INTRODUZIONE
Il mio interesse per l'istruzione pubblica lo devo a Everett Reimer,
che ho conosciuto a Portorico nel 1958. Sino al nostro primo incontro,
non avevo mai avuto dubbi sull'importanza di estendere a tutti la
scuola dell'obbligo; ma insieme siamo arrivati a capire che per
la maggior parte delle persone l'obbligo della frequenza.scolastica
è un impedimento al diritto di apprendere. I saggi letti
al ClDOC e raccolti in questo libro nascono da appunti che gli ho
sottoposto e che abbiamo discusso insieme nel 1970, tredicesimo
anno del nostro dialogo. Lultimo capitolo contiene le mie
riflessioni dopo una conversazione con Erich Fromm su Das Mutterrecht
di Bachofen.
Dal 1967 Reimer e io ci incontriamo regolarmente al Centro per la
documentazione interculturale (CIDOC) di Cuernavaca nel Messico.
Al nostro dialogo ha partecipato anche Valentine Borremans, la direttrice
del Centro, sollecitandomi continuamente a confrontare le nostre
teorie con le realtà dell'America latina e dell'Africa. Si
ritrova in questo libro anche la sua convinzione che bisognerebbe
descolarizzare non soltanto le istituzioni ma l' ethos
della società.
Listruzione universale non è attuabile attraverso la
scuola. Ne lo sarebbe di più se si ricorresse a istituzioni
alternative costruite sul modello delle scuole attuali. Ugualmente
non servono allo scopo ne nuovi atteggiamenti degli insegnanti verso
gli allievi, ne la proliferazione delle attrezzature e dei sussidi
educativi (in aula e a casa), ne infine il tentativo di allargare
la responsabilità del pedagogo sino ad assorbire l'intera
vita dei suoi discepoli. All'attuale ricerca di nuovi imbuti didattici
si deve sostituire quella del loro contrario istituzionale: trame,
tessuti didattici che diano a ognuno maggiori possibilità
di trasformare ogni momento della propria vita in un momento di
apprendimento, di partecipazione e di interessamento. Ci auguriamo
di poter dare un utile contributo concettuale a quanti conducono
tali ricerche controcorrente sull'istruzione, e anche a quanti cercano
alternative ad altre forme costituite di pubblici servizi.
Nei mercoledì mattina della primavera e dell'autunno 1970
ho presentato i saggi raccolti nel libro ai partecipanti ai corsi
del CIDOC di Cuernavaca. Molti di loro mi diedero dei suggerimenti
o mi fecero delle critiche. Parecchi riconosceranno in queste pagine
le loro idee, soprattutto Paulo Freire, Peter Berger e Jose Maria
Bulnes, oltre a Joseph Fitzpatrick, John Holt, Angel Quintero, Layman
Allen, Fred Goodman, Gerhard Ladner, Didier Piveteau, Joel Spring,
Augusto Salazar Bondy e Dennis Sullivan. Tra i critici, chi mi ha
costretto a una revisione più radicale delle mie riflessioni
è stato Paul Goodman. Robert Silvers mi ha dato invece una
brillante assistenza redazionale per i capitoli I, III e VI, che
sono stati pubblicati dalla «New York Review of Books.
Reimer e io abbiamo deciso di pubblicare versioni distinte della
nostra ricerca comune. Lui sta lavorando a una vasta e documentata
trattazione che richiederà ancora parecchi mesi di revisione
critica e verrà pubblicata da Doubleday & Company. Anche
Dennis Sullivan, che ha fatto da segretario durante i nostri colloqui,
sta preparando un libro che inquadrerà le mie tesi nel contesto
del dibattito sulla scuola pubblica attualmente in corso negli Stati
Uniti. lo presento ora questo volume nella speranza di provocare
nuovi contributi critici durante le sedute del seminario sulle «Alternative
nell'istruzione», programmato al CIDOC di Cuernavaca per il
1972 e 1973.
Intendo qui discutere certi inquietanti problemi che si pongono
una volta accettata l'ipotesi di una possibile «descolarizzazione»
della società; determinare i criteri che possono aiutarci
a riconoscere le istituzioni che meritano di essere potenziate per
il loro contributo all'apprendimento in un ambiente descolarizzato;
e precisare quegli obiettivi individuali che possono favorire l'avvento
di una Età del tempo libero (schole) in opposizione a un'economia
dominata dalle industrie dei servizi.
Ivan Illich - CIOOC - Cuernavaca, Messico, novembre 1970
I - Perchè dobbiamo abolire l'istituzione scolastica
Molti studenti, specie se poveri, sanno per istinto che cosa fa
per loro la scuola: gli insegna a confondere processo e sostanza.
Una volta confusi questi due momenti, acquista validità una
nuova logica: quanto maggiore è l'applicazione, tanto migliori
sono i risultati; in altre parole, l'escalation porta al successo.
In questo modo si «scolarizza» l'allievo a confondere
insegnamento e apprendimento, promozione e istruzione, diploma e
competenza, facilità di parola e capacità di dire
qualcosa di nuovo. Si «scolarizza» la sua immaginazione
ad accettare il servizio al posto del valore. Le cure mediche vengono
scambiate per protezione della salute, le attività assistenziali
per miglioramento della vita comunitaria, la protezione della polizia
per sicurezza personale, l'equilibrio militare per sicurezza nazionale,
la corsa al successo per lavoro produttivo. Salute, apprendimento,
dignità, indipendenza e,creatività si identificano,
o quasi, con la prestazione delle istituzioni che si dicono al servizio
di questi fini, e si fa credere che per migliorare la salute, l'apprendimento
ecc. sia sufficiente stanziare somme maggiori per la gestione degli
ospedali, delle scuole e degli altri enti in questione.
In questo libro mostrerò che l'istituzionalizzazione
dei valori conduce inevitabilmente all'inquinamento fisico, alla
polarizzazione sociale e all'impotenza psicologica: tre dimensioni
di un processo di degradazione globale e di aggiornata miseria.
Spiegherò come questo processo di degradazione si acceleri
quando bisogni non materiali si trasformano in richieste di prodotti,
quando la salute, l'istruzione, la mobilità personale, il
benessere o l'equilibrio psicologico sono visti soltanto come risultati
di servizi o di «trattamenti». Lo faccio perchè
credo che le attuali ricerche sul futuro tendano in genere ad auspicare
una sempre maggiore istituzionalizzazione dei valori, e diventa
di conseguenza necessario precisare le condizioni grazie alle quali
possa avvenire esattamente il contrario. Abbiamo bisogno di ricerche
su come servirci della tecnologia per creare istituzioni che permettano
un'interazione personale creativa e autonoma e per far emergere
valori che i tecnocrati non siano sostanzialmente in grado di controllare.
Ci servono insomma ricerche in direzione contraria a quella della
futurologia attuale.
Intendo affrontare una questione generale: la definizione reciproca
della natura dell'uomo e della natura delle istituzioni moderne,
che caratterizza la nostra visione del mondo e il nostro linguaggio.
Per far questo, ho scelto come paradigma la scuola, e non mi occupo
quindi se non indirettamente degli altri organismi burocratici del
corporate state: la famiglia consumistica, il partito, l'esercito,
la chiesa, i media. Ma dall'analisi del programma occulto della
scuola dovrebbe risultare con chiarezza che, come l'istruzione pubblica
trarrebbe giovamento dalla descolarizzazione della società,
così alla vita familiare, alla politica, alla sicurezza collettiva,
alla fede e alle comunicazioni gioverebbe un processo analogo.
In questo saggio iniziale cerco per prima cosa di spiegare che cosa
potrebbe significare la descolarizzazione di una società
scolarizzata. In questo contesto dovrebbe essere più
facile capire perchè ho scelto i cinque aspetti specifici
rilevanti per tale processo, dei quali mi occupo nei successivi
saggi.
Oggi non è scolarizzata soltanto l'istruzione ma l'intera
realtà sociale. In una medesima circoscrizione mandare a
scuola i ricchi e i poveri costa pressappoco lo stesso. I dati sulla
spesa annua per allievo nei quartieri più miserabili e nei
più ricchi suburbia di venti grandi città degli Stati
Uniti non rivelano differenze sostanziali (anzi si spende a volte
di più per gli alunni poveri). Ricchi e poveri dipendono
nella stessa maniera da scuole e ospedali che governano la loro
vita, plasmano la loro visione del mondo e stabiliscono per conto
loro che cosa è legittimo e che cosa non lo è. Ricchi
e poveri concordano nel ritenere che il curarsi da soli sia segno
d'irresponsabilità, che lo studiare da soli non dia sicurezza
e che qualunque iniziativa comunitaria, se non è pagata dalle
autorità competenti, sia una forma di aggressione o di sovversione.
Essendo condizionati dalle istituzioni, entrambi i gruppi guardano
con sospetto a ciò che si realizza indipendentemente da esse.
Il graduale «sottosviluppo» della fiducia in se stessi
e nella collettività è persino più evidente
a Westchester che nel Nord-est del Brasile. Dappertutto occorre
«descolarizzare» non soltanto l'istruzione ma l'insieme
della società.
Le burocrazie degli enti assistenziali rivendicano il monopolio
professionale, politico e finanziario dell'immaginazione sociale,
fissando i criteri mediante i quali si deve stabilire se una cosa
è valida e fattibile. Questo monopolio è alla base
della versione moderna della povertà. Ogni semplice bisogno
per il quale si trovi una soluzione istituzionale permette di inventare
una nuova classe di poveri e una nuova definizione della povertà.
Dieci anni fa in Messico era normale nascere e morire nella propria
casa ed essere sepolti dai propri amici. Soltanto i bisogni dell'anima
erano affidati all'istituzione ecclesiastica. Ora invece cominciare
o finire la vita in casa propria è diventato un segno di
estrema povertà o di posizione eccezionalmente privilegiata.
Il morire e la morte sono passati sotto la gestione istituzionale
dei medici e degli impresari di pompe funebri.
Una volta che una società ha trasformato i bisogni fondamentali
in richieste di beni di consumo prodotti scientificamente, la povertà
si definisce secondo parametri che i tecnocrati possono modificare
a proprio arbitrio. Sono poveri quelli che non sono riusciti in
misura rilevante a tener dietro a qualche reclamizzato ideale consumistico.
In Messico è povero chi non ha fatto tre anni di scuola,
a New York chi non ne ha fatti dodici. Socialmente i poveri non
hanno mai avuto potere. Ma il fatto che dipendano sempre di più
da una protezione istituzionale dà alla loro debolezza una
dimensione nuova: l'impotenza psicologica, l'incapacità di
provvedere a se stessi. I contadini dell'altipiano delle Ande sono
sfruttati dal latifondista e dal mercante, ma quando si trasferiscono
a Lima si trovano a dipendere anche dai notabili politici e sono
impossibilitati a trovar lavoro per mancanza di istruzione scolastica.
