Introduzione
La cittadella scolastica è ufficialmente espugnata, ma i
conquistatori, varcatane la soglia, stanno provando la sensazione
di aver lottato per un cumulo di macerie.
Credo che il vissuto dei rappresentanti eletti nei vari Consigli
di Circolo e di Istituto non sia molto lontano da questo. Per gli
inguaribili ottimisti è arrivata la doccia scozzese aggiuntiva;
le sedute del Consiglio devono restare chiuse al pubblico.
E' previsto che in questa stanza si infrangeranno troppi tabù,
perché lo spettacolo possa essere pubblico. E poi il Ministro
deve avere pensato che tenere in segretezza le sedute," possa
dare loro quel tocco di importanza che i Decreti avevano trascurato.
Che la stanza del Consiglio di Circolo o di Istituto si appresti
a diventare una graticola per uomini di buona volontà non
c'è dubbio. E per dimostrarlo possiamo analizzare le posizioni
di personaggi principali e le possibili scene di questa rappresentazione
drammaturgica nazionale. Le posizioni sono essenzialmente tre.
La prima è quella progressista, illuminata e positiva dei
grandi centri urbani e delle zone industrializzate del Paese. I
rappresentanti di questa ottica ritengono gli Organi Collegi ali
una conquista di quel Movimento che lavora almeno dal '968 a favore
di un assetto più democratico delle istituzioni. La famosa
gestione sociale della scuola, sembra avere avuto avvio: la Comunità
si appropria della Scuola mediante l'ingresso ufficiale della famiglia;
gli Insegnanti cominciano a vivere da vicino una dimensione politica;
gli studenti hanno avuto il riconoscimento di uno spazio decisorio
che, pur essendo inferiore a quello strappato in certi casi della
Contestazione, non è del tutto trascurabile. I più
scettici di questo «partito della Partecipazione» hanno
fin dall'inizio fatto notare che il potere effettivamente strappato
alla burocrazia scolastica è molto scarso; ma a questa obiezione
alcuni hanno risposto con la teoria della gradualità, ed
altri hanno espresso la speranza di poter compensare la scarsa forza
formale con un consistente potere informale.
La seconda posizione è quella conservatrice, negativa e difensiva
rintracciabile nei gradi più alti della gerarchia scolastica
e nelle zone tradizionalmente meno avanzate del Paese. Secondo quest'ottica
gli Organi Collegi ali si collocano su diversi gradini di una scala
negativa: per alcuni sono una seccatura; per altri un'ingiustificata
invasione di campo; per altri ancora sono il cavallo di Troia del
disfattismo nazionale. I ragionamenti di questo «Partito della
Conservazione» si appellano alla competenza dei tecnici della
scuola che rischia di scontrarsi col velleitarismo degli estranei;
alla libertà di insegnamento che verrebbe inquinata; alla
perdita di tempo che deriva dalla partecipazione; al pericolo che
«la politica entri nella Scuola».
Alcuni rappresentanti di questa categoria stanno cercando una altra
occupazione; altri sono fiduciosi che la grande cittadella scolastica
reggerà anche a questo attacco e dunque restano passivi;
altri, infine, lottano a colpi di commi, circolari e citazioni di
Hegel e Dewey per respingere il nemico.
La terza posizione è quella degli Extra, critica e fantasiosa,
largamente minoritaria ma agguerrita dialetticamente e culturalmente.
Costoro leggono gli Organi Collegiali come l'ennesimo trucchetto
del Sistema, che incapace di trasformare la Scuola in qualcosa di
sensato, trasferisce il moribondo incurabile nelle mani di qualcuno
che si assuma la responsabilità di seppellirlo. Ma non è
tutto.
Il secondo obiettivo della Legge, sarebbe quello di spuntare le
unghie al potere assembleare offrendo in cambio un importante surrogato,
quello dei delegati.
Fra questi membri del «partito del Rifiuto» molti hanno
scelto l'astensionismo, il non riconoscimento degli Organi Collegiali
e la continuazione della lotta con lo strumento assembleare. Altri,
malgrado lo scetticismo, hanno accettato di partecipare egualmente
ma con l'intenzione di dare grande battaglia.
Va detto che queste tre differenti posizioni, come capita spesso
in organismi di base, non rispecchiano i partiti tradizionali, ma
li attraversano diagonalmente. Questa affermazione si può condividere
osservando atteggiamenti e comportamenti reali, al di là dei
dichiarati.
Le aggregazioni sono più distinguibili se si tiene conto dei
ruoli sociali: le famglie si collocano in prevalenza nel partito della
Partecipazione; insegnanti, presidi e direttori in quello della Conservazione,
gli studenti nel partito del Rifiuto.
Ovviamente le divisioni non sono così nette e presentano sfaccettature:
i casi più amletici sono quelli di insegnanti, che sono nel
contempo genitori di figli adolescenti. Le tre posizioni li attraversano
producendo crisi a volte drammatiche.
Gli atteggiamenti, le motivazioni, le aspettative con cui tutti questi
ruoli si apprestano ad agire nella situazione collegi aIe sono talmente
numerosi e contraddittori, tanto confusi e conflittuali che lo spettacolo
sarà da «Commedia degli equivoci».
Il rischio è che mentre a porte chiuse si recita a soggetto
ed il pubblico si accalca all'ingresso, il moribondo (cioè
la Scuola) deceda.
Poi potremo disquisire se era questo che voleva il Grande Regista,
o se gli Attori erano inadeguati ed il Pubblico maleducato.
Per non limitarmi al ruolo di critico teatrale, che recensisce a spettacolo
avvenuto, cercherò di immaginare l'azione scenica e di dare
qualche contributo agli attori.
