SCUOLA / UNA CATEGORIA IN CRISI: È SCOPPIATO IL PROFESSORE. UN'INCHIESTA DE L'ESPRESSO RIVELA LE ANSIE E LE FRUSTRAZIONI DEI DOCENTI ITALIANI. CHE SI AFFIDANO SEMPRE DI PIÙ AGLI PSICOFARMACI. E TU COSA NE PENSI? RACCONTA LA TUA ESPERIENZA (di Fiamma Tinelli, da L'Espresso del 9/10/2003)

Stressati. Frustrati. E con tanta angoscia addosso da dover ricorrere sempre più spesso all'uso di psicofarmaci. Eccoli, gli insegnanti italiani. Non tutti, certo. Ma sempre di più. Si chiama Burnout Syndrome, all'inglese (burnout: bruciato, scoppiato). È uno stato di grave stress che si manifesta con ansia, depressione, patologie psicosomatiche. Ed è sempre più frequente, dalle materne fino ai licei. Lo dichiara la Fondazione Iard, che da anni si occupa di indagini psico-sociali nel mondo della didattica, e che ha appena concluso una ricerca, intervistando più di 1.200 insegnanti. "Il campanello d'allarme è suonato un anno fa, quando abbiamo tirato le fila di uno studio sulle condizioni di stress di diverse categorie di lavoratori", spiega Vittorio Lodolo D'Oria, medico Inpdap e membro delle commissioni incaricate di valutare le domande di pensionamento antic ipato per motivi di salute. "Il confronto fra le categorie
parlava chiaro: gli insegnanti che chiedono l'inidoneità alla professione per motivi psichiatrici (e non fisici) sono il 49,2 per cento. Il doppio degli impiegati, due volte e mezzo le richieste del personale sanitario, il triplo di operai e manovali", dice Lodolo D'Oria: "Era il segnale che in questa categoria qualcosa non andava. Per questo abbiamo deciso di continuare a indagare". Il risultato è la nuova ricerca appena conclusa: 1.252 questionari distribuiti con un allegato al 'Sole-24 Ore Scuola' e via Internet, attraverso siti sindacali e di categoria. I dati confermano la preoccupazione: il 54 per cento della categoria ritiene di aver vissuto almeno in parte i sintomi
associati alla sindrome. Maestri e professori accusano stati d'ansia, attacchi di panico, malattie psicosomatiche. Il 16 per cento del campione fa, o ha fatto, ricorso a farmaci ansiolitici, ipnotici, antidepressivi. L'esperienza insegna che dal burnout alla patologia psichiatrica il passo è breve. C'è il caso tipico dell'insegnante Cristina B. di Perugia che la mattina, nell'andare a comprare il pane, faceva consapevolmente il giro più lungo per evitare di passare davanti alla sua scuola. E fin qui siamo alla fissazione nevrotica. Ben più grave la vicenda di quel professore di scuola media a Milano che il 5 maggio di ogni anno si presentava in classe vestito a lutto, per l'anniversario della morte di Napoleone. O di quel maestro elementare lombardo affetto da sindrome paranoide che era convinto di essere spiato e avvelenato nella mensa scolastica, e per questo ha
inviato una formale lettera di protesta al presidente della Repubblica e ad Amnesty International (sede di Milano e di Londra, per non sbagliare). La scuola, insomma, pilastro della formazione delle nuove generazioni, se la vede brutta. L'unica soluzione sarebbe arginare il fenomeno in fase iniziale, dare ascolto ai docenti che soffrono