La povertà moderna associa all'assenza di potere sulle circostanze
esterne una perdita di potenza personale. Questa modernizzazione
della povertà è un fenomeno mondiale ed è alla
radice del sottosviluppo contemporaneo. Anche se nei
paesi ricchi assume naturalmente forme diverse da quelle dei paesi
poveri.
La si sente probabilmente con intensità particolare nelle
città degli Stati Uniti. In nessun altro luogo la povertà
viene combattuta con maggior dispendio dl mezzi. E in nessun altro
luogo la lotta contro la povertà produce in misura così
rilevante dipendenza, frustrazione, rabbia e nuove richieste. In
nessun altro luogo infine dovrebbe risultare con tanta evidenza
che la povertà - una volta modernizzata - resiste alle cure
fatte di soli dollari e richiede una rivoluzione istituzionale.
Oggi negli Stati Uniti i neri, e anche gli immigrati, possono fruire
di un'assistenza professionale a un livello che sarebbe stato impensabile
due generazioni fa e che sembra ancor oggi assurdo a quasi tutti
gli abitanti del Terzo Mondo. I poveri degli Stati Uniti possono
contare, per esempio, su un apposito funzionario che riporta a scuola
i loro figli finchè non abbiano compiuto diciassette anni,
o su un medico che procura loro gratis un letto d'ospedale che costerebbe
altrimenti sessanta dollari al giorno, pari al reddito di tre mesi
della maggior parte della popolazione mondiale. Ma questa protezione
non fa che accentuare la loro dipendenza e rendere sempre più
incapaci di organizzare la propria vita. sulla base delle proprie
esperienze personali e delle risorse disponibili nell'ambito delle
loro comunità.
I poveri degli Stati Uniti sono i soli che possano parlare a ragion
veduta della sorte che incombe su tutti i poveri in un mondo in
via di modernizzazione. Stanno scoprendo che non c'è somma
capace di eliminare la distruttività intrinseca delle istituzioni
assistenziali, una volta che le gerarchie professionali di queste
istituzioni abbiano convinto la società della assoluta necessità
morale delle loro prestazioni. I poveri dei ghetti urbani statunitensi
possono dimostrare con la loro esperienza la fondamentale fallacia
della legislazione sociale in una società scolarizzata.
Il giudice della Corte suprema William O. Douglas ha detto che l'unico
modo per fondare un'istituzione è finanziarla. Anche
il corollario è valido: solo smettendo di versare dollari
alle istituzioni che oggi si occupano della salute, dell'istruzione
e dell'assistenza si può arrestare il processo di impoverimento
causato dai loro inabili tanti effetti secondari.
Dobbiamo tenerlo presente nel valutare i programmi sociali del governo
americano. Tra il 1965 e 1968, per esempio, nelle scuole degli Stati
Uniti sono stati spesi oltre tre miliardi di dollari per compensare
la situazione di svantaggio di quasi sei milioni di bambini. Questo
programma, noto come Title One, è il più
costoso tentativo di ricupero che sia mai stato tentato nel campo
dell'istruzione, e tuttavia non si è notato alcun progresso
significativo nell'apprendimento dei piccoli svantaggiati.
Anzi, in confronto ai compagni provenienti da famiglie di medio
reddito, sono andati ancora più indietro. Inoltre, mentre
attuavano questo programma, gli esperti si sono accorti che c'erano
altri dieci milioni di bambini soggetti a gravi impedimenti d'ordine
economico e didattico. Ecco quindi nuove ragioni per pretendere
dal governo sovvenzioni maggiori.
Di questo fallimento totale del tentativo di migliorare l'istruzione
dei poveri con il più costoso degli interventi, si possono
dare tre spiegazioni:
1. Tre miliardi di dollari non bastano a migliorare in misura apprezzabile
il rendimento di sei milioni di bambini; oppure
2. I soldi sono stati spesi male; per raggiungere lo scopo sarebbero
stati necessari programmi di studi differenti, una migliore amministrazione,
una maggiore concentrazione della somma sui bambini poveri e ricerche
più approfondite; oppure
3. Alle situazioni di svantaggio nell'apprendimento non si può
rimediare affidandosi all'istruzione impartita nell'ambito della
scuola.
La prima ipotesi è certamente valida, nel senso che quel
denaro è confluito nel bilancio scolastico. È infatti
andato alle scuole dove si trovava il maggior numero di bambini
svantaggiati, ma non è stato speso proprio per i bambini
poveri. I bambini ai quali era destinato costituivano soltanto circa
la metà degli allievi delle scuole che hanno potuto incrementare
i propri bilanci con i sussidi governativi. Il denaro in più
servi a pagare le attività di vigilanza, l'addottrinamento
e la selezione dei ruoli sociali, oltre che l'istruzione vera e
propria, tutte funzioni inestricabilmente mescolate tra loro per
gli impianti, i programmi, il corpo insegnante, gli uffici amministrativi
e altre componenti essenziali di queste scuole, e di conseguenza
anche dei loro bilanci.
I fondi supplementari permisero cosi alle scuole di provvedere in
misura sproporzionata a soddisfare i bambini relativamente più
ricchi, svantaggiati dal fatto di dover andare a scuola
insieme con i poveri. Nella migliore delle ipotesi attraverso il
bilancio scolastico al bambino povero poteva arrivare solo una frazione
di ogni dollaro investito per colmare il suo svantaggio nell'apprendimento.
Può darsi anche che il denaro sia stato speso in modo incompetente.
Ma anche un'incompetenza eccezionale non può certo competere
con quella del sistema scolastico. Per la loro stessa struttura
le scuole impediscono che si conceda un particolare privilegio a
coloro che per il resto sono svantaggiati. I corsi speciali, le
classi separate o gli orari più lunghi portano soltanto a
una maggiore discriminazione con un costo più alto
I contribuenti non sono ancora abituati a veder bruciare tre miliardi
di dollari dall'HEW come se fosse il Pentagono. E l'attuale amministrazione
è forse convinta di poter sfidare impunemente le ire degli
educatori. Se il programma dovesse essere ridotto, l'americano medio
non ci rimetterebbe nulla. I genitori poveri pensano di perderci
ma, a maggior forza, rivendicano soprattutto il controllo dei fondi
destinati ai loro bambini. Una maniera logica di ridurre la spesa
e, si spera, di ottenere risultati migliori sarebbe un sistema di
borse di studio come quello proposto da Milton Friedman e da altri.
I soldi verrebbero cioè dati direttamente al beneficiario
lasciando che si paghi lui la razione di istruzione scolastica che
preferisce. Se però questo credito fosse limitato ad acquisti
nell'ambito dei programmi scolastici, si avrebbe forse una maggiore
eguaglianza di trattamento, ma non aumenterebbe certo l'eguaglianza
dei diritti sociali.
Dovrebbe essere ovvio che, anche quando abbia a disposizione scuole
di eguale livello, il bambino povero ha raramente la possibilità
di tener dietro al ricco. Possono frequentare scuole di pari qualità
e cominciare alla stessa età, ma ai bambini poveri mancano
in gran parte le occasioni didattiche che sono normalmente a disposizione
del bambino della media borghesia. Questi vantaggi vanno dalle conversazioni
e dai libri che ci sono in casa ai viaggi durante le vacanze e a
una diversa coscienza di se stessi, e per il bambino che ne gode
valgono sia in scuola sia fuori. Perciò, fin quando le sue
possibilità di progredire o di apprendere dipenderanno dalla
scuola, lo studente più povero rimarrà generalmente
indietro. I poveri hanno bisogno di fondi che permettano loro di
imparare e non di ottenere un certificato attestante l'assistenza
ricevuta per le loro presunte insufficienze.
Il discorso è valido per le nazioni povere come per le ricche,
solo che nelle prime assume aspetti diversi. Nelle nazioni povere
la povertà moderna colpisce un maggior numero di persone
in modo più visibile ma anche - per il momento - più
superficiale. Nell'America latina i due terzi dei bambini lasciano
la scuola prima di aver finito la quinta elementare, ma tali desertores
non si trovano male come si troverebbero invece negli Stati Uniti.
Oggi sono pochi i paesi vittime della povertà classica che
era stabile e meno disabilitante. Quasi tutte le nazioni dell'America
latina sono arrivate al momento del decollo verso lo
sviluppo economico e i consumi concorrenziali, e quindi verso la
versione moderna della povertà. I loro cittadini hanno imparato
a pensare da ricchi e a vivere da poveri. Le loro leggi impongono
da sei a dieci anni di scuola obbligatoria. Non soltanto in Argentina,
ma nel Brasile e nel Messico, per il cittadino medio un'istruzione
adeguata è quella indicata dal modello nordamericano, anche
se la possibilità di andare a scuola per un periodo così
lungo è riservata a un'esigua minoranza. In questi paesi
la maggioranza è già condizionata dalla scuola, nel
senso che da essa impara a sentirsi in stato d'inferiorità
di fronte a coloro che hanno studiato di più.
Questo fanatismo per la scuola rende possibile un doppio sfruttamento:
permette cioè di stanziare quantità sempre maggiori
di denaro pubblico per l'istruzione di una minoranza e di far accettare
sempre più volentieri dalla maggioranza il controllo sociale.
Paradossalmente la convinzione che l'istruzione scolastica universale
sia assolutamente indispensabile è più saldamente
radicata nei paesi dove è stato - e sarà minore il
numero delle persone servite dal sistema scolastico. Eppure nell'America
Latina la maggior parte dei genitori e dei bambini potrebbe ancora
arrivare all'istruzione per vie diverse. Proporzionalmente le risorse
nazionali investite in scuole e maestri sono magari superiori a
quelle dei paesi ricchi, ma tali investimenti sono del tutto insufficienti
a offrire ai più anche soltanto quattro anni di frequenza
scolastica. Fidel Castro parla come se si ponesse l' obiettivo della
descolarizzazione quando garantisce che nel 1980 Cuba potrà
chiudere l'università perchè l'intera vita cubana
sarà un'esperienza educativa. Ma a livello di scuola elementare
e media, Cuba, come tutti gli altri paesi dell' America latina,
si comporta come se il passaggio attraverso il cosiddetto periodo
della età scolare fosse una meta incontestabile
per tutti, e non ancora raggiunta solo per una temporanea scarsità
di risorse.
I due inganni derivanti da una più intensa assistenza, quale
è concretamente fornita negli Stati Uniti e soltanto promessa
nell'America latina, sono complementari fra loro. I poveri del Nord
sono disabilitati da quegli stessi dodici anni di scuola la cui
mancanza marchia i poveri del Sud come individui irrimediabilmente
arretrati. Nell'America del Word come nell'America latina i poveri
non arrivano all'eguaglianza con la scuola dell'obbligo. Ma a Nord
come a Sud basta l'esistenza della scuola a scoraggiare il povero
e a impedirgli di assumere il controllo della propria istruzione.
