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Tratto di "Insieme", n.8-9, 1975, Cemea, Milano
Aspetti psicosociali dell' applicazione degli organi collegiali e formazione permanente di Guido Contessa
Un documento datato ma utile per paragonare la situazione odierna a quella di più di 40 anni fa.
Introduzione
La cittadella scolastica è ufficialmente espugnata, ma i conquistatori, varcatane la soglia, stanno provando la sensazione di aver lottato per un cumulo di macerie.
Credo che il vissuto dei rappresentanti eletti nei vari Consigli di Circolo e di Istituto non sia molto lontano da questo. Per gli inguaribili ottimisti è arrivata la doccia scozzese aggiuntiva; le sedute del Consiglio devono restare chiuse al pubblico.
E' previsto che in questa stanza si infrangeranno troppi tabù, perché lo spettacolo possa essere pubblico. E poi il Ministro deve avere pensato che tenere in segretezza le sedute," possa dare loro quel tocco di importanza che i Decreti avevano trascurato.
Che la stanza del Consiglio di Circolo o di Istituto si appresti a diventare una graticola per uomini di buona volontà non c'è dubbio. E per dimostrarlo possiamo analizzare le posizioni di personaggi principali e le possibili scene di questa rappresentazione drammaturgica nazionale. Le posizioni sono essenzialmente tre.
La prima è quella progressista, illuminata e positiva dei grandi centri urbani e delle zone industrializzate del Paese. I rappresentanti di questa ottica ritengono gli Organi Collegi ali una conquista di quel Movimento che lavora almeno dal '968 a favore di un assetto più democratico delle istituzioni. La famosa gestione sociale della scuola, sembra avere avuto avvio: la Comunità si appropria della Scuola mediante l'ingresso ufficiale della famiglia; gli Insegnanti cominciano a vivere da vicino una dimensione politica; gli studenti hanno avuto il riconoscimento di uno spazio decisorio che, pur essendo inferiore a quello strappato in certi casi della Contestazione, non è del tutto trascurabile. I più scettici di questo «partito della Partecipazione» hanno fin dall'inizio fatto notare che il potere effettivamente strappato alla burocrazia scolastica è molto scarso; ma a questa obiezione alcuni hanno risposto con la teoria della gradualità, ed altri hanno espresso la speranza di poter compensare la scarsa forza formale con un consistente potere informale.
La seconda posizione è quella conservatrice, negativa e difensiva rintracciabile nei gradi più alti della gerarchia scolastica e nelle zone tradizionalmente meno avanzate del Paese. Secondo quest'ottica gli Organi Collegi ali si collocano su diversi gradini di una scala negativa: per alcuni sono una seccatura; per altri un'ingiustificata invasione di campo; per altri ancora sono il cavallo di Troia del disfattismo nazionale. I ragionamenti di questo «Partito della Conservazione» si appellano alla competenza dei tecnici della scuola che rischia di scontrarsi col velleitarismo degli estranei; alla libertà di insegnamento che verrebbe inquinata; alla perdita di tempo che deriva dalla partecipazione; al pericolo che «la politica entri nella Scuola».
Alcuni rappresentanti di questa categoria stanno cercando una altra occupazione; altri sono fiduciosi che la grande cittadella scolastica reggerà anche a questo attacco e dunque restano passivi; altri, infine, lottano a colpi di commi, circolari e citazioni di Hegel e Dewey per respingere il nemico.
La terza posizione è quella degli Extra, critica e fantasiosa, largamente minoritaria ma agguerrita dialetticamente e culturalmente. Costoro leggono gli Organi Collegiali come l'ennesimo trucchetto del Sistema, che incapace di trasformare la Scuola in qualcosa di sensato, trasferisce il moribondo incurabile nelle mani di qualcuno che si assuma la responsabilità di seppellirlo. Ma non è tutto.
Il secondo obiettivo della Legge, sarebbe quello di spuntare le unghie al potere assembleare offrendo in cambio un importante surrogato, quello dei delegati.
Fra questi membri del «partito del Rifiuto» molti hanno scelto l'astensionismo, il non riconoscimento degli Organi Collegiali e la continuazione della lotta con lo strumento assembleare. Altri, malgrado lo scetticismo, hanno accettato di partecipare egualmente ma con l'intenzione di dare grande battaglia.

Va detto che queste tre differenti posizioni, come capita spesso in organismi di base, non rispecchiano i partiti tradizionali, ma li attraversano diagonalmente. Questa affermazione si può condividere osservando atteggiamenti e comportamenti reali, al di là dei dichiarati.
Le aggregazioni sono più distinguibili se si tiene conto dei ruoli sociali: le famglie si collocano in prevalenza nel partito della Partecipazione; insegnanti, presidi e direttori in quello della Conservazione, gli studenti nel partito del Rifiuto.
Ovviamente le divisioni non sono così nette e presentano sfaccettature: i casi più amletici sono quelli di insegnanti, che sono nel contempo genitori di figli adolescenti. Le tre posizioni li attraversano producendo crisi a volte drammatiche.
Gli atteggiamenti, le motivazioni, le aspettative con cui tutti questi ruoli si apprestano ad agire nella situazione collegi aIe sono talmente numerosi e contraddittori, tanto confusi e conflittuali che lo spettacolo sarà da «Commedia degli equivoci».
Il rischio è che mentre a porte chiuse si recita a soggetto ed il pubblico si accalca all'ingresso, il moribondo (cioè la Scuola) deceda.
Poi potremo disquisire se era questo che voleva il Grande Regista, o se gli Attori erano inadeguati ed il Pubblico maleducato.
Per non limitarmi al ruolo di critico teatrale, che recensisce a spettacolo avvenuto, cercherò di immaginare l'azione scenica e di dare qualche contributo agli attori.
Riuscirà lo psicodramma a sortire effetti catartici e metabletici?

