Totalitarismo.Usi e abusi di un concetto
di Enzo Traverso

L'idea di totalitarismo ha conosciuto nel corso del Novecento un percorso tortuoso, nel quale epoche in cui dominava il dibattito politico e culturale si sono alternate a periodi di eclissi prolungata. Nonostante queste oscillazioni continue, si impone la constatazione che il suo ingresso nel nostro vocabolario politico è ormai irreversibile.

La rinascita del concetto di totalitarismo
Durante gli ultimi anni abbiamo assistito alla spettacolare rinascita di questo concetto: soprattutto dopo il 1989, anno della caduta del muro di Berlino, seguita a breve distanza dal crollo dell'Unione sovietica. Una rinascita particolarmente significativa in Italia, dove questo concetto, per lungo tempo identificato con il fascismo e la sua propaganda, era apparso profondamente delegittimato ed era stato praticamente messo al bando negli anni del dopoguerra.
Due elementi essenziali sono all'origine di questa rinascita.
- In primo luogo, la memoria del genocidio degli ebrei che, dopo essere stata per decenni occultata e rimossa, si è ormai insediata al centro delle nostre rappresentazioni della storia del XX secolo. Oggetto di una vera e propria "politica della memoria", fatta di commemorazioni pubbliche, musei, letteratura, film, questo evento occupa una posizione di primo piano nella coscienza storica contemporanea del mondo occidentale.
- In secondo luogo la fine del comunismo come fenomeno storico, come regime politico, che ha attraversato tutta la vicenda del Novecento. Come ha indicato Eric Hobsbawm, la fine dell'Urss chiude il "secolo breve" e colloca l'esperienza del "socialismo reale" nel passato, in un periodo finito. Un'epoca certo ancora molto vicina a noi che possiamo però già iniziare a storicizzare, a pensare in una prospettiva storica. Tipica di questo contesto è la tendenza a focalizzare l'attenzione, nella storia del comunismo, sulla sua dimensione criminale (le deportazioni, il gulag, le esecuzioni di massa) occultandone completamente la dimensione emancipatrice. Il comunismo non è più visto come un prisma dalle molteplici sfaccettature (un comunismo-rivoluzione e un comunismo-Termidoro, un comunismo liberatore e un comunismo oppressore, un comunismo-movimento e un comunismo-regime, un comunismo dei resistenti e dei movimenti di liberazione nazionale e un comunismo degli apparati repressivi, del KGB e del gulag) ma soltanto come il prodotto criminale di un'ideologia mortifera. In breve, il comunismo è identificato allo stalinismo.
In questo contesto, il concetto di totalitarismo appare forse il più adatto a cogliere il senso di un secolo, il Novecento, dominato dalla violenza, dallo sterminio di massa e dai genocidi, di cui Auschwitz e il gulag sono diventati i simboli. Questa è la sua giustificazione di fondo, dove si trovano le radici della sua fortuna e della sua diffusione. Questo spiega anche l'uso sempre più conformistico che si tende a fare di questo concetto: il totalitarismo è stigmatizzato come antitesi del liberalismo, l'ideologia e il sistema politico oggi dominanti, e la sua condanna equivale a un'apologia della visione del mondo liberale. A conclusione di un'era di tirannide, incarnata da sinistre figure come Mussolini e Hitler, Stalin e Mao-tse-dong, il mondo ha ritrovato il suo equilibrio e la storia riprende il suo cammino su binari sicuri, quelli del liberalismo. Il totalitarismo è stato sconfitto dall'Occidente liberale, il "migliore" dei mondi. Questa è la tesi soggiacente a numerose letture storiografiche di quest'ultimo decennio, tra le quali le più note sono indubbiamente Il passato di un'illusione di François Furet e Il libro nero del comunismo curato da Stéphane Courtois.
Più recentemente, dopo l'attentato terroristico dell'11 settembre 2001 a New York, il totalitarismo riappare come una nuova minaccia che incombe sull'Occidente, incarnata questa volta dall'islamismo politico. La guerra tra "mondo libero" e totalitarismo cede il posto a un "conflitto di civiltà".

