OPERATORI DELL'AIUTO E NUOVO COLONIALISMO di Ektor Georgiakis

PREMESSA

Col colonialismo, durato più di tre secoli, l'Occidente ha dominato e sfruttato molte aree del mondo. Iniziato con la scoperta delle Americhe, si è fondato sulla giustificazione ideologica della "civilizzazione" (i popoli conquistati erano per ciò stesso incivili) e della "salvezza" (con la conversione al cristianesimo). Salvo eccezioni, quando un impero coloniale è terminato, la principale eredità lasciata consisteva in subalternità, povertà, conflitti tribali. Talchè, il colonialismo formale basato sull'occupazione militare, una volta concluso, è stato sostituito da accordi economici e politici che durano tutt'oggi e che garantiscono alle potenze coloniali uno sfruttamento simile al precedente. Non è assurdo effermare che buona parte del progresso economico dell'Occidente si possa ascrivere, oltre che alla schiavitù e al capitalismo, alle dominazioni coloniali.

In questo quadro politico-economico e militare, è interessante sottolineare l'aspetto psicologico che ha accompagnato il colonialismo. Il dominatore coloniale non si considerava un invasore, un aggressore, un potente ma un civilizzatore, un salvatore, un emancipatore. Spesso questa iper-valutazione del colonizzatore era condivisa dai colonizzati, secondo il classico schema psicologico del servo-padrone. Il padrone non ha solo più potere del servo, ma è anche migliore. Aldilà degli aspetti economici e politici, molti Paesi colonizzati hanno avuto pesanti ritardi nella costruzione di una coscienza nazionale e di una società civile in grado di rafforzarla. Ritardi che in parecchi casi perdurano tuttora.

Oggi il colonialismo è formalmente esaurito quasi ovunque, ma sopravvive nella sostanza sotto la forma della subalternità economica. Le materie prime non sono più semplicemente sottratte, ma comprate a costi molti convenienti, con esborsi a ceti locali dominanti che in cambio garantiscono il perpetuarsi dello sfruttamento. In via teorica, l'ONU ha sancito l'autonomia delle singole Nazioni, e l'autodeterminazione dei popoli sembra un'idea universalmente acquisita, insieme a quella del libero mercato. In concreto, il libero mercato è contraddetto ogni giorno dai sistemi di protezionismo doganale che i paesi ricchi impongono ai Paesi poveri. Ma anche da sistemi più "creativi", che quasi tutti usano: l'Europa altera il mercato con l'agricoltura sovvenzionata, e la Cina risponde con la riduzione dei salari. Anche il colonialismo perdura, sotto nuove forme: le missioni di pace e le Ong.

LE MISSIONI DI "PACE"

Le cosiddette "missioni di pace" o di "esportazione della democrazia" sono la più evidente forma moderna del colonialismo. In pratica si tratta dell'invio di militari in Paesi nei quali esistono conflitti o esistono regimi sgraditi all'Occidente. Così come gli spagnoli portavano "la fede" per salvare le anime, e gli inglesi portavano la "civiltà" per emancipare dal primitivismo, gli Usa ed i loro complici portano la pace e la democrazia, con o senza la decisione dell'Onu. L'idea di fondo è la stessa: popoli che si considerano superiori, "aiutano" con le armi, popoli considerati inferiori. L'aiuto non è mai gratuito, e perlopiù richiesto da oligarchie locali, ma su questi dettagli non si sprecano parole. Il principio di autodeterminazione dei popoli e delle nazioni è costantemente calpestato in nome di un globalismo che viene usato a seconda dei casi. Per i diritti umani viene invocato, ma per i protocolli antinquinamento no. Per i diritti delle donne sì, ma per la libera immigrazione no. Per i diritti dei bambini sì, ma per la pena di morte no.

L'intervento coloniale "armato" viene realizzato non solo in casi straordinari e "obtorto collo", ma abitualmente e con entusiasmo. Il militarismo è talmente rinvigorito da diventare opinione comune che inviare truppe a rischiare la vita significa "amare i soldati", e tenerli a casa vivi vuol dire "disprezzare le forze armate". Naturalmente l'intervento coloniale armato è frequente e quasi ovvio nei casi di Paesi considerati "diversi o inferiori". Nessuno ha mai parlato di inviare truppe Onu per dirimere la trentennale guerriglia irlandese o quella ancor più lunga dei paesi baschi. Nessuno propone di mandare soldati sul confine fra Israele e Palestina, o su quello fra India e Pakistan, o su quello fra Russia e Cecenia. Inghilterra, Spagna, Isreale, India e Russia sono "dei nostri", sono membri del club dei salvatori. Gli altri sono quelli che devono essere salvati, col nuovo colonialismo.