Gli organi collegiali come aggregati di sottogruppi
La lunga storia isolazionista della scuola e le modalità elettorali adottate nei Decreti, contribuiscono a presentare i vari consigli come un insieme di sotto gruppi. Quello dei genitori, quello degli insegnanti, il gruppo dell'apparato e il gruppo degli studenti.
Queste divisioni sono evidentemente secondarie rispetto alle contraddizioni principali della Scuola, ma resteranno sul tavolo per parecchi anni ancora.
I genitori hanno un atteggiamento da espugnatori vittoriosi: dopo anni di estraniazione dal processo pedagogico dei figli, si sentono investiti di una missione innovatrice che li porta a sottovalutare i rischi cui vanno incontro. Spettano loro, infatti i compiti più gravosi. Da una parte devono dimostrare che una democrazia delegata può anche non soffocare quella assembleare e diretta, anzi ne può essere lo stimolo e l'efficace strumento operativo.
Questo richiede la capacità e la volontà di mobilitare e tenere i contatti con una massa che, per la vita alienante che conduce e per la formazione scolastica ricevuta, vive della delega, aborrisce i conflitti e mira essenzialmente alla soluzione di problemi contingenti e corporativi.
Dall'altra parte i genitori devono riuscire ad intaccare le linee difensive su cui si attesterà la burocrazia scolastica per giungere al cuore dei problemi cioè all'aspetto pedagogico del processo formativo. Questo importa una capacità politica notevole di azione su problemi all'apparenza tecnici e didattici; la forza di non diventare solo massa di manovra per le lotte organizzativistiche, come l'aumento delle aule o l'instaurazione dell'isola pedonale; la volontà di giocarsi il ruolo di «sindacato per la promozione dei propri figli».
Perchè tutto ciò sia possibile è necessario combattere sia l'atteggiamento passivo del genitore che si sente onorato di poter collaborare col signor Preside, sia l'atteggiamento euforico dei genitori che vogliono «far vedere come si fa a far scuola». I genitori non devono affiancare nessuno, ma neppure sostituire qualcuno; possono al contrario ritenersi una porzione di comunità che si riappropria del controllo politico della scuola. E fare politica nella scuola significa contribuire a decidere gli obiettivi dell'educazione e la congruità fra gli obiettivi prescelti ed i mezzi adottati per raggiungerli.
Naturalmente in una istituzione in cui aleggia da sempre il fantasma del Potere, cioè del conformismo col vertice e dell'ordine che ne consegue, questi obiettivi risultano assai ardui.
A tutto ciò si aggiungono le limitazioni oggettive derivanti non tanto dalla scarsità di potere riconosciuto agli Organi Cotlegiali, quanto al fatto che la singola scuola è un subsistema inserito in sistemi più vasti sui quali è difficile incidere. Basta pensare ai rapporti fra scuola e mercato del lavoro.
Questo è un problema sia nella fase di input che in quella di output dei processi che avvengono nell'istituzione scolastica. Il mercato del lavoro è un condizionamento in entrata per i problemi del personale, ma lo è soprattutto in uscita con l'inserimento degli allievi nel mondo produttivo. Problemi del genere escono dalle possibilità degli Organi Collegiali, ma ne condizionano pesantemente l'autonomia. Realisticamente possiamo indicare come obiettivo di raggiungere il controllo del potere che è dentro l'istituzione, cioè quello che finora appartiene in esclusiva al preside o agli insegnanti.
Questo ridimensiona le speranze di certi genitori, ma soprattutto li costringe ad affrontare il conflitto inevitabile con la «line» scolastica.
Questa difficoltà ad influenzare i sistemi esterni della scuola porterà anche ad insanabili
contraddizioni con gli allievi, figli dei genitori delegati. Di fronte ad una radicalizzazione delle lotte studentesche contro la scuola ed u sistema, i genitori vivranno il dilemma della scelta fra la rassegnazione e la chiamata della Polizia per la repressione dei propri figli.
Gli insegnanti ed i presidi hanno alcuni atteggiamenti comuni ed altri contrastanti. Quelli comuni riguardano la difesa corporativa dei privilegi, della conoscenza, e del potere di decidere su ciò che è educativo e ciò che non lo è.
Entrambi intuiscono come tutta l'operazione Decreti Delegati sancisca la fine della loro autocrazia e intravedono un futuro difficile in cui proprio ad essi è richiesto il massimo cambiamento.
Proprio loro che sono riusciti a passare indenni anche dalla tempesta provocata dalla Legge
istitutiva della Scuola Media Unificata, riuscendo a mantenere immutati atteggiamenti, potere ed abitudini pedagogiche, sono ora di fronte ad una massiccia intrusione dall'esterno che li chiama a mettersi discussione.
La reazione comune è difensiva. Le differenze in tal senso riguardano solo i temi su cui collocare la Maginot: alcuni rifiutano ogni indietreggiamento, altri si accontentano di arroccarsi sulle questioni pedagogiche e didattiche accettando di cedere sugli aspetti organizzativi. Paradossalmente queste difese corporative spingono la «line» scolastica a solidarizzare anche laddove esistono profondi dissensi fra direzione ed insegnanti.
Proprio su questo punto stanno le diversità, quando esistono. Gli Insegnanti giocano negli Organi Collegiali la loro ultima carta per la conquista di un'autonomia, fino ad oggi negata di fatto. Se da una parte sono portati a difendersi dall'intrusione dei genitori, dall'altra si rendono conto che l'apertura è l'unica possibilità di emancipazione dall'autorità, troppo sovente autocratica del Direttore e del Preside.
