Che i capitalisti sfruttino non è certo
una novità. Anzi. Ma in Italia, terra di genti ingegnose
e «furbe», si assiste a una variante decisamente originale.
Gli imprenditori depredano le imprese di cui sono proprietari. Attraverso
la formula delle stock options si appropriano di profitti che dovrebbero
distribuire agli altri azionisti sotto forma di dividendi. Una pratica
tanto discutibile da non venire nemmeno usata nella patria del capitalismo
moderno, dove sono state inventate le stock options: gli Stati Uniti.
E la «mistica del capitalismo» si spoglia delle sue
mistificazioni teoriche per presentarsi nella sua variante allitaliana:
un modo volgare, ma legale, per «rubare». Così
Editor, pseudonimo di un noto giornalista economico, analizza il
capitalismo italiano degli anni Duemila.
I casi si moltiplicano. Il più clamoroso
finora riguarda Marco Tronchetti Provera, primo azionista della
Pirelli. Quando il suo gruppo, nel settembre 2000, ha ceduto allamericana
Corning la controllata Optical technologies per 3,43 miliardi di
dollari (oltre 7.500 miliardi di lire), ha potuto esercitare una
stock options pari al 6 per cento del capitale. Ha così incassato
personalmente 491 miliardi. Un altro esempio significativo è
quello di Roberto Colaninno, presidente e azionista di riferimento
alla Telecom, che fra il 1999 e il 2001 ha messo nelle sue tasche
72,6 miliardi con le stesse modalità. Grazie cioè
alla formula, in uso per i capi dazienda, che prevede la possibilità
di sottoscrivere titoli della propria società a un costo
prefissato e di ottenerne (rivendendole entro un certo periodo di
tempo) un relativo guadagno, dato appunto dalla differenza fra il
prezzo garantito a suo tempo e il valore riconosciuto dal mercato
alle azioni, nel momento in cui quellopzione viene esercitata.
Si trovano poi ulteriori testimonianze in molte compagnie di primo
piano: dalla Gucci di Domenico De Sole e Tom Ford alla Finpart di
Gianluigi Facchini, dalla Luxottica di Leonardo Del Vecchio alla
Bulgari di Francesco Trapani. Nasce da questo fenomeno il conio
di un neologismo, capitalismo manageriale, non propriamente lusinghiero.
In verità la formula delle stock options non costituisce,
in sé, una novità. Nata negli Stati Uniti, dopo un
lungo periodo di sporadiche sperimentazioni in Europa si sta ora
diffondendo con maggiore rapidità, in particolare in Italia.
Sia nella versione meglio conosciuta di premi retributivi per gli
alti dirigenti; sia in quella meno nota, ma dalle origini più
«nobili», di compartecipazione per tutti i lavoratori.
Si calcola infatti che soltanto il 6 per cento degli addetti beneficiano
di piani dazionariato diffuso contro il 12 per cento dei manager,
mentre il livello medio negli altri paesi
dellUnione europea è esattamente il doppio. Occorre
pure notare che, a livello di alta direzione, la percentuale cosiddetta
variabile dei compensi, legata ai risultati, costituisce ormai il
35 per cento della retribuzione complessiva di tutta la categoria
e che, allinterno di questa quota, il meccanismo delle stock
options oggi ricopre da solo il 16 per cento.
Lassegnazione gratuita o scontata di titoli societari è
stata istituzionalmente concepita per il personale dipendente e
questa caratteristica è enfatizzata proprio nella sua applicazione
ai piani alti delle imprese, essendo strutturata per premiare esclusivamente
gli uomini che ai vertici dellorganizzazione gerarchica detengono
la responsabilità della guida strategica, senza però
far parte della proprietà e senza essere soci. La sua applicazione
ha costituzionalmente la natura di incentivo: in primo luogo per
motivare maggiormente il management di fascia elevata a ottenere
risultati lusinghieri, facendo incrementare il valore di borsa;
in seconda istanza per accrescerne linteresse a restare al
comando di una società in definitiva assai generosa con loro,
senza cedere alle lusinghe della concorrenza dando le dimissioni
e passando al servizio di gruppi rivali.