Riuscirà lo psicodramma a sortire effetti catartici e metabletici?
Gli organi collegiali come aggregati di sottogruppi
La lunga storia isolazionista della scuola e le modalità elettorali
adottate nei Decreti, contribuiscono a presentare i vari consigli
come un insieme di sotto gruppi. Quello dei genitori, quello degli
insegnanti, il gruppo dell'apparato e il gruppo degli studenti.
Queste divisioni sono evidentemente secondarie rispetto alle contraddizioni
principali della Scuola, ma resteranno sul tavolo per parecchi anni
ancora.
I genitori hanno un atteggiamento da espugnatori vittoriosi: dopo
anni di estraniazione dal processo pedagogico dei figli, si sentono
investiti di una missione innovatrice che li porta a sottovalutare
i rischi cui vanno incontro. Spettano loro, infatti i compiti più
gravosi. Da una parte devono dimostrare che una democrazia delegata
può anche non soffocare quella assembleare e diretta, anzi
ne può essere lo stimolo e l'efficace strumento operativo.
Questo richiede la capacità e la volontà di mobilitare
e tenere i contatti con una massa che, per la vita alienante che conduce
e per la formazione scolastica ricevuta, vive della delega, aborrisce
i conflitti e mira essenzialmente alla soluzione di problemi contingenti
e corporativi.
Dall'altra parte i genitori devono riuscire ad intaccare le linee
difensive su cui si attesterà la burocrazia scolastica per
giungere al cuore dei problemi cioè all'aspetto pedagogico
del processo formativo. Questo importa una capacità politica
notevole di azione su problemi all'apparenza tecnici e didattici;
la forza di non diventare solo massa di manovra per le lotte organizzativistiche,
come l'aumento delle aule o l'instaurazione dell'isola pedonale; la
volontà di giocarsi il ruolo di «sindacato per la promozione
dei propri figli».
Perchè tutto ciò sia possibile è necessario combattere
sia l'atteggiamento passivo del genitore che si sente onorato di poter
collaborare col signor Preside, sia l'atteggiamento euforico dei genitori
che vogliono «far vedere come si fa a far scuola». I genitori
non devono affiancare nessuno, ma neppure sostituire qualcuno; possono
al contrario ritenersi una porzione di comunità che si riappropria
del controllo politico della scuola. E fare politica nella scuola
significa contribuire a decidere gli obiettivi dell'educazione e la
congruità fra gli obiettivi prescelti ed i mezzi adottati per
raggiungerli.
Naturalmente in una istituzione in cui aleggia da sempre il fantasma
del Potere, cioè del conformismo col vertice e dell'ordine
che ne consegue, questi obiettivi risultano assai ardui.
A tutto ciò si aggiungono le limitazioni oggettive derivanti
non tanto dalla scarsità di potere riconosciuto agli Organi
Cotlegiali, quanto al fatto che la singola scuola è un subsistema
inserito in sistemi più vasti sui quali è difficile
incidere. Basta pensare ai rapporti fra scuola e mercato del lavoro.
Questo è un problema sia nella fase di input che in quella
di output dei processi che avvengono nell'istituzione scolastica.
Il mercato del lavoro è un condizionamento in entrata per i
problemi del personale, ma lo è soprattutto in uscita con l'inserimento
degli allievi nel mondo produttivo. Problemi del genere escono dalle
possibilità degli Organi Collegiali, ma ne condizionano pesantemente
l'autonomia. Realisticamente possiamo indicare come obiettivo di raggiungere
il controllo del potere che è dentro l'istituzione, cioè
quello che finora appartiene in esclusiva al preside o agli insegnanti.
Questo ridimensiona le speranze di certi genitori, ma soprattutto
li costringe ad affrontare il conflitto inevitabile con la «line»
scolastica.
Questa difficoltà ad influenzare i sistemi esterni della scuola
porterà anche ad insanabili
contraddizioni con gli allievi, figli dei genitori delegati. Di fronte
ad una radicalizzazione delle lotte studentesche contro la scuola
ed u sistema, i genitori vivranno il dilemma della scelta fra la rassegnazione
e la chiamata della Polizia per la repressione dei propri figli.
Gli insegnanti ed i presidi hanno alcuni atteggiamenti comuni ed altri
contrastanti. Quelli comuni riguardano la difesa corporativa dei privilegi,
della conoscenza, e del potere di decidere su ciò che è
educativo e ciò che non lo è.
Entrambi intuiscono come tutta l'operazione Decreti Delegati sancisca
la fine della loro autocrazia e intravedono un futuro difficile in
cui proprio ad essi è richiesto il massimo cambiamento.
Proprio loro che sono riusciti a passare indenni anche dalla tempesta
provocata dalla Legge
istitutiva della Scuola Media Unificata, riuscendo a mantenere immutati
atteggiamenti, potere ed abitudini pedagogiche, sono ora di fronte
ad una massiccia intrusione dall'esterno che li chiama a mettersi
discussione.
La reazione comune è difensiva. Le differenze in tal senso
riguardano solo i temi su cui collocare la Maginot: alcuni rifiutano
ogni indietreggiamento, altri si accontentano di arroccarsi sulle
questioni pedagogiche e didattiche accettando di cedere sugli aspetti
organizzativi. Paradossalmente queste difese corporative spingono
la «line» scolastica a solidarizzare anche laddove esistono
profondi dissensi fra direzione ed insegnanti.
Proprio su questo punto stanno le diversità, quando esistono.