In tutto il mondo la scuola esercita sulla società un effetto
antieducativo, in quanto la si considera la sola istituzione specializzata
nell'istruzione. I suoi fallimenti sono considerati dalla maggior
parte della gente una prova del fatto che l'istruzione è
un compito molto costoso, molto complesso, sempre arcano e spesso
quasi impossibile.
La scuola s'appropria del denaro, degli uomini e delle energie disponibili
per l'istruzione e cerca nello stesso tempo di impedire che altre
istituzioni si assumano compiti didattici. Il lavoro, il tempo libero,
la politica, la vita cittadina e persino la vita familiare dipendono
dalla scuola per le abitudini e le conoscenze che presuppongono,
anzichè diventare essi stessi veicoli d'insegnamento. D'altra
parte sia le scuole sia le altre istituzioni che da esse dipendono
hanno un costo esorbitante che le esclude dal libero mercato.
Negli Stati Uniti il costo pro capite dell'istruzione scolastica
è aumentato quasi con la stessa rapidità di quello
dell'assistenza medica. Ma l'aumentato intervento dei medici, come
quello degli insegnanti, ha dato risultati continuamente decrescenti.
Le spese mediche per le persone oltre i quarantacinque anni sono
più volte raddoppiate nel corso degli ultimi quattro decenni,
ma la conseguenza è stata che la speranza di vita
degli uomini è aumentata solo del tre per cento. L'aumento
delle spese per l'istruzione ha dato risultati ancor più
strani; altrimenti il presidente Nixon non sarebbe mai arrivato
la scorsa primavera a promettere al più presto a ogni bambino
il diritto di leggere al momento di lasciare la scuola.
Negli Stati Uniti bisognerebbe spendere ottanta miliardi di dollari
all'anno per fornire quello che gli educatori considerano un trattamento
eguale per tutti alle elementari e alle medie. In altre parole più
del doppio di trentasei miliardi che si spendono ora. Dalle analisi
condotte separatamente dall'HEW e dall'University of Florida risulta
che per il 1974 la cifra corrispondente sarà di centosette
miliardi, contro i quarantacinque ora previsti, e questo calcolo
non tiene minimamente conto degli enormi costi della cosiddetta
istruzione superiore per la quale la domanda aumenta
ancora più rapidamente. Gli Stati Uniti, che nel 1969 hanno
speso quasi ottanta miliardi di dollari per la difesa,
compresa quella di spiegata nel Vietnam, sono ovviamente troppo
poveri per fornire un servizio scolastico eguale per tutti. La commissione
presidenziale che studia il finanziamento delle scuole dovrebbe
chiedersi non come coprire, o ridurre, questi costi in continuo
aumento, ma come evitarli.
Bisogna rendersi conto che la scuola obbligatoria eguale per tutti
è, almeno economicamente, inattuabile. Nell'America latina
il denaro pubblico speso per ogni studente laureato supera da trecentocinquanta
a millecinquecento volte quello speso per il cittadino medio (termine
con il quale sintende il cittadino a metà strada tra
il più povero e il più ricco). Negli Stati Uniti la
discrepanza è minore, ma la discriminazione è ancor
più forte. I genitori più ricchi, il dieci per cento
circa, possono permettersi di educare privatamente i loro figli
e di aiutarli a beneficiare delle borse di studio delle fondazioni.
Ma oltre a questo ricevono pro capite una quota di denaro pubblico
dieci volte superiore a quella mediamente destinata ai figli del
dieci per cento opposto, quello dei più poveri. Le ragioni
principali sono che i figli dei ricchi stanno a scuola di più,
che un anno d'università è sproporzionatamente più
costoso di un anno alle medie e che quasi tutte le università
private dipendono - almeno indirettamente - da finanziamenti di
derivazione fiscale.
La scolarizzazione obbligatoria non soltanto polarizza una società,
ma classifica le nazioni del mondo secondo un sistema internazionale
di caste. I singoli paesi vengono cioè valutati come caste,
la cui dignità culturale dipende dalla media degli anni di
scuola dei loro cittadini, secondo una classificazione strettamente
collegata al prodotto nazionale lordo pro capite e molto più
dolorosa.
Il paradosso della scuola è evidente: l'aumento della spesa
non fa che accrescere la sua potenzialità distruttiva all'interno
e sul piano internazionale. Questo paradosso deve diventare una
questione d'interesse pubblico. Oggi quasi tutti riconoscono che
l'ambiente fisico verrà presto distrutto dall'inquinamento
biochimico se non sapremo modificare radicalmente gli attuali metodi
di produzione dei beni materiali. Ma bisognerebbe anche rendersi
conto che la vita sociale e personale è altrettanto minacciata
dall'inquinamento da HEW, sottoprodotto inevitabile del consumo
obbligatorio e concorrenziale di assistenza sociale.
L' escalation scolastica è deleteria quanto l'escalation
degli armamenti, ma in modo meno evidente. In tutte le scuole del
mondo i costi sono aumentati più rapidamente delle iscrizioni
e del prodotto nazionale lordo; e in tutto il mondo si spende per
la scuola meno di quanto si aspetterebbero genitori, insegnanti
e allievi. È una situazione che dissuade dappertutto dal
proporre e dal finanziare progetti su vasta scala per un'istruzione
non scolastica. Gli Stati Uniti stanno dimostrando al mondo che
nessun paese può essere tanto ricco da permettersi un sistema
scolastico capace di soddisfare la domanda che esso stesso crea
con la sua sola esistenza; infatti un sistema scolastico efficiente
educa genitori e allievi a credere nel valore supremo di un sistema
scolastico ancora più vasto, il cui costo aumenta in misura
esorbitante man mano che cresce la richiesta d'istruzione superiore
e ne diminuisce la disponibilità.
Anzichè dire che un servizio scolastico eguale per tutti
è temporaneamente inattuabile, dobbiamo riconoscere che,
in linea di principio, è economicamente assurdo e che perseguire
questo obiettivo è uno sforzo che castra l'intelligenza,
polarizza la società e distrugge la credibilità del
sistema politico che lo promuove. L'ideologia della scuola obbligatoria
non ammette limiti logici. Ne ha dato recentemente un buon esempio
la Casa Bianca. Il dottor Hustschnecker) lo psichiatra
che ha curato Nixon prima che venisse designato candidato, ha raccomandato
al presidente di far visitare da specialisti tutti i bambini tra
i sei e gli otto anni per individuare quelli con tendenze distruttive
e sottoporli a cure obbligatorie. Al limite si dovrebbe imporre
una loro rieducazione in istituti specializzati. Il presidente ha
poi mandato all'HEW, perchè ne desse un giudizio, questa
proposta del suo medico. E in effetti istituire campi di concentramento
preventivi per i predelinquenti sarebbe un perfezionamento logico
del sistema scolastico.
Certo il dare a tutti eguali possibilità d'istruzione è
un obiettivo auspicabile e raggiungibile, ma identificare questo
obiettivo nella scolarizzazione obbligatoria è come confondere
la salvezza eterna con la chiesa. La scuola è divenuta la
religione universale di un proletariato modernizzato e fa vuote
promesse di salvezza ai poveri dell'era tecnologica. Lo stato nazionale
ha fatto propria questa religione arruolando tutti i cittadini in
un programma scolastico graduato che porta a una successione di
diplomi e che ricorda i rituali iniziatici e le ordinazioni sacerdotali
di tempi lontani. Lo stato moderno si è assunto il compito
di far rispettare le decisioni dei suoi educatori per mezzo di volonterosi
funzionari addetti alla lotta contro gli evasori dall'obbligo scolastico
e mediante i titoli di studio richiesti per ottenere un impiego,
un po' come i re spagnoli facevano applicare le decisioni dei loro
teologi servendosi dei conquistadores e dell'Inquisizione.
Due secoli fa gli Stati Uniti guidarono il mondo in un movimento
inteso a respingere il monopolio di un'unica chiesa. Oggi occorre
il disconoscimento costituzionale del monopolio della scuola, cioè
di un sistema che associa legalmente il pregiudizio alla discriminazione.
Il primo articolo di una dichiarazione dei diritti per una moderna
società umanistica dovrebbe corrispondere al primo emendamento
della Costituzione degli Stati Uniti: Lo stato non potrà
fare alcuna legge per il riconoscimento dell'istruzione. Non
dovrà esserci un rituale obbligatorio per tutti.
Per rendere effettiva questa separazione tra scuola e stato, occorre
una legge che proibisca, nelle assunzioni, nell'esercizio dei diritti
elettorali o nell'ammissione ai centri d'apprendimento, ogni discriminazione
basata sul possesso o meno di determinati titoli di studio. Tale
garanzia non escluderebbe prove pratiche di idoneità a ricoprire
una funzione o un ruolo, ma eliminerebbe l'attuale assurda discriminazione
a vantaggio della persona che impara una determinata tecnica grazie
a un più che cospicuo dispendio di denaro pubblico o che
- come è altrettanto probabile - è riuscita a ottenere
un diploma che non ha alcun rapporto ne con capacità comunque
utili ne con un qualsiasi impiego. La separazione costituzionale
della scuola dallo stato può risultare psicologicamente efficace
solo se saprà proteggere il cittadino dal rischio che non
lo si ritenga qualificato a svolgere una determinata funzione per
qualcosa che gli è accaduto nel corso della carriera scolastica.
La scuola non favorisce ne l'apprendimento ne la giustizia, perchè
gli educatori insistono a mettere nello stesso sacco l'istruzione
e i diplomi. L'apprendimento e l'assegnazione dei ruoli si fondono
in una cosa sola. Ma apprendere significa acquisire in proprio una
nuova capacità o una nuova conoscenza approfondita, mentre
si è promossi grazie a un giudizio che altri si è
formato. Lapprendimento è spesso un risultato dell'istruzione,
ma la selezione per un ruolo o per una categoria nel mercato del
lavoro dipende in misura sempre maggiore dalla mera durata della
frequenza scolastica.
Listruzione è la scelta delle circostanze che facilitano
l'apprendimento. I ruoli invece vengono assegnati stabilendo una
serie di condizioni cui il candidato deve ottemperare se vuole ottenere
il diploma. La scuola ancora l'istruzione - non però l'apprendimento
- a questi ruoli. Il che non è ne ragionevole ne educativo.
Non è ragionevole perché stabilisce un rapporto dei
ruoli non con le qualità o le competenze a essi attinenti,
ma con il processo mediante il quale si postula che tali qualità
vengano acquisite. Non è liberatorio o educativo perché
la scuola riserva l'istruzione a coloro che in ogni fase dell'apprendimento
sanno adattarsi a un dispositivo di controllo sociale precedentemente
sanzionato.
