Il Fondamentalismo tra Resistenza e Terrorismo.
Dialogando di Politica, Storia delle religioni e Psicoanalisi

Elena Liotta, Ali Rashid, Dag Tessore

Affrontare argomenti che esulano dall’esperienza clinica, pone lo psicoanalista in una condizione squilibrata. Infatti, a differenza di altri intellettuali e studiosi, la nostra teorizzazione nasce e si sviluppa in presa diretta su quelle dinamiche psicologiche, consce e inconsce, che animano l’incontro interpersonale. Pertanto, non potendo trattare il Fondamentalismo come se fosse un paziente, senza aver neanche incontrato pazienti fondamentalisti, ci mancherebbe la materia prima per dare attentibilità a questa operazione. A meno che non si volesse fare di un dibattito sul Fondamentalismo, l’ennesima occasione per estendere le teorie psicoanalitiche, come nella classica psicoanalisi applicata. Ma anche in questo caso il lavoro a più mani che viene qui presentato potrebbe apparire fuori luogo.

Si parlerà infatti, del Fondamentalismo in senso stretto, di quello che appartiene alla storia e alla cultura islamica, quell’integralismo inteso come rigoroso recupero di radici culturali e dei relativi dettami socio-culturali, con particolare riferimento alla situazione della Palestina e alla figura del kamikaze.

La mia perplessità in questa luce diventa: di quale approccio psicologico c’è bisogno per capire e interpretare il senso, le motivazioni, gli aspetti dell’inconscio collettivo che danno luogo al fenomeno fondamentalista, senza mortificare la sua specificità che potrebbe sfuggirci, non solo sul piano della realtà degli eventi ma anche su quello psichico, interiore? Dopo l’attacco del 11 settembre alle Twin Towers, alcuni colleghi junghiani ci hanno fornito una trattazione rappresentativa di diverse posizioni analitiche intorno all’evento e alla sua risonanza psicologica, partendo dalla loro esperienza personale e professionale (1). E fin qui è tutto lecito. Nel libro, cui rimando anche per utili riferimenti all’opera di Jung, sono affrontati temi più ampi inerenti la guerra, la religione, il terrorismo, sempre a partire dalle conoscenze analitiche sullo psichismo individuale e collettivo.

Qui proponiamo un taglio diverso, che potrei definire come un’offerta psicologica debole . Essa infatti obbliga l’analista a trattenere la sua vis interpretativa, a spogliarsi in parte della propria identità e ad osservare separatamente individuo e società, per poterli meglio comprendere entrambi, all’interno dei loro contesti di riferimento.

Vorrei fare subito un esempio delle difficoltà che si possono incontrare in questo tipo di analisi. Nella sua pur breve storia la psiconanalisi, legando insieme psicologia individuale e fenomeni collettivi, si è abbondantemente espressa sull’aggressività, sulla distruttività, sul sadismo, sull’autoritarismo e sulle dimensioni complementari del vittimismo e del masochismo. La seconda guerra mondiale e il nazismo hanno fornito un immenso materiale di studio alla nascente psicoanalisi sui temi che qui ci interessano.

Tuttavia, di fronte alla situazione politica attuale, mi sono trovata a corto di parole per descrivere quel nucleo del fenomeno fondamentalista che l’osservatore culturale occidentale, ancora velato di etnocentrismo, non sembra cogliere. Come mai, oggi, tra aggressori e vittime, non si dà spazio a una ‘psicologia della legittima difesa’, di chi cioè si difende dall’aggressore per non diventare vittima? Forse perché la legittima difesa è una reazione normale, sana e la psicoanalisi si occupa solo di psicopatologia? Oppure c’è un limite alla legittima difesa? Quale psicoterapeuta non considererebbe malato un paziente passivamente sottomettesso a costanti aggressioni e ricatti? Non siamo proprio noi a intervenire sugli abusi e le violenze compiute dall’uomo sull’uomo? Nell’ultima guerra mondiale, in Europa, la Resistenza è diventata eroica testimonianza e salvezza dalla follia collettiva. Com’è possibile, su queste premesse, che la cultura ebraica – di cui la psicoanalisi è un frutto – una cultura caratterizzata proprio da un forte pensiero critico, sopporti ciò che accade in Palestina: la politica dell’attuale governo israeliano, la segregazione nei campi e la distruzione delle case e della vita dei palestinesi? A parte la Rete ebrei contro l’occupazione e altri pochi gruppi sconosciuti ai più (2), sembra che una rimozione collettiva copra questa dinamica di rivalsa ben conosciuta alla psicoanalisi clinica. Eppure, come osservano alcuni auorevoli analisti politici, nella storia è l’esito finale a decidere: se la resitenza vince essa diventa un merito collettivamente riconosciuto, se perde rimane solo delinquenza. Il terrorismo è qualcosa d’altro ancora.

Per gli psicoanalisti il Fondamentalismo diventa, per così dire, un serio problema di diagnosi. Ugualmente, diventa un problema utilizzare concetti psicologici astratti e generali, tenendo sempre un piede fuori, senza compromettersi e senza schierarsi, magari invocando la neutralità dell’osservatore, in questo caso neanche partecipante. Trovo su questo punto un’altra incongruenza che indebolisce l’approccio psicoanalitico. L’analista si muove all’interno del suo setting , avendo concordato con il paziente le modalità del suo lavoro, dopo un primo atto fondamentale: aver assunto la responsabilità del caso, avendo preso a cuore il paziente, avendo accolto la sua realtà psichica. Ma quando si tratta di fenomeni psichici collettivi con risvolti etici e politici, come il Fondamentalismo, quando si finisce a discutere di bene e di male, quale diventa per analogia, l’assunzione del caso e il setting della discussione? Riecheggia in questi miei interrogativi, l’attuale dibattito sulla liceità di una guerra ‘giusta’ in rapporto all’idea di democrazia. Il diritto allo spazio vitale, il diritto alla propria terra e alle sue risorse, al proprio governo, alla propria cultura e lingua, non costituiscono proprio il cuore della democrazia che tutti considerano come la forma più avanzata di governo dei popoli? Può essere la democrazia imposta?