di burnout, curarli tempestivamente con consulenze psicologiche. Sarebbe. Perché di burnout, questo è il punto, nessuno sa quasi niente. "Il problema è sottovalutato, misconosciuto", spiega Renato Pocaterra, ricercatore dello Iard e coautore della ricerca: "Le istituzioni, i dirigenti scolastici, i medici di base non sanno di cosa stiamo parlando. Non sanno indirizzare gli insegnanti, né riconoscono la dimensione del problema". Qualche attività in più si registra da parte dei sindacati: Cgil Scuola ha svolto una pro- pria ricerca e un dibattito sul tema, Gilda ha creato uno spazio sul suo sito (www.gildains.it) che raccoglie storie di burnout, e ha organizzato per il prossimo 9 ottobre un incontro con gli insegnanti. Per il resto, i docenti sono completamente soli. Succede spesso che un professore stressato vada dal medico, e si senta dire: "Lei è un po' stanco, prenda un tranquillante, le passerà tutto". Ma le cause del disturbo rimangono. E i farmaci, da soli, non bastano. Il perché di tanto stress? Crisi di motivazione, tagli alle spese, contrazione del personale, stipendi fra i più i bassi
in Europa? Non è solo questo. Il 47 per cento dei docenti sostiene di ricavare dal proprio lavoro un "buon livello di soddisfazione". Solo il 18 per centro si dice insoddisfatto. La questione è un'altra: per gli insegnanti intervistati, il primo motivo di stress è "lo scarso riconoscimento sociale della professione" (55 per cento). Come dire che i prof soffrono per la perdita di prestigio socio-culturale, sono stufi di sentirsi dire che lavorano poco e che fanno tre mesi di vacanza, esausti di fronte alle difficoltà sempre nuove che la scuola gli mette di fronte.
Solo al terzo posto si parla di "retribuzione insoddisfacente" (42), subito dopo le classi troppo numerose (50). Egidio Simeoni, preside dell'Istituto magistrale Erasmo da Rotterdam di Sesto San Giovanni, scuola coinvolta due anni fa in un grave episodio di cronaca (il diciassettenne che uccise la fidanzata con un temperino nell'ora di intervallo) dice la sua: "Un tempo gli insegnanti dovevano essere solo bravi. Conoscere la materia, trasmetterla agli studenti, appassionarli. Oggi tutto questo non basta: la delega educativa alla scuola è diventata totale. Dobbiamo gestire classi multietniche, far fronte ai pericoli della droga, trattare casi difficili con una carenza cronica di insegnanti di sostegno, genitori che demandano i compiti educativi e poi contestano il nostro
operato. Le responsabilità aumentano. Ma risorse e gratificazioni no". Così, gli insegnanti scoppiano. Assenze, permessi per malattia, insegnamento compromesso.
"Le soluzioni dei dirigenti scolastici di fronte a un caso di burnout? Semplice: lo trasferiscono da un'altra parte", spiega Lodolo D'Oria: "La struttura attiva una reazione anticorpale: l'insegnante viene prima isolato, poi minacciato con sanzioni disciplinari, infine trasferito in un'altra scuola. Dove i problemi, è ovvio, si ripresentano". Come nel caso di Francesco P., docente di educazione tecnica di 55 anni con gravi crisi di ag-
gressività verso preside e colleghi, che entrava in classe e al minimo brusio minacciava di chiamare Polizia e Carabinieri, "così imparate cos'è la disciplina". Fra la prima segnalazione al Provveditorato e il giudizio di "assoluta inidoneità all'attività di docente" sono passati otto anni.