Il curricolo è sempre servito ad assegnare il rango sociale.
In certi casi era prenatale: il karma ti ascrive a una casta, il
lignaggio all'aristocrazia. Oppure poteva assumere la forma di un
rituale, di una sequenza di ordinazioni sacre, o consistere in una
successione d'imprese di guerra o di caccia; poteva anche avvenire
che l'avanzamento dipendesse da una serie di precedenti favori del
principe. Listruzione universale avrebbe dovuto separare l'assegnazione
del ruolo dalla storia personale; il suo scopo era di dare a ognuno
eguali possibilità di accedere a qualsiasi mansione. Ancora
adesso molti credono erroneamente che la pubblica fiducia poggi
su titoli culturali pertinenti in quanto la scuola se ne fa garante.
Ma invece di eguagliare le possibilità, il sistema scolastico
ne ha semplicemente monopolizzato la distribuzione.
Per scindere la competenza dalla carriera scolastica bisogna che
le informazioni sul passato scolastico di una persona diventino
tabù, come quelle concernenti affiliazione politica, fede
religiosa, famiglia, preferenze sessuali o razza. Bisogna emanare
leggi che vietino la discriminazione basata sui titoli di studio.
Naturalmente le leggi non possono eliminare i pregiudizi contro
chi non sia andato a scuola, ne sono fatte per obbligare chicchessia
a sposarsi con un autodidatta: possono però impedire una
discriminazione ingiustificata.
La seconda grande illusione sulla quale si fonda il sistema scolastico
è che la maggior parte dell'apprendimento derivi dall'insegnamento.
Quest'ultimo, è vero, può in determinate circostanze
facilitare certi tipi di apprendimento. Ma i più acquistano
la maggior parte della loro cultura fuori della scuola, oppure anche
a scuola, ma solo perché la scuola in alcuni paesi ricchi
è diventata un luogo in cui si passa segregati una parte
sempre crescente della propria vita.
Quasi tutto ciò che s'impara lo si apprende casualmente,
e anche l'apprendimento più intenzionale non è il
risultato di un'istruzione programmata. I bambini normali imparano
automaticamente la loro prima lingua, anche se la rapidità
dell'apprendimento è maggiore quando i genitori si occupano
di loro. La maggior parte di coloro che imparano bene una seconda
lingua ci riescono non per merito di un insegnamento sistematico
ma per effetto di circostanze impensate: sono andati a stare dai
nonni, hanno fatto un viaggio, si sono innamorati di una persona
straniera. La stessa facilità di lettura, il più delle
volte, è conseguenza di attività extrascolastiche.
Quasi tutti quelli che leggono molto e con piacere credono di aver
imparato a farlo a scuola, ma basta che glielo si metta in dubbio
e fanno presto ad accorgersi che è soltanto un'illusione.
Il fatto però che molte delle nostre conoscenze sembrano
anche adesso acquisite in modo casuale o come conseguenza secondaria
di qualche altra attività che chiamiamo lavoro o svago, non
significa che un apprendimento pianificato non tragga beneficio
da un insegnamento pianificato o che l'uno e l'altro non abbiano
bisogno di miglioramenti. Lo studente volonteroso che si pone l'obiettivo
di acquisire una nuova e complessa capacità può trarre
un grande beneficio dalla disciplina, oggi automaticamente associata
al maestro di scuola all'antica, quello che insegnava a leggere,
a scrivere e a far di conto. Nella scuola attuale questo tipo di
insegnamento pratico è raro e ormai screditato, ma ci sono
molte materie che uno studente volonteroso con attitudini normali
può imparare nel giro di pochi mesi se gli vengono insegnate
in modo tradizionale. Questo vale per i cifrari come per le tecniche
atte a metterli in chiaro, per imparare una seconda e una terza
lingua come per apprendere a leggere e a scrivere, e anche per linguaggi
particolari come l'algebra, la programmazione dei calcolatori, l'analisi
chimica o per tecniche manuali come la dattilografia, l'orologeria,
il lavoro dell'idraulico, del telegrafista o del riparatore di televisori;
nonché in fondo, per imparare a ballare, a guidare o a fare
tuffi.
In certi casi l'ammissione a un corso di studi preparatori a una
data specializzazione può presupporre qualche altra competenza
specifica, ma non dovrebbe mai dipendere dal processo mediante il
quale le capacità richieste sono state acquisite. Per riparare
i televisori bisogna sapere leggere e scrivere e conoscere un po'
di matematica; per fare tuffi è necessario nuotare bene;
ma per guidare una macchina non occorre ne l'una ne l'altra cosa.
I progressi nell'apprendimento di una capacità sono misurabili.
È abbastanza facile calcolare le risorse ottimali di tempo
e di materiali necessarie a un normale adulto animato da buona volontà.
Negli Stati Uniti il costo dell'insegnamento di una seconda lingua
europea per arrivare a un buon livello di scioltezza oscilla tra
i quattrocento e i seicento dollari, mentre per una lingua orientale
il tempo necessario per insegnarla è calcolabile più
o meno al doppio. Si tratta comunque di somme esigue se paragonate
al costo di dodici anni di scuola a New York (il minimo richiesto
per essere assunti dal Dipartimento della sanità), che sfiora
i quindicimila dollari. Non c'è dubbio che non soltanto l'insegnante,
ma anche il tipografo e il farmacista proteggono la loro professione
facendo credere alla gente che prepararsi a esercitarla sia molto
costoso.
Attualmente le scuole hanno diritto di priorità su quasi
tutti i fondi destinati all'istruzione. L'insegnamento pratico,
che costa meno dell'insegnamento scolastico equivalente, è
ora privilegio di chi è abbastanza ricco per fare a meno
delle scuole e di chi viene mandato dalle forze armate o dalle grandi
aziende a seguire corsi interni di addestramento. Negli Stati Uniti
un programma di graduale descolarizzazione potrebbe in un primo
tempo destinare all'insegnamento pratico solo risorse limitate.
Ma a più lunga scadenza niente dovrebbe impedire a un cittadino,
qualunque sia la sua età, di apprendere, a spese pubbliche,
la specializzazione che preferisce tra le centinaia possibili.
Già adesso si potrebbero aprire a persone di tutte le età,
e non soltanto ai poveri, dei crediti, per il momento in numero
limitato, validi per qualunque centro di formazione professionale.
Questi crediti potrebbero assumere la forma di un passaporto o di
una carta di credito educativo, da rilasciare a ogni cittadino al
momento della nascita. Per favorire i poveri, i quali probabilmente
nei primi anni di vita non avrebbero la possibilità di usufruire
di questi assegni annuali, si potrebbe prevedere un'accumulazione
degli interessi a beneficio di chi volesse utilizzare più
tardi i diritti maturati. Con tali crediti, tutti o quasi sarebbero
in grado di acquisire, nel momento che giudichino più opportuno,
le capacità maggiormente richieste, meglio che a scuola e
anche in modo più rapido, più economico e meno inficiato
da effetti secondari sgradevoli.
La scarsità di istruttori professionali potenziali non è
mai un fenomeno di lunga durata perché da un lato la richiesta
di una determinata capacità aumenta solo parallelamente alla
sua importanza nell'ambito della comunità, e dall'altro chi
esercita una specialità potrebbe anche insegnarla. Oggi però
chi è padrone di tecniche molto richieste, e che esigono
un insegnante in carne e ossa, viene dissuaso dal far partecipi
gli altri delle proprie capacità. A dissuaderlo sono sia
i docenti che monopolizzano il diritto all'insegnamento, sia i sindacati
che vogliono proteggere i propri interessi corporativi. Dei centri
di formazione professionale che venissero valutati dai loro potenziali
frequentatori in base ai risultati raggiunti: e non al personale
impiegato o ai procedimenti usati, aprirebbero insospettate occasioni
di lavoro magari anche a chi oggi è ritenuto inutilizzabile.
Anzi, non c'è motivo perché simili centri non dovrebbero
sorgere negli stessi luoghi di lavoro e perché l'imprenditore
e le sue maestranze non dovrebbero fornire un insegnamento oltre
che un posto a chi scegliesse di utilizzare in questa maniera la
propria carta di credito didattico.
Nel 1956 si presentò nell'archidiocesi di New York la necessità
di insegnare rapidamente lo spagnolo ad alcune centinaia di maestri,
assistenti sociali e preti per metterli in grado di comunicare con
i portoricani. Il mio amico Gerry Morris fece annunciare da una
stazione radio in spagnolo che si cercavano persone di Harlem capaci
di parlare la loro madrelingua. L'indomani si misero in coda davanti
al suo ufficio duecento giovani di meno di vent'anni ed egli ne
scelse una cinquantina, quasi tutte persone che avevano smesso di
andare a scuola prima del tempo. Egli insegnò loro a servirsi
del manuale di spagnolo del Foreign Service Institute statunitense,
destinato a linguisti con preparazione universitaria, e una settimana
dopo i suoi insegnanti si mettevano al lavoro per conto proprio,
ciascuno con quattro nuovaiorchesi che volevano imparare la loro
lingua. Nel giro di sei mesi l'impresa venne portata a termine.
Il cardinale Spellman poté così annunciare di avere
centoventisette parrocchie dove almeno tre membri dell'organico
sapevano comunicare in spagnolo. Non c'è programma scolastico
che avrebbe potuto ottenere simili risultati.
Gli istruttori professionali sono pochi perché si ha una
fede eccessiva nel valore dei diplomi. Il conferimento di questi
attestati è di fatto una forma di manipolazione del mercato
accettabile solo da parte di chi crede ciecamente nell'istituzione
scolastica. Quasi tutti gli insegnanti d'arti e mestieri sono meno
capaci, meno inventivi e meno comunicativi di un buon artigiano
o di un buon tecnico. E quasi tutti quelli che insegnano una lingua
straniera alle medie non la parlano con la stessa precisione cui
potrebbero arrivare i loro allievi dopo sei mesi di adeguato addestramento
pratico. Gli esperimenti compiuti da Angel Quintero a Portorico
sembrano dimostrare che molti adolescenti, una volta che si forniscano
loto gli incentivi, i programmi e gli utensili appropriati, sono
più bravi di quasi tutti gli insegnanti nel guidare i propri
compagni all'esplorazione scientifica delle piante, delle stelle
e della materia o alla scoperta dl come e perché funziona
un motore o una radio.
Con questa apertura di mercato le possibilità
di apprendimento professionale possono essere enormemente accresciute.
È però indispensabile che si accoppii l'insegnante
giusto al giusto allievo e che quest'ultimo sia fortemente attratto
da un programma intelligente e libero dalle costrizioni del normale
piano di studi.