Allora, azzardando qualche ipotesi, non sarà che una certa timidezza dei professionisti della psiche in generale, inclusi gli psicoanalisti, rivela il loro condizionamento culturale, l’appartenenza a una società e a un sistema nel quale si identificano e che temono di perdere, di fronte al quale il Fondamentalismo islamico rappresenta sul piano inconscio una minaccia? D’altro canto, l’americanizzazione della psicologia – e indirettamente anche della psicoanalisi – è un fatto culturale abbastanza visibile e non difficile da documentare.

Infine, vorrei aggiungere solo un rapido richiamo ai detrattori di Jung riguardo alla sua incertezza nel prendere una chiara posizione di fronte allo strapotere del Nazismo. Direi loro: vedete com’è difficile, quando si sta immersi nella realtà contemporanea, schierarsi contro il potere costituito e dominante?

Torno alla legittima difesa introducendo il terrorismo.

Il Fondamentalismo, l’integralismo arabo, è nato, esplicitamente, come richiamo e difesa dell’identità culturale, religiosa e in alcuni casi anche territoriale. Rimanendo in Europa, altri popoli, le cosiddette minoranze come i baschi e gli irlandesi cattolici, che sono da tempo in lotta per lo stesso tipo di sopravvivenza, sono ricorsi al terrorismo, con azioni che non appaiono così diverse da quelle compiute da alcuni gruppi fondamentalisti. E’ inopportuno o scandaloso cercare di comprendere che il terrorismo può avere la sua logica nell’esasperazione della legittima difesa? O, in caso si trattasse davvero di un argomento intoccabile, ha lo psicoanalista, in quanto profondo conoscitore della psiche individuale, qualche idea alternativa su come dovrebbe comportarsi chi viene abusato o violentato, sopraffatto quando i suoi diritti democratici sono stati calpestati? Cosa farebbe lo psicoanalista nella sua vita, nel suo paese in un’analoga situazione?

Queste e altre domande rimangono senza risposte esaurienti e rimango io stessa perplessa e disorientata nel cercare altrove delle risposte significative. Mi consola ritornare a Jung, al processo di individuazione, al Sé e alla dinamica degli opposti e immaginare le tortuose vie con cui i processi vitali si manifestano nella natura, nell’essere umano, forse anche nella storia, confidando in uno svolgimento di senso per ora poco comprensibile.

Proprio ispirandomi a Jung, ho pensato che una strada per capire qualcosa in più potesse essere accostarsi allo scenario attuale nel confronto sincero con altre discipline e altri studiosi. E ho provato a farlo insieme ad Ali Rashid e Dag Tessore, dandoci un compito che assomiglia più a una sfida: riuscire in poche pagine a mettere insieme la visione politica, quella storico-religiosa e quella psicologica intorno al Fondamentalismo, proprio nel periodo culminato con lo scoppio della guerra degli Stati Uniti contro l’Iraq.

Ali Rashid, Primo Segretario dell’Autorità Palestinese in Italia, ci ha fornito un illuminante e dettagliato quadro storico-geografico, politico ed economico della situazione mediorientale, di cui posso qui riportare solo la generale sensazione, per noi europei, di un’immensa varietà di posizioni che fanno del mondo arabo una costellazione tutt’altro che uniforme e coerente.

Riassumendo, con le sue parole:

L’Islam è un mondo vasto, che nel tempo si è contaminato ed arricchito. Le stesse popolazioni che hanno aderito - la maggioranza - o sono stati convertiti all’Islam, lo sono stati in tempi e in contesti diversi, perché con il passare del tempo cambiavano anche le stesse motivazioni dell’espansionismo islamico.

Nei primi anni, sotto la guida di Maometto e dei primi due Califfi, la motivazione della espansione era soprattutto di carattere ideologico e si era limitata alle regioni adiacenti, facilitata dalla comune lingua araba. L’Islam, in quel periodo, rappresentava una sorta di rivoluzione culturale, politica e sociale e prestava una grande attenzione all’insegnamento della religione. L’esercito stesso era formato di volontari ed i comandanti venivano scelti in base alla fede e alla conoscenza della religione. L’Islam si presentava come il proseguimento della diffusione della parola di Dio nel solco delle religioni monoteiste. Quindi, l’Islam ha ereditato la maggiore parte degli insegnamenti e i dogma delle altre due religioni, avendo stabilito e mantenuto con esse anche canali di comunicazione e di confronto. Esempi di eccellenti episodi di confronto e addirittura di solidarietà e di reciproca stima sono numerosi, come sono numerosi, anzi cardinali, i riferimenti nel Corano alla storia, ai miti, ai personaggi e agli insegnamenti delle altre due religioni.

Mano a mano che all’interno dell’ Islam compaiono le divisioni, iniziate al tempo del terzo Califfo, riproponendo le divisioni gerarchiche tribali dentro la città di Mecca, onde ripristinare un ordine sociale ed economico che era stato scardinato dall’avvento egalitario ed universalistico dell’Islam, anche l’espansionismo islamico rispondeva ad esigenze e motivazioni nuove condotte da eserciti regolari, sul modello persiano e romano bizantino, con scarsa attenzione all’ insegnamento religioso. Vie non pianificate e non ufficiali per la diffusione della nuova religione, continuavano lungo le vie del commercio e dei normali scambi dell’epoca oppure attraverso le confraternite Sufi (3). Esempio splendido di questa via è la penetrazione islamica in Sicilia, che ha avuto un carattere graduale e pacifico.

