0. INTRODUZIONE
Negli ultimi anni, il numero delle persone al di sotto della soglia
di povertà é fortemente aumentato in tutta Europa. Parallelamente, la
polarizazzione dei redditi é proseguita senza sosta in tutto il mondo,
sia quello cd. più sviluppato che nei paesi emergenti e poveri del terzo
e quarto mondo. Sono fatti noti, su cui ogni tanto i grandi quotidiani
mostrano una certa indignazione (come per lo sfruttamento dei bambini
in Asia e in Africa) ma che di fatto non entrano nell'agenda della politica
economica nazionale e sovranazionale(1).
La trasformazione delle economie occidentali negli ultimi
anni, quella trasformazione che in modo rapido e grezzo possiamo indicare
nel passaggio dal fordismo al post-fordismo, non ha solo modificato
i processi reali che sottendono i meccanismi di accumulazione, di creazione
di ricchezza e miseria, ma ha anche omogeneizzato e conformato in modo
unilaterale buona parte del pensiero economico. Non sempre è stato così.
Ad esempio, le trasformazione reali dell'economia e i sommovimenti sociali
degli anni Settanta hanno creato le premesse per un rivolgimento della
stessa teoria economica. Di più, negli anni del dopoguerra, lo sviluppo
del modello fordista era stato accompagnato dal diffondersi della teoria
economica keynesiana e delle diverse varianti in tema di programmazione
economica, sino alla pianificazione centralizzata (creando in tal modo
un distorto ponte tra Keynes e Marx nel tentativo di fornire un fondamento
teorico ad un capitalismo monopolizzato dominante a Ovest e ad un capitalismo
di Stato a Est): teorie diverse che comunque si fronteggiavano sempre
alla teoria economica liberista in una pluralità di impostazioni anche
sul piano metodologico. A partire dai primi anni Ottanta, contemporaneamente
alla caduta del muro di Berlino, si assiste, invece, al trionfo senza
rivali della teoria neoliberista. Viene a mancare qualunque contrapposizione
teorica se non, in termini puramente formali, all'interno dell'impostazione
neoclassica dominante. L'economia politica si trasforma in scienza oggettiva,
la cui promulgazione é ad appannaggio di "specialisti" e di "tecnici",
al di fuori delle diatribe teoriche tipiche delle scienze sociali. Indipendentemente
dalla formula di governo al potere (destra o sinistra), la politica
economica diventa una tecnica di sostegno dei meccanismi di accumulazione
in modo che siano sempre più compatibili con le esigenze dell'impresa
e della finanza anche nel brevissimo periodo. L'omogeneizzazione del
pensiero economico, che permea oramai qualsiasi meandro dell'accademia
e qualsiasi centro di ricerca di destra e di sinistra, rappresenta il
pericolo maggiore che oggi ci troviamo ad affrontare. E può sembrare
paradossale che proprio nel momento in cui vige il più alto livello
di frammentazione delle prestazioni lavorative e in cui non é possibile
individuare un unico modello di organizzazione produttiva dominante,
siamo di fronte ad unico pensiero (e credo) economico, una vera e propria
manipolazione delle coscienze.(2)
In un simile contesto di repressione delle idee e di conformismo
ideologico, non é più sufficiente analizzare l'attuale situazione, denunciarne
gli effetti criminali e ingiusti. Oramai, soprattutto in Italia e in
Francia, esiste una folta letteratura alternativa sul processo di trasformazione
dal fordismo al postfordismo, sulla produzione immateriale, sulle ristrutturazioni,
sulle nuove povertà, ecc.,.(3)
Ma al di fuori della denuncia e delle solite polemiche sul tipo di analisi
e di metodologia utilizzata, tra chi é attaccato alla tradizione marxista
più ortodossa dell'indagine sociale e chi cerca di seguire nuove strade
analitiche, l'agire politico e sociale rischia di arenarsi sempre più.
Per questo diventa necessario passare alla proposta e all'azione, sulla
base anche delle indicazioni che provengono dal mondo reale dei conflitti,
che lungi dall'essere scomparsi, rifioriscono più che mai però in contesti
particolari e locali. La lotta dei disoccupati francesi, ad esempio,
ha avuto tra le sue parole d'ordine, non solo la richiesta di un occupazione,
ma soprattutto di un reddito. La pretesa di un reddito indipendentemente
dalla disponibilità di lavoro ma in quanto cittadino appartenente ad
una comunità é una parola d'ordine che sempre più viene urlata nelle
vertenze conflittuali che animano l'attuale scena europea. Essa deriva
dalla coscienza più o meno diffusa e più o meno consolidata che nel
nuovo millennio il disporre di un lavoro può non essere sufficiente
a garantire l'esistenza di una vita dignitosa. Anche in questo caso,
come é avvenuto in passato, la teoria nasce dalle lotte e dalle istanze
che faticosamente e gradualmente vengono alla luce.
