)
INTRODUZIONE

Sempre più spesso si parla nella prassi internazionale, ed anche in testi convenzionali, di "diritti dei popoli", il diritto dei popoli all'autodeterminazione, diritto dei popoli a disporre liberamente delle proprie risorse naturali, ecc. Nella maggior parte dei casi il termine popolo è usato solo in modo enfatico e può essere tranquillamente sostituito, per indicare l'effettivo titolare del diritto, dal termine Stato. Sono solo gli Stati gli enti sovrani dell'ordinamento internazionale ed è chiaro che nella maggioranza dei casi il popolo potrebbe venire in rilievo, dal punto di vista giuridico, solo se si partisse dall'idea che lo Stato come soggetto di diritto internazionale non si identifichi con i governanti ma con i governati; senonchè una simile idea si rivela contraria alla realtà. Il discorso cambia, invece, quando di un diritto dei popoli si parla in relazione a norme che si occupano del popolo come contrapposto allo Stato, che si occupano dei governati come contrapposti ai governanti, che tendono insomma a tutelare il popolo rispetto all'apparato che lo governa. Norme del genere si riducono ad un solo principio generale: il principio di autodeterminazione dei popoli.
La dottrina dell'autodeterminazione nasce con l'affermarsi della "sovranità popolare", attraverso le rivoluzioni nordamericana e francese con una spiccata vocazione universale. Il primo documento in cui si trova un'enunciazione di quello che sarebbe in seguito divenuto noto nella dottrina come "Diritto di Autodeterminazione" è la Dichiarazione d'indipendenza americana del 1776, che si ispirò largamente agli ideali di libertà dei popoli da ogni oppressione, sia esterna che interna.

La vocazione universale dell'autodeterminazione veniva decisamente riconosciuta nelle proclamazioni della rivoluzione francese. Gli ideali rivoluzionari non furono relegati nell'ambito dei confini francesi: essi ispirarono le lotte dei popoli, condotte sulla base del principio delle nazionalità, per la liberazione dall'oppressione straniera.
L'apparizione ufficiale sulla scena politica internazionale del diritto di autodeterminazione avviene nel corso della Prima Guerra Mondiale, essa è dovuta da una parte a Lenin, con le sue "Tesi sulla Rivoluzione Socialista e sul diritto delle Nazioni all'autodeterminazione", dall'altra al Presidente statunitense Woodrow Wilson che, per primo, usò il termine pubblicamente nel 1918, nei suoi "14 punti", su cui si sarebbe dovuta basare la pace. È da evidenziare, però, che l'autodeterminazione si concepisce ancora nei confronti di tutti i popoli, non solo di quelli coloniali, e che emerge solo come principio politico e non di diritto internazionale positivo, per il quale dovremo attendere la Carta delle Nazioni Unite.
Il diritto di autodeterminazione non trovò posto nel testo finale della statuto della Società delle Nazioni, benché fosse stato presente nei primi due progetti di redazione dello stesso, per il timore che sulla base di esso si potessero legittimare alcune pretese secessionistiche. Nel 1921 una Commissione internazionale, nella decisione sul caso delle isole Aaland, rigettò decisamente un'interpretazione "secessionista" del principio: pur riconoscendo che la maggioranza della popolazione delle isole avrebbe voluto unirsi qualunque diritto a secedere.
Accenni al diritto di autodeterminazione ricorrono in documenti internazionali stilati nel corso della Seconda Guerra Mondiale, a partire dalla Carta Atlantica dell'agosto 1941. La Carta della Nazioni Unite, firmata a San Francisco il 26 giugno 1945, negli artt. 1 e 55 consacra la regola secondo la quale i rapporti tra gli Stati devono essere basati sul principio dell'uguaglianza dei diritti dei popoli e del loro diritto ad autodeterminarsi. L'affermazione di questo principio è universalmente riconosciuta come di fondamentale importanza per lo sviluppo del diritto internazionale, sebbene la Carta, che rappresenta un compromesso tra le grandi Potenze, è
estremamente prudente a tale riguardo. Essa, in effetti, non prevede un diritto dei popoli ad autodeterminarsi, ma un'obbligo degli Stati a conformarsi a questo principio nei loro rapporti reciproci. La portata potenziale del principio in questione, d'altra parte, è largamente ridotta dal fatto che nella Carta delle Nazioni Unite sono comprese delle disposizioni che vanno in un'altra direzione. Se ci si domanda quali siano le specifiche situazioni alle quali si applica il principio di autodeterminazione, ci si persuade che la risposta data dalla Carta va ben aldilà di quanto è previsto negli articoli 1 e 55.