Altre divisioni in quello che era ormai diventato il mondo islamico, avevano una base etnica, dal momento che interi popoli erano stati convertiti o avevano aderito in modo collettivo alla nuova religione, come i popoli persiani o i mongoli, dopo aver distrutto Bagdad, capitale dello stato abbaside. Questi popoli hanno portato dentro il grande alveo dell’Islam anche la loro cultura e le loro tradizioni e, a un certo punto, hanno cominciato a rivendicare un loro ruolo guida nei confronti del monopolio del potere da parte degli arabi. Già da allora l’Islam si presentava come tanti Islam diversi, anche perché intere popolazioni che avevano aderito alla nuova religione non conoscevano l’arabo che continua ad essere la lingua del Corano e della tradizione, e tutti i tentativi di unificare le diverse scuole islamiche sono falliti. L’unica scuola che si presenta omogenea è quella Sciita perché si era data una struttura gerarchica verticale, dotata di competenze per dire l’ultima parola su tutte le questioni in discussione, scuola che con il tempo e dopo la rivoluzione Khomenista ha assunto anche il ruolo di guida politica e statale. Da parte Sunnita, l’ultimo tentativo di unificare le diverse tendenze e scuole, è stato quello operato alla fine del secolo scorso, più precisamente dai Wahabiti nella penisola arabica con il sostegno militare da parte della tribù Saudita. Questo insieme definisce la scuola fondamentalista , che teorizzava il ritorno ai fondamenti e ad una lettura molto rigorosa dei dettami religiosi, che quindi spogliava l’albero dell’Islam di tutta la ricchezza accumulata nel tempo. Si tratta di una trasformazione della cultura islamica in religione regolamentare, che ha semplificato il complesso dibattito che per secoli aveva impegnato l’intero mondo islamico, diventando anche strumento di potere in mano dei Sauditi, per legittimare la presa ed il monopolio del potere .

Anche il Jihad la guerra santa - ha assunto significati diversi a seconda delle diverse scuole e dei diversi momenti storici. Nell’ ultimo secolo, gli Iraniani ne hanno fatto uso sia per battere il regime dello Scià, sia durante la guerra con l’Iraq, mentre la dinastia Saudita ha fatto un uso strumentale del Jihad per consolidare il suo potere all’inizio e durante la guerra dell’Afghanistan contro l’invasione Sovietica. Un’ interpretazione rigorosa del Jihad implica l’impegno individuale e collettivo, ciascuno secondo le sue possibilità nel caso di difesa, mentre in caso di offesa l’impegno è volontario ma più che auspicabile.

L’attuale situazione e la guerra in corso porteranno sicuramente nuovi aspetti al senso del Jihad e al senso e ruolo dell’Islam nel mondo.

La prima e condivisa chiarezza emersa dal nostro dialogo è che parlare di un Fondamentalismo unico dalle uniformi e marcate caratteristiche e identificarlo globalmente con l’Islam e la cultura araba, prescindendo dalla complessità delle attuali geografie e situazioni politiche che compongono la realtà mediorientale, è un errore che produce pesanti conseguenze su diversi piani, incluso quello dell’osservazione psicologica. E’ evidente che essere cresciuti in un paese abituato alla morte e ai ruderi, considerando la morte per martirio come un onore, possa condurre a comportamenti impensabili per chi è nato e cresciuto in condizioni di pace e benessere. Ma non si tratta solo di contesto geografico e ambientale. Anche il tempo, la storia, la memoria e la tradizione religiosa influenzano la scelta fondamentalista per cui il nesso tra politica e religione risulta molto forte rispetto ad altri contesti culturali.

Per quanto riguarda il passato, le radici e la storia del fondamentalismo, le conoscenze offerte da Dag Tessore, studioso e storico delle religioni, ci hanno aperto a un’ulteriore approfondimento della situazione contemporanea. Nel suo La Mistica della guerra . Spiritualità delle armi nel Cristianesimo e nell’Islam , Tessore mette in crisi, dati e fatti storici alla mano, la convinzione diffusa che non vi sia conciliazione tra guerra e autentica spiritualità.

Non solo quasi tutte le religioni e culture hanno giustificato e sacralizzato il fatto bellico e l’uso della forza … ma le più alte vette della spiritualità umana di tutti i tempi sembrano quasi unanimi nel conferire alla guerra un significato mistico e teologico altissimo …La maggior parte dei grandi teorici e sostenitori della guerra santa furono uomini di ineccepibile integrità morale e profondissima spiritualità. Ciò vale per le Crociate, volute e amate soprattutto da monaci, asceti e mistici, vale per il Jihad islamico, che conta tra i suoi ideologi e protagonisti, esimi filosofi e persone di indiscutibile spessore spirituale, vale infine per l’ebraismo, per l’induismo, lo zen… Se dunque fosse vero che non vi può essere conciliazione tra spiritualità e violenza, tra religione e guerra, allora d ovremmo bandire dal numero delle grandi opere della spiritualità umana, la Bibbia, il Corano, la Bhagavadgita, gli scritti di Sant’Agostino, San Bernardo e Santa Caterina da Siena! … Ciò che ha spinto santi e teologi a giustificare la guerra non è un approccio alla realtà più terreno, più materiale, ma esattamente l’opposto: una visione radicalmente spirituale del mondo, secondo la quale l’anima è più importante del corpo e quindi la lesione o la morte del corpo fisico non è così tragica come è percepita oggi alla luce di una ‘idolatria’ del corpo, di una quasi ossessiva tutela dell’immunità corporea e della salute fisica e di una concezione fondamentalmente materialista dell’esistenza per cui la morte del corpo è la morte di tutto (4).

Sulle radici storiche del Fondamentalismo nel rapporto tra le religioni monoteiste, Tessore ci ha detto:

Da un punto di vista religioso si può dire che la Palestina è la culla del fondamentalismo in quanto è la culla della fede di Abramo in un Dio che trascende l’uomo. Il Dio di Abramo è il Dio che gli chiede di compiere azioni contrarie al buon senso umano (ad esempio immolare suo figlio Isacco) per consolidare la sua fede in Dio. In questo senso fondamentalismo significa scegliere Dio a preferenza dell’uomo e dei suoi interessi. La Bibbia quindi e sulla sua scia, più tardi, il Corano sono i pilastri di questo ‘congenito’ fondamentalismo delle religioni abramitiche …

Oggi, c’è sicuramente una grande differenza tra il mondo arabo e l’Islam e perfino tra la civiltà islamica (non solo araba) e l’Islam. Si può anzi dire che oggi tale dicotomia sia piuttosto diffusa tra i musulmani. Molti si sentono ‘musulmani’ perché appartenenti alla cultura islamica, al mondo arabo: per molti l’Islam è il segno e la fierezza di un’appartenenza a una comunità, a una civiltà, a una tradizione culturale, storica, artistica, ma non è una scelta di fede.