Anni in cui il professore ha cambiato scuole, presidi, studenti. Ma non è stato allontanato dalla scuola, perché nessuno aveva compreso la gravità del disturbo mentale. "Questi sono casi limite. Ma la relazione fra burnout e patologia psichiatrica esiste. È proprio attraverso la prevenzione e il riconoscimento tempestivo delle situazioni di stress che si affrontano queste situazioni. Bisognerebbe anche agire a monte, cambiando la percezione sociale di questa professione", avverte D'Oria. E il ministero dell'Istruzione, che fa? "Le dico solo questo: negli ultimi due anni sono stati tagliati alla scuola 2 mila miliardi di vecchie lire, 80 mila posti di lavoro. Servirebbero investimenti, sostegno, corsi di formazione, invece ci sono istituti dove arrivano gli ufficiali giudiziari a pignorare i mobili. Questo governo non fa che implementare il disagio, la sensazione di inutilità della categoria. Lavorare bene in queste condizioni è impossibile", accusa Enrico Panini, segretario nazionale di Cgil Scuola. Contro le istituzioni punta il dito anche Pietro Falaschi, docente di matematica e fisica di un i-
stituto commerciale, trent'anni di insegnamento: "I ragazzi sono cambiati enormemente. Non si può pensare di insegnare a giovani che vivono immersi in un mondo mediatico e ipertecnologico come si faceva con i ragazzini degli anni Settanta. Le istituzioni, di questo, non hanno tenuto minimamente conto. Nessuno ci ha dato direttive precise su come affrontare il cambiamento della popolazione scolastica preservando l'autorevolezza e la credibilità dell'insegnante. E i risultati si vedono". Un problema internazionale, tanto che se ne sta occupando anche l'Ocse con un progetto ancora in corso volto a trattenere, motivare e incentivare alla professione di insegnanti. "Un tempo la scuola era un sistema di promozione sociale: l'insegnamento era considerato una professione di prestigio", dice Norberto Bottani, direttore del servizio di ricerca sull'Istruzione del Canton Ginevra e collaboratore del progetto Ocse: "Oggi, invece, in tutta Europa i laureati cercano professioni più gratificanti. Con il risultato che la scuola è sempre più affollata di professori demotivati e poco preparati che scelgono l'insegnamento come ultima risorsa. Confermando lo stereotipo dell'insegnante incapace". Basta parlare con un sedicenne per rendersene conto. I ragazzini di oggi sezionano i loro professori col bisturi: osservano come parlano, come fanno lezione, ma anche come si vestono, che macchina guidano. E poi imitano, distorcono, commentano, con sarcasmo feroce. "I ragazzi mettono i professori sotto la lente d'ingrandimento. Non gli sfugge niente, meno che mai un docente in difficoltà", spiega Silvia Vegetti Finzi, psicologa e coautrice con Anna Maria Battistin di 'L'età incerta. I nuovi adolescenti': "Ma mentre il ragazzino riesce a gestire il rapporto con un professore stressato rivolgendosi a un'altra figura di riferimento, la situazione è molto più grave per i bambini della scuola dell'obbligo, che applicano verso la maestra un meccanismo di transfert. Il rischio è che si sentano smarriti, che maturino problemi di apprendimento e disaffezione alla scuola". Motivo in più perché sul fenomeno del burnout si faccia una seria prevenzione. "Dopo i risultati della nostra ricerca abbiamo steso le linee guida di un progetto pilota di informazione che coinvolge psicologi, medici di base, insegnanti, dirigenti scolastici e mass media
(chi è interessato può scrivere a info@fondazioneiard.org oppure vittorio.lodolodoria@fastwebnet.it, ndr), ma per andare avanti servono fondi", spiega Giorgio Basaglia, vicepresidente della Fondazione Iard: "Prima di tutto, però, gli insegnanti devono sapere che non sono soli. Per questo raccogliamo le loro testimonianze e organizziamo corsi di formazione". In attesa che le istitu-
zioni si sveglino.