GLI OPERATORI DELLA SOLIDARIETA' INTERNAZIONALE

L'arcipelago di coloro che operano in ambito internazionale è praticamente inestricabile. Si va dai funzionari pubblici, ai prestatori d'opera privati ai volontari-missionari. Molti di costoro svolgono un lavoro efficiente ed efficace, ma anche teoricamente giustificato. Questo vale per tutti quelli che intervengono in casi di emergenze straordinarie (tipo Tsunami), tali che il Paese aiutato non può fronteggiarle da solo. Vale anche per coloro che prestano aiuto sanitario in contesti di guerra, a soccorso di entrambe le parti in conflitto. Il carattere di questi aiuti è quello della temporaneità ed eccezionalità. Fra questi operatori va tuttavia fatta una classificazione che renda giustizia e faccia chiarezza sui tantissimi elementi di retorica che accompagnano la solidarietà internazionale.

Distinguere fra volontari e "volontari"
E' doveroso distinguere fra volontari veri e volontari per modo di dire. Delle cinque categorie sottostanti solo la prima è quiella dei volontari, e non è la più affollata, nè la più ricca nè la più potente. Possiamo raggruppare:

  1. Quelli che aiutano e basta, senza voler "convertire" e senza essere retribuiti (sono coloro che prestano soccorso o aiuto gratuitamente, senza aspettarsi niente in cambio, sia all'estero sia nel proprio Paese)
  2. Quelli che aiutano per "convertire" alla fede o alla democrazia (sono i sacerdoti delle varie religioni o i politici di vario orientamento, il cui interesse principale non sta nell'altro ma nell'idea cui si vuole convertire l'altro)
  3. Quelli che vanno all'estero per fare un lavoro che qui non trovano (sono i numerosi giovani che hanno scelto il volontariato come carriera) (1)
  4. Quelli che vanno all'estero perchè il loro lavoro lo chiede (sono i funzionari, i militari, gli addetti alla sicurezza, i commercianti) (2)
  5. Quelli che fanno business (3) (sono i gestori delle organizzazioni profit e non, che fanno del Paese aiutato il loro "mercato")

Martiri o sfortunati?
Nessun membro delle categorie 2, 3, 4, e 5 è criticabile, se non per il fatto che svolge "oggettivamente" un ruolo di tipo coloniale. Quasi tutti sono in buona fede e cercano di fare del loro meglio. Il fatto irritante è la retorica che circonda queste categorie di operatori, alimentata da loro stessi ma soprattutto dal regime imperiale che trae un vantaggio d'immagine nel presentarli in una luce mistica. Eroi, martiri, simboli, sono gli termini usati abitualmente per descrivere le avventure e le disavventure di onesti lavoratori, a volte semplicemente sfortunati. Essere rapiti durante una missione all'estero offre il diritto ad avere un riscatto pagato, mentre essere rapiti in Italia produce il congelamento dei conti bancari. Morire all'estero implica un funerale di Stato, mentre morire in Italia produce al massimo 5 minuti al telegiornale. Quanti, dei più di mille morti sul lavoro ogni anno, hanno goduto dei funerali di Stato? (4)

Operatori coloniali
Moltissimi svolgono un lavoro catalogabile come "coloniale" per i motivi che seguono.

