L'idea di totalitarismo ha conosciuto nel corso del Novecento un
percorso tortuoso, nel quale epoche in cui dominava il dibattito
politico e culturale si sono alternate a periodi di eclissi prolungata.
Nonostante queste oscillazioni continue, si impone la constatazione
che il suo ingresso nel nostro vocabolario politico è ormai
irreversibile.
La rinascita del concetto di totalitarismo
Durante gli ultimi anni abbiamo assistito alla spettacolare rinascita
di questo concetto: soprattutto dopo il 1989, anno della caduta
del muro di Berlino, seguita a breve distanza dal crollo dell'Unione
sovietica. Una rinascita particolarmente significativa in Italia,
dove questo concetto, per lungo tempo identificato con il fascismo
e la sua propaganda, era apparso profondamente delegittimato ed
era stato praticamente messo al bando negli anni del dopoguerra.
Due elementi essenziali sono all'origine di questa rinascita.
- In primo luogo, la memoria del genocidio degli ebrei che, dopo
essere stata per decenni occultata e rimossa, si è ormai
insediata al centro delle nostre rappresentazioni della storia del
XX secolo. Oggetto di una vera e propria "politica della memoria",
fatta di commemorazioni pubbliche, musei, letteratura, film, questo
evento occupa una posizione di primo piano nella coscienza storica
contemporanea del mondo occidentale.
- In secondo luogo la fine del comunismo come fenomeno storico,
come regime politico, che ha attraversato tutta la vicenda del Novecento.
Come ha indicato Eric Hobsbawm, la fine dell'Urss chiude il "secolo
breve" e colloca l'esperienza del "socialismo reale"
nel passato, in un periodo finito. Un'epoca certo ancora molto vicina
a noi che possiamo però già iniziare a storicizzare,
a pensare in una prospettiva storica. Tipica di questo contesto
è la tendenza a focalizzare l'attenzione, nella storia del
comunismo, sulla sua dimensione criminale (le deportazioni, il gulag,
le esecuzioni di massa) occultandone completamente la dimensione
emancipatrice. Il comunismo non è più visto come un
prisma dalle molteplici sfaccettature (un comunismo-rivoluzione
e un comunismo-Termidoro, un comunismo liberatore e un comunismo
oppressore, un comunismo-movimento e un comunismo-regime, un comunismo
dei resistenti e dei movimenti di liberazione nazionale e un comunismo
degli apparati repressivi, del KGB e del gulag) ma soltanto come
il prodotto criminale di un'ideologia mortifera. In breve, il comunismo
è identificato allo stalinismo.
In questo contesto, il concetto di totalitarismo appare forse il
più adatto a cogliere il senso di un secolo, il Novecento,
dominato dalla violenza, dallo sterminio di massa e dai genocidi,
di cui Auschwitz e il gulag sono diventati i simboli. Questa è
la sua giustificazione di fondo, dove si trovano le radici della
sua fortuna e della sua diffusione. Questo spiega anche l'uso sempre
più conformistico che si tende a fare di questo concetto:
il totalitarismo è stigmatizzato come antitesi del liberalismo,
l'ideologia e il sistema politico oggi dominanti, e la sua condanna
equivale a un'apologia della visione del mondo liberale. A conclusione
di un'era di tirannide, incarnata da sinistre figure come Mussolini
e Hitler, Stalin e Mao-tse-dong, il mondo ha ritrovato il suo equilibrio
e la storia riprende il suo cammino su binari sicuri, quelli del
liberalismo. Il totalitarismo è stato sconfitto dall'Occidente
liberale, il "migliore" dei mondi. Questa è la
tesi soggiacente a numerose letture storiografiche di quest'ultimo
decennio, tra le quali le più note sono indubbiamente Il
passato di un'illusione di François Furet e Il libro nero
del comunismo curato da Stéphane Courtois.
Più recentemente, dopo l'attentato terroristico dell'11 settembre
2001 a New York, il totalitarismo riappare come una nuova minaccia
che incombe sull'Occidente, incarnata questa volta dall'islamismo
politico. La guerra tra "mondo libero" e totalitarismo
cede il posto a un "conflitto di civiltà".