Gli Insegnanti giocano negli Organi Collegiali la loro ultima carta
per la conquista di un'autonomia, fino ad oggi negata di fatto. Se
da una parte sono portati a difendersi dall'intrusione dei genitori,
dall'altra si rendono conto che l'apertura è l'unica possibilità
di emancipazione dall'autorità, troppo sovente autocratica
del Direttore e del Preside.
Quest'ultimo a sua volta si trova nell'ambivalenza fra continuare
a difendere la struttura scolastica, rischiando il ruolo di parafulmine
verso i genitori, o tentare una collusione con questi ultimi rischiando
l'ingovernabilità della Scuola. Contestando l'inizio di un
processo di freno al pieno potere, il preside risponde o con un sostanziale
ritiro dell'investimento emotivo (« ora la Scuola è vostra
voglio vedere cosa siete capaci di fare») o con un recupero
ed un rinforzo della funzione superegoica (<< qui comando io»).
Sembra ormai palese infatti che l'autorità del Responsabile
della Scuola non è solo il modo per soddisfare le mire di potere
del singolo o per fungere da longa manus del sistema.
Questa autorità soddisfa anche il bisogno di dipendenza e sicurezza
della classe insegnante e il bisogno di garanzie delle famiglie che
sono soggette all'estraniazione dal processo pedagogico.
L'agitare il fantasma dell'Autorità e del Potere è dunque
frutto di una collusione a tre fra preside, insegnanti e genitori.
I presidi abdicati e permissivi non fanno che facilitare l'emersione
di ansie persecutorie e depressive, che spingono a comportamenti irrazionali
se non sono compensate in qualche modo.
Solo una minoranza di presidi e direttori, riesce a trovarsi un ruolo
diverso che non sia
autoririo né permissivo, ma autenticamente democratico.
Il che si spiega ovviamente col fatto, che, mentre per certe masse
popolari d'avanguardia i Decreti Delegati possono essere il frutto
di una lotta quasi decennale, per la maggioranza della popolazione
vicina o dentro la scuola (genitori, insegnanti, preside, ecc.) i
Decreti hanno il carattere di illuminata e spesso non richiesta concessione.
I direttori o presidi più democratici si scontrano proprio
contro la reatà di una scuola non preparata ad accettare un
loro nuovo ruolo.
Infine, gli allievi. Anche essi sono di fronte a contraddizioni sempre
più evidenti. Le lotte del '68 nate con l'obiettivo di battere
l'autoritarismo familiare e scolastico si sono giustamente agganciate
quasi subito ad una lotta contro il sistema di cui scuola e famiglia
non sono che due aspetti secondari. Ora però, perfezionata
quasi ossessivamente l'analisi, agli studenti non restano che due
strade: o abbandonare la scuola per continuare la lotta laddove si
esprimono le contraddizioni principali, o lottare nella scuola per
superare le sue contraddizioni peculiari. La via battuta finora, nelle
scuole superiori delle grandi città, di combattere il Sistema
nell'ambito di una istituzione secondaria sembra assai poco proficua.
Fra l'altro c'è uno spreco di risorse per obiettivi assolutamente
inadeguati: fare scioperi, cortei ed occupazioni perché il
professore di lettere abolisca i voti o i libri di testo poteva essere
necessario nel 1969.
Ora il problema è qualificare la scuola di massa, affinché
i milioni di studenti che ci sono arrivati non siano sottoposti ad
una truffa colossale. I temi della contestazione ritornano nella scuola:
è questo il ragionamento che devono aver fatto i gruppi giovanili
(troppo pochi) che hanno partecipato alle recenti elezioni.
Tuttavia questa necessità di lavorare all'interno mal si concilia
sia con le ansie rivoluzionarie e totalizzanti dei giovani, sia con
gli oggettivi condizonamenti dei microsistemi limitrofi sul sistema
scuola.
Allora assisteremo a giovani delegati nei Consigli che lotteranno
per cambiare i programmi scolastici ed una volta riusciti, voteranno
a favore della chiamata della Polizia per sedare quei compagni che
ritengono i programmi solo un dettaglio?
Oltre a ciò esiste per gli studenti un problema analogo a quello
degli insegnanti: la dipendenza dall'autorità. Gli studenti
sono passati allo stadio adolescenziale della contro dipendenza, ma
questo è ancora poco per gestire un ruolo innovativo. Il manicheismo
generazionale apolitico e lo schematismo ideologico sono difese rassicuratorie,
che oltre a non essere funzionali al cambiamento sono proprio gli
stessi atteggiamenti rimproverati alle controparti. Anche il problema
delle assemblee è una spia dell'insicurezza giovanile. L'esistenza
dei delegati può essere vista come un di più rispetto
alla forza delle assemblee, che sono vissute finora con la forza della
propria autolegittimazione. Né possono mancare gli accorgimenti
tecnici per garantire la votazione e il controllo di base dei delegati.
Cosa temono gli studenti? La contaminazione col nemico o il misurarsi
su problemi reali?
I problemi fin qui evidenziati riguardano il modo di porsi dei vari
sottogruppi chiamati negli Organi Collegiali. Vorrei accennare ad
altri due aspetti della questione. .
Anzitutto i numerosi casi di soggetti con più ruoli contemporanei:
la insegnante che è madre di due figli che frequentano le superiori
è attraversata da tre atteggiamenti diversi.
Il fenomeno è tutt'altro che raro e genera cnsi profonde ed
ambiguità a vari livelli. Il secondo
aspetto della esistenza di sottogruppi è quello della chiusura
di ciascuno all'altro e del tacito patto di solidarietà fra
i membri.