Il reddito di cittadinanza é
un concetto che esiste da molto tempo, da quando ha cominciato ad esistere
il capitalismo.(4)
E non può essere diversamente. Un sistema economico in grado di generare
un sovrappiù di ricchezza, tramite la trasformazione materiale delle
merci e non sulla semplice base delle ricchezze esistenti in natura,
non può non affrontare anche il tema della distribuzione di tale sovrappiù
prodotto. Una volta affermatosi, il capitalismo ha imposto la propria
legge, secondo la quale l'emancipazione sociale e la possibilità di
procacciarsi di che vivere (un reddito, per l'appunto) deve per forza
passare attraverso la disponibilità al lavoro, in tutte le sue varianti
di subordinazione gerarchica tra uomini e donne. Il lavoro é libero
e retribuito - questa è la grande rivoluzione sociale del capitalismo
- purché esso sottostia alle regole dell'accumulazione privata grazie
al ricatto del bisogno, ovvero alla stratificazione sociale che deriva
dallo sfruttamento dell'uomo sull'uomo. Il rapporto capitale-lavoro
- nelle diverse metamorfosi che ha subito nel corso degli ultimi due
secoli - rappresenta l'ambito teorico e reale in cui la dinamica sociale
si muove e si modifica conflittualmente. Il processo di accumulazione
determina le condizioni di produzione, la distribuzione del reddito
influenza le condizioni della domanda. Lo sviluppo capitalistico non
può fare a meno di modificare sia l'una che l'altra. Intervenire sul
lato dell'accumulazione, tramite interventi sull'organizzazione del
lavoro, sulle scelte di investimento, sulle modalità del rapporto di
sfruttamento, é ambito prioritario per intervenire nei destini del capitalismo,
ma influenzare e dirottare la distribuzione del reddito é altrettanto
essenziale. L'esperienza del cd. "socialismo realizzato" e soprattutto
il suo fallimento sono lì a dimostrarlo.
In questo scritto, affrontiamo la tematica del reddito di cittadinanza attraverso la formulazione di dieci
tesi, con l'intento di essere i più chiari possibili, ma anche per mettere
in luce la parzialità dell'intervento, consci, tuttavia, che costituisca
in questa fase storica un pilastro importante, in grado, unitamente
ad altri, di sostenere un impianto di politica economica alternativa,
più solidale e meno ingiusta. Un'ultima avvertenza: le dieci tesi proposte
possono essere lette indipendentemente una dalle altre (con dei riferimenti
al loro interno per eventuali approfondimenti specifici). Ciò significa
che sarà facile incorrere in ripetizioni, che spero non tedino eccessivamente
il lettore.
Tesi n. 1: Il reddito di cittadinanza
é una proposta di intervento economico generalizzato e egualitario,
ovvero non discriminante nei confronti di alcuno, che concorre a definire,
al pari della cittadinanza giuridica, la piena cittadinanza economica
e sociale.
Per reddito di cittadinanza
si intende un'erogazione monetaria, a intervallo di tempo regolare (ad
esempio un mese), distribuita a tutti coloro dotati di cittadinanza
e di residenza da almeno un certo periodo di tempo (ad esempio, un anno),
in grado di consentire una vita minima dignitosa, cumulabile con altri
redditi (da lavoro, da impresa, da rendita), indipendentemente dall'attività
lavorativa effettuata, dalla nazionalità, dal sesso, dal credo religioso
e dalla posizione sociale, in età lavorativa, per il periodo che va
dalla fine delle scuole dell'obbligo all'età pensionabile o alla morte.(5)
Trattandosi di un intervento omogeneo, il reddito
di cittadinanza dovrebbe essere distribuito
da un'entità statuale riconosciuta costituzionalmente con eventuale
delega alle autorità locali per le pratiche materiali di redistribuzione.
Trattandosi di un reddito indipendente dal salario (vedi Tesi n. 7),
esso sostituisce tutte le forme di indennizzo derivanti dalla perdita
del posto di lavoro (cassa integrazione, sussidi di disoccupazione,
prepensionamenti, ecc.) ma non le altre forme di reddito già esistenti
(pensioni, crediti alle famiglie, ecc.). Lo scopo del reddito
di cittadinanza è quello di fornire una
liquidità monetaria spendibile sul mercato finale delle merci così da
consentire il pieno godimento dei diritti di cittadinanza e di socialità
senza necessariamente essere inserite in un contesto gerarchizzato di
produzione materiale e immateriale: da questo punto di vista il reddito
di cittadinanza concorre a garantire la
cittadinanza economica e sociale.
Tesi n. 2: Il reddito di cittadinanza,
lungi dall'essere una proposta utopistica, é una misura di intervento
economico adeguata alla realtà sociale dell'accumulazione flessibile
e quindi più realistica oggi di quanto non lo fosse nel periodo fordista.
Con il passaggio dal modello fordista a quello
che rozzamente possiamo definire "post-fordista" o, meglio, dell'"accumulazione
flessibile", il contesto economico e sociale muta radicalmente. Ciò
che 20 anni fa poteva sembrare irrealistico, oggi non lo è più: è il
caso del reddito di cittadinanza. Per spiegare questa affermazione,
vale la pena ricordare alcune rotture economiche e sociali (in particolare
tre), che hanno caratterizzato la recente fase economica nei paesi a
capitalismo avanzato, con particolare riferimento all'Europa:
1. invalidità del nesso produzione - occupazione,
vale a dire il fatto che se ad una diminuzione della produzione corrisponde
ancora una diminuzione dell'occupazione, non è più vero il contrario.