Come dimostrano i casi più significativi raccontati, questa
pratica di origine anglosassone sta invece prendendo ora in Italia
(e solamente in Italia) una piega diversa. Viene adottata a piene
mani a favore degli stessi azionisti di controllo o di riferimento
delle aziende iscritte ai listini borsistici, di imprese cioè
che sono state quotate dai rispettivi proprietari e amministratori
per raccogliere nuovi capitali sul mercato, coinvolgendo il pubblico
dei risparmiatori e degli investitori facendone altrettanti soci
e promettendo loro di conseguenza unequa ripartizione degli
utili in ragione delle quote detenute. In particolare, lapporto
di capitali effettuato con la sottoscrizione di titoli si basa sulla
premessa di un ritorno dinteressi sotto la forma della suddivisione
dei profitti, chiamati appunto dividendi.
Il fenomeno delle stock options a vantaggio degli azionisti di maggioranza
significa al contrario che parte degli utili generati dallattività
sociale viene deviata o, se si vuole, stornata prima dellassegnazione
pro-quota a favore di tutto lazionariato. E quindi i tradizionali
dividendi di fine anno saranno assai più consistenti per
i soci forti di quelli riservati agli altri sottoscrittori.
Non è un caso che proprio le ultime clamorose e sempre più
frequenti circostanze abbiano sollevato non poche polemiche nello
stesso ristretto ambito imprenditoriale e finanziario. Come ricorda
Michel Foucault (Le parole e le cose, Rizzoli, Milano, 1994): «La
forza simbolica del denaro, capace di eccitare tutte le brame e
tutte le passioni, non deriva dal fascino di una materia preziosa
e nobile, ma dalla consapevolezza che chi si trova a disporne detiene
un diritto nei confronti del quale tutta la società è
obbligata».
In effetti tutto avviene in forma legittima. Per quanto di attuazione
relativamente recente, si tratta di una prassi consolidata, regolata
in modo specifico nei suoi vari aspetti dal codice civile e che
ha trovato un ulteriore e aggiornato quadro di riferimento nel testo
unico della finanza (decreto legislativo numero 58 del 24 febbraio
1998) e nelle cosiddette raccomandazioni di «corporate governance».
Una specie di codice etico varato dalla borsa italiana per rendere
più trasparente la gestione delle società e di conseguenza
più equilibrato il loro rapporto con tutto il pubblico di
«shareholders» (azioni- sti propriamente detti) e «stackholders»
(tutti i soggetti esterni che qualsiasi compagnia, svolgendo la
sua attività, necessariamente coinvolge). Ma il punto non
riguarda la liceità formale. La vera questione in gioco si
riferisce al particolare atteggiamento che il capitalismo italiano
sta disvelando proprio nel momento in cui il mercato mobiliare comincia
a crescere. Sembra materializzarsi una nota immagine di Alexandre
Dumas figlio in La question dargent: «Les affaires?
Cest bien simple: cest largent des autres»
(Gli affari? È semplicissimo: sono i quattrini degli altri).
Invece di apparire più maturo, il nuovo volto dei capitani
dindustria e della finanza si sta decomponendo. «Gli
uomini daffari hanno molta energia. Il problema», ha
scritto Saul Bellow in un romanzo non molto noto, «è
vedere cosa brucia questa energia; vedere cosa si può o non
si può bruciare per produrla». E poiché da tempo
«il denaro ha assunto la funzione di categoria del pensiero»
(Alessandro Comoglio, Le filosofie del denaro, Paravia, Torino,
2000) appare
ragionevole cercare di approfondire. Rispetto al passato più
recente sembra di poter cogliere nello scenario del capitalismo
italiano del Duemila almeno tre fattori distintivi.
Il salto nel tempo
Non è esagerato parlare di assalto. Perché
lopportunità di esercitare le stock options nellarco
di un certo periodo di tempo, e sulla base di un prezzo di partenza
molto vantaggioso, provoca (oltre a quanto visto prima) unaltra
vistosa anomalia.
I «normali azionisti» infatti vedono di solito avverarsi
per i beneficiari di questi privilegi le migliori condizioni possibili
fra tutte quelle ipotizzate contrattualmente, anche quando piazza
Affari attraversa stagioni abbastanza deprimenti come le ultime
trascorse. I titoli non vengono certo scontati quando gli indici
sono al ribasso e il pericolo di eventuali perdite è quindi
scongiurato, mentre resta soltanto da cogliere il momento ideale
per vendere al meglio quando le capitalizzazioni salgono.