Tentativi di collaborazione e gesti di comprensione sono vissuti come
un tradimento e causano l'emarginazione. Così c'è l'insegnante
che «corteggia» i genitori, ed il genitore che «si
vende» per la promozione del proprio figlio; il Preside che
«scavalca» gli insegnanti e l'insegnante «che seduce»
gli allievi. I gruppi difensivi non ammettono devianza.
Gli organi collegiali come gruppi
L'esistenza di sottogruppi ha un ruolo difensivo ma è anche
l'origine di schemi stereotipati. Ciascun sottogruppo vive l'altro
non sulla base di situazioni concrete ma per presunzioni e pregiudizi.
Questo è nel con tempo la causa ed il risultato di una totale
assenza di comunicazione negli Organi Collegi ali. Per comunicazione
intendiamo instaurare un rapporto fra soggetti che si percepiscono
come suscettibili di mutamento; o la volontà e la capacità
di influenzarsi reciprocamente. Si trattadi un circolo vizioso' che
parte dall'esistenza dei sotto gruppi e della motivazione a vincere:
Il risultato è che o viene agito un conflitto
distruttivo (vincere/perdere) oppure il conflitto viene inibito: in
entrambi i casi i sottogruppi aumentano la coesione difensiva e il
Consiglio diminuisce la possibilità di funzionamento.
La via d'uscita consiste invece nella rottura dei sotto gruppi e nella
ricerca di costituire il Consiglio come unità di appartenenza.
Ma dato che i sottogruppi hanno una funzione difensiva o rassicuratoria,
dove pescano i singoli componenti la sicurezza per comunicare, interagire,
cioè costituire il Consiglio come gruppo?
La rottura di sottogruppi richiede fiducia, credibilità, disponibilità,
visione del generale rispetto al particolare, accettazione del plurale
e rifiuto dell'individuale: ma è proprio l'assenza di questi
dati l'origine dei sottogruppi.
Il circolo sembra vizioso e consente di prevedere che solo dall'esterno
degli Organi Collegiali può venire un aiuto al superamento
delle loro contraddizioni.
La dinamica dei sottogruppi non è l'unica ad interferire nel
funzionamento degli Organi Collegiali.
Basta pensare al tema della leadership. Chi condurrà il gioco
durante le sedute? Chi influenza chi? Certo presidi e direttori partono
avvantaggiati per potere e competenza, malgrado la legge abbia assegnato
ad un genitore la presidenza del Consiglio di Circolo e d'Istituto.
Oltretutto come presidente della Giunta il preside ha uno strumento
in più rispetto al genitore presidente del Consiglio.
I conflitti di potere fra organo decisorio e organo esecutivo, andranno
ad aggiungersi a quelli fra leadership formale e leadership informale.
Spesso il genitore eletto come presidente è minoritario fra
i genitori, ma è stato rafforzato dall'appoggio del preside
e degli insegnanti: questo porta inevitabilmente all'emergere di una
leadership informale fra i genitori in contrasto magari col genitore
eletto presidente.
Poi il linguaggio. Come in una Babele si incontrano negli Organi Collegi
ali quattro o cinque
linguaggi diversi. Quello burocratico-formale del capo d'Istituto,
sottile e curiale o arrogante e punitivo; quello didattico degli insegnanti,
tecnico e puntiglioso, categorico e sussiegoso; quello concreto dei
genitori, ingenuo e sprovveduto o pragmatico e sbrigativo; quello
dei non insegnanti, rozzo e aggressivo immediato e spesso sindacalizzato;
infine il linguaggio degli studenti (dove ce ne sono), metafisico
e hippy, provocatorio e sloganistico.
Il primo risultato di questo crogiolo è ovvio: l' incomprensione.
E' il colmo del paradosso: uomini che escono dalla stessa Scuola Italiana,
che in nome dell'uniformità linguistica nazionale e dell' uguaglianza
fra le categorie seleziona selvaggiamente, non riescono ad usare gli
stessi codici semantici. Pensiamo cosa diventano in questi Organi
discussioni su parole come: politica, libertà, educazione,
obiettivi scolastici, apprendimento. Con tali problemi di linguaggio
la prima tentazione è quella di non avviare alcun dialogo;
parlare con chi è già d'accordo; non ascoltare e non
dare feed-back.
Essendo scarsa la comunicazione i rapporti sono stereotipati: ogni
persona è solo parte di un
sottogruppo oppure l'incarnazione di un'ideologia o di un partito;
gli atteggiamenti sono rigidi, chiusi, difensivi. Ogni decisione rischia
di essere non il frutto di un'interazione collettiva ma la conseguenza
di conflitti e alleanze fra stereotipi.
Ciascun comportamento è previsto: le destre, il centro, le
sinistre con la stessa sclerosi del più vieto parlamentarismo.
In molte situazioni non si arriva neppure a disoccultare conflitti
stereotipati. Qui vige la parola del fair play, del silenzio ammiccante,
del rispetto per l'autorità, della maledizione del dissenso.
Sono i casi gattopardeschi, con i genitori che plaudono, consentono
e sostengono, gli insegnanti che concordano, appoggiano, solidarizzano
ed i presidi che si rallegrano, sono onorati ed onorano la SCUOLA-MAESTRA-DI-VITA-DA-LASCIARE-COM'E'.
Qui non ci sono problemi di leadership nè di
comunicazione: è la sacra rappresentazione dell'ipocrisia.
Dove il direttore interpreta l'ideale bonario austero e illuminato;
gli insegnanti fanno la parte dei sacrificati, missionari, santificati
officianti dell'Educazione; i genitori recitano nella maschera dei
rispettosi, perbenisti, laici onorati di essere ammessi al rito pedagogico.