I fondamentalisti invece sono coloro per i quali l’Islam diventa, o meglio ridiventa, ciò che per sua natura è: una fede, una scelta interiore totalizzante.

Grazie ad Ali Rashid, abbiamo meglio compreso anche l’uso politico ed economico dell’aspetto religioso, che viene fatto dai livelli di potere intrecciati sia sul piano internazionale, sia tra stati e aree geografiche del mondo arabo. In questa luce l’immagine degli ‘infedeli’ protesi in massa verso un attacco all’Occidente appare, rispetto alla realtà di una cultura che resiste cercando di sopravvivere, un delirio strumentale dei governanti occidentali.

La seconda chiarezza che abbiamo guadagnato è quindi che il Fondamentalismo è stato e può essere manovrato dall’alto e da altrove.

La terza è che il Fondamentalismo viene anche identificato da alcuni gruppi in modo autentico e spontaneo, come ultimo rifugio, ultimo ancoraggio e radicamento per l’identità individuale e collettiva, di fronte all’imposizione di modelli culturali estranei.

E’ quindi vero, e su questo ci siamo trovati pienamente d’accordo tutti e tre, che si sta configurando sempre più una contrapposizione e uno scontro tra due mondi, due culture, non tanto tra due o più religioni come alcuni vorrebbero far credere, riproponendo una cornice storica antiquata.

Come sta dimostrando la recente evoluzione globale sul tema della pace e della guerra, si è formata una trasversalità di solidarietà che rappresenta la contrapposizione tra modello socio-economico occidentale americano e altri modelli, tra i quali includere quello arabo e fondamentalista. Tacciare di antiamericanismo la critica al modello economico-culturale di cui proprio gli americani sono stati i primi portavoce con i movimenti di protesta degli anni ’60 e ’70 e con l’attuale dissenso represso dai media, è un'altra forma di manipolazione psicologica di massa che finisce proprio per realizzare una maggiore contrapposizione.

Mi pare che emerga, nel movimento generale di oggi, una forza, una aggregazione difensiva, spontanea e imprevista, che si raccoglie intorno a un valore interiore, morale, solidale, che le religioni ufficiali, non a caso riavvicinate tra loro, stanno tentando di reintrodurre anche sul piano politico internazionale, prima in occasione delle minacce di guerra e poi in presenza della guerra stessa. Come un ritorno macroscopico della religione – chissà se anche dello Spirito? - in funzione anti-materialista , come opposizione a un sistema che la società americana continua a diffondere, e in alcuni casi imporre al mondo intero. Anche le intellettualità occidentali sono confuse, dopo un secolo di filosofie, di mode culturali, di pratiche sociali e politiche, di contaminazioni e trasformazioni nelle quali si è persa di vista l’essenzialità di alcuni valori fondamentali di cui la psicologia degli esseri umani sembra aver bisogno, al di là della forma che essi prendono in ogni specifica cultura. Gli archetipi dell’inconscio collettivo, a cui Jung ci ha introdotto, sono sempre attivi, anche sotto la confusione, come lo sono gli ‘istinti dello Spirito’ e il bisogno del Sacro, i quali se rimossi da un sistema sociale ateo o laico, finiscono per rinforzarsi sotto altre forme – dilagare della superstizione, della magia, di forme religiose alternative oppure di deviazioni perverse.

Il Fondamentalismo degli ultimi decenni, e l’Islam religioso a cui anche molti europei si sono convertiti, ha preso vita nella grossa crepa che si è aperta nel sistema socio-economico occidentale, gradualmente entrato anche nei paesi arabi a diverso titolo, ma con la sempre maggiore evidenza dell’interesse utilitaristico verso le loro risorse petrolifere. Una crepa diventata sempre più ampia, data l’incongruenza dei due modelli che si trovano agli antipodi da tutti i punti di vista, e sempre meno contenibile attraverso l’esclusivo interesse economico che nega rispetto ai fattori collettivi psicologici e religioso-culturali. Allora, la religione diventa il contenitore dell’identità che non si può corrompere né violentare.

Per Dag Tessore:

Il fondamentalismo è sovente una sincera scelta di fede; in un certo senso è il modo più autentico di vivere la religione e di aderire ad essa. Il terrorismo invece può avere motivazioni tutt’altro che religiose. Ciononostante sarebbe un errore – credo – affermare che il terrorismo è sempre inconciliabile con una genuina religiosità. “Terrorizzare il nemico di Dio”, per usare un’espressione del Corano (VIII,60), è in molti casi un atto coerente con la religione, come lo è la guerra giusta.

Cercando di elaborare ulteriormente sul Fondamentalismo in rapporto al terrorismo, ne abbiamo isolato la forma dell’estremo atto dei giovani kamikaze palestinesi, i quali, per difendere la propria terra - ovvero ciò che di essa rimane nel racconto degli adulti e dei vecchi e nella vita ridotta e controllata di quell’arcipelago di luoghi concessi al popolo palestinese - sono disposti a morire. La violenza che vista dall’esterno viene associata al fenomeno religioso, è difficilmente distinguibile dall’amor patrio che in molti altri luoghi sulla Terra ha spinto e spinge tuttora gli esseri umani a morire e a uccidere per salvaguardare il proprio spazio vitale e la propria identità culturale.

In Palestina, contrariamente ad altri paesi del mondo islamico, l’elemento fondamentalista assume aspetti particolari, legati alle vicende territoriali, altrove meno marcate o del tutto assenti.

Ovviamente la parola di Ali Rashid è stata, in questo argomento, quella più carica di autorevolezza e di profondità.