Quest'ultimo a sua volta si trova nell'ambivalenza fra continuare a difendere la struttura scolastica, rischiando il ruolo di parafulmine verso i genitori, o tentare una collusione con questi ultimi rischiando l'ingovernabilità della Scuola. Contestando l'inizio di un processo di freno al pieno potere, il preside risponde o con un sostanziale ritiro dell'investimento emotivo (« ora la Scuola è vostra voglio vedere cosa siete capaci di fare») o con un recupero ed un rinforzo della funzione superegoica (<< qui comando io»).
Sembra ormai palese infatti che l'autorità del Responsabile della Scuola non è solo il modo per soddisfare le mire di potere del singolo o per fungere da longa manus del sistema.
Questa autorità soddisfa anche il bisogno di dipendenza e sicurezza della classe insegnante e il bisogno di garanzie delle famiglie che sono soggette all'estraniazione dal processo pedagogico.
L'agitare il fantasma dell'Autorità e del Potere è dunque frutto di una collusione a tre fra preside, insegnanti e genitori. I presidi abdicati e permissivi non fanno che facilitare l'emersione di ansie persecutorie e depressive, che spingono a comportamenti irrazionali se non sono compensate in qualche modo.
Solo una minoranza di presidi e direttori, riesce a trovarsi un ruolo diverso che non sia
autoririo né permissivo, ma autenticamente democratico.
Il che si spiega ovviamente col fatto, che, mentre per certe masse popolari d'avanguardia i Decreti Delegati possono essere il frutto di una lotta quasi decennale, per la maggioranza della popolazione vicina o dentro la scuola (genitori, insegnanti, preside, ecc.) i Decreti hanno il carattere di illuminata e spesso non richiesta concessione. I direttori o presidi più democratici si scontrano proprio contro la reatà di una scuola non preparata ad accettare un loro nuovo ruolo.
Infine, gli allievi. Anche essi sono di fronte a contraddizioni sempre più evidenti. Le lotte del '68 nate con l'obiettivo di battere l'autoritarismo familiare e scolastico si sono giustamente agganciate quasi subito ad una lotta contro il sistema di cui scuola e famiglia non sono che due aspetti secondari. Ora però, perfezionata quasi ossessivamente l'analisi, agli studenti non restano che due strade: o abbandonare la scuola per continuare la lotta laddove si esprimono le contraddizioni principali, o lottare nella scuola per superare le sue contraddizioni peculiari. La via battuta finora, nelle scuole superiori delle grandi città, di combattere il Sistema nell'ambito di una istituzione secondaria sembra assai poco proficua. Fra l'altro c'è uno spreco di risorse per obiettivi assolutamente inadeguati: fare scioperi, cortei ed occupazioni perché il professore di lettere abolisca i voti o i libri di testo poteva essere necessario nel 1969.
Ora il problema è qualificare la scuola di massa, affinché i milioni di studenti che ci sono arrivati non siano sottoposti ad una truffa colossale. I temi della contestazione ritornano nella scuola: è questo il ragionamento che devono aver fatto i gruppi giovanili (troppo pochi) che hanno partecipato alle recenti elezioni.
Tuttavia questa necessità di lavorare all'interno mal si concilia sia con le ansie rivoluzionarie e totalizzanti dei giovani, sia con gli oggettivi condizonamenti dei microsistemi limitrofi sul sistema scuola.
Allora assisteremo a giovani delegati nei Consigli che lotteranno per cambiare i programmi scolastici ed una volta riusciti, voteranno a favore della chiamata della Polizia per sedare quei compagni che ritengono i programmi solo un dettaglio?
Oltre a ciò esiste per gli studenti un problema analogo a quello degli insegnanti: la dipendenza dall'autorità. Gli studenti sono passati allo stadio adolescenziale della contro dipendenza, ma questo è ancora poco per gestire un ruolo innovativo. Il manicheismo generazionale apolitico e lo schematismo ideologico sono difese rassicuratorie, che oltre a non essere funzionali al cambiamento sono proprio gli stessi atteggiamenti rimproverati alle controparti. Anche il problema delle assemblee è una spia dell'insicurezza giovanile. L'esistenza dei delegati può essere vista come un di più rispetto alla forza delle assemblee, che sono vissute finora con la forza della propria autolegittimazione. Né possono mancare gli accorgimenti tecnici per garantire la votazione e il controllo di base dei delegati. Cosa temono gli studenti? La contaminazione col nemico o il misurarsi su problemi reali?
I problemi fin qui evidenziati riguardano il modo di porsi dei vari sottogruppi chiamati negli Organi Collegiali. Vorrei accennare ad altri due aspetti della questione. .
Anzitutto i numerosi casi di soggetti con più ruoli contemporanei: la insegnante che è madre di due figli che frequentano le superiori è attraversata da tre atteggiamenti diversi.
Il fenomeno è tutt'altro che raro e genera cnsi profonde ed ambiguità a vari livelli. Il secondo
aspetto della esistenza di sottogruppi è quello della chiusura di ciascuno all'altro e del tacito patto di solidarietà fra i membri.
Tentativi di collaborazione e gesti di comprensione sono vissuti come un tradimento e causano l'emarginazione. Così c'è l'insegnante che «corteggia» i genitori, ed il genitore che «si vende» per la promozione del proprio figlio; il Preside che «scavalca» gli insegnanti e l'insegnante «che seduce» gli allievi. I gruppi difensivi non ammettono devianza.