L'evoluzione del concetto nella storia del Novecento
Questo uso conformistico e disinvolto del concetto di totalitarismo è legato tuttavia alla sua storia. Pochi vocaboli della cultura politica del Novecento sono così malleabili, polimorfi, elastici e in fondo "ambigui". Il termine "totalitarismo" appartiene a tutte le correnti del pensiero politico contemporaneo, dal fascismo all'antifascismo, dal marxismo al liberalismo, dall'anarchismo al pensiero conservatore. Nato negli anni venti come aggettivo forgiato dagli antifascisti italiani (Giovanni Amendola, Pietro Basso, Luigi Sturzo) allo scopo di cogliere la novità della dittatura di Mussolini, è stato poi sostantivato dal fascismo. In una celebre voce dell'Enciclopedia italiana nel 1932, Mussolini e Gentile rivendicavano apertamente la natura "totalitaria" del regime fascista; in seguito la caratterizzazione del fascismo come "totalitarismo" diventerà un luogo comune della propaganda del regime.
Il nazismo, dal canto suo, non amava questo concetto (a differenza degli intellettuali legati alla "rivoluzione conservatrice" come Ernst Jünger e Carl Schmitt che, durante la repubblica di Weimar, auspicavano l'avvento di uno "Stato totale", sul modello italiano). Alla definizione del nazismo come Stato "totalitario", Hitler e Goebbels preferivano quella di Stato "razziale" (völkische Staat), ma le divergenze ideologiche tra i due regimi si assottiglieranno notevolmente a partire dal 1938, grazie alla promulgazione delle leggi razziali e antisemite in Italia.
Durante gli anni trenta, il concetto di totalitarismo si diffonde ampiamente in seno alla cultura politica dell'esilio antifascista, sia italiano sia tedesco, e comincia a essere usato per denunciare i tratti comuni (autoritari, antiliberali e antidemocratici) dei fascismi europei e del comunismo russo. Questo è l'orientamento di intellettuali cattolici come Luigi Sturzo e Jacques Maritain, protestanti come Paul Tillich, liberali come Raymond Aron e Elie Halévy, ma anche marxisti come Daniel Guérin, Victor Serge e Leone Trockij. Il patto germano-sovietico del 1939 sembrò legittimare pienamente l'uso di questo neologismo, che fece allora il suo ingresso nella scienza politica del mondo anglosassone.
Prima della sua rinascita attuale, la storia dell'idea di totalitarismo può essere divisa in due grandi fasi:
- la prima dagli anni venti alla fine della seconda guerra mondiale;
- la seconda durante la guerra fredda, dal 1947 alla fine dell'Urss.
Nella prima fase, se si prescinde dall'uso che ne fa il fascismo, questo termine è usato essenzialmente in funzione critica nei confronti dei sistemi di potere dominanti in Italia, Germania e Unione sovietica. Nella seconda fase, che inizia con la guerra fredda, questa nozione assolve soprattutto una funzione apologetica dell'ordine occidentale. In altri termini, totalitarismo diventa sinonimo di comunismo ed è usato come slogan in difesa del "mondo libero". In nome della lotta contro il totalitarismo, nella quale la Germania federale occupa ora una posizione d'avanguardia, viene gettato un velo di silenzio sui crimini nazisti (inizia la lunga rimozione di Auschwitz). In nome della lotta contro il totalitarismo, vengono giustificati la politica estera americana in Asia (la guerra di Corea, il sostegno alla repressione anticomunista in Indonesia e la guerra del Vietnam) e l'appoggio aperto alle dittature militari in America latina. Durante quegli anni, solo pochi "eretici", in seno alla cultura politica di sinistra, si ostinano a parlare di totalitarismo dal loro vocabolario (Herbert Marcuse negli Stati Uniti, Claude Lefort e Cornelius Castoriadis in Francia). "Totalitarismo" diventa soprattutto un termine anglosassone, poco usato in Europa, con l'eccezione della Germania, avamposto geopolitico della guerra fredda. Nei paesi come l'Italia, in cui i partiti comunisti hanno svolto un ruolo importante nella Resistenza, questo concetto è bandito (ricordiamo, tra le eccezioni, Nicola Chiaromonte e Ignazio Silone). Durante la rivolta giovanile e studentesca degli anni sessanta, anche in Germania e negli Stati Uniti questo concetto troppo contaminato dalla propaganda della guerra fredda sarà abbandonato.

