PROGETTO P.A.I - Piano Assistenziale Individualizzato

Premessa

Nel nostro lavorare per servizi risiede un'ipotesi di fondo e sintetizzabile nei termini di risposta ai bisogni degli anziani erogando una serie definita di prestazioni, determinate in maniera a-prioristica, la cui validità è stabilita a monte da ordini professionali, dalla tradizione operativa, dai mansionari. Secondo questa logica, che si esprime nella determinazione di un continuum con l'esperienza passata, assistenziale e di beneficienza, la qualità di vita dell'anziano dovrebbe essere garantita dalla somma di attività standardizzate, ritenute corrette sulla base di assunti teorici, normativi, stabiliti una volta per tutte. L'agire, in base a questa logica che comunque caratterizza molte strutture, è giusto in quanto tale e non perché legato agli effetti che determina. Si controllano le procedure e l'esecuzione delle prestazioni, dal controllo delle procedure dipende essenzialmente la qualità e l'efficacia del servizio. L'utente, come si può intuire, è estromesso in quanto persona ma è oggetto di dinamiche volte al bacino d'utenza in un offerta che gioca in un tutto indistinto.

LAVORARE PER PROGETTI

Quando si lavora per progetti, nel caso specifico si cerca di considerare i bisogni degli anziani, le loro modificazioni nel tempo che divengono determinanti per decidere le azioni concrete da sviluppare. Il giudizio di queste azioni sarà strettamente legato agli effetti che sortiscono e non giudicate aprioristicamente valide. La loro correttezza sarà consequenziale e strettamente legata al sistema di rilevazione del bisogno che permette di leggerli ed interpretarli nel tempo per verificare se, e in quale misura, gli interventi e le prestazioni svolte hanno permesso di raggiungere gli obiettivi che avevano ispirato tali azioni. Si può quindi notare come, il lavoro per progetti, destituisca il potere burocratico e degli ordini, per ridonarlo all'azione contingente che ha come obiettivo la promozione del benessere dell'individuo utente.

Quando si parla di anziani istituzionalizzati e del lavoro che si compie su di essi, occorre parlare di rafforzamento o al limite mantenimento delle capacità residue. Se parliamo di anziani in termini di malattia, la visione pessimistica che sottende quest'ottica ci spingerebbe verso l'abbandono e la spersonalizzazione dell'anziano stesso.

Oggi, con la crisi del Welfare, lo Stato è costretto a riadattare gli interventi ponendo all’attenzione l’obiettivo della cultura della qualità. L’impegno dunque deve dirigersi verso progetti che, proponendosi il raggiungimento di certi obiettivi abbiano in animo le verifiche procedurali e dei risultati raggiunti. E quando, se non in un momento di crisi, possiamo augurarci un cambiamento che non sia solo annunciato o al massimo evocato?

Per fare questo occorre che le strutture siano elastiche, pronte a rimettersi in discussione svincolandosi dalle gabbie concettuali e procedurali in cui sono, a tutt’oggi, ingessate, per far spazio alla sperimentazione che assuma l’utente/cliente portatore unico di bisogni e che ridoni quindi alla persona il ruolo di protagonista verso cui indirizzare, con movimenti sinergici, interni ed esterni alla struttura, le nostre strategie di intervento.

Una buona progettazione deve proporsi di:

PIANO DI ASSISTENZA INDIVIDUALIZZATO (PAI)

Il Piano di Assistenza Individuale (P.A.I) nella sua accezione progettuale si propone l’obiettivo di evitare di dare a tutti una risposta uguale, generalizzata, per poter invece porre l’accento sulla personalizzazione dell’intervento.

Va oltremodo evitato l’approccio all’anziano nei soli termini di salute/malattia che sono estremamente riduttivi se non fuorvianti, occorre invece avere una visione multi dimensionale dell’anziano stesso e dirigere gli interventi verso il mantenimento o il recupero delle potenzialità residue ancora ravvedibili.