CRISI DI PANICO DAVANTI ALLA LAVAGNA TRE INSEGNANTI, TRE STORIE.

"SENZA PSICOFARMACI NON AVREI POTUTO LAVORARE" ROBERTA G. 50 ANNI , MAESTRA ELEMENTARE A MILANO

"Paura. Nell'ultimo anno, la sensazione dominante è stata questa. Un nodo alla gola, il respiro tagliato: entrare il classe era un incubo. È cominciato quattro anni fa, quando è arrivato in classe un ragazzino rom. Una situazione disastrosa in famiglia, fratelli coinvolti in storie di droga. Era violento con gli altri bambini, mi derideva. Ho segnalato la cosa al dirigente scolastico, mi dicevano: porta pazienza. E continuavo con la tachicardia, mi mancava il fiato. In quinta il bambino ha cominciato a minacciarmi: "So dove abiti, vengo con i miei fratelli". Un giorno ho avuto un attacco di panico di fronte alla lavagna: non so come ho fatto a restare in piedi. Ho chiesto una visita medica, e per la prima volta ho sentito parlare di burnout. Mi hanno dato sette mesi di inabilità. Ora sono fuori dalla scuola, sto meglio, tra poco andrò in pensione".

ELISA P. 42 ANNI PROFESSORESSA DI MATEMATICA IN UNA SCUOLA MEDIA DI GENOVA.

"È cominciato tutto tre anni fa. Nella nostra scuola è arrivata una collega di italiano e i rapporti con lei si sono subito rivelati difficili. Mi contraddiceva davanti ai genitori, faceva battute su di me al preside. Il primo anno ho cercato di capire cosa c´era alla base dei suoi comportamenti, il secondo l´ho affrontata. Nessun risultato. Intanto cominciavo a perdere il sonno, a sentirmi ansiosa. Ho avuto qualche episodio di vertigini. E l´estate scorsa, in vacanza, ho cominciato ad avere attacchi di panico. Fino all´ultimo, terribile, che mi ha colta in aereo. Appena atterrati, mio marito ha chiamato il medico: "Lei è un po´ stanca e ha paura di volare. Prenda queste gocce". Paura di volare io? Mai successo. Ma le gocce le ho prese e sono stata meglio. Qualche
settimana dopo nella mia scuola c´è stato un incontro sul burnout. E un medico preparato finalmente mi ha ascoltata".

BENEDETTA D. 53 ANNI, DOCENTE DI SCIENZE IN UN LICEO DELLA PROVINCIA DI NAPOLI.

"Io nella sindrome di burnout ci sono ancora dentro. Nella scuola in cui lavoravo fino a un anno fa, nel 2000 è arrivato un nuovo preside. Ha cominciato subito a corteggiarmi con insistenza, e io gli ho fatto capire che non gradivo le sue attenzioni. Dopo pochi mesi, le prime rappresaglie: un ritardo minimo alla riunione, un´inesattezza sul registro, qualsiasi cosa giustificava una lettera disciplinare. Ne ho ricevute 15. Cercavo il sostegno dei colleghi, ma niente: avevano paura di essere coinvolti. Sono rimasta completamente sola. E sono entrata in depressione: senza psicofarmaci non sarei riuscita a lavorare. Tutte le mattine, prima di andare a scuola, piangevo: non solo per il sopruso del preside, ma per il vuoto che mi hanno fatto intorno i colleghi, il
mormorio degli studenti. L´anno scorso ho ottenuto il trasferimento, ma prendo ancora farmaci".