Totalitarismi a confronto
Queste le grandi tappe del dibattito. Ma quali sono stati i suoi contenuti? Al centro della controversia rimane un interrogativo di fondo riguardante la pertinenza del concetto stesso di totalitarismo. La sua accettazione è ormai pressoché unanime nell'ambito della teoria e della scienza politica, preoccupate di definire le forme e di elaborare una tipologia dei regimi politici. Pochi oserebbero contestare l'emergenza, nel corso del Novecento, di sistemi di dominazione che non rientrano nelle categorie tradizionali - dittatura, tirannia, dispotismo - elaborate dal pensiero politico classico, da Aristotele a Weber. A questi regimi mal si adatta la definizione di dispotismo - un potere assoluto e arbitrario, senza leggi, fondato sulla paura - data da Montesquieu nel XVIII secolo (L'esprit des lois, II, IX-X). Il Novecento ha visto la nascita di regimi politici caratterizzati, secondo la definizione arendtiana, da una fusione inedita di ideologia e di terrore, i quali cercano di rimodellare globalmente la società attraverso la violenza.
Nell'ambito della storiografia e della sociologia politica, al contrario, l'idea di totalitarismo è lungi dal fare l'unanimità. Esso appare limitato, angusto, ambiguo, per non dire inutile a chi cerca di cogliere, al di là delle affinità superficiali dei sistemi politici "totalitari", la loro natura sociale, la loro origine, la loro genesi, la loro dinamica globale e i loro sbocchi finali.
Cercando di ricapitolare: le principali teorie del totalitarismo (in particolare quelle sistematizzate durante gli anni cinquanta da Carl Friedrich, Zbigniew Brzezinski e Raymond Aron) sottolineano una serie di incontestabili analogie tra il nazismo, il fascismo e il comunismo intesi come sistemi di potere:
a) la soppressione della democrazia rappresentativa e dello Stato di diritto attraverso l'eliminazione delle libertà individuali e il superamento della divisione dei poteri, l'instaurazione della censura e l'introduzione di un monopolio statale dei mezzi di comunicazione teso a diffondere un'ideologia di Stato;
b) un partito unico diretto da un capo carismatico;
c) il monopolio statale dei mezzi di coercizione e la diffusione endemica della violenza come forma di governo, sfociante in un sistema concentrazionario teso all'esclusione, se non alla vera e propria eliminazione, degli avversari politici e dei gruppi o individui considerati come estranei alla comunità (politica, nazionale, razziale ecc.);
d) un forte interventismo statale, che tende a tradursi in una pianificazione autoritaria e centralizzata dell'economia.
Benché tutte queste caratteristiche siano facilmente riscontrabili sia nel nazismo sia nel comunismo sovietico, il concetto di totalitarismo che nasce dalla loro sommatoria risulta alquanto statico, formale, superficiale. Nelle sue forme idealtipiche, esso si riduce a un modello astratto, che corrisponde più alle fantasie letterarie di George Orwell che al funzionamento reale dei sistemi fascisti o comunisti, regimi che, riguardo all'origine, all'evoluzione e al contenuto sociale presentano invece differenze molto profonde.
1. Innanzitutto la loro durata: da un lato un regime, quello nazista, che ha avuto un'esistenza di soli dodici anni, dal 1933 al 1945, vissuti sotto il segno di una radicalizzazione cumulativa fino alla sua caduta, in forme quasi apocalittiche, durante una guerra mondiale che aveva ricercato e provocato; dall'altro un regime durato più di settant'anni, nato da una rivoluzione e perpetuatosi, dopo la morte di Stalin, durante una lunga fase postotalitaria, alla quale ha messo fine non una sconfitta militare ma una crisi interna, provocata dalle sue stesse contraddizioni.
2. Poi la loro ideologia: da un lato una visione del mondo razzista, fondata su una sintesi ibrida di controilluminismo (Gegenaufklärung) e di culto della tecnica moderna, di mitologie germaniche e di nazionalismo biologizzato; dall'altro una versione scolastica, dogmatica e "clericale" del marxismo, proclamato erede dei lumi e rivendicato come filosofia umanista, universalista, emancipatrice.