Fanno testo a questo proposito i tempi delloperazione Optical
technologies. La concessione gratuita di titoli risale scritturalmente
al 1998, ma viene ufficialmente ratificata dal consiglio damministrazione
il l8 maggio 2000, mentre le prime informazioni sullavvio
delle trattative ufficiali fra Pirelli e Corning emergono a distanza
di poche settimane.
Caratteristiche analoghe si rilevano in un altro clamoroso guadagno
realizzato da Lorenzo Pellicioli, amministratore delegato di Seat
Pagine Gialle. Giovedì 27 luglio 2000, con 3,479 miliardi
di lire, aveva sottoscritto 8.380 azioni di nuova emissione della
società lussemburghese Huit, detentrice del pacchetto di
controllo della stessa Seat, e due settimane dopo, il 10 agosto,
quelle quote erano già state riacquistate dalla stessa capogruppo
per 170 miliardi. In questo modo Pellicioli ha realizzato una plusvalenza
di 166,521 miliardi, ossia di 11,89 miliardi al giorno. Frutto di
un accordo datato 3
marzo 1998, il fantastico premio si legava alla complessa operazione
del valore di 16 mila miliardi che aveva portato Seat in Telecom.
In realtà ha però trovato esecuzione effettiva soltanto
dopo la successiva fusione di Pagine Gialle con Tin.it.
Questa circostanza, oltre ad avvalorare il «tesoretto»
del manager, ha creato un terzo caso. Ha infatti portato sostanziosi
benefici anche ai soci più importanti di Hopa (holding cui
fa capo tutto limpero Telecom), come Emilio Gnutti e Colaninno,
risultati in possesso a titolo personale di azioni delle varie società
coinvolte nelle manovre di fusione e accorpamento. Viene così
confermata una nota teoria espressa, fra gli altri, anche da Vittorio
Mathieu (Filosofia del denaro, Armando, Roma, 1985), secondo cui
la moneta compie il suo effettivo salto di qualità nella
scala dei principi umani quando rompe la dimensione temporale. Più
che portatore in sé di un valore intrinseco e più
che rappresentante di garanzia del valore, il denaro permette infatti
il trasferimento del valore da un periodo di tempo allaltro,
mantenendo la ricchezza come potenzialità più o meno
intatta. È in questa proiezione dellazione nel futuro
che si è fatto complice dellambizione progettuale delluomo,
spingendolo a concepire disegni che sfidano il tempo
biologico della sua stessa vita. Come dicono i filosofi, non assicura
beni, bensì progetti; e quando asseconda questa proiezione
esclusiva dellattività umana entra in una dimensione
teleologica.
Il denaro come unico valore assoluto
Nel Faust di Wolfgang Goethe il denaro è
uno dei grandi artifici di Mefistofele e la speranza di ottenere
«qualcosa» della ricchezza dal «nulla» di
un pezzo di carta viene assimilata alla promessa del serpente ad
Adamo: «eritis sicut dei». A questo si può pensare
guardando alla piazza finanziaria italiana, su cui è dato
di assistere oggi ad altre manifestazioni sostanzialmente improprie
(seppure giuridicamente corrette) che hanno registrato lapice
della loro preoccupante diffusione durante la grande stagione della
«new economy».
Sulla scia del solito modello doltreoceano, il Nasdaq americano,
sono state infatti quotate in poche settimane molte società
neonate, in particolare al nuovo mercato dei titoli tecnologici,
definite generalmente «dot.com» per via di non sempre
chiari collegamenti con il mondo di Internet. In base allinedito
regolamento di ammissione dedicato alle società che si trovano
al debutto dellattività e che non possono contare su
esercizi precedenti e su bilanci passati, i loro fondatori hanno
fatto leva su una clausola chiamata «lock up». Per ottenere
il credito di fiducia necessario a mettere in vendita dal 30 per
cento al 50 per cento di titoli privi di riscontri economici e con
un valore soltanto stimato dalle banche o dagli analisti finanziari,
si sono cioè impegnati a conservare tutto il resto delle
azioni emesse per un certo periodo di anni.
Eppure, alla realtà dei fatti, le cose sono andate diversamente.