È soltanto nel quadro del regime internazionale di tutela, previsto negli artt. 75 e seguenti, che i popoli non autonomi si vedono riconoscere il diritto di accedere gradualmente all'autogoverno o all'indipendenza; di contro, i popoli sottomessi ad un potere coloniale trovano nella Carta una ragolamentazione differente, poiché l'art.73 prevede, per gli Stati che amministrano questi territori, l'obbligo più limitato di sviluppare le loro capacità ad amministrarsi da soli. Per questi popoli, dunque, dopo la redazione della Carta, non si pone il problema di un diritto ad ottenere l'indipendenza.
In altre parole, nel sistema delle Nazioni Unite, così come risulta dal Trattato di San Francisco nel suo insieme, il diritto di autodeterminazione dei popoli acquista significati differenti in situazioni differenti: nel contesto di un'amministrazione fiduciaria (e dunque riguardo ai territori che vi sono sottoposti) implica il diritto ad accedere all'indipendenza; per i popoli dei territori coloniali non implica affatto lo stesso diritto.
Per quanto concerne i territori coloniali, l'autodeterminazione ha acquistato il significato di principio che impone la concessione dell'indipendenza, attraverso una prassi che ha travolto l'art.73 della Carta. Questo articolo è sembrato ad alcuni inconciliabile con i citati artt. 1, par.2 e 55; a ben guardare un problema di conciliazione non esiste, dato che, all'epoca della formazione della Carta, l'autodeterminazione aveva un significato diverso e più ristretto: essa era intesa in senso negativo, ossia semplicemente come obbligo gravante su tutti gli Stati di non interferire, con minacce o azioni coercitive o pressioni efficaci, nelle libere scelte, riguardanti governo, costituzione, leggi, ecc., operate nell'ambito di Stati stranieri, così coincidendo con il principio della non ingerenza negli affari di altri Stati, e non in senso positivo, cioè come obbligo di un Governo occupante un territorio non suo di lasciare che il territorio medesimo decidesse circa il proprio destino.
La storia farà giustizia di questa visione restrittiva, ed il diritto delle Nazioni Unite, sebbene formalmente invariato, non potrà che assorbire rapidamente i cambiamenti profondi intervenuti nella realtà sociale.
È così che nella ris.1514 (XV) dell'Assemblea generale delle Nazioni Unite (Dichiarazione sull'attribuzione dell'indipendenza ai paesi ed ai popoli coloniali) si stabilisce ormai che tutti i popoli hanno il diritto di determinarsi liberamente, cioè il diritto di determinare liberamente il loro statuto politico. Non è più una questione di un semplice obbligo per gli Stati, ma di un diritto riconosciuto ai popoli in quanto tali; che tale diritto è garantito a tutti i popoli sottomessi a dominazione coloniale; che può essere esercitato attraverso l'acquisizione dell'indipendenza o per altre vie, ma sempre sulla base di scelte dipendenti dall'espressione libera ed autentica della volontà dei popoli in questione.
Ciò che parte della dottrina ritiene è che la ris.1514 non si occupi di ogni popolo, ma solamente di quelli sottoposti a dominazione coloniale. È una verità storica indiscutibile che le Nazioni Unite hanno contribuito in modo notevole ed estremamente positivo al processo di decolonizzazione, altrettanto certo è che a poco sarebbe servita la loro attività in questo campo se i tempi non fossero stati maturi per il corrispondente periodo storico.
Constatare ciò serve per capire che le Nazioni Unite, occupandosi in un certo periodo storico soltanto del problema dell'autodeterminazione coloniale, intendevano non già affermare una nozione ristretta dell'autodeterminazione, bensì applicare il principio generale ad una situazione emergente di estrema gravità: l'oppressione dei popoli coloniali. Non si vuole negare che in seno agli organi delle Nazioni Unite e in genere nella Comunità internazionale si sia tentato, e si tenti tuttora, di limitare l'autodeterminazione a certe situazioni ben individuate; vedremo tuttavia nell'esame della prassi successiva al processo di decolonizzazione come questo tentativo non possa dirsi riuscito.
La dottrina appare divisa anche sugli sviluppi del diritto delle Nazioni Unite successivo alla ris. 1514, alcuni ritengono che non implichino nessun cambiamento di indirizzo, opinioni contrarie optano per una visione evolutiva del principio in parola ed una lettura dei documenti in tal senso. Uno degli esempi più importanti è la ris.2625 (XXV) dell'Assemblea generale (Dichiarazione relativa ai principi di diritto internazionale sulle
relazioni amichevoli e la cooperazione tra gli Stati conformemente alla Carta delle Nazioni Unite) le cui
disposizioni generali, riguardanti il diritto dei popoli ad autodeterminarsi, sono esplicitamente connesse allo scopo di «mettre rapidement fin au colonialisme», ma allo stesso tempo vengono estese ai regimi razzisti ed ai casi di oppressione a danno di un popolo per opera del suo stesso governo, posti così sullo stesso piano dei regimi coloniali classici.