Il balletto è macabro perché si svolge intorno alla
bara del cambiamento e della Scuola. Il conflitto agito per stereotipi
come quello inagito, portano agli stessi risultati: persistenza dei
sottogruppi, assenza di dialettica, legittimazione delle leadership
solo in base alla forza, emarginazione delle minoranze, assenze di
muamento.
Questi problemi possono essere superati o almeno elaborati solo da
interventi esterni, come sempre avviene nelle istituzioni secondarie
della nostra società (cioè in quelle in cui agisce solo
indirettamente la contraddizione principale fra capitale e lavoro).
Questi interventi possono essere di tre tipi.
Anzitutto la dinamica socioeconomica: l'aumento di nuove domande sociali,
un riassetto del mercato occupazionale, un cambiamento del quadro
politico o della organizzazione del lavoro. E' quello che è
successo nel decennio 1960-1970: una serie di mutamenti sociali ed
economici che si sono ripercossi sulla istituzione scolastica scuotendo
gli equilibri tradizionali e mettendo in crisi i ruoli e gli schemi
di riferimento.
In secondo luogo l'intervento di forze esterne alla Scuola (comitati
di quartiere, forze sindacali, movimenti giovanili, ecc.) che interessandosi
ad essa possono spingere le forze interne a rivedere i propri modelli
di funzionamento. E' quello che è accaduto negli ultimi anni,
creando migliaia di occasioni di cambiamento nelle singole situazioni
scolastiche del Paese.
I mutamenti macrosociali e le spinte politico-sindacali periferiche
sono la condizione necessaria per indurre innovazioni nella Scuola
(forse un risultato è proprio la 477), ma certo non sono la
garanzia sufficiente. Perdurando le suddette condizioni esterne, ché
certo in una situazione economicamente stagnante e politicamente regressiva
la Scuola non troverebbe forze autogene per il cambiamento occorre.
un terzo intervento «dal di fuori »: quello formativo.
Riprendendo lo schema utilizzato all'inizio di questo capitolo, il
problema, vista 1'innegabile esistenza di sotto gruppi presenti negli
Organi Collegiali, è quello di trasformare la motivazione a
vincere (innescatrice di una spirale che rafforza le difese dei singoli
e dei sotrogruppì), in una motivazione a collaborare:
In altre parole per i membri degli Organi Collegiali si tratta di
passare da un comportamento infantile ad uno adulto: la motivazione
a vincere, al potere di controllo, alla difesa dalla propria dispersione
sono legate allo stadio anale dello sviluppo psichico; la motivazione
a collaborare, ad instaurare la relazione sociale è legata
allo stadio genitale, cioè maturo.
Il passaggio fra questi due stadi è certamente facilitato da
fattori macrosociali che provocano
contraddizioni oggettive, le quali a loro volta possono disoccultare
conflitti intrapsichici o interpersonali; ma la elaborazione di questi
ultimi è uno spazio che solo la formazione permanente può
efficacemente gestire.
Innovazione educativa, Organi Collegiali e formazione permanente
Gli Organi Collegiali rappresentano certamente un cambiamento, magari
modesto, all'interno di mutamenti più generali della società.
Alcuni insegnanti, affermano che la Scuola è impreparata a
queste innovazioni, dimenticando che il dibattito sulla Gesione Sociale
della Scuola è iniziato agli alboridegli anni '60. Fondato
o infondato che sia, certamente uno shock per questa innovazione c'è
stato.
In effetti il quadro della Nuova Scuola che si profila all'orizzonte
è esattamente rovesciato rispetto a quello tradizionale.
Utilizzando schematicamente le cinque variabili principali di ogni
organizzazione, il salto di qualità radicale è evidente:
|
Scuola Tradizionale
|
Scuola Ipotesi
|
Obiettivi-Scopo |
Adattamento
|
Innovazioni
|
Organizzazione |
Gerarchico-Piramidale
|
Collegiale
|
Ruoli |
Trasmissione-Comando
|
Animazione-Coordin.
|
Contenuti |
Cultura borghese
|
da elaborare
|
Metodi-Tecniche |
Autoritari-Passivanti
|
Ricerca Attiva
|
Malgrado possiamo riconoscere che nessuno dei due modelli esiste allo
stato puro, essendo ciascuno un limite ad uso logico, vale la pena
di fare alcune considerazioni.
Nella scuola tradizionale, quella di una società statica e
integrata, l'obiettivo pedagogico è quello di modellare le
nuove generazioni sulle precodenti; l'organizzazione che consente
di raggiungere un simile obiettivo è quella burocratica, gerarchizzata
e accentrata; i ruoli conseguenti sono quelli del comando e della
trasmissione dei valori e delle conoscenze della generazione precedente;
i contenuti, essendo la generazione prebellica egemonizzata dalla
classe borghese, sono quelli che la cultura borghese indica come oggettivi,
scientifici e metastorici; indispensabile per il funzionamento di
questa istituzione è l'uso dei metodi autoritari (selezione,
repressione, manipolazione, paternalismo, ecc.) e di tecniche passivizzanti
di fronte alle quali il discente sia duttile ricettore.
Questo è il quadro nel quale gli attuali uomini della Scuola
e la maggioranza dei genitori eletti, sono stati educati e selezionati.
Uno scenario discutibile ma con qualche vantaggio: quello della rassicurante
chiarezza, del consenso pressoché generalizzato, della immutabilità.
Uno scenario con tutte le caratteristiche per essere vissuto come
padre autorevole e madre protettiva.
Gli svantaggi principali di questa impalcatura come la costrizione
alla dipendenza, la castrazione dell'autonomia e della creatività,
la sclerotica e l'asfissiante monotonia, erano compensati da alcuni
vantaggi, almeno per gli operatori scolastici: la sicurezza e la dcresponsabilizzazione;
lo status sociale e il potere sugli allievi; il rapporto stipendio
/ tempo occupato che fino agli anni '60 era piuttosto invidiabile.