Con i P.A.I si passa da un’organizzazione lavorativa che affida agli operatori la semplice esecuzione delle mansioni ad una in cui tutti coloro che operano all’interno dell’organizzazione vengono responsabilizzati in vista di determinati obiettivi. Il PAI dunque è uno strumento che ci consente la focalizzazione dell’attenzione sull’ospite il quale, sentendosi maggiormente considerato può incrementare quell’autostima che spesso viene invece a perdere nel momento in cui entra in una struttura che lo considera un non individuo, uno tra gli altri. L’attenzione quindi verso problemi emergenti, individuali, attuando strategie non standardizzate ma contingenti e con-divise, restituisce dignità all’anziano ma conferisce pure maggiore dignità e senso all'operare del personale che, a diverso titolo, presta la sua professionalità all’interno della struttura. Tutti quindi, responsabilmente, sono chiamati a dare il personale contributo per il raggiungimento degli obiettivi che, all’interno del PAI, ci si è prefissati di ottenere.

LA PERSONA   

Come già abbondantemente sottolineato, la Persona singola nel PAI viene ad assumere un posto centrale verso cui dirigere gli interventi del nostro lavorare per progetti.

 La persona viene posta all’attenzione di una équipe che lavora per conoscere i suoi bisogni, la sua storia, le sue potenzialità e le sue aspettative ed in base a queste analisi predispone interventi affinché i bisogni vengano soddisfatti e le potenzialità residue incoraggiate e rafforzate.

Occorre dunque muoversi verso una conoscenza approfondita della persona. Porre al centro la persona significa conoscere le sue abitudini, i suoi usi e costumi, il suo passato, i suoi ricordi, la sua storia clinica, i suoi problemi familiari, le sue abilità passate o ricercate pure in forma residua affinché ci si ponga l’obiettivo di farle riemergere. Ogni intervento sarà comunque unico, cosi come unica sarà la persona verso cui il “piano” indirizza gli interventi. Ognuno ha una sua propria personalità, un suo carattere ben definito, una sua storia personale, cosi che persone apparentemente simili sotto diversi aspetti, abbisognano di strategie differenti di intervento perché interventi, valutati buoni per alcuni, possono invece risultare inefficaci se non addirittura controproducenti per altri. In questo modo riusciremmo a dare senso e dignità alla persona, conferendogli l’opportunità di decidere Lei stessa in primis a quali interventi, se la mente è ancora lucida, sottoporsi e a quali no. Cercare di ridonare il senso del vivere all’anziano significa cercare di farlo partecipe di un progetto che ponga obiettivi seppur minimi in un ottica che è in divenire.

INTEGRAZIONE DELL’OSPITE

Sarebbe auspicabile che, sin dall’inizio, anzi da prima che l’ospite entri in struttura, avvenisse tra l’ospite e la struttura stessa una conoscenza reciproca.

Ad esempio dovrebbero essere incoraggiate visite a casa del futuro ospite, in modo da poter predisporre azioni che partano da un continuum  con l’ambiente famigliare, raccogliendo informazioni sul suo modo di vivere, informazioni sul suo modo di stare a tavola, osservazioni su come e dove l’anziano in casa passa il suo tempo, informazioni di carattere sanitario,  osservazioni sulla sua rete familiare, abitudini di vita…etc.

 Di converso, sarebbe auspicabile che l’anziano possa essere condotto alcune volte (2-3 volte) per un paio di ore, nella struttura che lo ospiterà. Questo dovrebbe consentire di rendere meno traumatico il distacco dell’anziano dalla propria abitazione e facilitare il suo ingresso in struttura. L’anziano infatti al suo ingresso non si troverà di fronte volti sconosciuti e la paura e l’inquietudine dovute al distacco saranno maggiormente sedate da un ingresso progressivo.