3. Infine la loro formazione e il loro contenuto sociale: da un lato, il nazismo-regime prende forma dopo la "messa al passo" della società in seguito a un'alternanza politica certo tormentata ma "legale", nel 1933, attraverso l'incorporazione o almeno l'adesione passiva delle vecchie élite tradizionali, sia economiche (la grande industria, la finanza, la grande proprietà fondiaria) sia militari e amministrative, nonché, in larga misura, intellettuali; dall'altro, il regime sovietico, nato da una rivoluzione che ha completamente espropriato le vecchie classi dominanti e trasformato radicalmente le basi socioeconomiche del paese, sia statalizzando e pianificando l'economia sia procedendo alla creazione di una nuova classe dirigente.
Nazismo e stalinismo sono profondamente diversi anche per il tipo di violenza che esprimono:
- la violenza del comunismo sovietico è essenzialmente interna alla società, che cerca di sottomettere, normalizzare, disciplinare ma anche trasformare e modernizzare con metodi autoritari, coercitivi e criminali; le vittime dello stalinismo sono quasi tutte dei cittadini sovietici, nella loro grande maggioranza russi, e ciò vale sia per le vittime dei processi e delle epurazioni politiche (militanti e funzionari del partito e dello Stato, ufficiali e quadri dell'esercito) sia per le vittime sociali (kulaki deportati durante la collettivizzazione forzata delle campagne, elementi giudicati "asociali" ecc.); le minoranze nazionali colpite dalla repressione (i cosiddetti "popoli puniti" accusati di collaborazione con il nemico durante la guerra) costituiscono piccole minoranze se si considera la repressione nel suo insieme;
- la violenza del nazismo, al contrario, è essenzialmente proiettata verso l'esterno. Dopo una prima, intensa ma rapida fase di "normalizzazione" repressiva (Gleichschaltung) della società tedesca, la violenza nazista si scatena nel corso della guerra, a partire dal 1939, come un'ondata di terrore né cieco né indiscriminato ma rigorosamente codificato. Praticamente inesistente nei confronti di una comunità nazionale razzialmente delimitata e sottomessa, questa violenza diventa estrema nei confronti di categorie umane e sociali escluse dalla comunità del Volk (ebrei, zingari, handicappati, omosessuali), per estendersi poi alle popolazioni slave, ai prigionieri di guerra e ai deportati antifascisti (il cui trattamento risponde a una precisa gerarchia razziale).
Un lucido analista liberale come Raymond Aron aveva colto chiaramente questa differenza tra comunismo e nazismo sottolineando gli sbocchi estremi dei due sistemi: per il primo, il campo di lavoro, ossia la violenza legata a un progetto di trasformazione coercitiva e autoritaria della società; per il secondo, la camera a gas, vale a dire lo sterminio come finalità in sé, inscritta in un disegno di purificazione razziale. Lo storico britannico Ian Kershaw ha sviluppato questa intuizione di Aron mettendo in luce i diversi tipi di razionalità espressi dai regimi di Stalin e di Hitler.
Il progetto sociale del comunismo non era privo di una sua razionalità, poiché il suo obiettivo centrale era la modernizzazione dell'economia e della società sovietiche, perseguita attraverso un'intensa industrializzazione e la collettivizzazione dell'agricoltura. I mezzi usati per realizzare questo progetto, tuttavia, erano non solo autoritari e inumani, ma anche profondamente irrazionali: il lavoro forzato, praticamente schiavistico, dei gulag, lo sfruttamento "militar-feudale" dei contadini (secondo la definizione che ne diede all'epoca Bukharin), l'eliminazione di una parte consistente dell'élite amministrativa e militare, infine la deportazione in massa di interi gruppi e popolazioni. I risultati furono in larga misura catastrofici (crollo della produzione agricola, carestia, stagnazione demografica) e rischiarono di compromettere il fine perseguito.