Un esempio per tutti riguarda Carlo De Benedetti, anche se la casistica
(da Pierluigi Crudele di Finmatica a Virgilio Degiovanni di Freedomland,
da Luigi Orsi Carbone di e.Planet a Francesco Micheli e Silvio Scaglia
di e.Biscom) è folta. Il 20 marzo 2000 De Benedetti ha portato
a piazza Affari la sua ultima creatura, Cdb Web Tech, con soli 11
dipendenti, di cui si era riservato la quota del 57 per cento. Il
resto era stato prontamente collocato, tanto che nei primi giorni
i valori si erano impennati del 98 per cento, raggiungendo una capitalizzazione
globale pari a 14 mila miliardi. Oggi la quotazione è scesa
da 76 a meno di 7 euro, ma De Benedetti non ha più il 57
per cento. Il 23 marzo 2000 aveva per esempio già venduto
un pacchetto pari al 5 per cento intascando circa 300 miliardi:
100 miliardi al giorno!
Con ogni probabilità non appare chiaramente intelleggibile
la differenza fra queste matricole e le cosiddette scatole vuote
o scatole cinesi che hanno sempre costituito il lato oscuro del
listino. Negli usi di borsa appaiono tutti marchingegni per alimentare
la speculazione pura e semplice. I titoli delle società-scatole
non erano (e in parte non sono ancora) rappresentativi di attività
produttive, ma di società finanziarie contenenti al loro
interno partecipazioni di controllo di altre imprese, e la loro
quotazione corrisponde principalmente allo scopo di drenare dal
mercato mobiliare nuovi capitali, con i quali finanziare le aziende
consociate o altri disegni di espansione.
Nei casi più recenti dammissione alla borsa si tende
invece più che altro a realizzare subito un corposo guadagno,
lasciando quasi sempre in subordine (e a puro titolo giustificatorio)
lobiettivo di rendere produttivi gli investimenti e di avviare
progetti e iniziative economiche. Più finanza che altro,
insomma, con lidea fissa di arricchirsi.
Il salto di qualità, negativamente parlando, non è
indifferente, né indolore e il titolo giusto è lo
stesso del libro di Sergio Moscovici: La fabbrica degli dei (Il
Mulino, Bologna, 1991). Mezzo che incorpora la possibilità
di tutti i valori con il valore di tutte le possibilità,
senza contenuto né istruzioni per luso e totalmente
arrendevole alle intenzioni del suo possessore, secondo la definizione
di Georg Simmel, il denaro diventa insomma fine a se stesso anche
là dove in realtà dovrebbe produrre le sue capacità
generatrici di risorse e dove il capitalismo dovrebbe celebrare
il suo «rito»: far crescere il mercato ed esprimersi
in funzione del progresso. Finisce per essere smentito lumanista
olandese Erasmo da Rotterdam nel suo Elogio della follia («Sui
sentimenti privati prevalga linteresse pubblico; sebbene,
provvedendo a questultimo, si favorisce anche la propria fortuna»)
e viene contraddetto anche leconomista e filosofo scozzese
Adam Smith, cui si deve proprio la teoria della cosiddetta «mano
invisibile» (intesa come mercato), secondo la quale
anche il comportamento egoistico individuale conduce al risultato
collettivo più desiderabile, ossia luso efficiente
delle risorse. Alla fine vince solo il famoso aforisma di Oscar
Wilde: «Oggigiorno si conosce il prezzo di tutto e il
valore di niente».
Finalmente globali
In passato gli imprenditori hanno percorso molte
vie, impervie oltre che assai discutibili, per far crescere le proprie
aziende e con esse il loro attivo e quindi anche e soprattutto il
tornaconto personale in termini di profitti di competenza. Su questo
non sussistono dubbi. Francamente però non li si era mai
visti andare così scopertamente allassalto delle loro
imprese, cercando cioè di intercettare, con vari accorgimenti,
risorse davvero ingenti prima di arrivare alla formazione del risultato
operativo, quello che determina lautentico saldo finale da
sottoporre sia allapprovazione dei soci principali e di tutto
lazionariato. sia al giudizio del mercato nel suo complesso.
In una tradizionale ricerca di prudenza, i padroni delle precedenti
generazioni, per esempio, si sono sempre tramandati, quasi per via
ereditaria, il vezzo di figurare oltre che come consiglieri damministrazione
anche come manager dipendenti delle loro compagnie, con regolare
stipendio e connessa copertura previdenziale e contributiva. La
prassi, però, si esauriva lì, in una sorta di «ombrello»
familiare. Adesso invece succede ben altro.