Il kamikaze è una figura nuova, è un prodotto recente e di diversa natura a seconda del contesto in cui avviene . Non c’è nulla di comune ad esempio tra i protagonisti dell’attacco del 11 settembre ed i ragazzi palestinesi che si fanno esplodere contro obbiettivi civili e militari israeliani. I primi sono il frutto di una ideologia che abbraccia l’Islam come imprecisato modello di vita totalizzante votato alla causa della supremazia dell’Islam. Questa ideologia è una emanazione della scuola Wahabita che ha avuto tutto il tempo per diffondersi nella penisola arabica in cui era anche la religione di stato, così come ha avuto modo di diffondersi nel mondo islamico grazie alle ingenti risorse messe a disposizione dal governo saudita con la complicità degli Stati Uniti, rappresentando lo strumento principale per opporsi al movimento progressista nell’area e nel terzo mondo. Questo movimento è entrato in rotta di collisione con gli Stati Uniti dopo la fine della guerra in Afghanistan ed ha deciso di proseguire la sua battaglia nel mondo arabo contro alcuni regimi amici degli americani e a favore della costruzione di uno stato islamico.

In Palestina questo fenomeno non è ideologico e riguarda giovani di estrazione sociale e culturale diversa. La maggiore parte di essi non vengono da ambienti particolarmente religiosi, al contrario essi provengono da esperienze e da militanze in organizzazioni laiche. Il fenomeno va studiato con una chiave di lettura che ha a che fare con la storia del popolo palestinese negli ultimi cinquanta anni e con la natura dello stato di Israele.

Il conflitto israelo-palestinese è diverso da tutti gli altri conflitti, non è una guerra tra due stati, ma tra una delle potenze militari più forti del mondo ed un popolo inerme, un conflitto che ha significato l’insediamento di un popolo raccolto da diversi parti del mondo al posto di un popolo autoctono, un conflitto per cui l’affermazione del diritto di Israele ad esistere ha significato la cancellazione della Palestina dalla toponomastica ufficiale, e per cui l’affermazione del diritto degli ebrei ad avere un loro stato ha significato la cancellazione e la negazione di ogni forma di diritto dei palestinesi. Israele, nel suo progetto, non ha mai previsto una soluzione politica alla questione palestinese e, quaranta anni fa, aveva addirittura negato la stessa esistenza del popolo palestinese. La situazione è emersa con tutta la sua gravità, dopo l’assassinio del primo ministro israeliano da parte di un integralista ebreo, per avere firmato un accordo politico con i palestinesi e dopo l’avvento della destra politica e religiosa al potere. Il ritorno alla vecchia politica ha come obbiettivo sradicare i palestinesi dalla loro terra attraverso l’incremento del processo di colonizzazione selvaggia e rendere impossibile la loro vita normale. La violenza israeliana ha ormai raggiunto tutti i momenti anche più intimi della vita quotidiana. A questo va aggiunto anche un crollo verticale della fiducia dei palestinesi nel loro gruppo dirigente, che si è dimostrato non all’altezza della situazione sotto tutti i punti di vista, particolarmente per via di un alto tasso di corruzione. La soffocante repressione insieme alla profonda delusione hanno generato una situazione di totale smarrimento, un circolo chiuso dovuto anche allo schieramento totale da parte degli Stati Uniti con Israele e alla paralisi delle Nazioni Unite e della comunità internazionale. L’atteggiamento negativo dei mezzi di informazione, a causa del peso che esercitano le comunità ebraiche in questo settore, completa l’insieme dei fattori che hanno creato una situazione senza via di uscita per tutti ed in modo particolare per i giovani palestinesi.

Per molti di loro, questo gesto drammatico viene considerato come unica scelta libera in una situazione di morte lenta ma incombente. Le testimonianze lasciate mettono in evidenza l’atto di generosità nei confronti di chi rimane in vita. E’ un fenomeno destinato ad allargarsi, se non intervengono elementi concreti da parte della comunità internazionale, che possano alleviare il senso di isolamento e di fine che regnano sovrani in Palestina e che colpiscono in modo particolare i più giovani.

A questo proposito bisogna fare distinzione tra il kamikaze e il loro mandante, in quanto figure completamente diverse. Mentre il secondo è una persona inquadrata politicamente ed ideologicamente, il primo appartiene ad una generazione molto più giovane e vittima di una situazione complessa che in sintesi toglie tutti i legami di certezza e di radicamento nel territorio e nella società, intesa nel senso allargato fino al nucleo famigliare più stretto, a causa di un processo di cambiamento accelerato dovuto all’uso massiccio e senza limiti della forza da parte israeliana.

Vari elementi possono chiarire le condizioni di smarrimento, estraniazione e di profondo dolore che accompagnano sempre questa scelta tragica e senza ritorno.

Il territorio, nel senso più vasto come luogo fisico di appartenenza nazionale, che è frastagliato in pezzettini, seminato da colonie ebraiche che funzionano da corpi estranei che impediscono la continuità fisica e il passaggio da una parte all’altra senza autorizzazione, difficile da ottenere, da chi viene visto come usurpatore e prepotente; il territorio nel senso più stretto, come quartiere e casa , cioè luogo fisico per la vita materiale, il quale subisce anch’esso una degenerazione continua che annulla il significato di luogo sicuro e privato: la casa stessa può essere demolita in qualsiasi momento e molte volte senza concedere il tempo per metter in salvo i pochi oggetti che rimangono. La letteratura palestinese dall’inizio degli anni ’50 fino oggi è piena di toccanti riferimenti di rara bellezza alla terra, alla casa e agli alberi persi dopo la nascita dello stato d’Israele, che continuano ad essere un punto di riferimento culturale e di identità. Non è stato abbandonato il sogno, affinché un giorno si possa fare ritorno. In tutte le case dei profughi espulsi nel 1948 - due terzi dei palestinesi! - le chiavi della vecchia casa, che molte volte è stata distrutta o abitata da altri, sono appese sul posto più visibile nella nuova dimora provvisoria in diaspora. Inoltre, l’indebolimento della figura paterna : essa è quella che ha subito maggiore danno e destabilizzazione. Dopo una improvvisa povertà economica a causa della disoccupazione e dopo la scomparsa dell’elemento terra come fonte di reddito, tutte le funzioni inerenti alla sicurezza sociale, economica e di protezione, tradizionalmente legate alla figura paterna, sono venute meno con una crisi di autostima e di stima da parte del nucleo famigliare. Molte volte sono i figli giovani a ribellarsi contro l’umiliazione del padre davanti ai posti di blocco che quotidianamente bisogna superare per recarsi al lavoro o a scuola o per svolgere qualsiasi attività, compreso l’accompagnamento della moglie all’ospedale per partorire.

