Ricerca "Contro il lavoro come servitù moderna" / Torna a indice
DIECI TESI SUL REDDITO DI CITTADINANZA
(parte1 - parte2)
di Andrea Fumagalli prima stesura settembre 1998
 

0. INTRODUZIONE

Negli ultimi anni, il numero delle persone al di sotto della soglia di povertà é fortemente aumentato in tutta Europa. Parallelamente, la polarizazzione dei redditi é proseguita senza sosta in tutto il mondo, sia quello cd. più sviluppato che nei paesi emergenti e poveri del terzo e quarto mondo. Sono fatti noti, su cui ogni tanto i grandi quotidiani mostrano una certa indignazione (come per lo sfruttamento dei bambini in Asia e in Africa) ma che di fatto non entrano nell'agenda della politica economica nazionale e sovranazionale(1).

La trasformazione delle economie occidentali negli ultimi anni, quella trasformazione che in modo rapido e grezzo possiamo indicare nel passaggio dal fordismo al post-fordismo, non ha solo modificato i processi reali che sottendono i meccanismi di accumulazione, di creazione di ricchezza e miseria, ma ha anche omogeneizzato e conformato in modo unilaterale buona parte del pensiero economico. Non sempre è stato così. Ad esempio, le trasformazione reali dell'economia e i sommovimenti sociali degli anni Settanta hanno creato le premesse per un rivolgimento della stessa teoria economica. Di più, negli anni del dopoguerra, lo sviluppo del modello fordista era stato accompagnato dal diffondersi della teoria economica keynesiana e delle diverse varianti in tema di programmazione economica, sino alla pianificazione centralizzata (creando in tal modo un distorto ponte tra Keynes e Marx nel tentativo di fornire un fondamento teorico ad un capitalismo monopolizzato dominante a Ovest e ad un capitalismo di Stato a Est): teorie diverse che comunque si fronteggiavano sempre alla teoria economica liberista in una pluralità di impostazioni anche sul piano metodologico. A partire dai primi anni Ottanta, contemporaneamente alla caduta del muro di Berlino, si assiste, invece, al trionfo senza rivali della teoria neoliberista. Viene a mancare qualunque contrapposizione teorica se non, in termini puramente formali, all'interno dell'impostazione neoclassica dominante. L'economia politica si trasforma in scienza oggettiva, la cui promulgazione é ad appannaggio di "specialisti" e di "tecnici", al di fuori delle diatribe teoriche tipiche delle scienze sociali. Indipendentemente dalla formula di governo al potere (destra o sinistra), la politica economica diventa una tecnica di sostegno dei meccanismi di accumulazione in modo che siano sempre più compatibili con le esigenze dell'impresa e della finanza anche nel brevissimo periodo. L'omogeneizzazione del pensiero economico, che permea oramai qualsiasi meandro dell'accademia e qualsiasi centro di ricerca di destra e di sinistra, rappresenta il pericolo maggiore che oggi ci troviamo ad affrontare. E può sembrare paradossale che proprio nel momento in cui vige il più alto livello di frammentazione delle prestazioni lavorative e in cui non é possibile individuare un unico modello di organizzazione produttiva dominante, siamo di fronte ad unico pensiero (e credo) economico, una vera e propria manipolazione delle coscienze.(2)