Anche per i genitori c'era qualche vantaggio: la sicurezza del quadro
ideologico, la deresponsabilizzazione educativa e là garanzia
della monetizzazione dell'impegno scolastico.
Per una serie di motivi che già gli altri hanno evidenziato,
il quadro tradizionale si è sgretolato e continua a decomporsi.
Sono spariti per tutti i vantaggi precedenti, si sono evidenziati
gli svantaggi aggravati dalla crescente conflittualità, e infine
si sono messi in discussione i presupposti che sostenevano l'obiettivo
dell'adattamento (cioè che il sistema sociale sia fondamentalmente
buono).
L'origine principale di questa metamorfosi è da ricercare nell'aumento
di potere del Proletariato nell'accelerazione del tasso di cambiamento
del sistema industriale avanzato.
La Scuola Nuova che si profila è inserita in una società
uItradinamica e talmente disintegrata da sfiorare l'anomia.
L'obiettivo pedagogico non è quindi conservare e riprodurre,
ma facilitare il cambiamento offrendo alle giovani generazioni strumenti
e metodologie perché possano costruire la società che
preferiscono.
Da una Scuola di contenuti ad una di metodi. L'unica organizzazione
che può facilitare questo
passaggio è quella partecipata e collegi ale, sia perché
rispecchia meglio la realtà sociale ormai policratica sia perché
partecipazione e collegialità sono i cardini del Metodo cui
la Nuova Scuola è finalizzata.
I ruoli interni a questo tipo di organizzazione che non ha alcuna
cultura da trasmettere, diventano quelli dell'animatore e del coordinatore
dei processi educativi , garanti e sostenitori del Metodo.
I contenuti non ci sono, o meglio sono la sintesi effettuata da tutte
le parti sociali in causa, in
quella fucina di elaborazione culturale che diventa la Scuola; meglio
ancora sono quelli che la
fantasia, la creatività e i bisogni degli allievi sapranno
inserire nella griglia metodologica.
Tutto ciò è realizzabile solo attraverso il metodo della
ricerca, di cui i discenti sono i soggetti attivi. Questo nuovo scenario
offre qualche vantaggio, assieme ad un considerevole numero di problemi.
I vantaggi sono la maggior aderenza alla situazione storica attuale,
dinamica e conflittuale; la soppressione della pesante ipoteca che,
con la scuola tradizionale, i padri più potenti mettono sui
figli di tutti i cittadini; il riconoscimento di valori come la creatività,
l'autonomia, il dissenso, la partecipazione e l'uguaglianza. I problemi
sono però più numerosi dei vantaggi.
Alcuni nascono dalle stesse caratteristiche dei vantaggi elencati:
il loro carattere è emotivo,
spirituale, etico-estetico, forse sentimentale, certamene utopico.
Purtroppo tra essi non si annovera il raddoppio dello stipendio del
personale, né la garanzia per i licenziati o diplomati di posti
di lavoro qualificati e lautamente retribuiti.
Inoltre resta il fatto che la Scuola Adattiva esiste e, malgrado l'avanzato
stadio di decomposizione, gode dell'appoggio di larghi e potenti strati
sociali: nostalgici, autoritari, idealisti, borghesi, conservatori,
abitudinari, ispettori ministeriali, operatori della vecchia guardia
scolastica, amanti dell' ordine ecc. ecc.
La Scuola Innovativa invece è ancora da fare: in qualche luogo
vagisce appena; altrove è solo un lontano progetto; per i più
è un incubo terrificante.
Il primo problema è dunque sociologico: come innovare la Scuola
contro la evidente volontà dei molti oppositori.
Abbiamo detto prima che il quadro tradizionale aveva qualche vantaggio:
sicurezza e protezione, consensi unanimi, immutabilità, status
e potere. In termini psicologici tutto ciò ha un valore considerevole
specie per individui addestrati dalla scuola e dalla società
a ritenere considerevoli proprio questi valori.
La sicurezza delle norme e dei riferimenti valoriali consente la deresponsabilizzazione,
non implica crisi né ansietà; la unanimità permette
di evitare i conflitti, di controllare l'aggressività (rivolta
quindi contro oggetti socialmente considerati' spregevoli), di non
dover gestire sensi di colpa; l'immutabilità permette la ripetizione
risparmiando dall'insicurezza della sperimentazione e della fantasia;
lo status e il potere soddisfano al bisogno sadico-anaIe e compensano
delle frustrazioni.
L'innovazione significa realizzare l'utopia buona, ma perdere tutti
i suddetti benefici infantili: essa, quand'anche voluta, è
temuta e produce atteggiamenti ambivalenti.
Il secondo problema è dunque psicologico: come innovare la
Scuola contro la nostra stessa
ambivalenza.
Infine esiste un terzo problema non trascurabile: superati gli ostacoli
dei nemici e della nostra
ambivalenza, restano i contenuti, le metodologie e le tecniche.
Come riuscire a non considerare i radicali un aspetto focale dell'apprendimento;
come far acquisire il metodo logico-matematico attraverso la ricerca?
Ora i problemi sono didattici e pedagogici: come innovare la Scuola
malgrado la generale
impreparazione. E' chiaro che a questi tre ordini di problemi ci sono
risposte non riducibili alla formazione permanente: la collusione
di forze sociali, la personalità matura dell'insegnante, la
preparazione tecnica e scientifica di base. Tuttavia ritengo che la
formazione sia un modo, parallelo e aggiuntivo non sostitutivo, di
rispondere ai problemi che si frappongono all'innovazione educativa.