L'evoluzione del concetto nella storia del Novecento
Questo uso conformistico e disinvolto del concetto di totalitarismo
è legato tuttavia alla sua storia. Pochi vocaboli della cultura
politica del Novecento sono così malleabili, polimorfi, elastici
e in fondo "ambigui". Il termine "totalitarismo"
appartiene a tutte le correnti del pensiero politico contemporaneo,
dal fascismo all'antifascismo, dal marxismo al liberalismo, dall'anarchismo
al pensiero conservatore. Nato negli anni venti come aggettivo forgiato
dagli antifascisti italiani (Giovanni Amendola, Pietro Basso, Luigi
Sturzo) allo scopo di cogliere la novità della dittatura
di Mussolini, è stato poi sostantivato dal fascismo. In una
celebre voce dell'Enciclopedia italiana nel 1932, Mussolini e Gentile
rivendicavano apertamente la natura "totalitaria" del
regime fascista; in seguito la caratterizzazione del fascismo come
"totalitarismo" diventerà un luogo comune della
propaganda del regime.
Il nazismo, dal canto suo, non amava questo concetto (a differenza
degli intellettuali legati alla "rivoluzione conservatrice"
come Ernst Jünger e Carl Schmitt che, durante la repubblica
di Weimar, auspicavano l'avvento di uno "Stato totale",
sul modello italiano). Alla definizione del nazismo come Stato "totalitario",
Hitler e Goebbels preferivano quella di Stato "razziale"
(völkische Staat), ma le divergenze ideologiche tra i due regimi
si assottiglieranno notevolmente a partire dal 1938, grazie alla
promulgazione delle leggi razziali e antisemite in Italia.
Durante gli anni trenta, il concetto di totalitarismo si diffonde
ampiamente in seno alla cultura politica dell'esilio antifascista,
sia italiano sia tedesco, e comincia a essere usato per denunciare
i tratti comuni (autoritari, antiliberali e antidemocratici) dei
fascismi europei e del comunismo russo. Questo è l'orientamento
di intellettuali cattolici come Luigi Sturzo e Jacques Maritain,
protestanti come Paul Tillich, liberali come Raymond Aron e Elie
Halévy, ma anche marxisti come Daniel Guérin, Victor
Serge e Leone Trockij. Il patto germano-sovietico del 1939 sembrò
legittimare pienamente l'uso di questo neologismo, che fece allora
il suo ingresso nella scienza politica del mondo anglosassone.
Prima della sua rinascita attuale, la storia dell'idea di totalitarismo
può essere divisa in due grandi fasi:
- la prima dagli anni venti alla fine della seconda guerra mondiale;
- la seconda durante la guerra fredda, dal 1947 alla fine dell'Urss.
Nella prima fase, se si prescinde dall'uso che ne fa il fascismo,
questo termine è usato essenzialmente in funzione critica
nei confronti dei sistemi di potere dominanti in Italia, Germania
e Unione sovietica. Nella seconda fase, che inizia con la guerra
fredda, questa nozione assolve soprattutto una funzione apologetica
dell'ordine occidentale. In altri termini, totalitarismo diventa
sinonimo di comunismo ed è usato come slogan in difesa del
"mondo libero". In nome della lotta contro il totalitarismo,
nella quale la Germania federale occupa ora una posizione d'avanguardia,
viene gettato un velo di silenzio sui crimini nazisti (inizia la
lunga rimozione di Auschwitz). In nome della lotta contro il totalitarismo,
vengono giustificati la politica estera americana in Asia (la guerra
di Corea, il sostegno alla repressione anticomunista in Indonesia
e la guerra del Vietnam) e l'appoggio aperto alle dittature militari
in America latina. Durante quegli anni, solo pochi "eretici",
in seno alla cultura politica di sinistra, si ostinano a parlare
di totalitarismo dal loro vocabolario (Herbert Marcuse negli Stati
Uniti, Claude Lefort e Cornelius Castoriadis in Francia). "Totalitarismo"
diventa soprattutto un termine anglosassone, poco usato in Europa,
con l'eccezione della Germania, avamposto geopolitico della guerra
fredda. Nei paesi come l'Italia, in cui i partiti comunisti hanno
svolto un ruolo importante nella Resistenza, questo concetto è
bandito (ricordiamo, tra le eccezioni, Nicola Chiaromonte e Ignazio
Silone). Durante la rivolta giovanile e studentesca degli anni sessanta,
anche in Germania e negli Stati Uniti questo concetto troppo contaminato
dalla propaganda della guerra fredda sarà abbandonato.