IL TUTOR

Il ruolo del “Tutor” è fondamentale nel tipo di lavoro che ci si è riproposti di portare avanti. Il Tutor infatti viene ad essere una figura di riferimento per l’anziano. Questa figura, assunta da un AdB, instaura il primo contatto con l’ospite ad iniziare dal pre-ingresso, accompagna l’ospite in vista di una migliore integrazione nella struttura, si occuperà di quell’ospite in maniera particolare e diverrà il Suo principale punto di riferimento. Il tutor deve essere presente il giorno di ingresso dell’anziano nella struttura e dovrà occuparsi di alcune attività di “fiducia”, quali il riordino del guardaroba o l’accompagnamento a visite mediche. Tutte le osservazioni periodiche, giornaliere, settimanali o mensili, dovranno essere riportate dal tutor in apposite schede (Schede di osservazione) o cartelle al fine di averle costantemente aggiornate e registrare eventuali note aggiuntive. Ogni tutor si occuperà in maniera particolare di 3-4 ospiti, senza ovviamente trascurare gli altri. Le schede che il tutor tiene costantemente aggiornate saranno fonte di informazione, nel tempo, che contribuiranno in maniera fondamentale alla stesura del PAI. Il successo dipende quindi anche dal farsi carico delle responsabilità di ciascun tutor.Estremamente importanti risultano essere le osservazioni che si possono compiere in relazione alle reazioni dell’anziano nei primi giorni di ingresso in struttura. L’addetto all’assistenza di base (tutor) dovrebbe avere uno schedario che riporti domanda quali: si alimenta? Dorme? Comunica? E’ orientato? Importante è rilevare lo stato d’animo all’ingresso nella struttura cosi come è importante sapere se è consapevole del luogo in cui si trova.

LA VALUTAZIONE MULTIDIMENSIONALE (V.M.D)

Come ho avuto modo di rimarcare, il PAI è uno strumento che consente, da una parte di delineare delle linee guida che si indirizzano verso un’assistenza individualizzata e ben organizzata, mentre dall’altra si presenta come un ottimo strumento di comunicazione organizzativa tra tutti coloro che, a vario titolo, si occupano dell’anziano “fragile”.

E’ opportuno, proprio per la peculiarità del PAI di prescindere dall’osservazione, far passare una ventina di giorni dall’ingresso dell’ospite in istituto. Questo per dar modo e tempo al Tutor di compilare in maniera attendibile le schede con indice Barthel.

Trascorso tale periodo è opportuno fissare l’incontro per redigere il PAI.

A questo punto è opportuno introdurre il VMD strumento che consente la valutazione dell’anziano ospite da un punto di globale.

Il disegno portato avanti in sede parlamentare nel gennaio del 1992 dal POSA (Progetto Obiettivo Salute dell’Anziano) e divenuto parte integrante del Piano Sanitario Nazionale, determinava le linee guida ministeriali miranti ad uniformare le direttive regionali in modo da arrivare gradualmente a livello nazionale ad adottare un unico strumento di VMD.

In linea generale, la VMD si inquadra perfettamente nella direzione individuata dal legislatore anche nella L.328/2000 che si augura una integrazione tra l’istanza sociale e quella sanitaria. Da parte sua, il Piano Sanitario Nazionale 1998 – 2000, (L. 229/99) indicava tra le priorità per il cambiamento, una profonda revisione organizzativa dei servizi sanitari e sociali, in modo da realizzare un’effettiva integrazione a tre livelli: istituzionale, gestionale e professionale. Ne è emerso che, uno dei campi in cui è maggiormente sentita la necessità di questa integrazione è proprio quello riguardante l’assistenza continuativa all’anziano “fragile”.

La metodologia in questione, recepita come detto dal POSA, è stata introdotta nel nostro paese dalla Società Italiana di Gerontologia e Geriatria (SIGG) e richiede un approccio più complesso che per il passato, in cui si deve tener conto non solo delle malattie, in essere o pregresse, ma anche del contesto socio - ambientale e delle peculiarità psichiche e funzionali del paziente anziano. Questo modo di accostarsi al problema sotto differenti punti di vista, viene definito: Valutazione Multidimensionale.

Tutto questo presuppone un approccio multidisciplinare o multiprofessionale che potrà dare un quadro preciso della condizione dell’anziano nella sua globalità.

Quindi, come detto, all’interno dei Piani di Assistenza Individualizzati (PAI) si inserisce a tutto diritto la VMD, metodologia nella quale vengono identificati, descritti e spiegati i molteplici problemi che investono l’individuo anziano. Vengono definite le sue capacità funzionali (potenziale residuo); viene stabilita la necessità di servizi assistenziali; viene sviluppato un piano di trattamento e di cure, nel quale i differenti interventi siano commisurati ai suoi specifici bisogni ed ai suoi problemi.

Il SIGG pone all’evidenza che le cure dell’anziano istituzionalizzato risultano più efficaci quando si affrontano e si tengono in considerazione i principali elementi che promuovono la sua fragilità in età avanzata e che sono identificabili mediante VMD esplorando le seguenti aree:

Abbiamo dunque nella VMD uno strumento utile che ha come obiettivo quello di definire in modo complessivo lo stato di salute di una persona anziana.