Aprire un conflitto con coloro che rifiutano il mutamento significa
avere la capacità di gestire i sensi di colpa; incanalare la
propria aggressività in senso alloplastico; sopportare l'ambivalenza
di un attacco al presente, al passato ed alla struttura in nome di
un futuro ipotetico e sconosciuto.
Rifiutare la sicurezza tradizionale e la protezione deresponsabilizzante
dell'autorità, accettare gli attacchi del dissenso, accettare
il mutamento continuo delle tecniche e degli schemi di riferimento,
rifiutare la gestione di un ruolo autocratico significa avere raggiunto
uno stadio adulto di sviluppo psicologico, quello in cui la sicurezza
è talmente acquisita che consente una perdurante insicurezza.
Così come l'abbandono della solitudine individuale, l'attuazione
di una comunicazione interattiva, la ricerca di riferimenti plurali,
richiedono un elevato grado di fiducia di sé e di disponibilità
metabletica.
E la fiducia nel sé, la relazione sociale e la speranza progettuale
sono «capacità» acquisibili
mediante una formazione permanente. Secondo una nota distinzione la
conoscenza acquisibile da un operatore sociale può essere suddivisa
in tre aspetti: un sapere, cioè una somma di nozioni e informazioni,
un saper fare, cioè una capacità di applicazione, e
un saper essere ovvero una personalità adeguata al compito.
I tre aspetti sono intrecciati, ma è il saper essere il livello
di conoscenza più pieno, comprensivo degli altri due.
Ciò significa che per aumentare la capacità di gestione
del conflitto, della ambivalenza, della
insicurezza e del mutamento non è sufficiente allargare ossessivamente
il cumulo di nozioni scientifiche e tecnico didattiche.
Anzi la ricerca spasmodica di capacità tecniche e teoriche,
e dell'ampliamento delle possibilità cognitive, sono proprio
sintomo di una grossa carenza sul piano psicologico.
Sono la sostituzione della autorità della struttura con l'autorità
della conoscenza razionale.
Per la gran parte degli insegnanti italiani il problema invece è
la formazione al sapere essere.
Una formazione per altro mai avvenuta, dal momento che lo Stato presume
che una buona conoscenza della matematica faccia un buon insegnante
di matematica. Paradossalmente invece i corsi di aggiornamento promossi
dagli enti più svariati e i corsi abilitanti sono finalizzati
alla iperspecializzazione disciplinare. Il che è forse spiegabile
in due modi: trovare iperletterati che insegnino lettere a insegnanti
di lettere è più facile che trovare formatori; poi aumentare
le conoscenze razionali per un insegnante è assai meno ansiogeno
che porsi sul piano del proprio cambiamento personale. In questa congiura
collusiva sono tutti d'accordo, tranne forse coloro che non sono mai
interpellati: gli alunni.
Metodologie e tecniche della formazione permanente
Ho iniziato con qualche riflessione sugli organi collegiali poi mi
sono fermato sui problemi
dell'innovazione educativa, indicando la formazione al sapere essere
come una risposta efficace e possibile. Resta da sottolineare perché
parliamo di formazione permanente e con quale modalità pensiamo
debba esprimersi.
Il passaggio dal modello ad attivo a quello innovativo è ben
altro che un semplice salto dal punto A al punto B: la differenza
è radicale. Non si tratta di capire e sapere agire in un modello
educativo diverso dal precedente ma anche esso chiaro, preciso, delimitato.
Si tratta invece di passare da un modello statico ad uno dinamico,
da un modello codificato ad uno auto-innovantesi, da uno scenario
di certezza passivante ad uno di attiva incertezza.
Ciò significa che il modello innovativo di scuola è
una macchina in movimento, priva di certezze che non derivino dal
suo interno, in costante interazione col mondo.
Gli operatori della Scuola non hanno un altro modello da capire, hanno
da capire che non c'è modello se non nel metodo; non devono
imparare ciò che è cambiato ma devono imparare il cambiamento.
Allora il problema non è risolvibile con una formazione limitata
nel tempo, ma con un supporto periodico che instauri, rafforzi e riattivi
le skills necessarie per la gestione del cambiamento.
La sicurezza, la capacità di gestire i conflitti, l'ottica
plurale, non sono qualità acquisite una volta per tutte. Certo
una evoluzione psichica normale garantisce un «io» maturo
ed equilibrato che dispone in buona misura delle caratteristiche suddette,
ma la dinamica macro-sociale ed il campo micro-sociale spingono sovente
anche 1'« io» adulto a regressioni difensive, specialmente
se il cambiamento marcia nel senso di una diminuizione delle strutture
superegoiche.
La responsabilizzazione, la riappropriazione di parti alienanti della
nostra decisionalità chiede una espansione della sfera d'azione
dell'« io» e quindi nuovi equilibri tra desiderio e realtà,
pulsioni e norme. L'oscillazione fra repressione e crescita, fra onnipotenza
e impotenza, fra auto ed alloplasticità è un moto perpetuo.
L'individuo investe e disinveste libido, investe su oggetti infantili
e su oggetti etico-estetici, vive momenti maniacali e momenti depressivi,
situazioni autistiche e situazioni plurali in relazione alle strutture
(macro), al campo (micro), ed al suo «io» (sé).
Le tre variabili sono interrelate e in dinamica permanente: da qui
l'esigenza che anche la formazione sia permanente.
La formazione permanente è il momento riflessivo della prassi
permanente, è anzi la condizione perché la prassi, intensa
come azione plastica sul mondo, esista realmente.