Nel nazismo, la contraddizione era invece stridente tra la razionalità dei mezzi impiegati e l'irrazionalità profonda del fine perseguito: la dominazione della "razza ariana", il rimodellamento dell'Europa in base a una gerarchia di tipo razziale. I campi di sterminio nazisti sono un'illustrazione di questo contrasto. I metodi della produzione industriale, le regole dell'amministrazione burocratica, i principi della divisione del lavoro, i risultati della scienza (lo Zyklon B) erano usati allo scopo di eliminare un popolo considerato incompatibile con l'ordine "ariano" e indegno di vivere su questo pianeta. Durante la guerra, la politica nazista di sterminio degli ebrei (e in misura minore degli zingari) si rivelò irrazionale anche sul piano economico e militare, poiché fu realizzata mobilitando risorse umane e mezzi materiali sottratti allo sforzo bellico e distruggendo una parte della forza lavoro presente nei campi. In Urss, i deportati (zek) erano "usati", "consumati" a milioni per diboscare regioni, estrarre minerali, costruire ferrovie e linee elettriche, a volte creare veri e propri centri urbani. Metodi "barbari" e coercitivi che si apparentavano spesso a forme di "sterminio attraverso il lavoro" venivano adottati per modernizzare il paese e "costruire il socialismo". Nella Germania nazista, all'opposto, i metodi più avanzati della scienza, della tecnica e dell'industria erano usati per distruggere vite umane.
Questa differenza tra lo stalinismo e il nazismo è incarnata, come ha messo in luce Sonia Combe, da due sinistre figure: Sergej Evstignev, la principale autorità di Ozerlag, un gulag siberiano sulle rive del lago Baikal, e Rudolf Hess, il più noto comandante di Auschwitz, di cui si può leggere il memoriale scritto prima della sua condanna a morte.
Intervistato da Sonia Combe all'inizio degli anni novanta, Evstignev si dichiarava orgoglioso dell'opera svolta. La sua missione consisteva nella "rieducazione" dei detenuti e, soprattutto, nella costruzione di una linea ferroviaria, la "traccia". Per raggiungere questo obiettivo poteva disporre liberamente, risparmiando o "consumando", secondo le sue esigenze, la forza-lavoro dei deportati. Varie migliaia di zek morirono a Ozerlag lavorando, in condizioni terribili, all'esecuzione di questa impresa. La morte era una conseguenza del clima e del lavoro forzato. In altri termini, essa era considerata come un tratto "normale" dell'esistenza di un campo di concentramento la cui "resa", in termini produttivi, si misurava in chilometri di ferrovia.
Hess era invece il comandante di un complesso sistema concentrazionario il cui nucleo principale, Auschwitz-Birkenau, era un campo di sterminio industriale. Là furono eliminati nelle camere a gas, poi inceneriti nei forni crematori, oltre un milione di ebrei deportati da diversi paesi d'Europa. Il criterio fondamentale per calcolare il "rendimento" di questo campo era il numero dei morti. Ad Auschwitz, lo sterminio non era un sottoprodotto ma una finalità immediata. In conclusione, entrambi i sistemi (i campi di sterminio nazisti e il gulag stalinista) erano incontestabilmente inumani, criminali e totalitari, e come tali vanno condannati. Sarebbe assurdo e indecente voler erigere una distinzione tra i due in base a una gerarchia etica. Ciò non toglie però che la logica del loro funzionamento era tuttavia profondamente diversa. Sul piano epistemologico, questa differenza non è affatto marginale. Ed è precisamente questa differenza che il concetto di totalitarismo ignora e nasconde, limitandosi a prendere in considerazione le analogie tra i due sistemi. Ciò spiega la grande diffidenza degli storici sociali sia del nazismo (Martin Broszat, Hans Mommsen, Detlev Peukert, Ulrich Herbert e molti altri) sia del comunismo (Moshe Lewin, Arch Getty, Shila Fitzpatrick e altri) nei confronti di questo concetto. Tutti gli analisti che hanno cercato di comprendere il comportamento delle società dietro la facciata totalitaria dei regimi hanno dovuto andare oltre le somiglianze esteriori.