In un simile contesto di repressione delle idee e di conformismo ideologico, non é più sufficiente analizzare l'attuale situazione, denunciarne gli effetti criminali e ingiusti. Oramai, soprattutto in Italia e in Francia, esiste una folta letteratura alternativa sul processo di trasformazione dal fordismo al postfordismo, sulla produzione immateriale, sulle ristrutturazioni, sulle nuove povertà, ecc.,.(3) Ma al di fuori della denuncia e delle solite polemiche sul tipo di analisi e di metodologia utilizzata, tra chi é attaccato alla tradizione marxista più ortodossa dell'indagine sociale e chi cerca di seguire nuove strade analitiche, l'agire politico e sociale rischia di arenarsi sempre più. Per questo diventa necessario passare alla proposta e all'azione, sulla base anche delle indicazioni che provengono dal mondo reale dei conflitti, che lungi dall'essere scomparsi, rifioriscono più che mai però in contesti particolari e locali. La lotta dei disoccupati francesi, ad esempio, ha avuto tra le sue parole d'ordine, non solo la richiesta di un occupazione, ma soprattutto di un reddito. La pretesa di un reddito indipendentemente dalla disponibilità di lavoro ma in quanto cittadino appartenente ad una comunità é una parola d'ordine che sempre più viene urlata nelle vertenze conflittuali che animano l'attuale scena europea. Essa deriva dalla coscienza più o meno diffusa e più o meno consolidata che nel nuovo millennio il disporre di un lavoro può non essere sufficiente a garantire l'esistenza di una vita dignitosa. Anche in questo caso, come é avvenuto in passato, la teoria nasce dalle lotte e dalle istanze che faticosamente e gradualmente vengono alla luce.

Il reddito di cittadinanza é un concetto che esiste da molto tempo, da quando ha cominciato ad esistere il capitalismo.(4) E non può essere diversamente. Un sistema economico in grado di generare un sovrappiù di ricchezza, tramite la trasformazione materiale delle merci e non sulla semplice base delle ricchezze esistenti in natura, non può non affrontare anche il tema della distribuzione di tale sovrappiù prodotto. Una volta affermatosi, il capitalismo ha imposto la propria legge, secondo la quale l'emancipazione sociale e la possibilità di procacciarsi di che vivere (un reddito, per l'appunto) deve per forza passare attraverso la disponibilità al lavoro, in tutte le sue varianti di subordinazione gerarchica tra uomini e donne. Il lavoro é libero e retribuito - questa è la grande rivoluzione sociale del capitalismo - purché esso sottostia alle regole dell'accumulazione privata grazie al ricatto del bisogno, ovvero alla stratificazione sociale che deriva dallo sfruttamento dell'uomo sull'uomo. Il rapporto capitale-lavoro - nelle diverse metamorfosi che ha subito nel corso degli ultimi due secoli - rappresenta l'ambito teorico e reale in cui la dinamica sociale si muove e si modifica conflittualmente. Il processo di accumulazione determina le condizioni di produzione, la distribuzione del reddito influenza le condizioni della domanda. Lo sviluppo capitalistico non può fare a meno di modificare sia l'una che l'altra. Intervenire sul lato dell'accumulazione, tramite interventi sull'organizzazione del lavoro, sulle scelte di investimento, sulle modalità del rapporto di sfruttamento, é ambito prioritario per intervenire nei destini del capitalismo, ma influenzare e dirottare la distribuzione del reddito é altrettanto essenziale. L'esperienza del cd. "socialismo realizzato" e soprattutto il suo fallimento sono lì a dimostrarlo.

In questo scritto, affrontiamo la tematica del reddito di cittadinanza attraverso la formulazione di dieci tesi, con l'intento di essere i più chiari possibili, ma anche per mettere in luce la parzialità dell'intervento, consci, tuttavia, che costituisca in questa fase storica un pilastro importante, in grado, unitamente ad altri, di sostenere un impianto di politica economica alternativa, più solidale e meno ingiusta. Un'ultima avvertenza: le dieci tesi proposte possono essere lette indipendentemente una dalle altre (con dei riferimenti al loro interno per eventuali approfondimenti specifici). Ciò significa che sarà facile incorrere in ripetizioni, che spero non tedino eccessivamente il lettore.

Tesi n. 1: Il reddito di cittadinanza é una proposta di intervento economico generalizzato e egualitario, ovvero non discriminante nei confronti di alcuno, che concorre a definire, al pari della cittadinanza giuridica, la piena cittadinanza economica e sociale.