Infine, le autorità politiche : tutti hanno avuto il modo di vedere Arafat, il presidente dell’Autorità Nazionale Palestinese, confinato nel suo quartiere generale, mentre le ruspe israeliane glielo stavano demolendo addosso. Abbiamo visto anche l’impotenza della comunità internazionale di fronte all’arroganza israeliana e in situazioni di completa disperazione e desolazione, dove i ragazzini lanciano pietre contro i carri armati, tentando di proteggere il loro presidente e simbolo, in qualche modo. Intere generazioni vivono in una situazione completamente rovesciata, dove tutti i valori sono rovesciati compreso lo stesso valore e senso della vita. In questa situazione è nato il fenomeno kamikaze che con l’attuale guerra di Bush, il quale ha adottato lo stesso linguaggio e gli stessi metodi di Sharon su scala molto più larga, assume l’evidente richiamo alla forza come unica fonte di diritto.

Riflettendo sullo stato psicologico collettivo e individuale del popolo palestinese, sono emerse nel nostro dialogo espressioni come la terra dentro , oppure l’anima senza terra . Di certo l’identificazione tra sé e luogo è o è diventata, per i Palestinesi rimasti nei campi, l’unica ragione di vita. E’ sconcertante ricordare che per migliaia di anni su quella terra abbiano convissuto diversi gruppi e anche diverse religioni e che oggi non c’è motivo di pensare che un gruppo abbia più ragioni dell’altro a impossessarsene totalmente. Infatti, come osserva Dag Tessore:

Non possiamo qui non pensare alla speciale “santità” della terra di Palestina, santità particolarmente cara agli ebrei. Quello che potremmo chiamare il padre dell’odierno integralismo ebraico, Avraham Yitzhaq Kook, scriveva ai primi del ‘900: “La Terra di Israele fa parte dell’anima stessa del popolo di Israele; non si tratta solo di una rivendicazione di tipo nazionalista (…). La ragione umana, anche nelle sue vette speculative più alte, non può rendersi conto della santità unica della Terra di Israele: non è in grado di comprendere il legame d’amore che unisce ciascuno di noi a questa Terra”.

Gli stessi motivi sono dunque alla base dell’attaccamento per la stessa terra da parte dei palestinesi, degli ebrei e anche dei cristiani.

Abbiamo anche concordato nell’interpretare la figura del giovane kamikaze come animata da un irriducibile bisogno di vivere, anche a costo della vita stessa.

Ali Rashid afferma che la religione e la cultura palestinese sono storicamente estranee al fondamentalismo e alla violenza terrorista e che il fenomeno estremo dei kamikaze è definitivamente legato alle condizioni altrettanto estreme dell’attuale situazione politica con Israele. Una ribellione, una resistenza politica.

Dag Tessore allarga il tema, sottolineando quello sprezzo della vita che accompagna il credente nell’Islam, per il quale morire fisicamente, e farlo in nome di Dio non è una gran perdita:

Affrontare la morte è in tutte le religioni un aspetto fondamentale dell’esistenza. La morte è per così dire colei che dà senso alla vita. E’ quella benedetta “sorella nostra morte corporale” per la quale San Francesco lodava e ringraziava Dio. Essa infatti è la sorella e amica o, come la chiama la Bibbia, “l’angelo del Signore”, che viene accanto ad ogni uomo per dargli la possibilità di vivere la propria vita nel modo più pieno, più vero e più autentico. E’ per questo che la guerra, in quanto luogo d’incontro privilegiato con “Madonna Morte”, diventa una sorta di Liturgia della Morte e Sacramento di Vita (vita nel senso più vero e più profondo del termine). E non c’è da stupirsi allora che le grandi religioni, compresi l’Islam e il Cristianesimo, abbiano visto nella guerra una delle forme più sublimi e più alte di pratica religiosa, una vera e propria strada maestra verso Dio. Come diceva un filosofo indiano medievale, Ramanuja: “Fare guerra è ciò che conduce alla Liberazione Suprema, che è il traguardo ultimo dell’uomo”…

A proposito di terrorismo, spesso le parole vengono usate per dare una connotazione negativa ad un fenomeno che potrebbe anche essere considerato positivo, e viceversa. I Maccabei, ad esempio, furono senz’altro dei ‘terroristi’ , ma sia gli ebrei che i cristiani li venerano come santi e martiri. E così pure Bin Laden è un ‘terrorista’, un ‘criminale’ … o forse un eroe: “Se liberare il mio paese – dirà egli stesso – mi porta ad essere bollato come terrorista, è un grande onore per me esserlo!”.

Io, la psicologa analista, mi sono appoggiata al tema della disperazione. Questo stato psicologico di isolamento senza uscita, di perdita di sé e del proprio gruppo, dopo una vita vissuta nella costrizione e nella minaccia dell’estinzione, nell’immagine di un futuro troncato, diventa una miscela letteralmente esposiva, quell’andare in pezzi che culmina nel suicidio. Nel caso del kamikaze in guerra, quest’ultima difesa della dignità avviene attraverso un atto che non è solo personale, privato, in cui il suicidio/attacco omicida, si trasforma in testimonianza collettiva.

La morte viene scelta consapevolmente, anticipata invece di essere attesa e subita, e nella situazione di cui parliamo, essa viene resa strumento politico. Si può anche aggiungere un altro risvolto interpretativo: un’operazione di riscatto dei figli nei confronti dei padri, il riappropriarsi della propria terra dentro, portandosela con sé e rimanendo, attaverso una morte così definita, come un segno inciso nella storia del proprio gruppo, della famiglia, e della comunità. Il figlio che restituisce dignità ai padri offesi, che li vendica, che si sentirebbe troppo in colpa a non reagire, a non esistere in qualche modo. Di nuovo un morire per non morire almeno nella memoria collettiva, come testimonia la lapide che in ogni paese ricorda i suoi caduti in guerra.