La capacità tecnologica informatica e flessibile consente di aumentare
la produzione senza che aumenti l'occupazione per gli alti livelli di
produttività incorporati nelle nuove tecnologie. Le tecnologie informatiche
oggi dominanti sono costituite per la quasi totalità da innovazioni
di processo, vale a dire da innovazioni che tendono a modificare il
ciclo di produzione, il "come produrre" e non il prodotto finale.(6)
Le nuove tecnologie non consentono quindi la creazione di nuovi sbocchi
di mercato. Al riguardo occorre considerare il fatto, più che banale,
che nella storia del capitalismo, il progresso tecnologico ha sempre
"liberato" lavoro e quindi, come processo intrinseco, ha sempre causato
disoccupazione tecnologica. La capacità del sistema capitalistico di
compensare questa disoccupazione dipende dalla capacità di creare nuovi
prodotti e, quindi, nuovi mercati, nuova domanda e nuova produzione.
Tutto ciò oggi sembra non accadere in seguito alle caratteristiche strutturali
dell'odierno progresso tecnologico, costituito, non dalla scoperta di
un nuovo prodotto (ad esempio, le fibre e la plastica negli anni '20
e '30 o un nuovo procedimento meccanico, quale il motore a scoppio)
ma dall'introduzione di qualcosa di immateriale come il linguaggio informatico
in grado di collegare e programmare l'uso di due macchinari. Il progresso
tecnologico informatico non amplia la produzione ma la ristruttura e
la modifica tramite un costante incremento di flessibilità e tutto ciò
non crea occupazione, bensì la distrugge.
La disoccupazione non è più quindi un fenomeno
puramente congiunturale, bensì strutturale. E come tale, necessita di
interventi strutturali. La riduzione dell'orario di lavoro rientra nel
novero dei rimedi strutturali e proprio per questo può essere utile.
2. invalidità del nesso salario - produttività.
Il salario del lavoro dipendente è oggi, alle soglie del 2000, sempre
più sganciato dalla produttività, per il semplice fatto che la produttività
dipende in massima parte non più dall'apporto lavorativo ma dal tipo
di macchinario esistente. Se per aumentare la produzione a parità di
lavoro e di tempo è sufficiente schiacciare un tasto o inviare un comando
via computer, è evidente come sia il lavoro che la sua retribuzione
siano elementi esterni al meccanismo di accumulazione. Il fatto che
salario e produttività siano sganciati è la diretta conseguenza (l'altra
faccia della medaglia) della separazione post-fordista tra crescita
della produzione e crescita dell'occupazione.
3. ininfluenza della struttura dei consumi
nazionali (fine dello stato nazione).
Il fatto che salario e produttività non siano più collegati fra loro
implica che la distribuzione del reddito a livello nazionale e di conseguenza
la domanda nazionale di consumo non abbiano più rilevanza nel determinare
il processo di accumulazione. La crescente internazionalizzazione prima
dei flussi finanziari (con la totale e completa liberalizzazione dei
capitali) e poi con l'ampliarsi del processo di deindustrializzazione
dei paesi occidentali ha fatto sì che le condizioni economiche e le
politiche economiche a livello di singolo stato (a meno che non si tratti
della triade - Usa, Germania, Giappone) abbiano oggi scarsa influenza
nell'incidere su meccanismi di accumulazione sempre più globali. Da
questo punto di vista, infatti, il processo di internazionalizzazione
dell'economia mondiale si fonda su una divisione del lavoro che vede
i paesi occidentali detenere in modo sempre più concentrato il potere
finanziario e tecnologico ed il controllo dei flussi commerciali e i
paesi emergenti del terzo mondo oggetto della semplice trasformazione
delle merci.
L'irrilevanza della struttura redistributiva
del reddito implica anche il venir meno del ruolo dello Stato sia come
agente economico che interviene direttamente nel sistema economico a
sostegno dell'accumulazione (politica keynesiana) che come elemento
"super partes" che indirizza e controlla, tramite la politica fiscale,
la stessa redistribuzione del reddito. In un modello di accumulazione
flessibile "il welfare State" non ha più alcuna funzione specifica ma
rappresenta solo una rigidità e, come tale, deve essere abolito.
Questi tre aspetti sono fra loro estremamente
correlati ed evidenziano un unica fenomeno: la separazione tra distribuzione
del reddito da un lato e meccanismo di accumulazione dall'altro.
A livello sociale, al di là della sola sfera
economica, tale separazione implica anche una modificazione del rapporto
inclusione/esclusione. In modo alquanto sommario, possiamo dire che
nel modello fordista-keynesiano l'esclusione e l'emarginazione sociale
dipendevano dal grado di insubordinazione nei confronti delle condizioni
e della disciplina del lavoro. In questo ambito, la presenza di una
forte etica del lavoro rappresentava la via maestra per l'integrazione
e l'inclusione sociale, che consentiva la partecipazione, pur se in
posizione subalterna, alla distribuzione della ricchezza, che si contribuiva
a produrre. L'obiettivo della piena occupazione aveva quindi una valenza
non solo etica ma anche strategica, pur nell'ambito dei vincoli posti
dalla necessità di mantenere comunque un certo livello di disoccupazione.(7)
Oggi, nel modello flessibile post-fordista, l'esclusione e l'emarginazione
sociale si caratterizzano come elemento esterno di "flessibilizzazione
e pressione indiretta" sul sempre più ristretto nucleo di lavoratori
garantiti (vedi Tesi n.
6 per ulteriori approfondimenti su questa tematica).
Ciò dipende proprio dallo sganciamento della
retribuzione salariale dal meccanismo di accumulazione, che è la grande
novità del modello di accumulazione flessibile post-fordista.
Sorge allora una domanda: se il salario non viene
regolato all'interno della produzione, da chi o da che cosa viene regolato?