Con il termine “valutazione” si intende porre l’accento su un’analisi accurata della capacità funzionali e dei bisogni che la persona anziana presenta a vari livelli, livelli che possiamo riassumere:

  1. Livello biologico e clinico (stato di salute, segni e sintomi di malattia, livelli di autonomia, ecc..)
  2. Livello psicologico (tono dell’umore, capacità mentali superiori, ecc..)
  3. Livello sociale (condizioni relazionali, di convivenza, situazione abitativa, economica, ecc..)
  4. Livello funzionale (disabilità, ovvero capacità a compiere uno o più atti quotidiani come lavarsi, vestirsi, salire le scale, ecc..)

Per la realizzazione della VMD è intuitivamente indispensabile il coinvolgimento di una équipe multiprofessionale che riesca a dar risposta a tutte le domande espresse nei Livelli sopra menzionati e che individui e con-divida gli obiettivi che l’équipe stessa andrà a verificare, predisponendone tempi e modalità di verifica.

FORMAZIONE PERMANENTE

L’équipe di cui ho parlato, lavorerà in situazione gruppale, seguendo il metodo del “gruppo autocentrato sul compito”. All’interno del gruppo deve essere inserito un “conduttore” o trainer  facilitatore o animatore, che avrà il ruolo di centrare il gruppo verso il compito per cui il gruppo operativo è stato costituito. Il trainer, predisporrà i tempi di operatività che devono, proprio perché il gruppo possiede un setting minimo costitutivo, essere definiti a-priori. In genere, per una buona definizione multidimensionale, possiamo parlare di incontri della durata media di un ora e mezza, anche se va detto che, nei primi incontri potrebbero occorrere tempi più lunghi, anche perché ciò che caratterizza un gruppo all’inizio del suo nascere è la diffidenza reciproca, ponendo i membri costituenti il gruppo in una situazione in cui i ruoli sono congelati e per questo piuttosto statici. Comunque, anche per questioni organizzative o/e di risorse, ogni contesto adatterà i tempi al fatto contingente.

Diciamo che, un gruppo autocentrato sul compito, si muoverà verso tre direttrici dinamiche:

Senza dettagliare in maniera specifica le dinamiche che ho elencato, anche perché, seppur a mio parere la fase gruppale assume l’aspetto di fulcro essenziale ed operativo vero e proprio, l’esplicitazione delle dinamiche gruppali abbisognerebbero di altra sede per essere approfondite. Va comunque sottolineato che, nella fase del COMPITO ogni soggetto si fa penetrabile e gli stereotipi si sgretolano. Questo aspetto sottolinea il fatto che, nel momento in cui si avvia un gruppo di lavoro, i membri partecipanti, seppur abbiano un compito concreto da risolvere, non possono non trovarsi di fronte a quello che potrebbe essere chiamato sottocompito, e che è proteso a dar risoluzione a tutte le problematiche che coinvolgono il NOI, QUI ed ORA. In pratica vi sarà un primo momento in cui il Gruppo si dedica a sé stesso, quindi il gruppo diverrà, nella sua accezione problematica, compito del gruppo.

Il Tempo viene prestabilito, come detto, ed entra nel setting, ed il perché risulta abbastanza intuibile. Occorre dare un “tempo possibile”, nella risoluzione di un problema, anche perché un compito potrebbe durare tutta la vita, avere nuove informazioni e rischieremmo di lavorarci all’infinito. Occorre dunque realisticamente pensare che potrebbe esserci una parte del compito che, al momento, non viene vista.

Parti costitutive del gruppo sono, il gruppo, il trainer o facilitatore, ed il tempo.

Questa strategia operativa, offre momenti che possiamo definire di “Formazione permanente”. Il lavoro di gruppo è infatti diretto al “problem – solving”, infatti, ciò che pensa e comunica un membro del gruppo, stimola negli altri idee nuove e nuove forme di pensiero creativo (brain – storming). Questo processo, magari lento nella fase di avvio del gruppo, dopo un po’ di tempo, porta più velocemente ad avere soluzioni adeguate al fatto contingente. Quindi migliori soluzioni rispetto ai bisogni che via via vengono manifestati.