  1. Il lavoro degli operatori stranieri collude con l'ignavia e la insensibilità dei ceti dominanti locali
    I servizi offerti dagli operatori stranieri esonerano gli Stati a crearne di propri. Paesi come la Romania hanno finanziato le proprie politiche sociali con il mercato delle adozioni. In secondo luogo tali servizi ottundono la forza dei cittadini più bisognosi di esigerne: i sacerdoti o i laici che hanno cercato di spingere gli assistiti a lottare per i propri diritti sono stati bollati (e magari uccisi) come "rivoluzionari". Infine, attenuano la consapevolezza generale sui maggiori problemi sociali: è raro che un Paese aiutato entri in un ciclo di rivendicazioni autonome. Questi fenomeni sono ancora più evidenti nei Paesi non del tutto poveri o addirittura ricchi, come il Brasile, l'India o il Kenia. Tutto il danaro che questi Paesi non spendono in politiche sociali, viene dilapidato in armamenti o in ville dell'oligarchia.
  2. Il lavoro della "solidarietà" rallenta la crescita di una società civile responsabile e competente
    Nei Paesi avanzati, i bisogni sociali diventano parte di una coscienza collettiva e parallelamente mettono in moto processi di formazione di figure professionali e organizzazioni capaci di soddisfarli. Le professioni dell'aiuto sono a pieno titolo una buona fetta della società civile e della sua coscienza. Esse vivono anche sul fatto che i cittadini o lo Stato, o entrambi, si fanno carico dei loro costi.
    Se la Germania o l'Inghilterra, agli inizi del Novecento, avessero aperto decine di studi di psicologia e psicoanalisi gratuiti nel nostro Paese, come avrebbero potuto svilupparsi una psicologia e una psicanalisi italiane? Gli Stati "aiutati" cadono facilmente nella tentazione di appaltare un problema sociale ai volontari stranieri che non gravano sul bilancio locale e tamponano l'emersione dei bisogni. La società civile considera il problema risolto, e non si orienta a retribuire ciò che può evere gratis. Il risultato è che non crescono le professioni e le organizzazioni di aiuto locali, e la società civile perde una risorsa necessaria allo sviluppo.
  3. Gli operatori dell'aiuto, anche senza volere, svalorizzano la cultura locale
    Un esempio vistoso di questo fenomeno è apparso in occasione dello Tsunami. L'opinione occidentale è stata che la sciagura era stata favorita dalla disorganizzazione dei paesi colpiti. Come se uno Tsunami che si abbattesse sulla costiera amalfitana o su Rimini dovesse farci assistere ad un'evacuazione ordinata e senza vittime. Infatti il destino ha presentato, dopo lo Tsunami, il disastro di New Orleans, di fronte al quale pochi hanno sottolineato l'inefficienza e il degrado della prima Nazione del mondo. Se un disastro colpisce "noi" è una sciagura; se colpisce "loro" è frutto di incuria, incompetenza, scarsa civiltà. E' insito nell'aiuto, se non è caratterizzato dallo scambio, di esprimere una svalutazione dell'aiutante verso l'aiutato. Vengo ad aiutarti, perchè è evidente che tu non sei all'altezza dei tuoi problemi. Di conseguenza, l'aiuto comprende anche un richiamo implicito al ricevitore: che è quello di cambiare, diventare come il soccorritore, abbandonare i vecchi modelli. La esportazione della medicina occidentale avrà fatto anche del bene, ma ha demolito secoli di medicina tradizionale in sudamerica o in africa.
  4. Gli operatori internazionali sono avamposti commerciali del neo-colonialismo
    E' raro che l'intervento di una qualche Ong, finanziato dallo Stato, avvenga in uno Stato privo di interesse commerciale. La "bontà" dell'aiuto, oltre a contenere un'ideologia razzista, è quasi sempre una maschera degli interessi dello Stato neo-colonizzatore. Il gioco diventa visibile quando, esportata la democrazia, il popolo "liberato" elegge regolarmente un governo che mette in discussione i benefici del Paese "emancipatore". Gli aiuti vengono ritirati, viene minacciato l'embargo, e a volte addirittura si alimentano colpi di stato.

L'AIUTO E IL DISPREZZO

L'ideologia dello Stato e degli operatori dell'aiuto è quella di intervenire per soddisfare bisogni di popolazioni in difficoltà. Questa oblatività, come abbiamo accennato, non è quasi mai gratuita e nasconde un odioso sentimento di superiorità. Nessuno Stato "avanzato" accetterebbe di buon grado l'invio di volontari basiliani o indiani, per la protezione dei bambini delle sue bidonville urbane. L'intervento internazionale implica un certo grado di disprezzo per i Paesi fruitori degli aiuti. Ma c'è un aspetto anche più sgradevole. Ed è il disprezzo che tale intervento mostra verso i bisogni insoddisfatti dei Paesi avanzati. Missioni militari e umanitarie hanno un costo economico e di attenzione, che dovrebbero gravare su Paesi che al loro interno hanno superato i principali problemi. Non è così.
Nessuno si domanda cosa prova una madre che vive in una "favela" urbana italiana, nel sentire del pullulare di iniziative per i bambini brasiliani o rumeni. Nè cosa pensano i cittadini di intere province sottomesse alla mafia, per la carenza di Forze dell'Ordine, nel conoscere la quantità di miliardi di euro spesi dall'Italia per "mantenere l'ordine e la pace" in Afghanistan. O quali sono i sentimenti di africani immigrati in Italia per lavorare e rinchiusi nei lager di "accoglienza", di fronte ai miliardi spesi per "lo sviluppo" nei loro Paesi d'origine. O ancora, come si sentono i circa 6 milioni di italiani riconosciuti essere al di sotto della soglia di povertà, nel sentire dell'urgenza di investire risorse per i Paesi "poveri".