Totalitarismi a confronto
Queste le grandi tappe del dibattito. Ma quali sono stati i suoi
contenuti? Al centro della controversia rimane un interrogativo
di fondo riguardante la pertinenza del concetto stesso di totalitarismo.
La sua accettazione è ormai pressoché unanime nell'ambito
della teoria e della scienza politica, preoccupate di definire le
forme e di elaborare una tipologia dei regimi politici. Pochi oserebbero
contestare l'emergenza, nel corso del Novecento, di sistemi di dominazione
che non rientrano nelle categorie tradizionali - dittatura, tirannia,
dispotismo - elaborate dal pensiero politico classico, da Aristotele
a Weber. A questi regimi mal si adatta la definizione di dispotismo
- un potere assoluto e arbitrario, senza leggi, fondato sulla paura
- data da Montesquieu nel XVIII secolo (L'esprit des lois, II, IX-X).
Il Novecento ha visto la nascita di regimi politici caratterizzati,
secondo la definizione arendtiana, da una fusione inedita di ideologia
e di terrore, i quali cercano di rimodellare globalmente la società
attraverso la violenza.
Nell'ambito della storiografia e della sociologia politica, al contrario,
l'idea di totalitarismo è lungi dal fare l'unanimità.
Esso appare limitato, angusto, ambiguo, per non dire inutile a chi
cerca di cogliere, al di là delle affinità superficiali
dei sistemi politici "totalitari", la loro natura sociale,
la loro origine, la loro genesi, la loro dinamica globale e i loro
sbocchi finali.
Cercando di ricapitolare: le principali teorie del totalitarismo
(in particolare quelle sistematizzate durante gli anni cinquanta
da Carl Friedrich, Zbigniew Brzezinski e Raymond Aron) sottolineano
una serie di incontestabili analogie tra il nazismo, il fascismo
e il comunismo intesi come sistemi di potere:
a) la soppressione della democrazia rappresentativa e dello Stato
di diritto attraverso l'eliminazione delle libertà individuali
e il superamento della divisione dei poteri, l'instaurazione della
censura e l'introduzione di un monopolio statale dei mezzi di comunicazione
teso a diffondere un'ideologia di Stato;
b) un partito unico diretto da un capo carismatico;
c) il monopolio statale dei mezzi di coercizione e la diffusione
endemica della violenza come forma di governo, sfociante in un sistema
concentrazionario teso all'esclusione, se non alla vera e propria
eliminazione, degli avversari politici e dei gruppi o individui
considerati come estranei alla comunità (politica, nazionale,
razziale ecc.);
d) un forte interventismo statale, che tende a tradursi in una pianificazione
autoritaria e centralizzata dell'economia.
Benché tutte queste caratteristiche siano facilmente riscontrabili
sia nel nazismo sia nel comunismo sovietico, il concetto di totalitarismo
che nasce dalla loro sommatoria risulta alquanto statico, formale,
superficiale. Nelle sue forme idealtipiche, esso si riduce a un
modello astratto, che corrisponde più alle fantasie letterarie
di George Orwell che al funzionamento reale dei sistemi fascisti
o comunisti, regimi che, riguardo all'origine, all'evoluzione e
al contenuto sociale presentano invece differenze molto profonde.
1. Innanzitutto la loro durata: da un lato un regime, quello nazista,
che ha avuto un'esistenza di soli dodici anni, dal 1933 al 1945,
vissuti sotto il segno di una radicalizzazione cumulativa fino alla
sua caduta, in forme quasi apocalittiche, durante una guerra mondiale
che aveva ricercato e provocato; dall'altro un regime durato più
di settant'anni, nato da una rivoluzione e perpetuatosi, dopo la
morte di Stalin, durante una lunga fase postotalitaria, alla quale
ha messo fine non una sconfitta militare ma una crisi interna, provocata
dalle sue stesse contraddizioni.
2. Poi la loro ideologia: da un lato una visione del mondo razzista,
fondata su una sintesi ibrida di controilluminismo (Gegenaufklärung)
e di culto della tecnica moderna, di mitologie germaniche e di nazionalismo
biologizzato; dall'altro una versione scolastica, dogmatica e "clericale"
del marxismo, proclamato erede dei lumi e rivendicato come filosofia
umanista, universalista, emancipatrice.