Per l'educatore ortodosso la libertà e la competitività
dell'insegnamento pratico sono una bestemmia sovversiva: separano
infatti l'acquisizione di una capacità professionale dall'educazione
umanistica che le scuole mettono nello stesso sacco,
e portano quindi a un apprendimento non autorizzato che si affianca
all'insegnamento non autorizzato, con conseguenze imprevedibili.
Recentemente è stata presentata una proposta che a prima
vista sembra molto assennata. L'ha preparata Christopher Jencks
del Center for the Study of Public Policy sotto il patrocinio dell'Office
of Economic Opportumty. Si tratterebbe di distribuire i crediti
scolastici o le borse di studio direttamente ai genitori e agli
studenti, in modo che possano spenderli nelle scuole che preferiscono.
In effetti questi accreditamenti personali potrebbero essere un
passo importante nella direzione giusta. È necessario che
si garantisca a ogni cittadino il diritto a una parte eguale dei
fondi pubblici per l'istruzione tratti dal gettito fiscale, nonché
il diritto di verificare tale parte e di adire le vie legali se
gli viene rifiutata. È una forma di garanzia contro una tassazione
regressiva.
Ma la proposta Jencks si apre con l'inquietante affermazione che
conservatori, progressisti e radicali hanno fatto coro nel
lamentare, in questa o quell'occasione, che il sistema educativo
americano non dia agli educatori professionisti incentivi sufficienti
ad assicurare alla maggior parte dei ragazzi un insegnamento ad
alto livello. La proposta dunque si condanna da sola, in quanto
chiede borse di studio obbligatoriamente utilizzabili solo nell'ambito
scolastico.
È come dare a uno zoppo un paio di grucce e stabilire che
può adoperarle solo se ne lega assieme le estremità.
Così com'è adesso, questa proposta fa il gioco non
solo degli educatori professionisti, ma dei razzisti, dei fautori
di scuole confessionali e in genere di tutti coloro i cui interessi
richiedono la divisione sociale. Ma la concessione di crediti educativi
utilizzabili esclusivamente nella scuola fa soprattutto il gioco
di chi vuole continuare a vivere in una società dove la promozione
sociale dipenda non da una dimostrata competenza ma dal pedigree
scolastico mediante il quale si presume che sia stata acquisita.
Questa discriminazione a favore delle scuole, che è al centro
della proposta di Jencks per una diversa distribuzione dei fondi
destinati all'istruzione potrebbe svuotare uno dei principi che
devono assolutamente improntare la riforma dell'istruzione: la restituzione
dell'iniziativa e della responsabilità dell'apprendimento
al discente o al suo tutore più immediato.
La descolarizzazione della società comporta il riconoscimento
della duplice natura dell'istruzione. Insistere soltanto sull'insegnamento
pratico potrebbe essere disastroso; bisogna dare la stessa importanza
anche ad altre forme d'apprendimento. Ma se la scuola è un
luogo sbagliato per imparare una tecnica, lo è ancora di
più per farsi un'istruzione. Svolge male entrambi i compiti
anche perché non fa distinzione tra loro. Nell'insegnamento
professionale è inefficiente soprattutto perché lo
inserisce in un programma di studi generali. Accade quasi sempre,
infatti, che un programma previsto per migliorare una determinata
capacità tecnica sia indissolubilmente legato ad altre materie
irrilevanti. Così la storia è legata ai progressi
in matematica e la frequenza alle lezioni al diritto di servirsi
della palestra.
La scuola è ancor meno efficiente quando si tratta di preparare
le condizioni che favoriscano un uso aperto, esplorativo, delle
capacità acquisite, cioè quella che io chiamerò
educazione liberale. La ragione principale è
che la scuola è obbligatoria e diventa presto fine a se stessa:
un soggiorno forzato in compagnia di insegnanti, compensato con
il discutibile privilegio di una dose ulteriore di tale compagnia.
Come l'istruzione professionale deve essere liberata dalle pastoie
di un programma generale, così l'educazione liberale deve
essere sbarazzata dall'obbligo della frequenza. Sia l'apprendimento
professionale sia l'educazione a un comportamento inventivo e creativo
possono trarre giovamento da ordinamenti istituzionali, ma hanno
una natura diversa e spesso opposta.
Quasi tutte le capacità tecniche possono essere acquisite
e migliorate con l'insegnamento pratico, perché la capacità
comporta la padronanza di un comportamento definibile e prevedibile.
L'insegnamento professionale può quindi puntare sulla simulazione
delle circostanze in cui una certa capacità verrà
utilizzata. Viceversa leducazione a un'utilizzazione esplorativa
e creativa delle capacità non può basarsi sulle esercitazioni
pratiche: Può essere il punto d'arrivo di un insegnamento,
ma di tipo sostanzialmente opposto allesercitazione, pratica.
Si fonda infatti sul rapporto tra partner che gia posseggono alcune
delle chiavi che danno accesso alle conoscenze accumulate nella
e dalla comunità. Si fonda sullo spirito critico di quanti
si servono di queste conoscenze in modo creativo. Si fonda infine
sulla domanda sorprendente e inattesa che apre nuove prospettive
a chi l'ha presentata e a chi l'ha ricevuta.
L'istruttore professionale parte da un insieme di circostanze prestabilite
che permettono al discente di sviluppare certe determinate reazioni.
La guida, invece, o il maestro ha il compito di favorire l'incontro
tra partner ben assortiti perché possa attuarsi il processo
della conoscenza. Questo incontro è determinato dai partner
stessi, dalle loro domande rimaste senza risposta. Al massimo la
guida può aiutare l'allievo a formulare loggetto della
propria ricerca, perché solo esponendolo in maniera chiara
egli avrà la possibilità di trovare il compagno che
in quel momento desidera, come lui, esplorare lo stesso problema
nel medesimo contesto.
A prima vista questo assortimento di partner a fini didattici sembra
più difficilmente realizzabile del reperimento di istruttori
professionali o di compagni per un gioco. Una delle ragioni è
la profonda paura che ha inculcato in noi la scuola, una paura che
ci inibisce. Lo scambio non autorizzato di capacità tecniche
- siano pure capacità non richieste - è più
prevedibile, e sembra dunque meno pericoloso, delle illimitate possibilità
d'incontro tra persone che hanno in comune un problema per loro,
e in quel momento, socialmente, intellettualmente ed emotivamente
importante.
L'insegnante brasiliano Paulo Freire lo sa per esperienza personale.
Ha infatti scoperto che qualunque adulto è in grado di cominciare
a leggere nel giro di quaranta ore se le prime parole che decifra
sono cariche di significato politico. Freire manda i membri della
sua equipe in un villaggio con l'incarico di scoprire quali sono
le parole che possono esprimere i più importanti problemi
del momento, come l'accesso a un pozzo o gli interessi composti
del debito con il patron. La sera gli abitanti del villaggio si
riuniscono per discutere su queste parole-chiave. Cominciano a rendersi
conto che ogni parola rimane sulla lavagna anche quando il suo suono
è ormai svanito. Le lettere continuano a rivelare la realtà
e a renderla affrontabile come problema. Ho spesso avuto modo di
constatare personalmente come la discussione porti a una presa di
coscienza sociale e come essi si sentano spinti ad agire sul piano
politico con la stessa rapidità con cui imparano a leggere.
Sembra quasi che, nell'atto di trascriverla, prendano in mano la
realtà. Ricordo un uomo che si lamentava per il peso delle
matite: gli era difficile maneggiarle perchè pesavano meno
di un badile; e ne ricordo un altro che, mentre andava a lavorare
con i suoi compagni, si fermò e con la zappa scrisse sul
terreno la parola, agua, su cui stavano discutendo. Dal 1962 il
mio amico Freire è passato da un esilio all'altro, soprattutto
perché non vuol saperne di organizzare le proprie riunioni
intorno a parole già selezionate da educa tori riconosciuti,
anziché intorno a quelle portate in aula da coloro che devono
discuterle.
L'assortimento a scopo didattico di persone già brillantemente
scolarizzate è un problema completamente diverso. Quelli
che non hanno bisogno di un'assistenza del genere sono una minoranza
persino tra i lettori dei giornali seri. La maggioranza certo non
può e non deve essere chiamata a discutere su uno slogan,
una parola o un'immagine; ma l'idea è la stessa: bisognerebbe
che si riunissero per affrontare un problema scelto e definito da
loro stessi. L'apprendimento creativo, esplorativo, esige partecipanti
a un eguale livello e interessati in quel momento ai medesimi problemi.
Le grandi università tentano vanamente di metterli assieme
moltiplicando i corsi, ma di solito non riescono a nulla, perché
sono legate a programmi rigidi, alla struttura dei corsi e alla
burocrazia amministrativa. Nelle scuole, università comprese,
quasi tutti i fondi sono destinati a pagare il tempo e la voglia
di un numero limitato di persone di affrontare problemi prede terminati
in un contesto ritualmente definito. La più radicale alternativa
alla scuola sarebbe una rete, o un servizio, che offrisse a ciascuno
la stessa possibilità di mettere in comune ciò che
lo interessa in quel momento con altri che condividono il suo stesso
interesse.
Per dare un esempio di ciò che intendo, dirò come
questo tipo di incontro intellettuale potrebbe attuarsi a New York.
Ogni persona, in qualunque momento e con un costo minimo, dovrebbe
poter comunicare a un computer l'indirizzo e il numero di telefono,
indicando il libro, l'articolo, il film o il disco per discutere
il quale vorrebbe trovare un compagno. Nel giro di pochi giorni
riceverebbe per posta un elenco di coloro che negli ultimi tempi
hanno presentato la medesima richiesta, e questo elenco gli permetterebbe
di combinare per telefono incontri con persone che, inizialmente,
sarebbero note soltanto per il fatto che hanno chiesto un dialogo
sullo stesso argomento.
Mettere insieme le persone secondo il loro interesse per un determinato
titolo è estremamente semplice. Permette l'identificazione
solo in base a un reciproco desiderio di discutere un'affermazione
precisa fatta da una terza persona, e lascia all'individuo l'iniziativa
di organizzare l'incontro. Contro questa semplicità scheletrica
si sollevano di solito tre obiezioni. Intendo affrontarle non solo
per chiarire la teoria che voglio illustrare con la mia proposta
- esse infatti mettono in luce la radicata resistenza alla descolarizzazione
dell'istruzione e alla separazione dell'apprendimento dal controllo
sociale - ma anche perché possono far capire quali siano
le risorse esistenti che non vengono usate a fini educativi.
La prima obiezione è: perché l'autoidentificazione
non può avvenire anche intorno a una idea o una questione
? Certo in un sistema computerizzato sarebbe possibile partire anche
da simili termini soggettivi. I partiti politici, le chiese, i sindacati,
i circoli, le associazioni di quartiere e gli ordini professionali
già organizzano le proprie attività didattiche in
questa maniera e si comportano in pratica come se fossero scuole.