Gli organi collegiali come gruppi
L'esistenza di sottogruppi ha un ruolo difensivo ma è anche l'origine di schemi stereotipati. Ciascun sottogruppo vive l'altro non sulla base di situazioni concrete ma per presunzioni e pregiudizi.
Questo è nel con tempo la causa ed il risultato di una totale assenza di comunicazione negli Organi Collegi ali. Per comunicazione intendiamo instaurare un rapporto fra soggetti che si percepiscono come suscettibili di mutamento; o la volontà e la capacità di influenzarsi reciprocamente. Si trattadi un circolo vizioso' che parte dall'esistenza dei sotto gruppi e della motivazione a vincere:


Il risultato è che o viene agito un conflitto distruttivo (vincere/perdere) oppure il conflitto viene inibito: in entrambi i casi i sottogruppi aumentano la coesione difensiva e il Consiglio diminuisce la possibilità di funzionamento.
La via d'uscita consiste invece nella rottura dei sotto gruppi e nella ricerca di costituire il Consiglio come unità di appartenenza. Ma dato che i sottogruppi hanno una funzione difensiva o rassicuratoria, dove pescano i singoli componenti la sicurezza per comunicare, interagire, cioè costituire il Consiglio come gruppo?
La rottura di sottogruppi richiede fiducia, credibilità, disponibilità, visione del generale rispetto al particolare, accettazione del plurale e rifiuto dell'individuale: ma è proprio l'assenza di questi dati l'origine dei sottogruppi.
Il circolo sembra vizioso e consente di prevedere che solo dall'esterno degli Organi Collegiali può venire un aiuto al superamento delle loro contraddizioni.
La dinamica dei sottogruppi non è l'unica ad interferire nel funzionamento degli Organi Collegiali.
Basta pensare al tema della leadership. Chi condurrà il gioco durante le sedute? Chi influenza chi? Certo presidi e direttori partono avvantaggiati per potere e competenza, malgrado la legge abbia assegnato ad un genitore la presidenza del Consiglio di Circolo e d'Istituto. Oltretutto come presidente della Giunta il preside ha uno strumento in più rispetto al genitore presidente del Consiglio.
I conflitti di potere fra organo decisorio e organo esecutivo, andranno ad aggiungersi a quelli fra leadership formale e leadership informale. Spesso il genitore eletto come presidente è minoritario fra i genitori, ma è stato rafforzato dall'appoggio del preside e degli insegnanti: questo porta inevitabilmente all'emergere di una leadership informale fra i genitori in contrasto magari col genitore eletto presidente.
Poi il linguaggio. Come in una Babele si incontrano negli Organi Collegi ali quattro o cinque
linguaggi diversi. Quello burocratico-formale del capo d'Istituto, sottile e curiale o arrogante e punitivo; quello didattico degli insegnanti, tecnico e puntiglioso, categorico e sussiegoso; quello concreto dei genitori, ingenuo e sprovveduto o pragmatico e sbrigativo; quello dei non insegnanti, rozzo e aggressivo immediato e spesso sindacalizzato; infine il linguaggio degli studenti (dove ce ne sono), metafisico e hippy, provocatorio e sloganistico.
Il primo risultato di questo crogiolo è ovvio: l' incomprensione. E' il colmo del paradosso: uomini che escono dalla stessa Scuola Italiana, che in nome dell'uniformità linguistica nazionale e dell' uguaglianza fra le categorie seleziona selvaggiamente, non riescono ad usare gli stessi codici semantici. Pensiamo cosa diventano in questi Organi discussioni su parole come: politica, libertà, educazione, obiettivi scolastici, apprendimento. Con tali problemi di linguaggio la prima tentazione è quella di non avviare alcun dialogo; parlare con chi è già d'accordo; non ascoltare e non dare feed-back.
Essendo scarsa la comunicazione i rapporti sono stereotipati: ogni persona è solo parte di un
sottogruppo oppure l'incarnazione di un'ideologia o di un partito; gli atteggiamenti sono rigidi, chiusi, difensivi. Ogni decisione rischia di essere non il frutto di un'interazione collettiva ma la conseguenza di conflitti e alleanze fra stereotipi.
Ciascun comportamento è previsto: le destre, il centro, le sinistre con la stessa sclerosi del più vieto parlamentarismo.
In molte situazioni non si arriva neppure a disoccultare conflitti stereotipati. Qui vige la parola del fair play, del silenzio ammiccante, del rispetto per l'autorità, della maledizione del dissenso. Sono i casi gattopardeschi, con i genitori che plaudono, consentono e sostengono, gli insegnanti che concordano, appoggiano, solidarizzano ed i presidi che si rallegrano, sono onorati ed onorano la SCUOLA-MAESTRA-DI-VITA-DA-LASCIARE-COM'E'.