Per reddito di cittadinanza si intende un'erogazione monetaria, a intervallo di tempo regolare (ad esempio un mese), distribuita a tutti coloro dotati di cittadinanza e di residenza da almeno un certo periodo di tempo (ad esempio, un anno), in grado di consentire una vita minima dignitosa, cumulabile con altri redditi (da lavoro, da impresa, da rendita), indipendentemente dall'attività lavorativa effettuata, dalla nazionalità, dal sesso, dal credo religioso e dalla posizione sociale, in età lavorativa, per il periodo che va dalla fine delle scuole dell'obbligo all'età pensionabile o alla morte.(5) Trattandosi di un intervento omogeneo, il reddito di cittadinanza dovrebbe essere distribuito da un'entità statuale riconosciuta costituzionalmente con eventuale delega alle autorità locali per le pratiche materiali di redistribuzione. Trattandosi di un reddito indipendente dal salario (vedi Tesi n. 7), esso sostituisce tutte le forme di indennizzo derivanti dalla perdita del posto di lavoro (cassa integrazione, sussidi di disoccupazione, prepensionamenti, ecc.) ma non le altre forme di reddito già esistenti (pensioni, crediti alle famiglie, ecc.). Lo scopo del reddito di cittadinanza è quello di fornire una liquidità monetaria spendibile sul mercato finale delle merci così da consentire il pieno godimento dei diritti di cittadinanza e di socialità senza necessariamente essere inserite in un contesto gerarchizzato di produzione materiale e immateriale: da questo punto di vista il reddito di cittadinanza concorre a garantire la cittadinanza economica e sociale.

Tesi n. 2: Il reddito di cittadinanza, lungi dall'essere una proposta utopistica, é una misura di intervento economico adeguata alla realtà sociale dell'accumulazione flessibile e quindi più realistica oggi di quanto non lo fosse nel periodo fordista.

Con il passaggio dal modello fordista a quello che rozzamente possiamo definire "post-fordista" o, meglio, dell'"accumulazione flessibile", il contesto economico e sociale muta radicalmente. Ciò che 20 anni fa poteva sembrare irrealistico, oggi non lo è più: è il caso del reddito di cittadinanza. Per spiegare questa affermazione, vale la pena ricordare alcune rotture economiche e sociali (in particolare tre), che hanno caratterizzato la recente fase economica nei paesi a capitalismo avanzato, con particolare riferimento all'Europa:

1. invalidità del nesso produzione - occupazione, vale a dire il fatto che se ad una diminuzione della produzione corrisponde ancora una diminuzione dell'occupazione, non è più vero il contrario. La capacità tecnologica informatica e flessibile consente di aumentare la produzione senza che aumenti l'occupazione per gli alti livelli di produttività incorporati nelle nuove tecnologie. Le tecnologie informatiche oggi dominanti sono costituite per la quasi totalità da innovazioni di processo, vale a dire da innovazioni che tendono a modificare il ciclo di produzione, il "come produrre" e non il prodotto finale.(6) Le nuove tecnologie non consentono quindi la creazione di nuovi sbocchi di mercato. Al riguardo occorre considerare il fatto, più che banale, che nella storia del capitalismo, il progresso tecnologico ha sempre "liberato" lavoro e quindi, come processo intrinseco, ha sempre causato disoccupazione tecnologica. La capacità del sistema capitalistico di compensare questa disoccupazione dipende dalla capacità di creare nuovi prodotti e, quindi, nuovi mercati, nuova domanda e nuova produzione. Tutto ciò oggi sembra non accadere in seguito alle caratteristiche strutturali dell'odierno progresso tecnologico, costituito, non dalla scoperta di un nuovo prodotto (ad esempio, le fibre e la plastica negli anni '20 e '30 o un nuovo procedimento meccanico, quale il motore a scoppio) ma dall'introduzione di qualcosa di immateriale come il linguaggio informatico in grado di collegare e programmare l'uso di due macchinari. Il progresso tecnologico informatico non amplia la produzione ma la ristruttura e la modifica tramite un costante incremento di flessibilità e tutto ciò non crea occupazione, bensì la distrugge.