Riuniscono cioè persone per indagare su certi temi,
e questi vengono trattati in corsi, seminari e cicli di studi nei
quali i presunti interessi comuni sono prestabiliti.
Un simile incontro su un tema è per definizione accentrato
intorno all'insegnante: esige una presenza autoritaria che decida
per conto dei partecipanti il punto di partenza della loro discussione.
Viceversa l'incontro suggerito da un libro, un film, ecc., nella
sua forma più pura, lascia decidere all'autore del libro,
film, ecc. il linguaggio, i termini e il contesto nei quali si presenta
un determinato problema o un avvenimento, e permette a quanti accettano
questo punto di partenza di arrivare a un'identificazione reciproca.
Per esempio radunare gente sull'idea della rivoluzione culturale
sfocia di solito nella confusione o nella demagogia. Invece riunire
coloro cui interessa aiutarsi reciprocamente a capire un particolare
articolo di Mao, Marcuse, Freud o Goodman, s'inscrive nella grande
tradizione della cultura liberale, dai dialoghi di Platone, costruiti
intorno a presunte affermazioni di Socrate, ai commenti su Pietro
Lombardo di Tommaso d'Aquino. Lidea di incontrarsi per parlare
di un titolo è dunque radicalmente diversa dalla teoria che
sta alla base di certi club del libro come il Great Books
Club : invece di fidarsi della scelta di un gruppo di professori
di Chicago, due persone qualunque possono prendere il libro che
vogliono per analizzarlo a fondo.
La seconda obiezione dice: perché l'annuncio di chi cerca
un incontro del genere non può contenere anche informazioni
sull'età, il passato, la visione del mondo, le competenze,
le esperienze e altre caratteristiche determinanti? Si può
ancora rispondere che non c'è motivo per cui non si possa
e non si debba inserire queste restrizioni discriminatorie in alcune
delle tante università - con o senza mura -, dove gli incontri
basati sui titoli potrebbero essere un metodo organizzativo fondamentale.
Potrei immaginare anche un sistema che incoraggi gli incontri di
persone interessate alla presenza dell'autore del libro scelto o
di un suo portavoce; uno che garantisca la presenza di un consulente
preparato; uno aperto soltanto agli studenti iscritti a un dipartimento
universitario o a una scuola; o uno che permetta esclusivamente
incontri tra persone che hanno precisato il loro particolare modo
di vedere il titolo in discussione. Ognuna di queste limitazioni
può avere i suoi vantaggi per il raggiungi mento di obiettivi
didattici specifici. Ma ho paura che, nella maggior parte dei casi,
la vera ragione per cui vengono proposte è il disprezzo,
derivato dal presupposto che la gente è ignorante: gli educatori
vogliono insomma evitare che gli ignoranti si incontrino per parlare
di un testo che magari non capiscono e che leggono soltanto perché
li interessa.
Terza obiezione: perché non fornire a coloro che cercano
un incontro un'assistenza non invadente che lo faciliti, cioè
uno spazio, un orario, un vaglio, una protezione? È ciò
che fanno adesso le scuole, con l'inefficienza tipica delle grandi
burocrazie. Se vogliamo lasciare l'iniziativa degli incontri a quelli
stessi che li desiderano, a questo probabilmente provvederebbero
molto meglio organizzazioni che oggi nessuno associa alla didattica.
Penso ai proprietari di ristoranti, agli editori, ai servizi di
segreteria telefonica, ai direttori dei grandi magazzini e persino
ai funzionari delle ferrovie che potrebbero dare impulso alle proprie
organizzazioni facilitando questi incontri educativi.
Incontrandosi per la prima volta in un caffè, per esempio,
i due possibili compagni potrebbero farsi riconoscere tenendo il
libro da discutere accanto alla tazza: Comunque chi ha preso l'iniziativa
di organizzare tali incontri imparerebbe presto di quali mezzi servirsi
per stabilire rapporti con le persone che gli interessano. C'è
il rischio che una discussione con uno o più estranei si
riveli una perdita di tempo, una delusione o addirittura un'esperienza
sgradevole, ma è certamente minore del rischio che corre
chi presenta domanda d'iscrizione a un'università. Un incontro
combinato da un computer per discutere un articolo comparso su una
rivista a diffusione nazionale, se lo si tiene, mettiamo, in un
caffè del centro, non obbliga nessuno dei partecipanti a
restare in compagnia dei suoi nuovi conoscenti per più tempo
di quanto occorre per bere una tazza di caffè, e inoltre
egli non è per niente obbligato a rivederli in futuro. È
alta in compenso la possibilità che ciò contribuisca
a diradare l'opacità della vita in una metropoli moderna
e aiuti a trovare nuove amicizie, un lavoro di propria scelta e
testi da leggere criticamente. È certamente innegabile che
in questa maniera l'FBI potrebbe procurarsi una documentazione sulle
letture e gli incontri dei singoli cittadini, ma che nel 1970 qualcuno
si possa ancora preoccupare di questo fa soltanto sorridere un uomo
libero, il quale, volente o nolente, contribuisce comunque al mare
di carte irrilevanti in cui affogano i ficcanaso.
Sia lo scambio di capacità tecniche sia l'incontro tra persone
interessate a un determinato argomento si fondano sul presupposto
che l'educazione per tutti è l'educazione da parte di tutti.
A una cultura popolare non si può arrivare con l'arruolamento
forzoso in un'istituzione specializzata, ma solo mobilitando l'intera
popolazione. Oggi questo diritto eguale per tutti di valersi delle
proprie capacità di insegnare e di apprendere è monopolizzato
dagli insegnanti patentati. La competenza di questi ultimi, a sua
volta, è ristretta a ciò che si può fare nell'ambito
della scuola. E da qui deriva, inoltre, la netta separazione tra
lavoro e svago: allo spettatore come al lavoratore si richiede di
arrivare nel luogo di lavoro o di svago pronti a inserirsi nella
routine che è stata per loro predisposta. Questo condizionamento,
simile a quello che determina la forma, il modo d'impiego e la pubblicità
di un prodotto, li plasma in funzione del loro ruolo esattamente
quanto l'istruzione regolamentare impartita attraverso la scuola.
Per un'alternativa radicale a una società scolarizzata non
occorrono soltanto nuovi meccanismi formali per l'acquisizione formale
delle capacità e la loro utilizzazione didattica. Una società
descolarizzata comporta anche un nuovo modo di affrontare il problema
dell'istruzione casuale o informale.
Per l'istruzione casuale non si può più tornare alle
forme che assumeva l'apprendimento nei villaggi o nelle città
del Medio Evo. La società tradizionale era sostanzialmente
una serie di cerchi concentrici di strutture significanti, mentre
l'uomo moderno deve imparare a trovare un significato nelle numerose
strutture con le quali ha soltanto un rapporto marginale. Nel villaggio,
il linguaggio, l'architettura, il lavoro, la religione e le tradizioni
familiari erano tra loro in armonia, si giustificavano e si rafforzavano
a vicenda. Crescere all'interno di una di queste strutture significava
crescere anche nelle altre. Persino l'apprendistato professionale
era un'attività secondaria di mestieri specialistici come
quelli del calzolaio o del cantore di salmi. Un apprendista poteva
anche non diventare mai un maestro artigiano o uno studioso, ma
contribuiva egualmente a fare le scarpe o a dare solennità
alle cerimonie religiose. L'istruzione non aveva bisogno di sottrarre
tempo al lavoro o allo svago. Era un fatto complesso e non pianificato
che continuava per tutta la vita di una persona.
La società contemporanea è un prodotto di piani ben
precisi ed è nel loro ambito che devono essere progettate
le occasioni da offrire a chi vuole apprendere. L'affidamento all'istruzione
specialistica e a tempo pieno mediante la scuola è ormai
destinato a diminuire e dovremo trovare altri modi di imparare e
di insegnare: bisognerà che tornino ad aumentare le qualità
didattiche di tutte le istituzioni. Ma è una previsione molto
ambigua. Potrebbe infatti significare che nella città moderna
gli uomini saranno sempre più vittime di un efficiente processo
di istruzione e di manipolazione totale, una volta che saranno stati
privati persino di quella tenue parvenza di indipendenza critica
che oggi la scuola umanistica fornisce se non altro ad alcuni dei
suoi allievi. Ma potrebbe anche significare che gli uomini smetteranno
di ripararsi dietro i diplomi acquisiti a scuola e troveranno così
il coraggio di alzare la voce e quindi di controllare
e guidare le istituzioni delle quali fanno parte. Per arrivare a
questo dobbiamo imparare a determinare il valore sociale del lavoro
e dello svago in funzione degli scambi d'insegnamenti cui possono
dare occasione. La partecipazione effettiva alle scelte politiche
di una strada, di un luogo di lavoro, di una biblioteca, di un mezzo
d'informazione o di un ospedale è quindi il metro migliore
per misurare il loro livello come istituzioni educative.
Mi è accaduto recentemente di parlare con un gruppo di studenti
delle medie inferiori che stava organizzando un movimento di contestazione
del passaggio obbligatorio al ciclo successivo. Il loro slogan era
partecipazione, non simulazione. Erano delusi perché
il loro discorso era stato interpretato come.una richiesta di minore
e non di maggiore istruzione e mi fecero tornare in mente la critica
di Karl Marx a un brano del programma di Gotha che - cento anni
fa - voleva vietare il lavoro infantile. Marx si opponeva a questa
proposta in nome dell'educazione dei ragazzi che poteva avvenire
soltanto nel luogo di lavoro. Se è vero che il massimo frutto
della fatica di un uomo dovrebbe essere l'insegnamento che ne trae
e la possibilità che vi trova di cominciare a istruire gli
altri, l'alienazione della società moderna in un senso pedagogico
è ancora più grave della sua alienazione economica.
Del principale ostacolo sul cammino verso una società che
veramente educhi mi ha dato una buona definizione un amico nero
di Chicago, quando mi ha detto che la nostra immaginazione è
tutta messa su dalla scuola. Noi permettiamo allo stato
di stabilire quali siano le insufficienze d'istruzione comuni ai
suoi cittadini e di istituire un organismo specialistico per eliminarle.
Condividiamo in tal modo l'illusione che sia possibile distinguere
ciò che è necessario all'istruzione degli altri da
ciò che non lo è, proprio come le generazioni precedenti
promulgavano leggi per definire ciò che era sacro e ciò
che era profano.
Durkheim sosteneva che la capacità di dividere in due regni
la realtà sociale è l'essenza stessa di ogni religione
costituita. Ci sono, argomentava, religioni prive del soprannaturale
e religioni prive di dèi, ma non ce n'è una che non
suddivida il mondo in cose, periodi e persone che sono sacri e in
altri che sono di conseguenza profani. Si può applicare questa
tesi anche alla sociologia dell'istruzione, perchè la scuola
opera una divisione radicale che è sostanzialmente della
stessa natura.