Qui non ci sono problemi di leadership nè di comunicazione: è la sacra rappresentazione dell'ipocrisia. Dove il direttore interpreta l'ideale bonario austero e illuminato; gli insegnanti fanno la parte dei sacrificati, missionari, santificati officianti dell'Educazione; i genitori recitano nella maschera dei rispettosi, perbenisti, laici onorati di essere ammessi al rito pedagogico. Il balletto è macabro perché si svolge intorno alla bara del cambiamento e della Scuola. Il conflitto agito per stereotipi come quello inagito, portano agli stessi risultati: persistenza dei sottogruppi, assenza di dialettica, legittimazione delle leadership solo in base alla forza, emarginazione delle minoranze, assenze di muamento.
Questi problemi possono essere superati o almeno elaborati solo da interventi esterni, come sempre avviene nelle istituzioni secondarie della nostra società (cioè in quelle in cui agisce solo indirettamente la contraddizione principale fra capitale e lavoro). Questi interventi possono essere di tre tipi.
Anzitutto la dinamica socioeconomica: l'aumento di nuove domande sociali, un riassetto del mercato occupazionale, un cambiamento del quadro politico o della organizzazione del lavoro. E' quello che è successo nel decennio 1960-1970: una serie di mutamenti sociali ed economici che si sono ripercossi sulla istituzione scolastica scuotendo gli equilibri tradizionali e mettendo in crisi i ruoli e gli schemi di riferimento.
In secondo luogo l'intervento di forze esterne alla Scuola (comitati di quartiere, forze sindacali, movimenti giovanili, ecc.) che interessandosi ad essa possono spingere le forze interne a rivedere i propri modelli di funzionamento. E' quello che è accaduto negli ultimi anni, creando migliaia di occasioni di cambiamento nelle singole situazioni scolastiche del Paese.
I mutamenti macrosociali e le spinte politico-sindacali periferiche sono la condizione necessaria per indurre innovazioni nella Scuola (forse un risultato è proprio la 477), ma certo non sono la garanzia sufficiente. Perdurando le suddette condizioni esterne, ché certo in una situazione economicamente stagnante e politicamente regressiva la Scuola non troverebbe forze autogene per il cambiamento occorre. un terzo intervento «dal di fuori »: quello formativo.
Riprendendo lo schema utilizzato all'inizio di questo capitolo, il problema, vista 1'innegabile esistenza di sotto gruppi presenti negli Organi Collegiali, è quello di trasformare la motivazione a vincere (innescatrice di una spirale che rafforza le difese dei singoli e dei sotrogruppì), in una motivazione a collaborare:


In altre parole per i membri degli Organi Collegiali si tratta di passare da un comportamento infantile ad uno adulto: la motivazione a vincere, al potere di controllo, alla difesa dalla propria dispersione sono legate allo stadio anale dello sviluppo psichico; la motivazione a collaborare, ad instaurare la relazione sociale è legata allo stadio genitale, cioè maturo.
Il passaggio fra questi due stadi è certamente facilitato da fattori macrosociali che provocano
contraddizioni oggettive, le quali a loro volta possono disoccultare conflitti intrapsichici o interpersonali; ma la elaborazione di questi ultimi è uno spazio che solo la formazione permanente può efficacemente gestire.

Innovazione educativa, Organi Collegiali e formazione permanente
Gli Organi Collegiali rappresentano certamente un cambiamento, magari modesto, all'interno di mutamenti più generali della società. Alcuni insegnanti, affermano che la Scuola è impreparata a queste innovazioni, dimenticando che il dibattito sulla Gesione Sociale della Scuola è iniziato agli alboridegli anni '60. Fondato o infondato che sia, certamente uno shock per questa innovazione c'è stato.
In effetti il quadro della Nuova Scuola che si profila all'orizzonte è esattamente rovesciato rispetto a quello tradizionale.
Utilizzando schematicamente le cinque variabili principali di ogni organizzazione, il salto di qualità radicale è evidente:

 
Scuola Tradizionale
Scuola Ipotesi
Obiettivi-Scopo
Adattamento
Innovazioni
Organizzazione
Gerarchico-Piramidale
Collegiale
Ruoli
Trasmissione-Comando
Animazione-Coordin.
Contenuti
Cultura borghese
da elaborare
Metodi-Tecniche
Autoritari-Passivanti
Ricerca Attiva