LE SCHEDE AD INDICI BARTHEL

Le schede con indici di Barthel, sono schede validate scientificamente. Hanno il compito di rendere immediata la comunicazione sullo stato dell’ospite osservato da differenti punti di vista.

Ogni assistente di base, o OTA o OSA o OSS, a seconda dei contesti, dovrà possedere adeguata formazione, sia per ciò che concerne le tecniche di osservazione, sia per quel che riguarda la compilazione di queste Schede di primo livello. Per ciò che concerne i Piani di Assistenza Individualizzati (PAI) le AdB dovranno avere in osservazione particolare uno o più pazienti (questo ovviamente dipende dalla struttura cui il progetto si rivolge e quindi dal numero del personale rispetto al numero dei pazienti), ed annotare il tutto nelle schede menzionate che riferiranno lo stato dell’ospite in termini di indici numerici. Le AdB avranno quindi a disposizione uno schedario che descrive attraverso gli indici, lo stato funzionale del paziente (autonomo – dipendente – totalmente indipendente), ed altre schede che faranno riferimento alla valutazione della mobilità. La somministrazione del          Mini Mental State, può essere effettuata sempre dalle AdB, purché vengano preventivamente formate ad una adeguata prassi somministrativa e, quindi, alla compilazione di queste schede di primo livello.

A sua volta, pure il medico dovrà lavorare su schede ad indici Barthel, proprio per una necessità di comunicazione e per un certo rigore scentifico cui non è possibile sottrarsi. Il medico dunque, (medico di famiglia, o medico di medicina generale, a seconda dei contesti) dopo aver dato conto dei dati generali riguardante l’ospite, opererà una valutazione sul paziente per una anamnesi clinico-farmacologica registrando le condizioni specifiche che richiedono assistenza infermieristica. Nello specifico le schede faranno riferimento a valutazioni sensorie e comunicative.

Infine la valutazione sociale che, sempre attraverso uno schedario compatibile, andrà a rilevare Dati generali e domanda di intervento, l’assistenza e gli alimenti, l’abitazione ed il reddito.

Queste figure saranno quindi chiamate, dopo aver compiuto una esaustiva osservazione, a lavorare in équipe ed ogni membro sarà chiamato a descrivere il paziente sotto il proprio punto di vista. Per far questo occorre fissare il primo incontro di équipe a non prima di 20 giorni dall’ingresso in istituto del paziente, tempo ritenuto in linea generale sufficiente affinché l’AdB, che quindi rivestirà il ruolo di “Tutor” dell’ospite, compia una sufficiente ed esauriente osservazione dello stesso.

L’équipe, in cui dovrebbe essere inserito pure un famigliare dell’ospite, avrà una conoscenza pluridimensionale della persona. Quindi, con la tecnica centrata sul compito, ed attraverso quindi un trainer, tenterà nella fase successiva alla descrizione dell’ospite, e dopo aver individuato il potenziale residuo, di condividere uno o più obiettivi per cui l’équipe stessa andrà a predisporre i tempi di verifica. Il gruppo potrebbe ritenere di servirsi di professionisti esterni, quindi deve essere circolare e aperto.

Puntando, tra gli obiettivi primari, al mantenimento dell’autonomia, mi pare ovvio rimarcare che non secondariamente emerge l’abbattimento dei costi. Questo sia perché, le energie vengono mirate e concentrate su un obiettivo condiviso, sia perché i costi aumentano con l’aggravarsi della perdita di autonomia.

Posso fare un esempio pratico:

supponiamo che in un’équipe qualcuno faccia notare che il paziente sta perdendo la funzionalità di un arto per cui fa sempre più fatica a nutrirsi da solo, l’équipe a questo punto potrebbe ritenere utile consultare un fisiatra. Il fisiatra, inserito momentaneamente nell’équipe, potrebbe ritenere che con un minimo di esercizio quotidiano il paziente potrebbe riacquistare o comunque non perdere l’autonomia. L’équipe a sua volta, condividendo l’obiettivo, predisporrà con il fisiatra un tempo ed un metodo di lavoro e quindi un tempo di verifica. Il paziente, se l’obiettivo sarà centrato, non avrà bisogno di qualcuno che lo aiuti a nutrirsi.