3. Infine la loro formazione e il loro contenuto sociale: da un
lato, il nazismo-regime prende forma dopo la "messa al passo"
della società in seguito a un'alternanza politica certo tormentata
ma "legale", nel 1933, attraverso l'incorporazione o almeno
l'adesione passiva delle vecchie élite tradizionali, sia
economiche (la grande industria, la finanza, la grande proprietà
fondiaria) sia militari e amministrative, nonché, in larga
misura, intellettuali; dall'altro, il regime sovietico, nato da
una rivoluzione che ha completamente espropriato le vecchie classi
dominanti e trasformato radicalmente le basi socioeconomiche del
paese, sia statalizzando e pianificando l'economia sia procedendo
alla creazione di una nuova classe dirigente.
Nazismo e stalinismo sono profondamente diversi anche per il tipo
di violenza che esprimono:
- la violenza del comunismo sovietico è essenzialmente interna
alla società, che cerca di sottomettere, normalizzare, disciplinare
ma anche trasformare e modernizzare con metodi autoritari, coercitivi
e criminali; le vittime dello stalinismo sono quasi tutte dei cittadini
sovietici, nella loro grande maggioranza russi, e ciò vale
sia per le vittime dei processi e delle epurazioni politiche (militanti
e funzionari del partito e dello Stato, ufficiali e quadri dell'esercito)
sia per le vittime sociali (kulaki deportati durante la collettivizzazione
forzata delle campagne, elementi giudicati "asociali"
ecc.); le minoranze nazionali colpite dalla repressione (i cosiddetti
"popoli puniti" accusati di collaborazione con il nemico
durante la guerra) costituiscono piccole minoranze se si considera
la repressione nel suo insieme;
- la violenza del nazismo, al contrario, è essenzialmente
proiettata verso l'esterno. Dopo una prima, intensa ma rapida fase
di "normalizzazione" repressiva (Gleichschaltung) della
società tedesca, la violenza nazista si scatena nel corso
della guerra, a partire dal 1939, come un'ondata di terrore né
cieco né indiscriminato ma rigorosamente codificato. Praticamente
inesistente nei confronti di una comunità nazionale razzialmente
delimitata e sottomessa, questa violenza diventa estrema nei confronti
di categorie umane e sociali escluse dalla comunità del Volk
(ebrei, zingari, handicappati, omosessuali), per estendersi poi
alle popolazioni slave, ai prigionieri di guerra e ai deportati
antifascisti (il cui trattamento risponde a una precisa gerarchia
razziale).
Un lucido analista liberale come Raymond Aron aveva colto chiaramente
questa differenza tra comunismo e nazismo sottolineando gli sbocchi
estremi dei due sistemi: per il primo, il campo di lavoro, ossia
la violenza legata a un progetto di trasformazione coercitiva e
autoritaria della società; per il secondo, la camera a gas,
vale a dire lo sterminio come finalità in sé, inscritta
in un disegno di purificazione razziale. Lo storico britannico Ian
Kershaw ha sviluppato questa intuizione di Aron mettendo in luce
i diversi tipi di razionalità espressi dai regimi di Stalin
e di Hitler.
Il progetto sociale del comunismo non era privo di una sua razionalità,
poiché il suo obiettivo centrale era la modernizzazione dell'economia
e della società sovietiche, perseguita attraverso un'intensa
industrializzazione e la collettivizzazione dell'agricoltura. I
mezzi usati per realizzare questo progetto, tuttavia, erano non
solo autoritari e inumani, ma anche profondamente irrazionali: il
lavoro forzato, praticamente schiavistico, dei gulag, lo sfruttamento
"militar-feudale" dei contadini (secondo la definizione
che ne diede all'epoca Bukharin), l'eliminazione di una parte consistente
dell'élite amministrativa e militare, infine la deportazione
in massa di interi gruppi e popolazioni. I risultati furono in larga
misura catastrofici (crollo della produzione agricola, carestia,
stagnazione demografica) e rischiarono di compromettere il fine
perseguito.