Il mero fatto che esistano scuole obbligatorie divide ogni società
in due regni: certi periodi o processi o metodi o professioni sono
accademici o pedagogici, mentre altri non
lo sono. Il potere della scuola di dividere in questo modo la realtà
sociale è illimitato: l'educazione viene staccata dal mondo
e il mondo diventa non educativo.
I teologi contemporanei, a partire da Bonhoeffer, denunciano l'attuale
confusione tra il messaggio biblico e la religione istituzionalizzata.
Fanno notare che, come l'esperienza dimostra, la libertà
e la fede cristiana traggono di solito giovamento dalla secolarizzazione.
Sono affermazioni che a molti ecclesiastici paiono inevitabilmente
blasfeme. Analogamente è fuor di dubbio che il processo didattico
trarrà profitto dalla descolarizzazione della società,
anche se tale richiesta appare a molti uomini di scuola un tradimento
della tradizione illuministica. Ma sono proprio questi lumi che
nelle scuole si stanno ora smorzando.
La secolarizzazione della fede cristiana dipende dall'impegno a
essa dedicato da parte di cristiani profondamente radica ti nella
chiesa. Analogamente la descolarizzazione dell'istruzione ha assolutamente
bisogno della guida di coloro che nelle scuole sono stati allevati.
In questa missione i programmi scolastici non possono servir loro
da alibi: ognuno di noi resta responsabile di ciò che è
stato fatto di lui, anche se può non saper far altro che
accettare questa responsabilità e servire da monito per gli
altri.
II - FENOMENOLOGIA DELLA SCUOLA
Certe parole diventano talmente generiche da non servire più
a niente. Per esempio, scuola, lezione,
insegnare. S'infiltrano come tante amebe in tutti gli
interstizi del linguaggio. LABM darà una lezione ai
russi; l'IBM insegnerà ai bambini negri; l'esercito può
diventare la scuola della nazione.
Prima di cercare alternative nel campo dell'istruzione dobbiamo
quindi metterci d'accordo su ciò che intendiamo per scuola.
Possiamo farlo in diversi modi. Cominciare per esempio elencando
le funzioni latenti svolte dai sistemi scolastici moderni, cioè
la custodia, la selezione, l'addottrinamento, l'istruzione. O analizzarne
la clientela e verificare quali di queste funzioni latenti
rendono un servizio o un disservizio a insegnanti, imprenditori,
ragazzi, genitori o categorie professionali. O anche riesaminare
la storia della cultura occidentale e le informazioni raccolte dagli
antropologi, alla ricerca di istituzioni che abbiano avuto un ruolo
paragonabile a quello svolto oggi dalla scuola. O infine ricordare
i molti principi normativi che sono stati formulati fin dai tempi
di Comenio, o addirittura di Quintiliano, e scoprire a quale di
essi s'avvicina maggiormente il sistema scolastico moderno. Ma ognuno
di questi metodi ci costringerebbe a partire dal presupposto di
un rapporto inscindibile tra scuola e istruzione. Per avere a disposizione
un linguaggio che permetta di parlare di scuola senza questo riferimento
costante all'istruzione, ho preferito iniziare con quella che potremmo
definire una fenomenologia della scuola pubblica. A
questo fine chiamerò scuola un processo caratterizzato
dall'età dei discenti, dal rapporto determinante con l'insegnante
e dalla frequenza a tempo pieno di un programma di studi obbligatorio.
1. Età. La scuola raggruppa le persone in base alla loro
età. È un raggruppamento che parte da tre premesse
indiscusse: il posto dei bambini è la scuola; i bambini imparano
a scuola; ai bambini si può insegnare soltanto a scuola.
lo credo che queste premesse, mai poste in dubbio, debbano essere
invece riesaminate con molta attenzione.
Noi ci siamo ormai abituati ai bambini. Abbiamo deciso che devono
andare a scuola, fare ciò che gli si dice e non avere ne
un reddito personale ne una propria famiglia. Ci aspettiamo che
sappiano qual è il loro posto e che si comportino come bambini.
Ci ricordiamo, con nostalgia o con amarezza, di quando eravamo bambini
anche noi e siamo tenuti a tollerare il comportamento infantile
dei bambini. Il compito di provvedere a loro è proprio del
genere umano. Dimentichiamo, così, che la nostra particolare
concezione della fanciullezza si è formata solo
da poco tempo nell'Europa occidentale, e in epoca ancora più
recente nelle Americhe.
La fanciullezza come momento diverso dall'infanzia, dall'adolescenza
o dalla gioventù, era ignota a quasi tutti i periodi storici.
In certi secoli dell'era cristiana non ci si rendeva neppure conto
delle sue proporzioni fisiche: gli artisti dipingevano il bambino
come un adulto in miniatura in braccio alla madre. I bambini comparvero
in Europa contemporaneamente all'orologio da tasca e agli usurai
cristiani del Rinascimento. E fino al nostro secolo ne poveri ne
ricchi avevano mai sentito parlare di vestiti per bambini, di giochi
per bambini o dell'immunità del bambino di fronte alla legge.
Il concetto di fanciullezza è proprio della borghesia. Il
figlio dell'artigiano, del contadino o del nobile vestiva come suo
padre, faceva i suoi stessi giochi e rischiava nella stessa maniera
l'impiccagione. Ma da quando la borghesia ha scoperto la fanciullezza
è cambiato tutto. Solo alcune chiese continuarono per qualche
tempo a rispettare la dignità e la maturità del giovanissimo:
nella chiesa cattolica, fino al Concilio Vaticano II, s'insegnava
a ogni bambino che un cristiano perviene al discernimento morale
e al libero arbitrio a sette anni e che da quel momento egli è
in grado di commettere peccati per i quali può essere punito
all'inferno per l'eternità. Verso la metà di questo
secolo le famiglie borghesi hanno cominciato a cercare di proteggere
i propri bambini dal peso di questa dottrina, e sono le loro idee
sulla fanciullezza che determinano oggi il comportamento pratico
della chiesa.
Fino al secolo scorso i bambini della borghesia si formavano
in casa, con l'aiuto di precettori e di scuole private. Solo con
l'avvento della società industriale divenne possibile e fu
messa alla portata delle masse la produzione in serie della fanciullezza.
Il sistema scolastico è un fenomeno moderno come la fanciullezza
da esso prodotta.
Ma poiché la maggior parte delle persone non vive nelle città
industriali, ancora oggi i più non sanno per esperienza diretta
che cosa sia la fanciullezza. Sulle Ande, una volta che sei diventato
utile, cominci subito a coltivare la terra. E prima
devi far la guardia alle pecore. Utile lo diventi a undici anni
se ti hanno nutrito bene, o altrimenti a dodici. Parlavo di recente
con il mio guardiano notturno, Marcos, di un suo figlio undicenne
che lavora in una bottega di barbiere. Gli feci notare in spagnolo
che era ancora un nino. E lui, sorpreso, rispose con un disarmante
sorriso: Credo che lei abbia ragione, don Ivan. Rendendomi
conto che, prima di quella mia frase, per Marcos il ragazzo era
stato soprattutto un figlio, mi sentii in colpa per
aver tirato la tenda della fanciullezza tra due persone sensibili.
Naturalmente se avessi detto a un uomo che vive nei quartieri poveri
di New York che suo figlio, benchè vada a lavorare, è
ancora un bambino, non lo avrei sorpreso. Egli sa perfettamente
che a un ragazzo di undici anni dovrebbero essere concessi i privilegi
della fanciullezza e soffre perché suo figlio non ne gode.
Il rampollo di Marcos non è ancora afflitto dall'aspirazione
alla condizione di bambino, quello del nuovaiorchese si sente frustrato.
La maggior parte della popolazione mondiale, dunque, non vuole o
non può assicurare ai propri figli il moderno diritto alla
fanciullezza. Sembra però che esso sia un peso anche per
molti bambini della minoranza che gode di questo privilegio. Parecchi
di loro sono soltanto costretti a subirlo e non sono per niente
soddisfatti di
svolgere il ruolo del bambino. Crescere nella condizione di bambino
significa essere condannati a un conflitto disumano tra la propria
coscienza di se e il ruolo imposto da una società che sta
attraversando la propria età scolare. Ne Stephen Dedalus
ne Alexander Portnoy si sono goduti la fanciullezza e ho l'impressione
che anche a molti altri di noi non piacesse minimamente essere trattati
da bambini.
Se non esistessero istituzioni didattiche destinate a specifiche
età e obbligatorie, la fanciullezza sparirebbe
dalla circolazione. I giovani delle nazioni ricche sarebbero liberati
dalla sua distruttività, e i paesi poveri cesserebbero di
cercar d'imitare la fanciullaggine di quelli ricchi. Se si vuole
che la società superi la fase della fanciullezza, bisogna
ch'essa sia tale che i giovani possano viverci. Non può più
restare in piedi l'attuale distacco tra una società adulta
che si spaccia per umana e un ambiente scolastico che è una
parodia della realtà. La fine della scuola come istituzione
potrebbe anche porre termine alla discriminazione che attualmente
opera contro gli infanti, gli adulti e i vecchi, e a favore degli
adolescenti e dei giovani. La decisione della società di
destinare le risorse didattiche disponibili soprattutto a quei cittadini
che si sono lasciati alle spalle,la straordinaria capacità
di apprendere propria dei primi quattro anni di vita e non hanno
ancora maturato appieno una autonoma volontà d'imparare,
apparirà probabilmente assurda ai nostri posteri.
La sapienza istituzionale ci dice che i bambini hanno bisogno della
scuola. La sapienza istituzionale ci dice che i bambini imparano
a scuola. Ma questa sapienza istituzionale è a sua volta
un prodotto della scuola, perché il sano buonsenso ci fa
notare che nella scuola si può insegnare soltanto ai bambini.
Solo segregando degli esseriumani nella categoria della fanciullezza
è possibile assoggettarli all'autorità di un insegnante.
2. Insegnanti e allievi. Per definizione, i bambini sono allievi.
La richiesta di un ambiente riservato alla fanciullezza crea un
mercato sconfinato per gli insegnanti patentati. La scuola è
un'istituzione basata sull'assioma che l'apprendimento è
il prodotto dell'insegnamento. E la sapienza istituzionale continua
ad accettare questo assioma, nonostante le prove schiaccianti che
lo contraddicono.
Quasi tutto ciò che sappiamo lo abbiamo imparato fuori della
scuola. Gli allievi apprendono la maggIor parte delle loro nozioni
senza, e spesso malgrado, gli insegnanti. Ma il tragico è
che i più assorbono la lezione della scuola anche se a scuola
non mettono mai piede.