La disoccupazione non è più quindi un fenomeno puramente congiunturale, bensì strutturale. E come tale, necessita di interventi strutturali. La riduzione dell'orario di lavoro rientra nel novero dei rimedi strutturali e proprio per questo può essere utile.

2. invalidità del nesso salario - produttività. Il salario del lavoro dipendente è oggi, alle soglie del 2000, sempre più sganciato dalla produttività, per il semplice fatto che la produttività dipende in massima parte non più dall'apporto lavorativo ma dal tipo di macchinario esistente. Se per aumentare la produzione a parità di lavoro e di tempo è sufficiente schiacciare un tasto o inviare un comando via computer, è evidente come sia il lavoro che la sua retribuzione siano elementi esterni al meccanismo di accumulazione. Il fatto che salario e produttività siano sganciati è la diretta conseguenza (l'altra faccia della medaglia) della separazione post-fordista tra crescita della produzione e crescita dell'occupazione.

3. ininfluenza della struttura dei consumi nazionali (fine dello stato nazione). Il fatto che salario e produttività non siano più collegati fra loro implica che la distribuzione del reddito a livello nazionale e di conseguenza la domanda nazionale di consumo non abbiano più rilevanza nel determinare il processo di accumulazione. La crescente internazionalizzazione prima dei flussi finanziari (con la totale e completa liberalizzazione dei capitali) e poi con l'ampliarsi del processo di deindustrializzazione dei paesi occidentali ha fatto sì che le condizioni economiche e le politiche economiche a livello di singolo stato (a meno che non si tratti della triade - Usa, Germania, Giappone) abbiano oggi scarsa influenza nell'incidere su meccanismi di accumulazione sempre più globali. Da questo punto di vista, infatti, il processo di internazionalizzazione dell'economia mondiale si fonda su una divisione del lavoro che vede i paesi occidentali detenere in modo sempre più concentrato il potere finanziario e tecnologico ed il controllo dei flussi commerciali e i paesi emergenti del terzo mondo oggetto della semplice trasformazione delle merci.

L'irrilevanza della struttura redistributiva del reddito implica anche il venir meno del ruolo dello Stato sia come agente economico che interviene direttamente nel sistema economico a sostegno dell'accumulazione (politica keynesiana) che come elemento "super partes" che indirizza e controlla, tramite la politica fiscale, la stessa redistribuzione del reddito. In un modello di accumulazione flessibile "il welfare State" non ha più alcuna funzione specifica ma rappresenta solo una rigidità e, come tale, deve essere abolito.

Questi tre aspetti sono fra loro estremamente correlati ed evidenziano un unica fenomeno: la separazione tra distribuzione del reddito da un lato e meccanismo di accumulazione dall'altro.

A livello sociale, al di là della sola sfera economica, tale separazione implica anche una modificazione del rapporto inclusione/esclusione. In modo alquanto sommario, possiamo dire che nel modello fordista-keynesiano l'esclusione e l'emarginazione sociale dipendevano dal grado di insubordinazione nei confronti delle condizioni e della disciplina del lavoro. In questo ambito, la presenza di una forte etica del lavoro rappresentava la via maestra per l'integrazione e l'inclusione sociale, che consentiva la partecipazione, pur se in posizione subalterna, alla distribuzione della ricchezza, che si contribuiva a produrre. L'obiettivo della piena occupazione aveva quindi una valenza non solo etica ma anche strategica, pur nell'ambito dei vincoli posti dalla necessità di mantenere comunque un certo livello di disoccupazione.(7) Oggi, nel modello flessibile post-fordista, l'esclusione e l'emarginazione sociale si caratterizzano come elemento esterno di "flessibilizzazione e pressione indiretta" sul sempre più ristretto nucleo di lavoratori garantiti (vedi Tesi n. 6 per ulteriori approfondimenti su questa tematica).

Ciò dipende proprio dallo sganciamento della retribuzione salariale dal meccanismo di accumulazione, che è la grande novità del modello di accumulazione flessibile post-fordista.

Sorge allora una domanda: se il salario non viene regolato all'interno della produzione, da chi o da che cosa viene regolato?