ISTRUZIONI PER POST-SCHIZZATI COME LIBERARE LA MENTE DALLE OSSESSIONI: UN LIBRETTO DIVENTA UN CASO di Edmondo Berselli

Chi è il professor Giulio Cesare Giacobbe, e perché si parla di lui? Semplice, è l´autore di un pamphlet (edito da Ponte alle Grazie), 124 pagine e 9 euro che promettono di rovesciarvi l´esistenza. Appena apparso in libreria ha bruciato la prima tiratura. Sarà per il titolo: ´Come smettere di farsi le seghe mentali e godersi la vita´. Letteratura trash? Manualistica cheap?
"Una sciocchezza", secondo l´autore: "A giudicare dal titolo, questo libro sembra una belinata". Dal che si capisce che Giulio Cesare Giacobbe opera a Genova. A Genova si è laureato in filosofia, poi ha studiato psicologia in California, e adesso sempre all´Università genovese ha la cattedra di Fondamenti delle discipline psicologiche orientali. Belinata o no, il libro è "un manuale pratico di autoprevenzione e autoterapia delle nevrosi". E qui bisogna storicizzare. Perché la vicenda degli ultimi quarant´anni è costellata di autori eccentrici, sulle cui opere diverse generazioni hanno cercato e smarrito un equilibrio mentale. I pre e post-sessantottini si sono perduti nelle teorie di Wilhelm Reich, altri si sono divertiti con gli estremismi simbolici di Groddeck. Ma forse il testo più classico è quello di Robert Pirsig, ´Lo Zen e l´arte della manutenzione della motocicletta´: il quale, con la scusa di raccontare viaggi, esperienze mentali e motociclette, divulgava tutta la storia della filosofia. Ma opere di questo tipo andavano bene allorché la figura sessantottesca del ´giovane´ era altamente culturalizzata. Ma con le generazioni di oggi, con gli ´addict´ della sega mentale che affollano le università, ci voleva un testo sacro diverso. Eccolo a voi. "Questo libro l´ho scritto sollecitato dai miei studenti", dice Giacobbe. E in effetti l´opera ha una storia singolare. Era circolata nelle librerie genovesi in forma di dispensa, vendendo semi-clandestinamente qualche
migliaio di copie. Alla fine, richiamato dal tam tam, uno scopritore di talenti editoriali lo ha portato nel gruppo Longanesi. Il tempo di stamparlo e di farlo uscire, e il libro è stato preso d´assalto. Evidentemente le seghe mentali sono una malattia diffusa. Anzi, diffusissima. Il professor Giacobbe si rivolge a un target medio di studenti, le cui seghe
mentali medie sono del tipo semplice. Lei me la darà? Lui mi tradisce? Di suo, Giacobbe ci mette una propensione per le spiritosate, una voglia goliardica esplicita, un retrogusto forse paternalista del tipo ´istruisce e diverte´. Che cosa siano le seghe mentali è presto detto. Pensare fa male. Il pensiero si rivela fin troppo spesso una sega mentale. È vero che ci sono seghe mentali positive, quelle che generano l´arte, la scienza, la letteratura. Ma sono rarità. In genere la sega mentale è malefica. È un
pensiero ossessivo che genera sofferenza, è la concezione autistica secondo cui il mondo è un´illusione, e la realtà esiste solo in quanto noi la pensiamo. Diciamolo meglio: "Le seghe mentali non sono altro che la riproduzione iterata e automatica di
pensieri portatori di una qualche tensione, cioè di sofferenza, generata da uno stato di paura, ossia di allarme nei confronti di qualcosa, che il nostro cervello ritiene pericoloso per la nostra incolumità, il più delle volte non reale, ma simbolica". Resta solo da vedere qual è la ricetta per smettere. Be´, è facile. Bisogna fermare il pensiero. Ci si concentra su un oggetto, sulla realtà circostante, si diventa ´osservatori´, e l´ossessione si allenta. Dopo di che, ci sono passi successivi, che sono quelli classici della meditazione orientale. I mantra, la respirazione, l´ascesi spirituale buddista, lo Yoga. Sempre con una dose d´ironia, perché anche lo scopo ultimo della contemplazione può risultare controverso: "Se ti accanisci a raggiungerlo, crei tensione e ricadi nella
trappola della nevrosi: cioè delle seghe mentali". Il successo del libro di Giacobbe implica un pubblico ricettivo. Si può quindi presumere che esistano larghe fasce di italiani, giovani e adulti, afflitti dalla varia fenomenologia delle seghe mentali. Tutta gente che sta cercando di sopravvivere nella turbolenza contemporanea, e nel tentativo di riuscirci si inventa fantasmi intellettuali e fissazioni neurotiche. Per questi soggetti
clinici, ´Come smettere di farsi le seghe mentali´ risulterà un saggio imperdibile. Perché offre terapie in apparenza semplici, come se la felicità, o la cessazione del dolore, fosse a portata di mano. E poi, come ricorda proprio l´autore, tutti i mantra vengono potenziati se hanno un contenuto religioso o evocativo. Ripetere ´Mio Dio´ anziché ´Coca-Cola´ funziona meglio e produce migliori risultati, se ci si crede. E l´autore, per l´appunto ci crede. Logico allora che la verità trovi un pubblico. Se l´autore ha fede, avranno fede anche i suoi studenti. Ci crederà una platea più vasta di afflitti dalla sindrome della sega mentale. Ci crederanno coloro che pensano che la nostra civiltà deterministica è tutta sbagliata, i no global in chiave new age, gli spiriti romantici,
gli ayurvedici. Magia che funziona. Perché l´importante è smettere di farsele, le seghe mentali. Oppure, aggiungerne una nuova. In attesa del prossimo manuale, e della prossima inevitabile ossessione.