Il re del rame Luigi Orlando, presidente della Smi, ha ricevuto
dal consiglio damministrazione di cui fa parte insieme con
il figlio un «bonus» di 18 miliardi di lire lordi, come
premio per avere guidato il gruppo per quarantanni e
specificatamente per i risultati raggiunti nellultimo decennio.
In base a una norma dello statuto sociale, tutti i consiglieri Pirelli
hanno diritto a spartirsi l1 per cento dei profitti e così
nellultimo anno azionisti come Alberto Falck, Carlo De Benedetti,
Giampiero Pesenti e lo stesso Orlando (ancora lui) hanno incassato
quasi 2 miliardi a testa, ai quali Alessandro Puri Negri ha aggiunto
emolumenti vari per altri 15,7 miliardi. Alla Benetton i quattro
fratelli proprietari nel 2000 hanno percepito 2,6 miliardi a testa.
In Hdp il socio Maurizio Romiti, che è anche amministratore
delegato, e il consigliere Giancarlo Giammetti si sono intascati
rispettivamente 3,3 e 4,2 miliardi.
Questi dati sono noti perché su disposizione della Consob,
la Commissione nazionale per le società e la borsa, cui spetta
il controllo sulle imprese quotate, è diventata obbligatoria
lindicazione nei bilanci annuali dei compensi riconosciuti
ai principali amministratori, sotto forma di stipendio o a qualsiasi
altro titolo. Questa esigenza di «trasparenza», mutuata
dalle esperienze ultraventennali dei mercati anglosassoni, prima
valeva soltanto per i gruppi pubblici; dal 1998 è stata invece
estesa a tutte le industrie, banche e assicurazioni presenti sul
listino e così si è alzato il velo su informazioni
fino ad allora custodite con molto riserbo.
Anche in Italia, sullesempio degli Stati Uniti, si diffondono
così classifiche annuali sui capi dazienda meglio pagati
che da quattro anni descrivono fedelmente e con unaffidabilità
assolutamente superiore a prima la reale situazione. In genere la
retribuzione complessiva dei grandi manager è ancora assai
lontana dai livelli americani. Gli aspetti di maggiore interesse
sono però altri due.
Il primo riguarda lampia incidenza delle cosiddette stock
options rispetto alla busta paga e agli eventuali benefits (macchina
aziendale, coperture assicurative e premi di produzione vari). Su
queste forme retributive vengono applicate in sede di prelievo fiscale
le aliquote progressive previste per i redditi da lavoro e così
si sta imponendo un ricorso abbastanza generalizzato alla rima formula:
trattandosi di operazioni su titoli, il regime tributario applicato
è quello, assai più favorevole, previsto per i guadagni
da «capital gain», ossia da plusvalenza.
Il secondo profilo, ancora più appariscente, concerne il
fatto che nessuna hit parade degli altri paesi contiene amministratori,
ossia membri dellazionariato cui fanno capo le società.
Il ruolo fra soci e manager è nettamente distinto e anche
quando ricoprono eventuali incarichi dirigenziali i rappresentanti
della proprietà (che già godono per diritto dei dividendi
di fine bilancio) denunciano remunerazioni quasi simboliche. La
graduatoria italiana dei compensi (che non comprende, come detto,
i ricavi da dividendi) è invece popolata da azionisti: 18
fra i primi 40 e addirittura quattro fra i primi sei.
Cè tuttavia unosservazione di carattere generale
che emerge da questo scenario. Nella comunità finanziaria
la globalizzazione è un dato di fatto. Lo è nel mercato
e nelle borse; vengono mutuate le formule dinvestimento così
come quelle di retribuzione; cè il confronto internazionale
fra i «re di denari» e le «regine dei listini»;
si rincorrono i miti della ricchezza e dei risultati economici.
Già nel 1964 Marshall Mc Luhan scriveva: «Si
tratta di una condizione esistenziale nuova
dissolta in uno
scintillio di reti e di livelli. Lidentità dellindividuo
non è più incapsulata, come in passato, allinterno
di sfere concentriche (famiglia, corporazione, stato, chiesa), ma
si costruisce in modo eccentrico, attraverso la partecipazione simultanea,
e spesso involontaria, a un ventaglio infinito di combinazioni sociali
possibili» (Gli strumenti del comunicare, Est Saggiatore,
Milano, 1999).