Altro elemento innovativo è la forza con cui si sottolinea la c.d. clausola di salvaguardia, già presente nella ris.1514, posta a tutela dell'integrità territoriale e dell'unità politica di tutti gli Stati; in questa nuova formulazione si richiede che questi siano dotati di un governo che, non operando una discriminazione fondata sulla razza, il credo o il colore, possa considerarsi rappresentativo del popolo governato.
Nel dibattito intervenuto nel corso dell'elaborazione della Dichiarazione sulle relazioni amichevoli risulta in modo evidente che, pur tra molti contrasti e opposizioni, è uscita vincente la linea tendente a interpretare in chiave universale il contenuto del principio sancito nella Carta e a sottolinearne l'aspetto sia politico che economico, sociale e culturale, sia esterno che interno.
Questa valenza interna, che valorizza la distinzione tra governo, da un lato, e governati, dall'altro, sancisce il dovere di ogni Stato di godere del consenso della maggioranza dei sudditi e di garantire al popolo non solo la possibilità di esprimersi liberamente circa la propria struttura politica, ma anche di modificarla qualora esso non si riconoscesse più nel regime vigente.
In definitiva si riconosce una vera e propria presunzione di conformità della volontà popolare con quella del governo, nel senso che l'esistenza all'interno di uno Stato di un regime rappresentativo del popolo, soddisfa l'attuazione del principio di autodeterminazione. Ciò deve presumersi fino a prova contraria, fino a quando, cioè, non appaiono dei sintomi che inducano a ritenere il contrario.
È così che a partire dalla metà degli anni '60 le risoluzioni delle Nazioni Unite tendono ad applicare il diritto di autodeterminazione non più soltanto a situazioni di dominazione coloniale ma anche razzista e straniera, estendendo tale applicazione a casi di oppressione a danno di un popolo ad opera del suo stesso governo.
In conclusione, la Carta delle Nazioni Unite riconosce il contenuto universale del principio di autodeterminazione nel diritto di ciascun popolo a vivere libero da qualsiasi tipo di oppressione, tanto interna che esterna, condizione questa prioritaria per il raggiungimento di relazioni amichevoli tra gli Stati membri e per un progresso economico e sociale dei popoli, fondato su un'equa distribuzione delle risorse a livello sia internazionale che interno. L'autodeterminazione non è tanto un obiettivo quanto piuttosto uno strumento utilizzabile in circostanze diverse per raggiungere fini diversi: si vedrà poi come, nell'attuale contesto storico, questi fini possano essere individuati anche attraverso la concreta applicazione che è stata e viene fatta del principio nell'indipendenza dal giogo straniero e coloniale, nella liberazione della grave oppressione esercitata in offesa dei più elementari diritti dell'uomo da una classe dominante totalitaria, nell'esercizio permanente della libera espressione della volontà popolare in uno Stato retto da un governo "democratico" (nell'accezione assunta da questo termine nell'attuale esperienza storica fondata sulla coesistenza pacifica fra sistemi politici, economici, sociali e culturali diversi). Con questo lavoro ci si propone di esaminare come la Comunità internazionale, attraverso l'ordinamento giuridico che si è data, abbia interpretato nel tempo il principio di autodeterminazione dei popoli.
Dal punto di vista del diritto internazionale, in particolare dal punto di vista della Carta delle Nazioni Unite,
l'autodeterminazione pone varie e non facili questioni. Innanzitutto, un primo problema che si andrà a risolvere è se l'autodeterminazione sia materia di diritto positivo o soltanto principio d'ordine morale e politico. Posto che si tratti di materia di diritto internazionale positivo, ci si domanda quali siano, a livello internazionale, i titolari del diritto corrispondente all'obbligo di assicurare l'autodeterminazione: i popoli e altre collettività quali beneficiari del principio ovvero gli Stati e in particolare gli altri Stati membri delle Nazioni Unite?
Premesso che la materia sia ormai di diritto positivo, si tenterà di dare risposta anche alla domanda se si tratta di un diritto universale operante a beneficio di tutti i popoli (e di un obbligo a carico di tutti gli Stati) ovvero di una situazione di diritto/obbligo operante solo a beneficio di certi popoli e a carico di certi Stati; se il contenuto del diritto (e dell'obbligo correlativo) sia di conseguire l'indipendenza o anche di scegliere e di modificare il regime politico, economico e sociale.
Ulteriori problemi, quali le modalità di esercizio dell'autodeterminazione, il ruolo degli Stati diversi da quello della cui popolazione si tratta (nonché degli organi delle Nazioni Unite) e la relazione esistente fra l'autodeterminazione dei popoli da una parte e altri principi volti a tutelare, mediante la regola che vieta l'uso o la minaccia della forza e altre norme, il rispetto dell'integrità territoriale e dell'indipendenza degli Stati, saranno affrontati nel corso di questo lavoro.

Nessuno può uccidere nessuno. Mai. Nemmeno per difendersi.