Nel nazismo, la contraddizione era invece stridente tra la razionalità
dei mezzi impiegati e l'irrazionalità profonda del fine perseguito:
la dominazione della "razza ariana", il rimodellamento
dell'Europa in base a una gerarchia di tipo razziale. I campi di
sterminio nazisti sono un'illustrazione di questo contrasto. I metodi
della produzione industriale, le regole dell'amministrazione burocratica,
i principi della divisione del lavoro, i risultati della scienza
(lo Zyklon B) erano usati allo scopo di eliminare un popolo considerato
incompatibile con l'ordine "ariano" e indegno di vivere
su questo pianeta. Durante la guerra, la politica nazista di sterminio
degli ebrei (e in misura minore degli zingari) si rivelò
irrazionale anche sul piano economico e militare, poiché
fu realizzata mobilitando risorse umane e mezzi materiali sottratti
allo sforzo bellico e distruggendo una parte della forza lavoro
presente nei campi. In Urss, i deportati (zek) erano "usati",
"consumati" a milioni per diboscare regioni, estrarre
minerali, costruire ferrovie e linee elettriche, a volte creare
veri e propri centri urbani. Metodi "barbari" e coercitivi
che si apparentavano spesso a forme di "sterminio attraverso
il lavoro" venivano adottati per modernizzare il paese e "costruire
il socialismo". Nella Germania nazista, all'opposto, i metodi
più avanzati della scienza, della tecnica e dell'industria
erano usati per distruggere vite umane.
Questa differenza tra lo stalinismo e il nazismo è incarnata,
come ha messo in luce Sonia Combe, da due sinistre figure: Sergej
Evstignev, la principale autorità di Ozerlag, un gulag siberiano
sulle rive del lago Baikal, e Rudolf Hess, il più noto comandante
di Auschwitz, di cui si può leggere il memoriale scritto
prima della sua condanna a morte.
Intervistato da Sonia Combe all'inizio degli anni novanta, Evstignev
si dichiarava orgoglioso dell'opera svolta. La sua missione consisteva
nella "rieducazione" dei detenuti e, soprattutto, nella
costruzione di una linea ferroviaria, la "traccia". Per
raggiungere questo obiettivo poteva disporre liberamente, risparmiando
o "consumando", secondo le sue esigenze, la forza-lavoro
dei deportati. Varie migliaia di zek morirono a Ozerlag lavorando,
in condizioni terribili, all'esecuzione di questa impresa. La morte
era una conseguenza del clima e del lavoro forzato. In altri termini,
essa era considerata come un tratto "normale" dell'esistenza
di un campo di concentramento la cui "resa", in termini
produttivi, si misurava in chilometri di ferrovia.
Hess era invece il comandante di un complesso sistema concentrazionario
il cui nucleo principale, Auschwitz-Birkenau, era un campo di sterminio
industriale. Là furono eliminati nelle camere a gas, poi
inceneriti nei forni crematori, oltre un milione di ebrei deportati
da diversi paesi d'Europa. Il criterio fondamentale per calcolare
il "rendimento" di questo campo era il numero dei morti.
Ad Auschwitz, lo sterminio non era un sottoprodotto ma una finalità
immediata. In conclusione, entrambi i sistemi (i campi di sterminio
nazisti e il gulag stalinista) erano incontestabilmente inumani,
criminali e totalitari, e come tali vanno condannati. Sarebbe assurdo
e indecente voler erigere una distinzione tra i due in base a una
gerarchia etica. Ciò non toglie però che la logica
del loro funzionamento era tuttavia profondamente diversa. Sul piano
epistemologico, questa differenza non è affatto marginale.
Ed è precisamente questa differenza che il concetto di totalitarismo
ignora e nasconde, limitandosi a prendere in considerazione le analogie
tra i due sistemi. Ciò spiega la grande diffidenza degli
storici sociali sia del nazismo (Martin Broszat, Hans Mommsen, Detlev
Peukert, Ulrich Herbert e molti altri) sia del comunismo (Moshe
Lewin, Arch Getty, Shila Fitzpatrick e altri) nei confronti di questo
concetto. Tutti gli analisti che hanno cercato di comprendere il
comportamento delle società dietro la facciata totalitaria
dei regimi hanno dovuto andare oltre le somiglianze esteriori.