Malgrado possiamo riconoscere che nessuno dei due modelli esiste allo stato puro, essendo ciascuno un limite ad uso logico, vale la pena di fare alcune considerazioni.
Nella scuola tradizionale, quella di una società statica e integrata, l'obiettivo pedagogico è quello di modellare le nuove generazioni sulle precodenti; l'organizzazione che consente di raggiungere un simile obiettivo è quella burocratica, gerarchizzata e accentrata; i ruoli conseguenti sono quelli del comando e della trasmissione dei valori e delle conoscenze della generazione precedente; i contenuti, essendo la generazione prebellica egemonizzata dalla classe borghese, sono quelli che la cultura borghese indica come oggettivi, scientifici e metastorici; indispensabile per il funzionamento di questa istituzione è l'uso dei metodi autoritari (selezione, repressione, manipolazione, paternalismo, ecc.) e di tecniche passivizzanti di fronte alle quali il discente sia duttile ricettore.
Questo è il quadro nel quale gli attuali uomini della Scuola e la maggioranza dei genitori eletti, sono stati educati e selezionati. Uno scenario discutibile ma con qualche vantaggio: quello della rassicurante chiarezza, del consenso pressoché generalizzato, della immutabilità. Uno scenario con tutte le caratteristiche per essere vissuto come padre autorevole e madre protettiva.
Gli svantaggi principali di questa impalcatura come la costrizione alla dipendenza, la castrazione dell'autonomia e della creatività, la sclerotica e l'asfissiante monotonia, erano compensati da alcuni vantaggi, almeno per gli operatori scolastici: la sicurezza e la dcresponsabilizzazione; lo status sociale e il potere sugli allievi; il rapporto stipendio / tempo occupato che fino agli anni '60 era piuttosto invidiabile. Anche per i genitori c'era qualche vantaggio: la sicurezza del quadro ideologico, la deresponsabilizzazione educativa e là garanzia della monetizzazione dell'impegno scolastico.
Per una serie di motivi che già gli altri hanno evidenziato, il quadro tradizionale si è sgretolato e continua a decomporsi. Sono spariti per tutti i vantaggi precedenti, si sono evidenziati gli svantaggi aggravati dalla crescente conflittualità, e infine si sono messi in discussione i presupposti che sostenevano l'obiettivo dell'adattamento (cioè che il sistema sociale sia fondamentalmente buono).
L'origine principale di questa metamorfosi è da ricercare nell'aumento di potere del Proletariato nell'accelerazione del tasso di cambiamento del sistema industriale avanzato.
La Scuola Nuova che si profila è inserita in una società uItradinamica e talmente disintegrata da sfiorare l'anomia.
L'obiettivo pedagogico non è quindi conservare e riprodurre, ma facilitare il cambiamento offrendo alle giovani generazioni strumenti e metodologie perché possano costruire la società che preferiscono.
Da una Scuola di contenuti ad una di metodi. L'unica organizzazione che può facilitare questo
passaggio è quella partecipata e collegi ale, sia perché rispecchia meglio la realtà sociale ormai policratica sia perché partecipazione e collegialità sono i cardini del Metodo cui la Nuova Scuola è finalizzata.
I ruoli interni a questo tipo di organizzazione che non ha alcuna cultura da trasmettere, diventano quelli dell'animatore e del coordinatore dei processi educativi , garanti e sostenitori del Metodo.
I contenuti non ci sono, o meglio sono la sintesi effettuata da tutte le parti sociali in causa, in
quella fucina di elaborazione culturale che diventa la Scuola; meglio ancora sono quelli che la
fantasia, la creatività e i bisogni degli allievi sapranno inserire nella griglia metodologica.
Tutto ciò è realizzabile solo attraverso il metodo della ricerca, di cui i discenti sono i soggetti attivi. Questo nuovo scenario offre qualche vantaggio, assieme ad un considerevole numero di problemi. I vantaggi sono la maggior aderenza alla situazione storica attuale, dinamica e conflittuale; la soppressione della pesante ipoteca che, con la scuola tradizionale, i padri più potenti mettono sui figli di tutti i cittadini; il riconoscimento di valori come la creatività, l'autonomia, il dissenso, la partecipazione e l'uguaglianza. I problemi sono però più numerosi dei vantaggi.
Alcuni nascono dalle stesse caratteristiche dei vantaggi elencati: il loro carattere è emotivo,
spirituale, etico-estetico, forse sentimentale, certamene utopico. Purtroppo tra essi non si annovera il raddoppio dello stipendio del personale, né la garanzia per i licenziati o diplomati di posti di lavoro qualificati e lautamente retribuiti.
Inoltre resta il fatto che la Scuola Adattiva esiste e, malgrado l'avanzato stadio di decomposizione, gode dell'appoggio di larghi e potenti strati sociali: nostalgici, autoritari, idealisti, borghesi, conservatori, abitudinari, ispettori ministeriali, operatori della vecchia guardia scolastica, amanti dell' ordine ecc. ecc.
La Scuola Innovativa invece è ancora da fare: in qualche luogo vagisce appena; altrove è solo un lontano progetto; per i più è un incubo terrificante.
Il primo problema è dunque sociologico: come innovare la Scuola contro la evidente volontà dei molti oppositori.
Abbiamo detto prima che il quadro tradizionale aveva qualche vantaggio: sicurezza e protezione, consensi unanimi, immutabilità, status e potere. In termini psicologici tutto ciò ha un valore considerevole specie per individui addestrati dalla scuola e dalla società a ritenere considerevoli proprio questi valori.
La sicurezza delle norme e dei riferimenti valoriali consente la deresponsabilizzazione, non implica crisi né ansietà; la unanimità permette di evitare i conflitti, di controllare l'aggressività (rivolta quindi contro oggetti socialmente considerati' spregevoli), di non dover gestire sensi di colpa; l'immutabilità permette la ripetizione risparmiando dall'insicurezza della sperimentazione e della fantasia; lo status e il potere soddisfano al bisogno sadico-anaIe e compensano delle frustrazioni.
L'innovazione significa realizzare l'utopia buona, ma perdere tutti i suddetti benefici infantili: essa, quand'anche voluta, è temuta e produce atteggiamenti ambivalenti.
Il secondo problema è dunque psicologico: come innovare la Scuola contro la nostra stessa
ambivalenza.
Infine esiste un terzo problema non trascurabile: superati gli ostacoli dei nemici e della nostra
ambivalenza, restano i contenuti, le metodologie e le tecniche.
Come riuscire a non considerare i radicali un aspetto focale dell'apprendimento; come far acquisire il metodo logico-matematico attraverso la ricerca?
Ora i problemi sono didattici e pedagogici: come innovare la Scuola malgrado la generale
impreparazione. E' chiaro che a questi tre ordini di problemi ci sono risposte non riducibili alla formazione permanente: la collusione di forze sociali, la personalità matura dell'insegnante, la preparazione tecnica e scientifica di base. Tuttavia ritengo che la formazione sia un modo, parallelo e aggiuntivo non sostitutivo, di rispondere ai problemi che si frappongono all'innovazione educativa.
Aprire un conflitto con coloro che rifiutano il mutamento significa avere la capacità di gestire i sensi di colpa; incanalare la propria aggressività in senso alloplastico; sopportare l'ambivalenza di un attacco al presente, al passato ed alla struttura in nome di un futuro ipotetico e sconosciuto.
Rifiutare la sicurezza tradizionale e la protezione deresponsabilizzante dell'autorità, accettare gli attacchi del dissenso, accettare il mutamento continuo delle tecniche e degli schemi di riferimento, rifiutare la gestione di un ruolo autocratico significa avere raggiunto uno stadio adulto di sviluppo psicologico, quello in cui la sicurezza è talmente acquisita che consente una perdurante insicurezza.
Così come l'abbandono della solitudine individuale, l'attuazione di una comunicazione interattiva, la ricerca di riferimenti plurali, richiedono un elevato grado di fiducia di sé e di disponibilità metabletica.
E la fiducia nel sé, la relazione sociale e la speranza progettuale sono «capacità» acquisibili
mediante una formazione permanente. Secondo una nota distinzione la conoscenza acquisibile da un operatore sociale può essere suddivisa in tre aspetti: un sapere, cioè una somma di nozioni e informazioni, un saper fare, cioè una capacità di applicazione, e un saper essere ovvero una personalità adeguata al compito. I tre aspetti sono intrecciati, ma è il saper essere il livello di conoscenza più pieno, comprensivo degli altri due.
Ciò significa che per aumentare la capacità di gestione del conflitto, della ambivalenza, della
insicurezza e del mutamento non è sufficiente allargare ossessivamente il cumulo di nozioni scientifiche e tecnico didattiche.
Anzi la ricerca spasmodica di capacità tecniche e teoriche, e dell'ampliamento delle possibilità cognitive, sono proprio sintomo di una grossa carenza sul piano psicologico.
Sono la sostituzione della autorità della struttura con l'autorità della conoscenza razionale.
Per la gran parte degli insegnanti italiani il problema invece è la formazione al sapere essere.
Una formazione per altro mai avvenuta, dal momento che lo Stato presume che una buona conoscenza della matematica faccia un buon insegnante di matematica. Paradossalmente invece i corsi di aggiornamento promossi dagli enti più svariati e i corsi abilitanti sono finalizzati alla iperspecializzazione disciplinare. Il che è forse spiegabile in due modi: trovare iperletterati che insegnino lettere a insegnanti di lettere è più facile che trovare formatori; poi aumentare le conoscenze razionali per un insegnante è assai meno ansiogeno che porsi sul piano del proprio cambiamento personale. In questa congiura collusiva sono tutti d'accordo, tranne forse coloro che non sono mai interpellati: gli alunni.