Alla psicologa analista può già bastare questo. Che poi tale morte sia accompagnata, animata, consolata dalla voce del dio, da un dio che la rende giusta, da un dio che storicamente autorizzerebbe a una guerra addirittura santa, risulta più estraneo alla mia comprensione e quindi lascio a Dag Tessore e a tutti i numerosi autori che hanno indagato la sacralità della violenza, le ombre oscure di Dioniso, le estreme possessioni in cui vita e morte si esaltano, le spiegazioni più convincenti. Mi viene da notare, appena di sfuggita, che forse da donna mi è difficile entrare appieno in questa cruda dimensione psicologica della guerra e del guerriero. Ma un ragionamento sull’interrogativo se la guerra sia o meno cosa da uomini, sarebbe qui poco rilevante. Mentre forse, come osserva Dag Tessore nel nostro dialogo:

Sarebbe interessante soffermarsi a riflettere sulla differenza psicologica, religiosa e sociale tra il suicidio dei kamikaze in Palestina e il suicidio per noia di vivere e per nausea di benessere nei paesi ricchi, tranquilli e ‘progrediti’ .

Avviandomi a concludere più volte, nel nostro dialogo, ho sentito il bisogno di avvicinarmi alle persone reali, alle storie individuali, per poter guardare ai fenomeni collettivi con un senso più autentico delle dinamiche interiori e delle dinamiche dei piccoli gruppi, passando attraverso destini che illustrino e illuminino gli eventi. Su questa mia esigenza è arrivata in nostro aiuto, chiamata da Ali Rashid, Paola Ghiglione, che fa parte dell'associazione KUFIA, il cui obiettivo principale è rompere l'isolamento in cui si trova la società palestinese utilizzando le varie forme di espressione culturale come veicolo di comunicazione. In un mondo come il nostro dove la televisione e la stampa sembra rendano tutto presente e accessibile, ma anche ovvio e scontato, il racconto del viaggiatore, di chi ha visto e sentito, con tutto se stesso, ridiventa dal punto di vista psicologico un contributo prezioso, un contributo di anima.

Dal suo diario di una visita al campo di Jenin, dopo 4 mesi dal più violento e distruttivo degli attacchi israeliani, l’incontro con un futuro kamikaze.

Jenin, Agosto 2002

… Nei Territori Occupati, l'esercito israeliano apre e chiude città e strade nel giro di poche ore: non è raro rimanere intrappolati perché all'improvviso scatta il coprifuoco. La persona che mi accompagna al campo mi rassicura, basta tornare entro le tre e andrà tutto bene.

Juliano Mer, così si chiama il mio accompagnatore, è un famoso attore israeliano, figlio di madre ebrea e padre palestinese, molto impegnato politicamente, che vive a Haifa e va regolarmente a Jenin, coprifuoco permettendo, due o tre volte alla settimana…Arna, sua madre, è una specie di icona per la gente di Jenin: per anni, si può dire per quasi tutta la sua vita, si è dedicata ai bambini del campo. Per loro ha creato un centro ricreativo, ha sfidato bombe e coprifuoco con giochi e animazioni, ha riempito il campo con i canti e i disegni colorati dei bambini. A chi le chiedeva perché lei, ebrea, rimanesse "dall'altra parte" a subire la devastazione della Palestina, rispondeva che gli alberi restano dove sono stati piantati. E Arna è rimasta nella terra della sua gente, anche dopo la morte, sepolta in un prato sotto una lapide dove si legge solo il suo nome…

Con il checkpoint alle spalle ho la sensazione di essere davvero in Palestina, forse perché riesco a percepirla meglio, finalmente ne vedo i colori, ne sento la lingua e i suoni, persino la luce del sole sembra diversa. Percepisco l'oriente e il mediterraneo, finalmente, e le cassette allineate lungo la strada sono piene di fichi d'india, prodotti di questa terra e non di altri continenti, come gli avocado dei kibbutz. È una percezione piacevole che però porta con sé un dolore, il dolore per questa terra costretta a cambiare volto, a indossare abiti e profumi non suoi, a ospitare semi di piante che non le appartengono, derubata delle sue acque, dei suoi alberi e dei suoi animali, svuotata della sua gente e delle sue parole. Il confine tracciato dai checkpoint è l'ennesima lacerazione, segna un solco che divide e allontana due parti della stessa terra. Da questa parte, pur nella disperazione, la terra conserva una maggiore identità e i piccoli ulivi rossi di polvere ai bordi dello sterrato che ci porta a Jenin sono un simbolo di resistenza e di volontà, la volontà di non strappare mai più nessuna radice.

Entrare nel campo di Jenin in auto è un po' come rivedere un servizio trasmesso in TV, solo con i colori più forti e l'odore di gomma bruciata. Fuori dal finestrino, scorrono le pareti sfondate delle case, frotte di bambini corrono e alzano le mani nel simbolo della vittoria, passano donne velate e qualche anziano siede sulla soglia di casa o in quello che ne resta. Ma dietro l'angolo c'è qualcosa che lascia allibiti, che annulla il pensiero tanto è surreale e spaventosamente reale. Scendo dall'auto e mi fermo a guardare l'enorme cumulo di macerie, provando una sensazione di vertigine come se mi trovassi sull'orlo di un burrone. Ci sono camion che vanno avanti e indietro, tecnici con la pettorina gialla con la scritta UN e l'elmetto in testa parlano nelle ricetrasmittenti e prendono appunti, chissà su che cosa. Alcune donne e tanti, tantissimi bambini, rovistano tra le pietre alla ricerca di qualche residuo di casa, cercano ancora qualche oggetto o un giocattolo, cercano ancora, dopo quattro mesi. Nessuno cerca più i morti, che sono tanti là sotto. Qualcuno è riuscito a seppellirseli da solo, come Zakaria, che ha perso il padre, un fratellino e la madre nella follia di Jenin…Anche lui ha rischiato di morire, una bomba ha lasciato sul suo bellissimo viso una manciata di piccole macchie nere, lentiggini di polvere da sparo. I suoi occhi sono neri e profondi, buoni, discreti e pacati come il suo tono di voce. C'è uno sguardo in quegli occhi che non riesco a definire. È lo stesso sguardo che ritroverò negli occhi di Alàa, il leader della resistenza, il ricercato numero uno. Un altro ragazzo…

Mi accompagnano fin lassù, davanti alla casa dove incontro Alàa.