Daltra parte la moneta è la terza grande lingua senza
frontiere con lalfabeto e la musica, ma insuperabile per sintesi
e traducibilità, e riesce a imporre forme dazione e
di pensiero pervasive, fino a diventare quasi lunico punto
di riferimento per la società. Già alle soglie del
Novecento, notava Simmel, soltanto il denaro poteva consentire a
un cittadino tedesco, capitalista od operaio che fosse, di essere
realmente partecipe di un cambio di ministri in Spagna o dellesito
di una rivoluzione nellAmerica del Sud (La filosofia del denaro,
Utet, Torino 1984). Gli ha fatto poi eco,
nel 1918, Oswal Sprengler (Il tramonto dellOccidente, Longanesi,
Milano, 1981) con un concetto pressoché analogo: «Ogni
economia evoluta è uneconomia di città. Leconomia
mondiale, che è quella di tutte le civilizzazioni, la si
dovrebbe chiamare leconomia delle città cosmopolite.
Nelle civilizzazioni gli stessi destini delleconomia si decidono
soltanto in pochi punti, nei luoghi del denaro che anche in altre
civiltà si potrebbero chiamare luoghi della borsa, se per
borsa sintende lorgano intellettuale di una perfetta
economia finanziaria: Babilonia, Tebe, Roma, Bisanzio e
Bagdad, Londra, New York, Berlino e Parigi». «Lì
lebreo, il maomettano e il cristiano si trattano reciprocamente
come se fossero della stessa religione e chiamano infedeli solo
quelli che fanno bancarotta» è la citazione
che si potrebbe aggiungere; straordinaria perché appartiene
alle Lettres philosophiques di Voltaire e risale a quasi due secoli
prima.
Ebbene, i capitani dimpresa italiani sembrano riuscire a trarre,
se possibile, il peggio da questo processo. E così appare
comico quanto viene sostenuto nelle occasioni ufficiali (per esempio
allassemblea generale della Confindustria) o quando si sente
parlare il governatore della Banca dItalia, Antonio Fazio,
di «share economy», di economia della partecipazione
azionaria.
Tra mistica e mistificazione
Nonostante tutte le perplessità che si possono nutrire e
nonostante levidente rischio di cadere nel ridicolo, si può
affermare che il capitalismo si richiama nelle sue concezioni teoriche
a fondamentali principi di etica. Concetti di libera iniziativa
e libero mercato, di uguali opportunità, di combinazione
fra lavoro e capitale nellorganizzazione produttiva, di sfruttamento
delle risorse per assicurare la crescita, di ricerca scientifica
e tecnologica come fattori di sviluppo, sono tutti basati sul presupposto
(sempre teorico) di perseguire il bene comune. E si sente affermare
sempre più spesso che la consapevolezza degli imprenditori
è di stare dalla parte di chi crede e si impegna con convinzione
nellevoluzione civile e nel progresso come benessere diffuso
della società e che ogni loro iniziativa finisce per riferirsi
alla creazione delle condizioni di sviluppo, perché soltanto
con questo si creano nuovi posti di lavoro, si sostengono i programmi
sociali, si ottengono le risorse indispensabili per promuovere nuovi
interventi.
Secondo la «mistica del capitalismo» il primo dei contenuti,
nellazione degli imprenditori, ripropone in sostanza questo
valore: lo sviluppo fatto di crescita economica e di qualità
della vita delle persone, perché in un sistema effettivo
e consolidato di valori sono proprio le società che hanno
abbracciato le regole delleconomia di mercato a essere le
più solidali.
Lo scrittore Alfred North Whitehead sosteneva giustamente in Avventura
delle idee che una grande
società è una società in cui gli uomini daffari
hanno una grande idea delle loro funzioni. Ma la mistificazione
è dietro langolo e i nuovi capitalisti dassalto
sono già arrivati a ricordare che in Italia, per loro, non
cambia nulla, se non in peggio. Suona sinistra unanalisi di
Bertrand Russel contenuta in una delle sue opere più note
(Lautorità e lindividuo): «Senza
moralità civile le comunità periscono; senza moralità
privata la loro sopravvivenza è priva di valore».
|