Metodologie e tecniche della formazione permanente
Ho iniziato con qualche riflessione sugli organi collegiali poi mi sono fermato sui problemi
dell'innovazione educativa, indicando la formazione al sapere essere come una risposta efficace e possibile. Resta da sottolineare perché parliamo di formazione permanente e con quale modalità pensiamo debba esprimersi.
Il passaggio dal modello ad attivo a quello innovativo è ben altro che un semplice salto dal punto A al punto B: la differenza è radicale. Non si tratta di capire e sapere agire in un modello educativo diverso dal precedente ma anche esso chiaro, preciso, delimitato. Si tratta invece di passare da un modello statico ad uno dinamico, da un modello codificato ad uno auto-innovantesi, da uno scenario di certezza passivante ad uno di attiva incertezza.
Ciò significa che il modello innovativo di scuola è una macchina in movimento, priva di certezze che non derivino dal suo interno, in costante interazione col mondo.
Gli operatori della Scuola non hanno un altro modello da capire, hanno da capire che non c'è modello se non nel metodo; non devono imparare ciò che è cambiato ma devono imparare il cambiamento.
Allora il problema non è risolvibile con una formazione limitata nel tempo, ma con un supporto periodico che instauri, rafforzi e riattivi le skills necessarie per la gestione del cambiamento.
La sicurezza, la capacità di gestire i conflitti, l'ottica plurale, non sono qualità acquisite una volta per tutte. Certo una evoluzione psichica normale garantisce un «io» maturo ed equilibrato che dispone in buona misura delle caratteristiche suddette, ma la dinamica macro-sociale ed il campo micro-sociale spingono sovente anche 1'« io» adulto a regressioni difensive, specialmente se il cambiamento marcia nel senso di una diminuizione delle strutture superegoiche.
La responsabilizzazione, la riappropriazione di parti alienanti della nostra decisionalità chiede una espansione della sfera d'azione dell'« io» e quindi nuovi equilibri tra desiderio e realtà, pulsioni e norme. L'oscillazione fra repressione e crescita, fra onnipotenza e impotenza, fra auto ed alloplasticità è un moto perpetuo.
L'individuo investe e disinveste libido, investe su oggetti infantili e su oggetti etico-estetici, vive momenti maniacali e momenti depressivi, situazioni autistiche e situazioni plurali in relazione alle strutture (macro), al campo (micro), ed al suo «io» (sé). Le tre variabili sono interrelate e in dinamica permanente: da qui l'esigenza che anche la formazione sia permanente.
La formazione permanente è il momento riflessivo della prassi permanente, è anzi la condizione perché la prassi, intensa come azione plastica sul mondo, esista realmente.
La formazione permanente ha due aspetti intersecati, uno è l'aggiornamento cognitivo circa gli aspetti sociologici, pedagogici e didattici (sapere e saper fare); l'altro il sostegno emotivo circa gli atteggiamenti, le motivazioni i comportamenti relazionali (sapere essere).
Entrambi gli aspetti della formazione sono importanti, ma è certo che la domanda presente, espressa o latente, fra insegnanti, direttori o presidi e genitori riguarda per lo più l'aspetto psicologico.
Le metodologie e le tecniche sono numerose e gli articoli che seguono offrono riflessioni su alcune di queste.
Fondamentalmente possiamo elencare quattro tipi di metodologia formativa:
1) la formazione all'esterno delle istituzioni: insegnanti direttori o genitori partecipano a corsi, seminari o laboratori individualmente, cioè assieme ad operatori appartenenti ad altre scuole o istituzioni. Questo metodo offre il vantaggio di essere meno minacciante per il singolo e l'istituzione, ma in compènso ci sono grosse difficoltà nel trasferire una esperienza formativa in un contesto che non l'ha vissuta.
2) la formazione per fasce all'interno di una istituzione: di solito si tratta di iniziative per insegnanti che, se hanno il vantaggio di operare su una intera categoria, producono l'effetto secondario di aumentare le difese corporative e di rafforzare i sottogruppi esistenti nell'organizzazione.
3) la consulenza formativa in gruppi operativi: il Consiglio di classe, di Circolo o d'Istituto fanno uso di un consulente non allo scopo di ottenere risposte tecniche ai loro quesiti (è il caso della consulenza-aggiornamento) ma con l'obiettivo di essere addestrati a migliorare il loro funzionamento interno. Questa metodologia formativa, ha il vantaggio di inserirsi in un ambito operativo reale, ma rischia anch'essa di facilitare la ghettizzazione dei formati.
4) l'intervento psicosociale nelle istituzioni: il consulente o formatore opera con tutte le componenti della scuola, per aumentare la soddisfazione e l'autonomia individuale, e facilitare il funzionamento collettivo.
Questa metodologia presenta il vantaggio di smuovere le tre dimensioni possibili del cambiamento: individuale, micro-sociale e macro-sociale. Cioè agisce sull'insegnante, sui gruppi formali e informali, e sulla istituzione intesa come luogo di incontro di tutte le componenti da essa coinvolte (genitori, quartiere, sindacati ecc.).