Vi sono due possibili risposte: la prima fotografa
ciò che sta avvenendo, la seconda postula un'opzione futura.
Se è vero che il salario non viene regolato all'interno
dei meccanismi dell'accumulazione e della produzione come ai tempi del
modello fordista, allora una possibile risposta sta nel postulare una
situazione pre-fordista, vale a dire una situazione ottocentesca in
cui la dinamica salariale dipende dall'andamento demografico, cioè dai
livelli di offerta di lavoro, della popolazione attiva e di quanti si
affacciano sul mercato del lavoro, anche se non trovano un'occupazione.
Non si tratta né di una provocazione, né di un paradosso, bensì di una
dolorosa realtà. Oggi il salario varia al variare dei livelli di disoccupazione
e per questo si può parlare di salario di sussistenza dal momento che
siano in presenza di una disoccupazione strutturale. Sono queste semplici
considerazioni che spiegano la presenza di una situazione anomala per
la prima volta nel dopoguerra: cresce la produzione, cresce la produttività,
diminuisce il salario reale a vantaggio dei profitti e delle rendite
finanziarie.
Se questa è la tendenza che si è ormai instaurata
- e si tratta di una tendenza pericolosa in quanto altamente regressiva
e antistorica -, occorre tuttavia tenere conto che le condizioni di
accumulazione, le caratteristiche di flessibilità degli odierni sistemi
produttivi sono elementi difficilmente modificabili nel breve e medio
termine, a meno che non si riesca ad raggiungere un potere contrattuale
in grado di modificare strutturalmente tali modalità produttive, ipotesi,
oggi, assai poco realistica.
La flessibilità tecnologica e la flessibilità
salariale così come oggi sono gestite dalle imprese sono quindi fattori
che possono essere considerati esogeni ad una politica economica alternativa,
fuori dal controllo delle realtà sociali antagoniste. Da questo punto
di vista, lo spazio per una politica riformista è totalmente nullo(8), tanto
è vero che oggi noi vediamo.
Diventa allora necessario aprire una
diversa opzione alternativa, più realistica e praticabile. Questa seconda
opzione è quella che lancia la parola d'ordine del reddito di cittadinanza,
come esito di un processo di redistribuzione sociale del reddito.
La garanzia di un reddito di base indipendente dall'impiego lavorativo
è un'ipotesi che fuoriesce dalla logica dell'accumulazione produttiva
per operare sul più vasto piano sociale. Per evitare che il salario
si riduca a puro e semplice elemento di sussistenza e non di affrancamento
e strumento di libertà individuale, occorre che la dinamica salariale
(sia diretta che eterodiretta) diventi una questione sociale e che venga
regolato sul piano della distribuzione sociale del reddito. E oggi più
che mai diventa un'opzione realistica e irrinunciabile
* * * * *
Sempre in merito al carattere utopistico del reddito di cittadinanza
e dei possibili effetti negativi, spesso si sottolinea l'argomentazione
che se fosse effettivamente disponibile un reddito indipendente dalla
necessità di lavorare, ciò indurrebbe una diminuzione dell'offerta di
lavoro, soprattutto per le mansioni più pesanti e dequalificanti, a
scapito dei livelli di produzione e quindi della possibilità nel futuro
di poter godere un uguale disponibilità di beni e servizi.(9)
In altre parole, chi farebbe i lavori più umili ma altrettanto necessari
per mantenere il livello di benessere oggi esistente? A tale obiezione,
che a prima vista non appare priva di buon senso e che spesso sottintende
una etica del lavoro molto forte, si può rispondere con tre ordini di
considerazioni:
a. uno degli stimoli principali alla
dinamica economica e tecnologica deriva dal porre continuamente vincoli
e ostacoli al processo di accumulazione in corso. Tutte le volte che
si sviluppa un conflitto tra le diverse componenti sociali ed in particolare
tra capitale e lavoro (ma, in misura minore, anche tra le diverse forme
di capitale), la risoluzione di tale conflitto passa attraverso una
spinta innovativa del progresso tecnologico e sociale. Così é stato
per l'introduzione agli inizi del secolo della giornata di 8 ore per
sei giorni alla settimana. Se andiamo a rileggere i documenti dell'epoca,
si possono scoprire argomentazioni molto simili a quelle che oggi, quasi
un secolo dopo, vengono addotte riguardo la riduzione di orario o il
reddito di cittadinanza a proposito del rischio di paralisi dell'attività
produttiva. Troppo spesso, però, ci si dimentica che le conquiste sociali
sono state il miglior antidoto alle crisi economiche, costringendo gli
imprenditori a fuoriuscire da comportamenti routinari e a introdurre
innovazioni tecnologiche in grado di contrastare e superare l'eventuale
compressione dei profitti o il rischio di fallimento economico (si potrebbe,
a tal fine, studiare il nesso tra la richiesta di normazione oraria
del lavoro dei primi anni del secolo con lo sviluppo delle nuove tecnologie
fordiste, così come negli anni '70 é possibile ravvedere un rapporto
tra lo sviluppo dell'informatica e la precedente fase conflittuale dei
tardi anni '60) . Al riguardo, potrebbe essere interessante ricordare
che la competitività internazionale dell'industria italiana alla fine
del decennio degli anni '70, "obbrobriosamente conflittuale" per molti,
era maggiore, in termini reali, di quella esistente alla fine degli
anni '80, decennio osannato come esempio di pace e repressione sociale.