Vi sono due possibili risposte: la prima fotografa ciò che sta avvenendo, la seconda postula un'opzione futura.

Se è vero che il salario non viene regolato all'interno dei meccanismi dell'accumulazione e della produzione come ai tempi del modello fordista, allora una possibile risposta sta nel postulare una situazione pre-fordista, vale a dire una situazione ottocentesca in cui la dinamica salariale dipende dall'andamento demografico, cioè dai livelli di offerta di lavoro, della popolazione attiva e di quanti si affacciano sul mercato del lavoro, anche se non trovano un'occupazione. Non si tratta né di una provocazione, né di un paradosso, bensì di una dolorosa realtà. Oggi il salario varia al variare dei livelli di disoccupazione e per questo si può parlare di salario di sussistenza dal momento che siano in presenza di una disoccupazione strutturale. Sono queste semplici considerazioni che spiegano la presenza di una situazione anomala per la prima volta nel dopoguerra: cresce la produzione, cresce la produttività, diminuisce il salario reale a vantaggio dei profitti e delle rendite finanziarie.

Se questa è la tendenza che si è ormai instaurata - e si tratta di una tendenza pericolosa in quanto altamente regressiva e antistorica -, occorre tuttavia tenere conto che le condizioni di accumulazione, le caratteristiche di flessibilità degli odierni sistemi produttivi sono elementi difficilmente modificabili nel breve e medio termine, a meno che non si riesca ad raggiungere un potere contrattuale in grado di modificare strutturalmente tali modalità produttive, ipotesi, oggi, assai poco realistica.

La flessibilità tecnologica e la flessibilità salariale così come oggi sono gestite dalle imprese sono quindi fattori che possono essere considerati esogeni ad una politica economica alternativa, fuori dal controllo delle realtà sociali antagoniste. Da questo punto di vista, lo spazio per una politica riformista è totalmente nullo(8), tanto è vero che oggi noi vediamo.

Diventa allora necessario aprire una diversa opzione alternativa, più realistica e praticabile. Questa seconda opzione è quella che lancia la parola d'ordine del reddito di cittadinanza, come esito di un processo di redistribuzione sociale del reddito. La garanzia di un reddito di base indipendente dall'impiego lavorativo è un'ipotesi che fuoriesce dalla logica dell'accumulazione produttiva per operare sul più vasto piano sociale. Per evitare che il salario si riduca a puro e semplice elemento di sussistenza e non di affrancamento e strumento di libertà individuale, occorre che la dinamica salariale (sia diretta che eterodiretta) diventi una questione sociale e che venga regolato sul piano della distribuzione sociale del reddito. E oggi più che mai diventa un'opzione realistica e irrinunciabile

* * * * *

Sempre in merito al carattere utopistico del reddito di cittadinanza e dei possibili effetti negativi, spesso si sottolinea l'argomentazione che se fosse effettivamente disponibile un reddito indipendente dalla necessità di lavorare, ciò indurrebbe una diminuzione dell'offerta di lavoro, soprattutto per le mansioni più pesanti e dequalificanti, a scapito dei livelli di produzione e quindi della possibilità nel futuro di poter godere un uguale disponibilità di beni e servizi.(9) In altre parole, chi farebbe i lavori più umili ma altrettanto necessari per mantenere il livello di benessere oggi esistente? A tale obiezione, che a prima vista non appare priva di buon senso e che spesso sottintende una etica del lavoro molto forte, si può rispondere con tre ordini di considerazioni:

a. uno degli stimoli principali alla dinamica economica e tecnologica deriva dal porre continuamente vincoli e ostacoli al processo di accumulazione in corso. Tutte le volte che si sviluppa un conflitto tra le diverse componenti sociali ed in particolare tra capitale e lavoro (ma, in misura minore, anche tra le diverse forme di capitale), la risoluzione di tale conflitto passa attraverso una spinta innovativa del progresso tecnologico e sociale. Così é stato per l'introduzione agli inizi del secolo della giornata di 8 ore per sei giorni alla settimana. Se andiamo a rileggere i documenti dell'epoca, si possono scoprire argomentazioni molto simili a quelle che oggi, quasi un secolo dopo, vengono addotte riguardo la riduzione di orario o il reddito di cittadinanza a proposito del rischio di paralisi dell'attività produttiva. Troppo spesso, però, ci si dimentica che le conquiste sociali sono state il miglior antidoto alle crisi economiche, costringendo gli imprenditori a fuoriuscire da comportamenti routinari e a introdurre innovazioni tecnologiche in grado di contrastare e superare l'eventuale compressione dei profitti o il rischio di fallimento economico (si potrebbe, a tal fine, studiare il nesso tra la richiesta di normazione oraria del lavoro dei primi anni del secolo con lo sviluppo delle nuove tecnologie fordiste, così come negli anni '70 é possibile ravvedere un rapporto tra lo sviluppo dell'informatica e la precedente fase conflittuale dei tardi anni '60) . Al riguardo, potrebbe essere interessante ricordare che la competitività internazionale dell'industria italiana alla fine del decennio degli anni '70, "obbrobriosamente conflittuale" per molti, era maggiore, in termini reali, di quella esistente alla fine degli anni '80, decennio osannato come esempio di pace e repressione sociale. In altre parole, qualunque misura atta a migliorare la distribuzione del reddito in modo non compatibile con le esigenze di profittabilità delle imprese, impone allo stesso sistema produttivo la necessità di incentivare la produttività e accelerare il progresso tecnologico al fine di risolvere ed eliminare i vincoli all'accumulazione di volta in volta sorti. Da questo punto di vista, ben venga una misura come il reddito di cittadinanza, affinché costringa il sistema produttivo (imprese, banche, ecc.) a porre rimedi agli ostacoli che tale misura inevitabilmente é portata a introdurre. Altro che paralisi produttiva!

b. In secondo luogo, é necessario ricordare che la storia del progresso tecnologico mostra una tendenza secolare alla riduzione della fatica fisica e alla diminuzione dei cd. "lavori pesanti" (ovviamente facciamo riferimento alle aree dove il progresso tecnologico é maggiormente diffuso). Lo sviluppo tecnologico nel campo della meccanizzazione - come é noto - ha fatto passi da gigante. Una maggior difficoltà nel reperire forza-lavoro per lavori disagiati e pesanti, favorita dal disporre comunque un reddito base - lungi dal bloccare la produzione - indurrebbe uno stimolo innovativo per meccanizzare e robotizzare queste stesse mansioni pesanti, favorendo in tal senso un incremento di produttività. Inoltre, aspetto non secondario, che qui ci limitiamo semplicemente ad accennare, ciò potrebbe favorire una dinamica tecnologica più consona alle effettive esigenze di liberazione dell'uomo, elemento che non sempre é connaturato con lo sviluppo del progresso scientifico e tecnologico (basti pensare ad esempio allo sviluppo dell'industria delle armi).