Le tecniche formative sono svariatissime, ma raggruppabili in tre categorie:

A) tecniche non direttive (T-group, seminari di sensibilizzazione alla dinamica di gruppo, gruppi autocentrati counselling sui processi). Sono le tecniche in cui il conduttore svolge un
ruolo di assistente mentre soggetto e oggetto dell'apprendimento è il gruppo di partecipanti.
B) Tecniche attive: drammatizzazione, giochi, casi, discussioni di gruppo, non verbali ecc.
Sono le tecniche in cui il conduttore guida il processo di apprendimento coinvolgendo in modo attivo i partecipanti.
C) Tecniche tradizionali (conferenze, tavola rotonda, filmato, lettura). In questo caso i partecipanti apprendono in stato di passività. Naturalmente queste categorizzazioni hanno solo una funzione espositiva e difficilmente vengono usate allo stato puro. Di solito metodologie
e tecniche, vengono mescolate e dosate in base alle esigenze dei partecipanti e dei formatori.

L'Auto formazione
La formazione permanente al saper essere è uno dei fattori «esterni» che possono facilitare il
funzionamento collettivo degli organi collegi ali e l'innovazione educativa.
Essa però può essere un fatto esterno solo per l'avvio dal momento che la scuola non sembra avere al suo interno forze sufficienti.
li suo obiettivo non può che essere quello di tramutarsi in autoformazione permanente, cioè in un processo innescato periodicamente dalla stessa istituzione scolastica.
Per gli insegnanti e i genitori acquisire la capacità di gestire i conflitti ed il cambiamento,
l'ambivalenza e la relazione sociale, significa anche demitizzare l'uso dell'esperto. Instaurare con costui un rapporto di dipendenza è una compensazione alla rottura della dipendenza con l'autorità scolastica ed un tentativo di giustificare il ruolo autoritario che insegnanti presidi e genitori giocano a scuola e in famiglia. Naturalmente è inevitabile che la caduta del ruolo autoritario della struttura scolastica o del preside, provochi nei genitori o negli insegnanti l'esigenza di individuare nuovi poli di riferimento.
Questo ancoraggio rassicuratorio non può essere offerto se non in via trascendente dal consulente. Occorre anche per questo instaurare nella scuola spazi di funzionamento gruppale affinché questi fungano da struttura superegoica alternativa.
Gli organi collegi ali o gli altri gruppi informali devono diventare spazi di sicurezza.
Ma perché non offrano una sicurezza regressiva infantile e difensiva, devono essere agibili cioè gestibili per il cambiamento.
Perché ciò sia possibile è necessario che non si riducano ad essere micro-istituzioni alienanti ed emarginanti, ma siano veri gruppi di appartenenza, spazi di dibattito e crescita.
Proprio questi gruppi devono essere l'unità di auto-formazione, nella misura in cui sono il luogo delle verifiche, dei confronti e magari dei conflitti elaborati.
Allora l'autoformazione permanente è lo strumento attraverso cui l'istituzione verifica e trasforma continuamente se stessa con l'obiettivo di divenire comunità educativa.

 




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