L'intervento militare o umanitario all'estero, quando non è straordinario e temporaneo non è solo un'affermazione di neo-colonialismo e di velato disprezzo per i Paesi aiutati, ma una dimostrazione di svalutazione dei problemi di quei concittadini che vivono anche peggio dei popoli "assistiti".

NOTE

1) Il programma degli UNV (Volontari delle Nazioni Unite) offre a giovani qualificati e motivati l’opportunità di realizzare interessanti esperienze professionali nei settori della cooperazione tecnica allo sviluppo, dell’assistenza alle collettività locali, dell’assistenza umanitaria e del reinserimento sociale e, infine, del Peace-building, dei diritti umani e dell’assistenza e monitoraggio per le consultazioni elettorali. 2000 volontari di più di 130 diverse nazionalità operano in 140 paesi in stretto collegamento con l’UNDP (Programma delle Nazioni Unite per lo Sviluppo) per l’attuazione di progetti di varia natura (nel campo tecnico, economico, sociale, alimentare, sanitario...). Collaborano con governi, banche di sviluppo, ONG e con altre istituzioni internazionali come l’UNHCR (Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati), l’UNICEF (Fondo delle Nazioni Unite per l’Infanzia), l’UNESCO (Organizzazione delle Nazioni Unite per l’Educazione, la Scienza e la Cultura), l’IFAD (Fondo Internazionale per lo Sviluppo Agricolo), l’OIM (Organizzazione Internazionale per le Migrazioni) e il Dipartimento delle Nazioni Unite per le Operazioni di Mantenimento della Pace. I volontari percepiscono una indennità piuttosto bassa che varia da 750 a 1400 dollari mensili (Fonte). Vedi anche "Ideali e carriera" - Un lavoro nella cooperazione intenazionale (qui)

2) La carriera nelle Organizzazioni Internazionali (Fonte).....La retribuzione si compone di due elementi principali: il salario base e le indennità. I salari oscillano dai 27 mila dollari (al netto di tasse) di una posizione iniziale P1 ai 79 mila dollari (sempre netti) per un D2. In alcuni casi, ai funzionari sono garantiti dei benefit: dall’affitto della casa alla scuola dei figli. Poi ci sono i cosiddetti post adjustments, ulteriori indennità legate al costo della vita (come la variazione del tasso di cambio) della sede di lavoro. La correzione viene effettuata mensilmente e mira ad assicurare ai salari dell’Organizzazione parità di potere d’acquisto in tutte le sedi. Gli aggiustamenti dipendono dal livello del funzionario e dal numero dei familiari a carico. Le informazioni sulla retribuzione sono contenute nelle stesse vacanze di posto.

3) Nel solo 1999 l'Istat censiva nel settore del volontariato internazionale circa 35.000 addetti e circa 1.000 miliardi di finanziamenti

4) In occasione della giornata mondiale per la sicurezza e la salute, anche l'Inail ha divulgato i suoi dati sulla situazione dell'Italia nel 2004. Secondo l'istituto gli infortuni mortali nel nostro Paese sono in diminuzione, anche se restano ancora vicini alla media di 4 al giorno. L'anno scorso gli incidenti sul lavoro denunciati all'Inail sono stati nel complesso 938.613 (-1,4 per cento rispetto 2003), con circa 1.400 casi mortali (-1,3 rispetto ai 1.418 registrati nel 2003). Il dato è ancora provvisorio, spiega l'Inail, 'perché nel calcolo devono essere compresi i decessi avvenuti entro 180 giorni dalla data dell'infortunio'.

Casi mortali - infortuni sul lavoro stati UE Anni 1994 - 2003 (dati INAIL EUROSAT)
1994
1995
1996
1997
1998
1999
2000
2001
2002
2003
1.325
1.267
1.128
1.229
1.300
1.234
1.202
1.067
967
991