c. Occorre, infine, ricordare che la natura dell'uomo é orientata più all'attività che alla "pigrizia", "vizio" che è assunto agli onori delle cronache in concomitanza con lo sviluppo dell'etica protestante del lavoro. Se l'uomo viene "liberato" dal lavoro più pesante e alienante, ciò non significa che si dedicherà esclusivamente al "dolce far niente". Il significato della parola lavoro - così come viene normalmente accettato nel mondo occidentale - é spesso sinonimo di fatica. Senza dilungarsi eccessivamente su queste tematiche(10), in quasi tutte le lingue occidentali la parola "lavoro" è semanticamente sinonimo di "dolore" o "fatica" (nelle lingue neolatine, deriva dal sostantivo "travaglio", che indica o il dolore del parto o uno strumento di tortura) e l'attività lavorativa può essere indicata anche da una seconda parola, "opera" o "messa in opera", che definisce la prestazione liberamente svolta dalla mente umana (uomo o donna che sia) utilizzando l'ingegno e la volontà: locuzione che oggi, nel linguaggio corrente, viene utilizzata per indicare l'attività artistica (non a caso un'attività slegata dalla necessità di produrre valore di scambio e quindi non immediatamente produttiva, nel senso capitalistico del termine). Ciò che il reddito di cittadinanza può favorire é la riduzione del concetto di lavoro come fatica, non in generale della capacità lavorativa, di "prestatore d'opera", dell'uomo, aumentando in tal modo il grado di autonomia e la libertà di scelta degli individui. Anzi, con la diminuzione del lavoro pesante e alienato, l'uomo avrebbe più risorse e più tempo per dedicarsi alla costruzione di "opere" e magari di organizzare in modo più liberatorio la produzione di ciò che gli é utile. Il "diritto all'otium"(11) non significa infatti assenza di attività, ma piuttosto la scomparsa della costrizione al lavoro e al sudore a vantaggio della liberazione della mente e della creatività umana. Da questo punto di vista, la parola d'ordine del reddito di cittadinanza rappresenta una sorta di contropotere alla disciplina del lavoro e alla gerarchia sociale che ne viene generata e per questo é ritenuto assai pericoloso. Infatti, se ci si muove lungo un processo di liberazione non del lavoro ma dal lavoro (nel senso capitalistico del termine), viene meno uno degli strumenti disciplinari di controllo sociale in mano agli attuali assetti di potere.

Tesi n. 3: Il reddito di cittadinanza é una misura di politica economica riformista e radicale e non di modificazione strutturale dell'organizzazione capitalistica, intervenendo sul lato della distribuzione e non sul lato del conflitto capitale-lavoro.

L'evoluzione dell'organizzazione economica capitalistica si basa sulla continua metamorfosi del rapporto di sfruttamento tra capitale e lavoro. La natura conflittuale di tale rapporto spinge continuamente verso una sua modificazione. Agli albori dello sviluppo del capitalismo, ancora prima e poi in contemporanea alla rivoluzione industriale di fine '700, la creazione di una forza-lavoro metropolitana, slegata dalle condizioni di sussistenza agricola esistenti nella campagna, rappresentò la premessa della formazione di un ceto proletario, necessario per lo sviluppo di un processo di accumulazione proto-capitalistico. La regolazione del rapporto capitale-lavoro, allora in fase di costituzione, si basò anche su forme di distribuzione del reddito come puro sussidio contro la fame e la miseria(12). Nel secolo successivo, il pieno dispiegarsi del processo di accumulazione capitalistico portò all'abolizione di qualsiasi sussidio contro la povertà e al prevalere di una regolazione salariale unicamente fondata sulla spietata legge delle gerarchie di mercato. Il salario si consolidò come variabile dipendente, senza nessun limite inferiore se non quello di garantire la semplice riproduzione della forza-lavoro. I livelli di disoccupazione, la dinamica demografica e le esigenze di accumulazione delle imprese determinavano il valore del salario di sussistenza. Il risparmio era un'attività esclusivamente "borghese" e il finanziamento della stessa attività di accumulazione avveniva attraverso il reimpiego dei profitti maturati (per l'appunto, il risparmio)(13). Con l'esplodere dell'organizzazione taylorista e fordista del XX secolo, diventa necessario per lo sviluppo stesso delle forze capitalistiche aumentare i livelli di consumo e della domanda aggregata. Il salario non può più essere considerato a livello macroeconomico nazionale una semplice variabile di costo ma diventa una delle principali componenti della domanda e quindi della realizzazione monetaria del sovrappiù prodotto in quantità sempre più elevate; il salario diventa così dipendente dalle stesse modalità di funzionamento del processo di accumulazione(14). Oggi, il superamento dei vincoli spaziali che limitavano lo sviluppo del processo di accumulazione all'interno di confini nazionali o di aree sempre più strette grazie all'introduzione delle innovazioni informatiche e nel campo dei trasporti porta a riproporre una regolazione salariale sempre più individualistica (come effetto della frammentazione del mercato del lavoro) e sempre più dipendente dalle condizioni non più dell'accumulazione (come nella fase fordista) ma piuttosto dello stesso mercato del lavoro (con analogie preoccupanti con la fase prefordista). Nel corso del capitalismo, quindi la relazione salariale ha dipeso sempre dalle condizioni di produzione, cioè dal momento in cui il conflitto capitale-lavoro si manifesta, ma nel corso del tempo ha influenzato in maniera crescente la fase della realizzazione monetaria dei profitti e quindi il livello della domanda aggregata. Il reddito di cittadinanza si inserisce in questa tendenza: in quanto reddito (e non salario) diventa strumento di ricomposizione della domanda, modificandone la distribuzione tra i soggetti economici che vi partecipano. E' quindi strumento salvifico per la dinamica del processo di accumulazione capitalistico. E non potrebbe essere altrimenti, se pensiamo che tutti gli interventi correttivi del processo economico capitalistico, nati da conflitti anche violenti si sono poi rilevati forieri di nuove spinte allo sviluppo dello stesso capitalistico. Per questi motivi, il reddito di cittadinanza é una misura riformatrice e non rivoluzionaria (nel senso che non va a modificare la struttura stessa su cui si fonda l'organizzazione capitalistica).