In altre parole, qualunque misura atta a migliorare la distribuzione
del reddito in modo non compatibile con le esigenze di profittabilità
delle imprese, impone allo stesso sistema produttivo la necessità di
incentivare la produttività e accelerare il progresso tecnologico al
fine di risolvere ed eliminare i vincoli all'accumulazione di volta
in volta sorti. Da questo punto di vista, ben venga una misura come
il reddito di cittadinanza, affinché costringa il sistema produttivo
(imprese, banche, ecc.) a porre rimedi agli ostacoli che tale misura
inevitabilmente é portata a introdurre. Altro che paralisi produttiva!
b. In secondo luogo, é necessario
ricordare che la storia del progresso tecnologico mostra una tendenza
secolare alla riduzione della fatica fisica e alla diminuzione dei cd.
"lavori pesanti" (ovviamente facciamo riferimento alle aree dove il
progresso tecnologico é maggiormente diffuso). Lo sviluppo tecnologico
nel campo della meccanizzazione - come é noto - ha fatto passi da gigante.
Una maggior difficoltà nel reperire forza-lavoro per lavori disagiati
e pesanti, favorita dal disporre comunque un reddito base - lungi dal
bloccare la produzione - indurrebbe uno stimolo innovativo per meccanizzare
e robotizzare queste stesse mansioni pesanti, favorendo in tal senso
un incremento di produttività. Inoltre, aspetto non secondario, che
qui ci limitiamo semplicemente ad accennare, ciò potrebbe favorire una
dinamica tecnologica più consona alle effettive esigenze di liberazione
dell'uomo, elemento che non sempre é connaturato con lo sviluppo del
progresso scientifico e tecnologico (basti pensare ad esempio allo sviluppo
dell'industria delle armi).
c. Occorre, infine, ricordare che
la natura dell'uomo é orientata più all'attività che alla "pigrizia",
"vizio" che è assunto agli onori delle cronache in concomitanza con
lo sviluppo dell'etica protestante del lavoro. Se l'uomo viene "liberato"
dal lavoro più pesante e alienante, ciò non significa che si dedicherà
esclusivamente al "dolce far niente". Il significato della parola lavoro
- così come viene normalmente accettato nel mondo occidentale - é spesso
sinonimo di fatica. Senza dilungarsi eccessivamente su queste tematiche(10),
in quasi tutte le lingue occidentali la parola "lavoro" è semanticamente
sinonimo di "dolore" o "fatica" (nelle lingue neolatine, deriva dal
sostantivo "travaglio", che indica o il dolore del parto o uno strumento
di tortura) e l'attività lavorativa può essere indicata anche da una
seconda parola, "opera" o "messa in opera", che definisce la prestazione
liberamente svolta dalla mente umana (uomo o donna che sia) utilizzando
l'ingegno e la volontà: locuzione che oggi, nel linguaggio corrente,
viene utilizzata per indicare l'attività artistica (non a caso un'attività
slegata dalla necessità di produrre valore di scambio e quindi non immediatamente
produttiva, nel senso capitalistico del termine). Ciò che il reddito
di cittadinanza può favorire é la riduzione del concetto di lavoro come
fatica, non in generale della capacità lavorativa, di "prestatore d'opera",
dell'uomo, aumentando in tal modo il grado di autonomia e la libertà
di scelta degli individui. Anzi, con la diminuzione del lavoro pesante
e alienato, l'uomo avrebbe più risorse e più tempo per dedicarsi alla
costruzione di "opere" e magari di organizzare in modo più liberatorio
la produzione di ciò che gli é utile. Il "diritto all'otium"(11)
non significa infatti assenza di attività, ma piuttosto la scomparsa
della costrizione al lavoro e al sudore a vantaggio della liberazione
della mente e della creatività umana. Da questo punto di vista, la parola
d'ordine del reddito di cittadinanza rappresenta una sorta di contropotere
alla disciplina del lavoro e alla gerarchia sociale che ne viene generata
e per questo é ritenuto assai pericoloso. Infatti, se ci si muove lungo
un processo di liberazione non del lavoro ma dal lavoro (nel senso capitalistico
del termine), viene meno uno degli strumenti disciplinari di controllo
sociale in mano agli attuali assetti di potere.
Tesi n. 3: Il reddito di cittadinanza
é una misura di politica economica riformista e radicale e non di modificazione
strutturale dell'organizzazione capitalistica, intervenendo sul lato
della distribuzione e non sul lato del conflitto capitale-lavoro.
L'evoluzione dell'organizzazione economica capitalistica
si basa sulla continua metamorfosi del rapporto di sfruttamento tra
capitale e lavoro. La natura conflittuale di tale rapporto spinge continuamente
verso una sua modificazione. Agli albori dello sviluppo del capitalismo,
ancora prima e poi in contemporanea alla rivoluzione industriale di
fine '700, la creazione di una forza-lavoro metropolitana, slegata dalle
condizioni di sussistenza agricola esistenti nella campagna, rappresentò
la premessa della formazione di un ceto proletario, necessario per lo
sviluppo di un processo di accumulazione proto-capitalistico. La regolazione
del rapporto capitale-lavoro, allora in fase di costituzione, si basò
anche su forme di distribuzione del reddito come puro sussidio contro
la fame e la miseria(12).