Un confronto non approfondito
Indubbiamente, le teorie del totalitarismo hanno stimolato il comparativismo in seno alla storiografia del Novecento. Ma il comparativismo può essere fecondo a condizione di non essere usato come chiave di lettura esclusiva di un evento o di un'epoca. La tendenza dominante tra i teorici del totalitarismo a interpretare nazismo e comunismo come due fenomeni paralleli e indissociabili coglie certo un aspetto importante del processo storico - l'appartenenza di fascismo e comunismo allo stesso contesto europeo, la loro interazione, il rapporto "simbiotico" che unisce rivoluzione e controrivoluzione (secondo la definizione di Arno Mayer) - ma lo proietta in modo unilaterale sul quadro d'insieme. Per Ernst Nolte, il nazismo si spiega soltanto come fenomeno "reattivo" nei confronti del bolscevismo (e i suoi crimini non sarebbero altro che una "copia" di quelli commessi dai bolscevichi nel corso degli anni venti). Per François Furet, questi due regimi furono essenzialmente due reazioni parallele, opposte tra loro ma profondamente interdipendenti, nei confronti dell'Occidente liberale.
Il concetto di totalitarismo favorisce un'interpretazione del nazismo e dello stalinismo che appiattisce entrambi sul piano sincronico, impedendo da un lato di coglierne le radici profonde nella storia russa, tedesca ed europea, dall'altro di studiarne la genesi e gli sviluppi nei tempi lunghi. Questo approccio sincronico ha avuto la conseguenza di ridurre l'orizzonte epistemologico della ricerca. La violenza comunista è stata così ricondotta alla sua matrice "ideologica", il leninismo, evacuando completamente il problema delle sue radici in seno alla società russa. In realtà, come vari studiosi hanno messo in luce, la violenza dello stalinismo era innanzitutto la conseguenza di un progetto di modernizzazione autoritaria e brutale della società russa che si inscriveva nel solco della storia russa. All'inizio della seconda guerra mondiale, il regista Sergej Eizenstein aveva realizzato un film su Ivan il Terribile in cui lasciava intravedere, dietro il ritratto del despota zarista, il profilo del dittatore comunista. Negli anni cinquanta, lo storico Isaac Deutscher aveva a sua volta presentato Stalin come una sintesi di leninismo, comunismo militare e assolutismo zarista. In tempi più recenti, Peter Holquist ha sottolineato che la deportazione dei kulaki, durante la collettivizzazione forzata delle campagne sovietiche del 1930, aveva un precedente storico nel trasferimento coatto di oltre 700 000 contadini nel corso degli anni sessanta dell'Ottocento, messo in atto dallo zarismo per facilitare la russificazione del Caucaso, all'epoca delle riforme di Alessandro II.
Considerazioni simili valgono anche per la Germania hitleriana. Ridurre il nazismo a une reazione - a una forma di violenza preventiva e difensiva - nei confronti del bolscevismo russo, significa perdere di vista le sue premesse storiche, sia materiali sia culturali, nell'imperialismo e nel razzismo europei dell'Ottocento. L'antisemitismo tedesco era nato molto prima della rivoluzione russa del 1917; il concetto di Lebensraum ("spazio vitale") era stato teorizzato dal pangermanismo fin dalla fine dell'Ottocento e non era, in fondo, che la variante tedesca di un'idea imperialista diffusa in tutta Europa. In altri termini, il concetto di Lebensraum era figlio di una visione occidentale del mondo extraeuropeo, considerato come un immenso spazio colonizzabile.
L'idea dell'"estinzione" e dello sterminio delle "razze inferiori" attraversa tutta la cultura europea dell'Ottocento, soprattutto francese e britannica. Nato dalla sconfitta del 1918, dal crollo dell'impero guglielmino e dalla "punizione" del trattato di Versailles, il nazismo aveva trasferito le sue antiche aspirazioni coloniali dall'Africa all'Est europeo. Ma l'India coloniale britannica rimaneva un modello agli occhi di Hitler e la guerra contro l'Urss fu concepita e messa in atto come una guerra coloniale di conquista e di sterminio. Anziché ricercare nel gulag sovietico il "precedente logico e fattuale" del genocidio nazista degli ebrei, come ha fatto Nolte, sarebbe sufficiente rileggere la storia coloniale tedesca, oggi largamente dimenticata, per accorgersi che il genocidio degli herero, messo in atto nel 1904 dalle truppe tedesche del generale Luther von Trotha, nell'Africa sud-occidentale (l'attuale Namibia), fu uno sterminio pianificato che prefigurava sotto molti aspetti la "Soluzione finale" del 1941-45.