Un confronto non approfondito
Indubbiamente, le teorie del totalitarismo hanno stimolato il comparativismo
in seno alla storiografia del Novecento. Ma il comparativismo può
essere fecondo a condizione di non essere usato come chiave di lettura
esclusiva di un evento o di un'epoca. La tendenza dominante tra
i teorici del totalitarismo a interpretare nazismo e comunismo come
due fenomeni paralleli e indissociabili coglie certo un aspetto
importante del processo storico - l'appartenenza di fascismo e comunismo
allo stesso contesto europeo, la loro interazione, il rapporto "simbiotico"
che unisce rivoluzione e controrivoluzione (secondo la definizione
di Arno Mayer) - ma lo proietta in modo unilaterale sul quadro d'insieme.
Per Ernst Nolte, il nazismo si spiega soltanto come fenomeno "reattivo"
nei confronti del bolscevismo (e i suoi crimini non sarebbero altro
che una "copia" di quelli commessi dai bolscevichi nel
corso degli anni venti). Per François Furet, questi due regimi
furono essenzialmente due reazioni parallele, opposte tra loro ma
profondamente interdipendenti, nei confronti dell'Occidente liberale.
Il concetto di totalitarismo favorisce un'interpretazione del nazismo
e dello stalinismo che appiattisce entrambi sul piano sincronico,
impedendo da un lato di coglierne le radici profonde nella storia
russa, tedesca ed europea, dall'altro di studiarne la genesi e gli
sviluppi nei tempi lunghi. Questo approccio sincronico ha avuto
la conseguenza di ridurre l'orizzonte epistemologico della ricerca.
La violenza comunista è stata così ricondotta alla
sua matrice "ideologica", il leninismo, evacuando completamente
il problema delle sue radici in seno alla società russa.
In realtà, come vari studiosi hanno messo in luce, la violenza
dello stalinismo era innanzitutto la conseguenza di un progetto
di modernizzazione autoritaria e brutale della società russa
che si inscriveva nel solco della storia russa. All'inizio della
seconda guerra mondiale, il regista Sergej Eizenstein aveva realizzato
un film su Ivan il Terribile in cui lasciava intravedere, dietro
il ritratto del despota zarista, il profilo del dittatore comunista.
Negli anni cinquanta, lo storico Isaac Deutscher aveva a sua volta
presentato Stalin come una sintesi di leninismo, comunismo militare
e assolutismo zarista. In tempi più recenti, Peter Holquist
ha sottolineato che la deportazione dei kulaki, durante la collettivizzazione
forzata delle campagne sovietiche del 1930, aveva un precedente
storico nel trasferimento coatto di oltre 700 000 contadini nel
corso degli anni sessanta dell'Ottocento, messo in atto dallo zarismo
per facilitare la russificazione del Caucaso, all'epoca delle riforme
di Alessandro II.
Considerazioni simili valgono anche per la Germania hitleriana.
Ridurre il nazismo a une reazione - a una forma di violenza preventiva
e difensiva - nei confronti del bolscevismo russo, significa perdere
di vista le sue premesse storiche, sia materiali sia culturali,
nell'imperialismo e nel razzismo europei dell'Ottocento. L'antisemitismo
tedesco era nato molto prima della rivoluzione russa del 1917; il
concetto di Lebensraum ("spazio vitale") era stato teorizzato
dal pangermanismo fin dalla fine dell'Ottocento e non era, in fondo,
che la variante tedesca di un'idea imperialista diffusa in tutta
Europa. In altri termini, il concetto di Lebensraum era figlio di
una visione occidentale del mondo extraeuropeo, considerato come
un immenso spazio colonizzabile.
L'idea dell'"estinzione" e dello sterminio delle "razze
inferiori" attraversa tutta la cultura europea dell'Ottocento,
soprattutto francese e britannica. Nato dalla sconfitta del 1918,
dal crollo dell'impero guglielmino e dalla "punizione"
del trattato di Versailles, il nazismo aveva trasferito le sue antiche
aspirazioni coloniali dall'Africa all'Est europeo. Ma l'India coloniale
britannica rimaneva un modello agli occhi di Hitler e la guerra
contro l'Urss fu concepita e messa in atto come una guerra coloniale
di conquista e di sterminio. Anziché ricercare nel gulag
sovietico il "precedente logico e fattuale" del genocidio
nazista degli ebrei, come ha fatto Nolte, sarebbe sufficiente rileggere
la storia coloniale tedesca, oggi largamente dimenticata, per accorgersi
che il genocidio degli herero, messo in atto nel 1904 dalle truppe
tedesche del generale Luther von Trotha, nell'Africa sud-occidentale
(l'attuale Namibia), fu uno sterminio pianificato che prefigurava
sotto molti aspetti la "Soluzione finale" del 1941-45.