Nel secolo successivo, il pieno dispiegarsi del processo di accumulazione
capitalistico portò all'abolizione di qualsiasi sussidio contro la povertà
e al prevalere di una regolazione salariale unicamente fondata sulla
spietata legge delle gerarchie di mercato. Il salario si consolidò come
variabile dipendente, senza nessun limite inferiore se non quello di
garantire la semplice riproduzione della forza-lavoro. I livelli di
disoccupazione, la dinamica demografica e le esigenze di accumulazione
delle imprese determinavano il valore del salario di sussistenza. Il
risparmio era un'attività esclusivamente "borghese" e il finanziamento
della stessa attività di accumulazione avveniva attraverso il reimpiego
dei profitti maturati (per l'appunto, il risparmio)(13).
Con l'esplodere dell'organizzazione taylorista e fordista del XX secolo,
diventa necessario per lo sviluppo stesso delle forze capitalistiche
aumentare i livelli di consumo e della domanda aggregata. Il salario
non può più essere considerato a livello macroeconomico nazionale una
semplice variabile di costo ma diventa una delle principali componenti
della domanda e quindi della realizzazione monetaria del sovrappiù prodotto
in quantità sempre più elevate; il salario diventa così dipendente dalle
stesse modalità di funzionamento del processo di accumulazione(14).
Oggi, il superamento dei vincoli spaziali che limitavano lo sviluppo
del processo di accumulazione all'interno di confini nazionali o di
aree sempre più strette grazie all'introduzione delle innovazioni informatiche
e nel campo dei trasporti porta a riproporre una regolazione salariale
sempre più individualistica (come effetto della frammentazione del mercato
del lavoro) e sempre più dipendente dalle condizioni non più dell'accumulazione
(come nella fase fordista) ma piuttosto dello stesso mercato del lavoro
(con analogie preoccupanti con la fase prefordista). Nel corso del capitalismo,
quindi la relazione salariale ha dipeso sempre dalle condizioni di produzione,
cioè dal momento in cui il conflitto capitale-lavoro si manifesta, ma
nel corso del tempo ha influenzato in maniera crescente la fase della
realizzazione monetaria dei profitti e quindi il livello della domanda
aggregata. Il reddito di cittadinanza si inserisce in questa tendenza:
in quanto reddito (e non salario) diventa strumento di ricomposizione
della domanda, modificandone la distribuzione tra i soggetti economici
che vi partecipano. E' quindi strumento salvifico per la dinamica del
processo di accumulazione capitalistico. E non potrebbe essere altrimenti,
se pensiamo che tutti gli interventi correttivi del processo economico
capitalistico, nati da conflitti anche violenti si sono poi rilevati
forieri di nuove spinte allo sviluppo dello stesso capitalistico. Per
questi motivi, il reddito di cittadinanza é una misura riformatrice
e non rivoluzionaria (nel senso che non va a modificare la struttura
stessa su cui si fonda l'organizzazione capitalistica).
Tesi n. 4: Il reddito di cittadinanza
é una proposta di politica economica parziale, non esaustiva e non in
contraddizione con altre proposte di riformismo radicale (quali riduzione
di orario di lavoro, sviluppo dell'autorganizzazione sociale, attivazione
di lavori concreti, ecc. ).
Proprio per la sua natura di misura di politica
economica di sostegno sul lato della distribuzione del reddito, il reddito
di cittadinanza é strumento di intervento parziale. Esso tuttavia non
può essere in contraddizione con altre misure alternative che riguardano
o l'organizzazione del lavoro in un sistema di accumulazione flessibile
(riduzione d'orario) o lo sviluppo di forme produttive alternative,
non basate sulla maturazione di un profitto (terzo settore e autogestione/organizzazione (15),
lavori concreti(16)).
Anzi, esiste un rapporto di stretta complementarietà tra le diverse
misure alternative, che dovrebbe essere valorizzato piuttosto che eluso
o mistificato per pure ragioni di strumentalizzazione. A titolo di esempio,
proviamo ad analizzare il rapporto che potrebbe proficuamente intercorrere
tra due proposte che troppo spesso sono state viste come contrapposte:
riduzione d'orario e reddito di cittadinanza. Entrambe le proposte fanno
riferimento alle due facce di una sola medaglia: la rottura del nesso
produzione e occupazione da un lato, e tra produttività e salario reale
dall'altro (vedi la Tesi n.
2 per approfondimenti).
Su questo aspetto, credo sia necessaria una breve
riflessione. Perché la riduzione d'orario di lavoro abbia un effetto
positivo sull'occupazione, è necessario, a mio avviso, che siano verificate
almeno tre condizioni:
1. La riduzione
dell'orario di lavoro deve essere repentina e drastica: già oggi 35
ore sono una richiesta insufficiente, perché con una crescita della
produttività intorno al 4% (nel metalmeccanico, anche del 5-6%), nel
giro di due anni, la riduzione a 35 ore di lavoro non produce nuova
occupazione. E' necessario quindi scendere almeno a 30-32 ore settimanali,
quindi un obiettivo molto diverso da quello implicito nei contratti
di solidarietà o nel contratto Wolkswagen in Germania, che trattano
di riduzioni di orario e riorganizzazioni dei turni esclusivamente finalizzati
al mantenimento dell'occupazione attuale, non ad un suo incremento:
una logica di intervento molto diversa.