La formazione permanente ha due aspetti intersecati, uno è
l'aggiornamento cognitivo circa gli aspetti sociologici, pedagogici
e didattici (sapere e saper fare); l'altro il sostegno emotivo circa
gli atteggiamenti, le motivazioni i comportamenti relazionali (sapere
essere).
Entrambi gli aspetti della formazione sono importanti, ma è
certo che la domanda presente, espressa o latente, fra insegnanti,
direttori o presidi e genitori riguarda per lo più l'aspetto
psicologico.
Le metodologie e le tecniche sono numerose e gli articoli che seguono
offrono riflessioni su alcune di queste.
Fondamentalmente possiamo elencare quattro tipi di metodologia formativa:
1) la formazione all'esterno delle istituzioni: insegnanti direttori
o genitori partecipano a corsi, seminari o laboratori individualmente,
cioè assieme ad operatori appartenenti ad altre scuole o istituzioni.
Questo metodo offre il vantaggio di essere meno minacciante per il
singolo e l'istituzione, ma in compènso ci sono grosse difficoltà
nel trasferire una esperienza formativa in un contesto che non l'ha
vissuta.
2) la formazione per fasce all'interno di una istituzione: di solito
si tratta di iniziative per insegnanti che, se hanno il vantaggio
di operare su una intera categoria, producono l'effetto secondario
di aumentare le difese corporative e di rafforzare i sottogruppi esistenti
nell'organizzazione.
3) la consulenza formativa in gruppi operativi: il Consiglio di classe,
di Circolo o d'Istituto fanno uso di un consulente non allo scopo
di ottenere risposte tecniche ai loro quesiti (è il caso della
consulenza-aggiornamento) ma con l'obiettivo di essere addestrati
a migliorare il loro funzionamento interno. Questa metodologia formativa,
ha il vantaggio di inserirsi in un ambito operativo reale, ma rischia
anch'essa di facilitare la ghettizzazione dei formati.
4) l'intervento psicosociale nelle istituzioni: il consulente o formatore
opera con tutte le componenti della scuola, per aumentare la soddisfazione
e l'autonomia individuale, e facilitare il funzionamento collettivo.
Questa metodologia presenta il vantaggio di smuovere le tre dimensioni
possibili del cambiamento: individuale, micro-sociale e macro-sociale.
Cioè agisce sull'insegnante, sui gruppi formali e informali,
e sulla istituzione intesa come luogo di incontro di tutte le componenti
da essa coinvolte (genitori, quartiere, sindacati ecc.).
Le tecniche formative sono svariatissime, ma raggruppabili in tre
categorie:
A) tecniche non direttive (T-group, seminari di sensibilizzazione
alla dinamica di gruppo, gruppi autocentrati counselling sui processi).
Sono le tecniche in cui il conduttore svolge un
ruolo di assistente mentre soggetto e oggetto dell'apprendimento è
il gruppo di partecipanti.
B) Tecniche attive: drammatizzazione, giochi, casi, discussioni di
gruppo, non verbali ecc.
Sono le tecniche in cui il conduttore guida il processo di apprendimento
coinvolgendo in modo attivo i partecipanti.
C) Tecniche tradizionali (conferenze, tavola rotonda, filmato, lettura).
In questo caso i partecipanti apprendono in stato di passività.
Naturalmente queste categorizzazioni hanno solo una funzione espositiva
e difficilmente vengono usate allo stato puro. Di solito metodologie
e tecniche, vengono mescolate e dosate in base alle esigenze dei partecipanti
e dei formatori.
L'Auto formazione
La formazione permanente al saper essere è uno dei fattori
«esterni» che possono facilitare il
funzionamento collettivo degli organi collegi ali e l'innovazione
educativa.
Essa però può essere un fatto esterno solo per l'avvio
dal momento che la scuola non sembra avere al suo interno forze sufficienti.
li suo obiettivo non può che essere quello di tramutarsi in
autoformazione permanente, cioè in un processo innescato periodicamente
dalla stessa istituzione scolastica.
Per gli insegnanti e i genitori acquisire la capacità di gestire
i conflitti ed il cambiamento,
l'ambivalenza e la relazione sociale, significa anche demitizzare
l'uso dell'esperto. Instaurare con costui un rapporto di dipendenza
è una compensazione alla rottura della dipendenza con l'autorità
scolastica ed un tentativo di giustificare il ruolo autoritario che
insegnanti presidi e genitori giocano a scuola e in famiglia. Naturalmente
è inevitabile che la caduta del ruolo autoritario della struttura
scolastica o del preside, provochi nei genitori o negli insegnanti
l'esigenza di individuare nuovi poli di riferimento.
Questo ancoraggio rassicuratorio non può essere offerto se
non in via trascendente dal consulente. Occorre anche per questo instaurare
nella scuola spazi di funzionamento gruppale affinché questi
fungano da struttura superegoica alternativa.
Gli organi collegi ali o gli altri gruppi informali devono diventare
spazi di sicurezza.
Ma perché non offrano una sicurezza regressiva infantile e
difensiva, devono essere agibili cioè gestibili per il cambiamento.
Perché ciò sia possibile è necessario che non
si riducano ad essere micro-istituzioni alienanti ed emarginanti,
ma siano veri gruppi di appartenenza, spazi di dibattito e crescita.
Proprio questi gruppi devono essere l'unità di auto-formazione,
nella misura in cui sono il luogo delle verifiche, dei confronti e
magari dei conflitti elaborati.
Allora l'autoformazione permanente è lo strumento attraverso
cui l'istituzione verifica e trasforma continuamente se stessa con
l'obiettivo di divenire comunità educativa.
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