Sembra un ragazzo timido, il leader. Era un bambino timido quando studiava recitazione alla scuola di Juliano, non smaniava per essere protagonista. Gli piaceva quando gli affidavano il ruolo di saggio, dell'anziano autorevole che tutti ascoltano con grande rispetto. Studiava con molta attenzione le sue battute e le recitava con una solennità che a volte stupiva il suo stesso maestro. Finite le prove, si calcava il berretto blu sulla testa e tornava a saltare nelle pozzanghere del campo. O a tirare pietre ai tank israeliani insieme a Yussef, Imad, Zakaria e tutti gli altri. Allora lì, forte del sostegno del branco, dimenticava la sua timidezza, alzava il braccio e la pietra partiva con tutto il suo carico di rabbia e di frustrazione. Era il più piccolo di tutti Alàa, il più minuto, ma la sua pietra disegnava la parabola più alta o saettava a mezz'aria come il proiettile di una pistola. Come quella di Zakaria o di Yussef, la pietra di Alàa era chiara, morbida, forse l'avevano staccata dalla facciata di una casa o forse veniva dal selciato di un villaggio che non c'è più. C'era della terra in quella pietra, le radici di un albero secolare, il sudore della fatica, il vino delle nozze, il sangue della nascita e della morte. Tutta la storia di un popolo che si sbriciola contro il ferro di un carrarmato, che non si accontenta di aver vinto, e spara…

Sembra che l'umanità abbia esaurito tutte le sue grida di orrore dopo la seconda guerra mondiale e abbia escluso la possibilità, chissà perché, che altri olocausti potessero ripetersi in altre parti del mondo. Il sacrificio degli ebrei ha permesso all'occidente imbarbarito dalla guerra se non di redimersi dai propri peccati, almeno di illudersi di avere ritrovato la strada verso il recupero di quei valori etici che sembravano perduti per sempre nel gorgo della follia nazifascista. Difficile, allora come ora, pensare che proprio l'agnello sacrificale avrebbe iniziato a cacciare altre vittime innocenti. Difficile credere che gli scampati ai forni dei lager avrebbero potuto accettare di privare sistematicamente un altro popolo della terra, delle case, della dignità e del diritto, elementare e terribile, ad esistere…

I nuovi agnelli parlano arabo qui, ma non tutti vogliono essere sacrificati al dio di morte degli ebrei sull'immenso altare della Palestina. Qualcuno, come Alàa, combatte. Ha poco più di vent'anni e un sorriso da bambino, timido. Mi scruta, quando i nostri occhi si incontrano, abbassa i suoi. Due occhi grandi, scuri, con quello sguardo che non riesco a decifrare, sotto il berretto blu. Mi dice subito che sua moglie è all'ultimo mese di gravidanza e non aggiunge altro, fa un mezzo sorriso e lascia che io immagini il resto. È preoccupato, il nemico non ha pietà per nessuno, figuriamoci per la moglie e il figlio di un ricercato. Né l'avrà per i suoi genitori, ai quali pochi giorni prima i soldati israeliani hanno detto "vostro figlio ha 15 giorni di tempo per consegnarsi, poi vi faremo saltare la casa". Lo faranno, lo hanno già fatto. Inizio a capire quello sguardo, la tenacia della sua dolcezza fa male. Vedo un orgoglio misurato, una dignità che non teme smentite, vedo il dolore della separazione, la solitudine, l'assenza di futuro e di alternative, eppure l'amore per la vita e per l'amore. Sono gli occhi di un ragazzo che ama la vita e che per questo morirà presto…Un leader che ha voluto diventare padre e forse voleva diventare regista…

…Apro gli occhi, spengo la televisione. L'esercito israeliano ha ucciso due palestinesi a Jenin, due capi della resistenza. Nessun nome, ma sono sicura che Alàa non c'è più. Riesco a parlare con Juliano qualche giorno dopo, mi conferma che uno era Alàa, l'altro Imad. Imad, un altro ragazzo di Arna, ci aveva accompagnato a visitare la scuola materna. Rivedo Alàa con il berretto blu, gli sono grata per quello sguardo che da allora è rimasto con me. Ripenso al mio stupore di fronte a quel ragazzo con la morte addosso che vuole sapere come sarà il nuovo centro culturale e mi vergogno, il mio amore per la vita è davvero poca cosa rispetto al suo. E penso a Zakaria, ora il ricercato numero uno, che legge ancora Cechov. Spetta a noi fare in modo che possa continuare a leggerlo e a recitarlo.

Note

(1) AVV, Psiche e guerra , Immagini dall’interno, a cura di A.M. Sassone, Manifestolibri, 2002

(2) Centro di informazione israeliano per i diritti umani nei territori occupati; HYPERLINK http://www.alternative www.alternativenews.org , Alternative Information Center, associazione israelo-palestinese di analisi indipendente; electronicintifada.net, Portale palestinese che raccoglie commenti, analisi e iniziative sul conflitto in Medio Oriente; articoli e interviste sui refuseniks nelle riviste suggerite in bibliografia

(3) Nicholson, R., Sufismo e mistica islamica (1914), Fratelli Melita editore, s.l. 1988; Corbin H., Storia della filosofia islamica (1964), Adelphi, Milano, 1973

(4) D. Tessore, La mistica della guerra: Spiritualità delle armi nel cristianesimo e nell’islam , p. 6.

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Nessuno può uccidere nessuno. Mai. Nemmeno per difendersi.