2. Se la riduzione
dell'orario deve essere drastica e repentina, ne consegue che comporta
dei costi. Questi costi non possono essere sopportati dal lavoratori
(nel senso, minor orario, minor salario), altrimenti invece di aumentare
l'occupazione si tende ad un aumento della precarizzazione del lavoro
esistente a vantaggio dei profitti e della flessibilità produttiva.
In secondo luogo, un'eccessiva perdita del potere d'acquisto del monte
salari potrebbe ritorcersi contro lo stesso meccanismo di accumulazione.
Perché se è vero che la struttura dei consumi interni non è più così
vincolante come nell'epoca fordista, tuttavia è possibile ipotizzare
un vincolo minimo sotto il quale la domanda interna è preferibile non
cada per non compromettere i meccanismi di sviluppo dell'economia. Il
potere d'acquisto dei lavoratori non può quindi diminuire infinitamente.
3. E' chiaro altrettanto,
per motivi di realismo politico ed economico, che tutto il costo associabile
ad una drastica riduzione dell'orario di lavoro non possa essere imputato
inizialmente al sistema delle imprese; inizialmente, perché solo progressivamente,
i guadagni di produttività e gli incrementi che scaturiscono da una
più razionale organizzazione dei turni di lavoro che la riduzione di
orario necessariamente comporta possono ragionevolmente finanziare il
costo iniziale della riduzione d'orario.
Ne consegue che se la riduzione d'orario deve
essere immediata, drastica e repentina, occorre che ci sua un costo
iniziale. Tale costo dovrebbe essere sobbarcato dalla fiscalità sociale,
cioè sul piano dei rapporti sociali e della distribuzione sociale del
reddito. Al riguardo, diventa imprescindibile l'avvio di un processo
di riforma fiscale, che, sulla base dell'assunto della pari trattamento
dei cespiti di reddito (sia esso di lavoro, di impresa o di capitale
finanziario), consenta a ciascun individuo di disporre di un assegno
sociale di cittadinanza che, sommandosi, a quello percepito all'interno
del meccanismo produttivo, gli permetta di godere di un reddito decente
e dignitoso (vedi Tesi n.
9 per approfondimenti). In quest'ottica il reddito di cittadinanza
è l'ovvio complemento, necessario per rendere praticabile la riduzione
dell'orario di lavoro.
La necessità dell'introduzione di un reddito
di cittadinanza non è limitata solo alla questione della riduzione dell'orario
di lavoro, ma va oltre a questa problematica. Infatti, se la riduzione
dell'orario di lavoro è un aspetto tutto all'interno della categoria
degli occupati, il reddito di cittadinanza riveste una funzione sociale,
più allargata, riferita a tutta la popolazione.
Da questo punto di vista, la prospettiva del
reddito di cittadinanza risulta sicuramente la più idonea per far fronte
alle modificazioni strutturali dell'accumulazione capitalistica.
Sempre in relazione all'aspetto della riduzione
d'orario, troppo spesso ci si dimentica che da ormai una decina d'anni
è ben presente all'interno del mercato del lavoro post-fordista la tendenza
all'allungamento della giornata lavorativa, non solo all'interno del
segmento degli occupati (in seguito al massiccio ricorso degli straordinari),
ma soprattutto all'interno di quella nuova categoria di lavoratori autonomi
o eterodiretti, figlia delle trasformazioni del mercato del lavoro negli
ultimi anni. Tali lavoratori, essendo all'interno dei complessi rapporti
di subfornitura degli attuali cicli produttivi, sono anch'essi soggetti
a forme di subordinazione e gerarchie di varia intensità a seconda del
grado di libertà che la propria attività professionale e/o il grado
di specializzazione consente. Tuttavia, per definizione, in quanto autonomi
e imprenditori di se stesso, non sono soggetti ad una regolazione dei
tempi di lavoro. Di conseguenza. la sola riduzione dell'orario di lavoro
rischia di diventare elemento di dualismo tra lavoratori formalmente
con diverso statuto giuridico, ma sostanzialmente all'interno del medesimo
modello di produzione. La flessibilizzazione e la precarizzazione del
lavoro passa proprio tramite la segmentazione e la scomposizione del
mercato del lavoro.
Da questo punto di vista, la tematica del reddito
di cittadinanza svolge un importante funzione strategica di elemento
unificatore e di fattore di ricomposizione delle diverse forme di erogazione
di lavoro, proprio perché tematica non interna alla logica dell'accumulazione
(vedi Tesi
n. 10). Più in particolare, il reddito di cittadinanza può diventare
l'obiettivo politico ed economico che non solo consente la riduzione
dell'orario di lavoro ma diventa strumento di omogeneizzazione delle
seguenti tre categorie di lavoro: la categoria dei disoccupati, perché
con il reddito di cittadinanza, oltre a garantire loro un potere d'acquisto
immediato senza necessariamente ricorrere a redditività illegali, sanno
che può essere praticabile una riduzione d'orario che offra loro uno
sbocco professionale; la categoria dei lavoratori autonomi e precari,
in parte espulsi dai processi produttivi fordisti, che tramite un salario
di cittadinanza, possono attuare una riduzione della loro attività lavorativa
senza che ciò comporti necessariamente una riduzione del proprio reddito,
oltre ad offrire loro una maggiore capacità contrattuale non soggetta
al ricatto della necessità di lavoro; quelli degli occupati dipendenti,
che grazie al reddito di cittadinanza, possono ottenere una riduzione
dell'orario di lavoro che comporti un miglioramento della qualità della
propria vita.