Va aggiunto inoltre che la focalizzazione "totalitarista"
sul rapporto tra nazismo e comunismo ha messo tra parentesi un nodo
storiografico fondamentale, quello del rapporto tra il fascismo
italiano e il nazismo tedesco. Nelle sue versioni più radicali,
ad esempio quella difesa dallo storico tedesco Karl Dietrich Bracher,
l'interpretazione del nazismo come totalitarismo non ammette neppure
l'appartenenza della Germania hitleriana a una famiglia politica,
quella del fascismo, di origine italiana e di dimensione europea.
Una tesi analoga, che pretende di distinguere un totalitarismo "di
destra" (tedesco) da uno "di sinistra" (italiano),
negandone la parentela e la comune radice fascista, è stata
proposta in Italia da Renzo De Felice.
Il rapporto del totalitarismo con la civiltà occidentale
Auschwitz appare, per più ragioni, come un laboratorio privilegiato
per studiare la violenza della modernità. La sua organizzazione
industriale della morte ha realizzato la fusione dell'antisemitismo
e del razzismo con la prigione, l'industria e l'amministrazione
burocratico-razionale. In questo senso il genocidio ebraico costituisce
un paradigma della modernità piuttosto che la sua negazione.
Numerosi tratti del processo di civilizzazione, secondo la definizione
che ne hanno dato Max Weber e Norbert Elias, costituiscono le premesse
storiche della distruzione degli ebrei d'Europa. Effettivamente,
la "Soluzione finale" implicava il monopolio statale della
violenza (un crimine di Stato), la razionalità produttiva
e amministrativa (il sistema dei campi), l'autocontrollo delle pulsioni
(una violenza "fredda", pianificata) e la deresponsabilizzazione
etica degli agenti sociali (la "banalità del male").
La Shoah rivela così, come hanno sottolineato Hokheimer e
Adorno, una dialettica negativa: la trasformazione del progresso
tecnico e materiale in regressione umana e sociale. Se questa è
una caratteristica del totalitarismo moderno, esso non va visto
come la negazione della civiltà occidentale, ma come una
sua manifestazione patologica, come il disvelamento del suo lato
oscuro e inumano.
Queste riflessioni critiche non hanno lo scopo di respingere il
concetto di totalitarismo come inutile o peggio dannoso. Vogliono
soltanto essere una necessaria messa in guardia contro i malintesi
che esso ha spesso suscitato e gli abusi che ne hanno segnato la
storia. Non si tratta affatto di un concetto inutile, ma la sua
pertinenza è limitata e il suo uso richiede alcune precauzioni.
Ho già sottolineato il carattere imprescindibile di questa
nozione per la teoria e la scienza politica. Credo non se ne possa
fare a meno neppure dal punto di vista di un "uso pubblico
della storia". Il concetto di totalitarismo è necessario
per conservare la memoria di un secolo che ha conosciuto Auschwitz
e la Kolyma, i campi di sterminio nazisti e i gulag di Stalin. Il
Novecento ha fatto l'esperienza di un naufragio del "politico",
se si intende per politico uno spazio aperto al conflitto, al pluralismo
delle idee e dell'azione dei cittadini, all'alterità, alla
divisione del corpo sociale, in altri termini ciò che Hannah
Arendt definiva "l'infra", la vita in comune. Il totalitarismo
ha cercato di eliminare questo spazio riducendo l'umanità
a una comunità organica, monolitica, chiusa; il totalitarismo
ha assorbito la società civile nello Stato, sopprimendola,
soffocandola (si tratta, in questo senso, dell'antitesi del comunismo
concepito da Marx come "estinzione dello Stato" in seno
a una comunità umana emancipata). Il concetto di totalitarismo
inscrive questa esperienza del Novecento nella nostra coscienza
storica e nella nostra memoria collettiva. Per questo non possiamo
farne a meno.
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