Va aggiunto inoltre che la focalizzazione "totalitarista" sul rapporto tra nazismo e comunismo ha messo tra parentesi un nodo storiografico fondamentale, quello del rapporto tra il fascismo italiano e il nazismo tedesco. Nelle sue versioni più radicali, ad esempio quella difesa dallo storico tedesco Karl Dietrich Bracher, l'interpretazione del nazismo come totalitarismo non ammette neppure l'appartenenza della Germania hitleriana a una famiglia politica, quella del fascismo, di origine italiana e di dimensione europea. Una tesi analoga, che pretende di distinguere un totalitarismo "di destra" (tedesco) da uno "di sinistra" (italiano), negandone la parentela e la comune radice fascista, è stata proposta in Italia da Renzo De Felice.

Il rapporto del totalitarismo con la civiltà occidentale
Auschwitz appare, per più ragioni, come un laboratorio privilegiato per studiare la violenza della modernità. La sua organizzazione industriale della morte ha realizzato la fusione dell'antisemitismo e del razzismo con la prigione, l'industria e l'amministrazione burocratico-razionale. In questo senso il genocidio ebraico costituisce un paradigma della modernità piuttosto che la sua negazione. Numerosi tratti del processo di civilizzazione, secondo la definizione che ne hanno dato Max Weber e Norbert Elias, costituiscono le premesse storiche della distruzione degli ebrei d'Europa. Effettivamente, la "Soluzione finale" implicava il monopolio statale della violenza (un crimine di Stato), la razionalità produttiva e amministrativa (il sistema dei campi), l'autocontrollo delle pulsioni (una violenza "fredda", pianificata) e la deresponsabilizzazione etica degli agenti sociali (la "banalità del male"). La Shoah rivela così, come hanno sottolineato Hokheimer e Adorno, una dialettica negativa: la trasformazione del progresso tecnico e materiale in regressione umana e sociale. Se questa è una caratteristica del totalitarismo moderno, esso non va visto come la negazione della civiltà occidentale, ma come una sua manifestazione patologica, come il disvelamento del suo lato oscuro e inumano.

Queste riflessioni critiche non hanno lo scopo di respingere il concetto di totalitarismo come inutile o peggio dannoso. Vogliono soltanto essere una necessaria messa in guardia contro i malintesi che esso ha spesso suscitato e gli abusi che ne hanno segnato la storia. Non si tratta affatto di un concetto inutile, ma la sua pertinenza è limitata e il suo uso richiede alcune precauzioni. Ho già sottolineato il carattere imprescindibile di questa nozione per la teoria e la scienza politica. Credo non se ne possa fare a meno neppure dal punto di vista di un "uso pubblico della storia". Il concetto di totalitarismo è necessario per conservare la memoria di un secolo che ha conosciuto Auschwitz e la Kolyma, i campi di sterminio nazisti e i gulag di Stalin. Il Novecento ha fatto l'esperienza di un naufragio del "politico", se si intende per politico uno spazio aperto al conflitto, al pluralismo delle idee e dell'azione dei cittadini, all'alterità, alla divisione del corpo sociale, in altri termini ciò che Hannah Arendt definiva "l'infra", la vita in comune. Il totalitarismo ha cercato di eliminare questo spazio riducendo l'umanità a una comunità organica, monolitica, chiusa; il totalitarismo ha assorbito la società civile nello Stato, sopprimendola, soffocandola (si tratta, in questo senso, dell'antitesi del comunismo concepito da Marx come "estinzione dello Stato" in seno a una comunità umana emancipata). Il concetto di totalitarismo inscrive questa esperienza del Novecento nella nostra coscienza storica e nella nostra memoria collettiva. Per questo non possiamo farne a meno.

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Nessuno può uccidere nessuno. Mai. Nemmeno per difendersi.