Considerazioni analoghe a quelle svolte a proposito
della riduzione dell'orario di lavoro, possono essere anche svolte per
quanto riguarda l'attivazione di lavori concreti oppure lo sviluppo
di pratiche di autorganizzazione o del terzo settore. In questo caso,
infatti, la maggior libertà individuale derivante dalla disponibilità
di reddito consentirebbe a più persone di poter svolgere attività non
strettamente mercantile, senza essere sottoposte al vincolo selettivo
imposto dalle gerarchie di mercato.
Come si vede, la tematica del reddito di cittadinanza
rappresenta un grimaldello rilevante per scardinare alcuni luoghi comuni,
presenti anche all'interno della sinistra, che hanno portato e tuttora
portano ad una supina accettazione del pensiero unico oggi dominante.
Non è poco.
Tesi n. 5: Il reddito di cittadinanza
é una misura di contropotere al potere della moneta di discriminare
tra proprietà dei mezzi di produzione e semplice erogazione di forza
lavoro.
La trasformazione materiale delle merci ovvero
la produzione manifatturiera come momento unico dell'origine del sovrappiù
(a differenza della società feudale - basata sull'espropriazione agricola
- e mercantile - basata sulla gerarchia degli scambi), presuppone la
separazione tra capitale (mezzi di produzione) e lavoro (erogazione
di lavoro) e quindi implica per sua natura uno scambio monetario di
ricomposizione tra le due parti, differentemente definite (e pure su
piani diversi); in altre parole, la produzione capitalistica é produzione
di denaro a mezzo di merci (D-M-D') e necessita pertanto di un'anticipazione
monetaria per poter avviare l'attività di trasformazione materiale delle
merci (D-M) che sia in grado, successivamente nella fase di circolazione
e realizzazione, di trasformarsi in un profitto monetario (M-D'). Alla
funzioni di unità di conto, di scambio e di misura della ricchezza (equivalente
generale), la moneta assume, per la prima volta nella storia umana,
anche la funzione di moneta-credito. La disponibilità di moneta-credito,
vale a dire di un finanziamento iniziale, è condizione propedeutica
non per produrre sulla base di un comportamento routinario, ma per ampliare
ed estendere il livello di produzione e di generazione di sovrappiù.
In altre parole è moneta di nuova creazione che entra nel processo economico
dinamicizzandolo e procedendo alla sua metamorfosi continua (unitamente
al progresso tecnologico: da questo punto di vista, il "denaro" e le"
macchine" sono i motori dello sviluppo capitalistico e della continua
ridefinizione della gerarchia capitale - lavoro). La disponibilità di
moneta-credito é dunque riservata a chi, detenendo privatamente i mezzi
di produzione, può in modo autonomo e unilaterale (nel prezzo, nelle
quantità e nelle tecniche) organizzare la produzione. La possibilità
di disporre di moneta-credito segna, così, il discrimine economico (ma
con tutte le implicazioni sociali che ne derivano) tra chi detiene i
mezzi di produzione (gli imprenditori) e chi solo la propria forza-lavoro
(i salariati).
Da un altro punto di vista - complementare -
si potrebbe osservare che la moneta-credito é moneta-segno e virtuale
perché il rapporto di debito e credito che comanda é scambio non solvibile
(immateriale), non mediato da una merce e quindi non assimilabile allo
scambio mercantile (da qui l'equivoco e la mistificazione dell'economia
politica neoclassica); il rapporto di debito-credito ha come oggetto
il tempo (il ponte tra presente e futuro, nelle parole di Keynes) ed
una promessa di restituzione (da cui ha origine il tasso d'interesse,
che, infatti, varia in funzione della rischiosità e della durata del
prestito). Da qui deriva il ruolo discriminante della moneta-credito,
il cui accesso é selezionato sulla base, capitalisticamente determinata,
della funzione economica svolta, riducibile, direttamente o indirettamente,
al fatto se si ha la proprietà dei mezzi di produzione (garanzia) oppure
no.
Ne consegue che la sostanza del potere capitalistico
della moneta sta nella suo essere fonte di discrimine tra capitale e
lavoro, quindi nella sua funzione sociale di divisione in classi (17).
Tale funzione tocca il suo apogeo nel compromesso fordista: la disponibilità
di moneta-credito di nuova creazione definisce la proprietà dei mezzi
di produzione, la disponibilità al lavoro garantisce la cittadinanza
e il godimento dei diritti civili dei salariati. Per i salariati (dipendenti)
e per i prestatori di lavoro (indipendenti), la disponibilità di moneta
é comunque residuo, esito del processo lavorativo, é reddito (l'ultimo
anello di trasformazione della moneta). Alla luce di queste considerazioni,
diventa necessario slegare la disponibilità di moneta, cioè reddito,
dalla disponibilità di lavoro. Separare reddito da lavoro significa,
da questo punto di vista, disinnescare uno degli elementi portanti del
potere della moneta: essere aprioristicamente disponibile solo per chi
detiene la proprietà dei mezzi di produzioni, cioè per gli imprenditori.
Ciò ovviamente non modifica le modalità del rapporto capitale-lavoro,
in quanto non viene intaccata il potere degli imprenditore di gestire
in modo unilaterale l'attività produttiva e la tecnologia, ma favorisce
quel processo di liberazione degli individui dalla schiavitù del lavoro
e dal ricatto del bisogno.
Il reddito di cittadinanza è, pertanto, strumento
di contropotere monetario.