È fuori della scuola che ognuno impara a vivere. Si impara
a parlare, a pensare, ad amare, a sentire, a giocare a bestemmiare,
a far politica e a lavorare, senza, l'intervento di un insegnante.
Non fanno eccezione a questa regola neanche quei bambini che sono
soggetti giorno e notte alla tutela di un maestro. Gli orfanelli,
gli idioti e i figli degli insegnanti imparano quasi tutto quello
che sanno fuori del processo educativo predisposto per
loro. Gli insegnanti che hanno tentato dl migliorare l'istruzione
dei poveri hanno ottenuto risultati mediocri. Ai genitori poveri
che vogliono mandare a scuola i loro bambini non interessa tanto
ciò che impareranno quanto il diploma e i soldi che grazie
al diploma potranno guadagnare. E i genitori borghesi, se affidano
i propri bambini a un insegnante, lo fanno per impedire che imparino
ciò che i poveri apprendono per le strade. Le indagini sull'istruzione
dimostrano sempre di più che i bambini imparano la maggior
parte di ciò che gli insegnanti credono d'insegnargli, dai
coetanei, dai fumetti, dalle loro osservazioni casuali e soprattutto
dalla mera partecipazione al rituale scolastico. Gli insegnanti
anzi, il più delle volte, ostacolano quel tanto di apprendimento
delle materie che avviene nella scuola. Metà degli abitanti
del mondo non ha mai messo piede in una scuola. Non hanno alcun
contatto con insegnanti e non godono del privilegio di diventare
evasori dall'obbligo scolastico. Imparano tuttavia benissimo il
messaggio trasmesso dalla scuola, e cioè che dovrebbero avere
anche loro un'istruzione scolastica e in quantità sempre
maggiori. La scuola li rende consapevoli di essere cittadini di
categoria inferiore, attraverso l'esattore fiscale che gliela fa
pagare, il demagogo che gli fa sperare di averla o i loro stessi
figli una volta che ne sono stati agganciati. In tal modo si toglie
ai poveri il rispetto per se stessi convertendoli a un credo che
assicura la salvezza solo mediante la scuola. La chiesa per lo meno
lasciava la possibilità di redimersi nell'ora della morte;
la scuola lascia soltanto l'aspettativa (contraffazione della speranza)
che ce la faranno i nipoti. Aspettativa che, naturalmente, è
un altro frutto di apprendimento, proveniente però dalla
scuola, non dagli insegnanti.
Gli allievi hanno sempre attribuito a merito dei propri insegnanti
ben poco di ciò che hanno imparato. Sia i brillanti che gli
ottusi, per passare agli esami si sono sempre affidati alla memoria,
allo studio e alla presenza di spirito, spinti dal bastone o dalla
carota di una carriera ambita.
Gli adulti tendono a tingere di romanticismo il loro passato scolastico.
Retrospettivamente, attribuiscono ciò che hanno appreso all'insegnante
di cui impararono ad ammirare la pazienza. Ma questi stessi adulti
si preoccuperebbero della salute mentale di un bambino che corresse
a casa a raccontare loro ciò che ha imparato dai suoi singoli
insegnanti.
Le scuole creano posti di lavoro per gli insegnanti, indipendentemente
da ciò che gli allievi ne imparano.
3. Frequenza a tempo pieno. Ogni mese mi capita sotto gli occhi
un nuovo elenco di proposte presentate all'Agency for International
Development da qualche industria statunitense, in cui si suggerisce
che nell' America latina l'insegnante di classe venga
sostituito con degli esperti nei sistemi d'informazione programmata
o più semplicemente con la TV. Negli Stati Uniti, l'idea
dell'insegnamento come lavoro di squadra di ricercatori, pianificatori
e tecnici è sempre più accettata. Ma che l'insegnante
sia una maestrina o un gruppo di uomini in camice bianco, che essi
riescano o meno a insegnare le materie elencate nei programmi, in
ogni caso l'insegnante professionista crea un ambiente sacro.
L'incertezza sul futuro dell'insegnamento professionistico mette
in crisi la classe. Se i professionisti dell'educazione volessero
specializzarsi nel promuovere l'apprendimento, dovrebbero abolire
un sistema che richiede ogni anno da 750 a 1000 riunioni. Ma com'è
noto l'insegnante non si limita a questo. La sapienza istituzionale
della scuola dice ai genitori, agli allievi e agli educatori che
l'insegnante, se vuole insegnare, deve esercitare la propria autorità
entro un recinto sacro. Ciò vale anche per l'insegnante i
cui allievi trascorrano la maggior parte dell'orario scolastico
in un'aula senza pareti.
La scuola, per sua stessa natura, tende a rivendicare e assorbire
totalmente il tempo e le energie di chi ne fa parte. Di conseguenza,
l'insegnante si trasforma in custode, predicatore e terapeuta.
In ciascuno di questi tre ruoli l'insegnante fonda la propria autorità
su una prerogativa diversa. Come insegnante-custode funge da cerimoniere,
che guida gli allievi nei labirintici meandri di un lungo rituale.
Vigila sull'osservanza delle regole e gestisce le complicate norme
dell'iniziazione alla vita. Nei casi migliori, predispone il terreno
adatto all'acquisizione di qualche capacità particolare,
come hanno sempre fatto i maestri di scuola: senza illudersi di
produrre una profonda cultura, addestra meccanicamente i propri
allievi ad alcune tecniche basilari.
Come insegnante-moralista si sostituisce ai genitori, a Dio o allo
stata. Catechizza l'allievo su ciò che è giusto o
inammissibile, non soltanto a scuola ma nella società in
genere. Sta in loco parentis per ciascun ragazzo e garantisce in
tal modo che tutti si sentano figli dello stesso stato.
Come insegnante-terapeuta si ritiene autorizzato a frugare nella
vita privata dell'allievo per aiutarlo a crescere come persona.
Ma questa funzione, esercitata da chi si sente anche custode e predicatore,
comporta di solito che egli persuada l'allievo ad accettare passivamente
la sua visione della verità e le sue idee su ciò che
è bene.
La pretesa che su questo sistema scolastico si possa fondare una
società liberale è assurda. Dai rapporti insegnante-allievo
sono infatti escluse tutte le salvaguardie della libertà
individuale. Quando il professore riassume nella propria persona
le funzioni di giudice, ideologo e medico, il tratto fondamentale
della società viene ad essere deformato proprio da quel processo
che dovrebbe preparare alla vita. Linsegnante che detiene
questi tre poteri contribuisce alla distorsione del bambino assai
più delle leggi che sanciscono la sua minorità giuridica
o economica o limitano i suoi diritti di riunione o di movimento.
Gli insegnanti non sono certo i soli professionisti che offrano
terapie. Gli psichiatri, i consulenti psicologici e gli esperti
di orientamento professionale, persino gli avvocati, aiutano i propri
clienti a decidere, a maturare la loro personalità, a istruirsi;
ma il buonsenso dice al cliente che questi professionisti non possono
imporre la propria opinione su ciò che è bene o è
male, o costringere chicchessia a seguire i loro consigli. Soltanto
gli insegnanti e i preti sono, fra i professionisti, quelli che
si sentono in diritto d'entrare nelle faccende private dei loro
clienti nell'atto stesso in cui predicano a un uditorio che è
loro prigioniero.
Il bambino americano, quando si trova di fronte a quel prete secolare
che è l'insegnante, non è protetto ne dal primo ne
dal quinto emendamento della Costituzione del suo paese. Deve affrontare
un uomo che porta in testa un'invisibile triplice corona simile
alla tiara papale, simbolo di una triplice autorità riunita
in una sola persona. Per il bambino l'insegnante pontifica come
pastore, come profeta e come prete: è contemporaneamente
guida, maestro e ministro di un rito sacro. Riunisce in se le prerogative
dei papi medievali, in una società fondata sulla garanzia
che tali prerogative non saranno mai esercitate assieme da un'unica
istituzione ufficiale e obbligatoria, chiesa o stato che sia.
Considerare i bambini come allievi a tempo pieno permette all'insegnante
di esercitare sulle loro persone un tipo di potere che, rispetto
a quello detenuto dai guardiani di altre enclaves della società,
è assai meno limitato da restrizioni costituzionali o tradizionali.
L'età esclude i bambini da guarentigie che sono invece scontate
per gli adulti ospiti di una istituzione totale moderna, sia un
manicomio, un monastero o una prigione. Sotto l'occhio autoritario
dell'insegnante, parecchi ordini di valori si riducono a uno solo.
Le distinzioni tra morale, legalità e dignità personale
si attenuano sino a sparire. Ogni trasgressione viene fatta sentire
come un cumulo di mancanze: il colpevole è tenuto a rendersi
conto che, in un solo colpo, ha violato una regola, si è
comportato in modo immorale e si è screditato. L'allievo
che riesce abilmente a farsi aiutare durante una prova d'esame è
un fuorilegge, un essere moralmente corrotto, una persona indegna.
La frequenza scolastica sottrae i bambini al mondo quotidiano della
cultura occidentale e li immerge in un ambiente assai più
primitivo, magico e mortalmente serio. Una simile enclave nella
quale le leggi della realtà normale non hanno più
vigore non potrebbe costituirsi se la scuola non imprigionasse fisicamente
i giovani per molti anni consecutivi in un territorio sacro. Lobbligo
della frequenza fa sì che l'aula scolastica funga da magico
utero, dal quale il bambino è periodicamente rilasciato al
termine della giornata o dell'anno scolastico finchè non
viene definitivamente espulso nella vita adulta. Ne la prolungata
fanciullezza universale ne la soffocante atmosfera dell'aula potrebbero
esistere senza le scuole. Tuttavia, queste, come canali obbligatori
per l'istruzione, possono sussistere anche senza fanciullezza e
senza aule ed essere più repressive e distruttive di tutto
ciò che abbiamo conosciuto finora. Per comprendere che cosa
significa descolarizzare la società - e non semplicemente
riformare l'istituzione scolastica - dobbiamo ora soffermarci su
quello che è il programma occulto della scuola. Non ci interessa
qui, direttamente, il programma occulto delle strade dei ghetti
che marchia a fuoco i poveri o quello dei salotti di cui beneficiano
i ricchi: vogliamo invece richiamare l'attenzione sul fatto che
il cerimoniale o rituale della scuola è esso stesso tale
programma occulto. Neanche gli insegnanti migliori possono proteggerne
del tutto i loro allievi. Inevitabilmente, questo programma occulto
della scuola aggiunge pregiudizio e senso di colpa alla discriminazione
che la società pratica contro alcuni suoi membri e conferisce
al privilegio di altri un titolo in più per ostentare superiorità
sulla maggioranza. Altrettanto inevitabilmente, questo programma
occulto serve da rituale di iniziazione a una società consumistica
orientata verso l'espansione, sia per i ricchi che per i poveri.
continua >>>>>
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