A PROPOSITO del
rapporto tra i «centrosinistri» e la guerra inviterei
a non far finta Adi credere che sussistano veri spazi di manovra:
attendersi una politica pacifista da questo governo è una bufala.
Se anche Lidia Menapace [Carta n.26] inizia a parlare in politichese,
possiamo immaginarci i soliloqui di Minniti o di Parisi
! Per
loro:
- in Iraq cè la guerra [nb: definita come tale non perché
si bombarda o si uccide, ma perché lo si fa senza lOnu
o la Nato]; lItalia però è lì, comunque
e sempre, in «missione di pace»;
- in Afghanistan non cè la guerra [non si può
definire tale in quanto lintervento è allinterno
della Nato
], ma una missione di pace, che va potenziata [persiste
così la «guerra umanitaria», mostro mutante inventato
dal pacifista DAlema per i poveri ex-jugoslavi, e mai abiurato];
- la sfilata militare del 2 giugno [fantasma resuscitato dal pacifista
Ciampi] rappresenta il fulcro dellunità della Repubblica
e il simbolo di una logica securitaria a tutto campo, condivisa da
entrambi gli schieramenti.
Mi pare che su questi assunti non ci sia timore di essere smentiti
da questo governo, né oggi né in futuro.
Ma la crisi, l«inesistenza in vita» del movi mento
pacifista, deriva solo in minima parte dal suo «non riconoscimento»
da parte dei governi [sedicenti «amici» o «nemici»
che siano
]. E neppure, a mio parere, da una presunta forza degli
avversari [mai come oggi in difficoltà, politica e militare,
su tutti i fronti].
La crisi del movimento
è soprattutto sua propria. E non è di oggi, e non è
italiana.
È la crisi, spero definitiva, del Pacifismo, di quel movimento
progressista, nato nel 1789, con la Rivoluzione francese, e morto
nel 1989, con la caduta del Muro e la prima Guerra del Golfo.
Quali sono [state] le sue caratteristiche portanti? Almeno tre:
1. Il pacifismo giuridico, fondato sulla convinzione che il diritto,
attraverso la stesura di trattati e convenzioni, possa controllare
e delimitare la guerra. Illusione mortale, ancora oggicoltivata nonostante
il 900 ad esempio dallaTavola della Pace [vedi la piattaforma
dellultimamarcia Perugia-Assisi] .
Il pacifismo è morto proprio perchè continua ad appellarsi
ancora oggi, ad esempio, allarticolo 11 della Costituzione o
alla Carta dellOnu. Ma fa riferimento soltanto alle parti che
gli convengono [le dichiarazioni ideali iniziali, fiore di qualunque
retorica postbellica], ma non a quelle che le implementano operativamente
[le alleanze militari o le operazioni di polizia internazionale, che
comportano e permettono lintervento armato in condizioni di
legalità formale]. I politici [anche centrosinistri] utilizzano
proprio i frutti avvelenati del pacifismo giuridico, facendosi da
sempre
giustamente sberleffo delle sue interpretazioni illuminate [a mio
modesto parere ben più parziali e mistificanti di quelle che
giustificano il ricorsoalle armi].
2. Linternazionalismo solidale, fondato sulla convinzione che
il progresso sia connesso alla crescita economica e che la cooperazione
allo sviluppo condurrà ad un mondo benestante e pacifico.
Il pacifismo è morto proprio perché non vuole fare i
conti con il proprio modello di sviluppo, i propri stili di vita,
il proprio «benessere». Il sindacato ha come priorità
il lavoro e la produzione, compreso quello nellindustria bellica,
e non ha alcuna intenzione di rinunciarci: la pace può attendere.
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Le Ong e le associazioni
sono perlopiù oggi organizzazioni governative, finanziate [poco]
con quel che resta dai bilanci di guerra e operanti su progetti ambigui
sempre più collaterali ai politici e ai militari di turno.
Come ci si potrebbe attendere un vero movimento per la pace quando
le sue forze più strutturate, pur dichiarandosi pacifiste,
vivono quotidianamente di
sviluppo e di guerra?
3. Il ritualismo
espressivo, consistente nellassunzione di metodologie di discussione,
decisione, rappresentanza e rappresentazione politica mutuate dal
movimento operaio della fine del XIX secolo [assemblea, sciopero,
corteo
].
Il pacifismo è morto perché continua ad incontrarsi
e a manifestare come se non fosse cambiato tutto [è sufficiente
assistere ad un social forum o ad una manifestazione per verificarlo].
Le pratiche a rete, il metodo del consenso, le azioni dirette «nonviolente»
e «disobbedienti», la guerriglia semiologica restano patrimonio
di nicchia, talvolta tollerate, ma certo non accolte dalla prassi
ordinaria dei movimenti.
La pace è meno «forte» della guerra, in primo luogo
a un livello mitopoietico, simbolico, estetico.
La guerra permea sempre più la nostra vita, la sua «microfisica»
profonda e apparente; la pace non persuade, non convince, non attrae,
non «prende». È ripetitiva, è spenta, è
moralista, noiosa.
Quel che sta accadendo oggi nel mondo costringe il pacifismo allestinzione.
La sua attuale crisi non è quindi casuale, né
temporanea. Questa «pace» è stata ormai inghiottita,
divorata dalla guerra. È sempre stata inscritta in essa, ma
oggi possiamo finalmente vedere questo fatto con la massima evidenza,senza
più mascheramenti retorici ed ideologici. Soltanto una trasformazione
profonda delle sue premesse potrebbe far nascere qualcosa di nuovo.
Marcos si è assunto un compito di questo genere, nelle montagne
del sud-est messicano.
È un compito immane, che avreb be bisogno della presenza, dei
corpi e dellintelligenza di molti.
Avrebbe bisogno di molto coraggio: le persone e le organizzazioni
dovrebbero iniziare a fare quello che temono più di qualunque
altra cosa al mondo, anche più della guerra: cambiare.
Non è facile e non è probabile che questo accada, soprattutto
se si pensa ancora, come da noi, di aver troppo da perdere. Ma sarebbe
incredibilmente significativo se proprio qui, in Italia, si iniziasse
ad affrontare la crisi ad un livello adeguato, con più franchezza,
condivisione, consapevolezza. Se il movimento fosse capace di avviare
una vera autocritica che, da Genova in poi, non è mai avvenuta.
Ma forse è chiedere troppo. È più facile fare
la questua alle porte del Palazzo, fingendo di credere che lì
dentro cè qualcuno che ci assomiglia e che, se ben chiederemo,
ci aprirà.
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