Tesi n. 4: Il reddito di cittadinanza é una proposta di politica economica parziale, non esaustiva e non in contraddizione con altre proposte di riformismo radicale (quali riduzione di orario di lavoro, sviluppo dell'autorganizzazione sociale, attivazione di lavori concreti, ecc. ).

Proprio per la sua natura di misura di politica economica di sostegno sul lato della distribuzione del reddito, il reddito di cittadinanza é strumento di intervento parziale. Esso tuttavia non può essere in contraddizione con altre misure alternative che riguardano o l'organizzazione del lavoro in un sistema di accumulazione flessibile (riduzione d'orario) o lo sviluppo di forme produttive alternative, non basate sulla maturazione di un profitto (terzo settore e autogestione/organizzazione (15), lavori concreti(16)). Anzi, esiste un rapporto di stretta complementarietà tra le diverse misure alternative, che dovrebbe essere valorizzato piuttosto che eluso o mistificato per pure ragioni di strumentalizzazione. A titolo di esempio, proviamo ad analizzare il rapporto che potrebbe proficuamente intercorrere tra due proposte che troppo spesso sono state viste come contrapposte: riduzione d'orario e reddito di cittadinanza. Entrambe le proposte fanno riferimento alle due facce di una sola medaglia: la rottura del nesso produzione e occupazione da un lato, e tra produttività e salario reale dall'altro (vedi la Tesi n. 2 per approfondimenti).

Su questo aspetto, credo sia necessaria una breve riflessione. Perché la riduzione d'orario di lavoro abbia un effetto positivo sull'occupazione, è necessario, a mio avviso, che siano verificate almeno tre condizioni:

1. La riduzione dell'orario di lavoro deve essere repentina e drastica: già oggi 35 ore sono una richiesta insufficiente, perché con una crescita della produttività intorno al 4% (nel metalmeccanico, anche del 5-6%), nel giro di due anni, la riduzione a 35 ore di lavoro non produce nuova occupazione. E' necessario quindi scendere almeno a 30-32 ore settimanali, quindi un obiettivo molto diverso da quello implicito nei contratti di solidarietà o nel contratto Wolkswagen in Germania, che trattano di riduzioni di orario e riorganizzazioni dei turni esclusivamente finalizzati al mantenimento dell'occupazione attuale, non ad un suo incremento: una logica di intervento molto diversa.

2. Se la riduzione dell'orario deve essere drastica e repentina, ne consegue che comporta dei costi. Questi costi non possono essere sopportati dal lavoratori (nel senso, minor orario, minor salario), altrimenti invece di aumentare l'occupazione si tende ad un aumento della precarizzazione del lavoro esistente a vantaggio dei profitti e della flessibilità produttiva. In secondo luogo, un'eccessiva perdita del potere d'acquisto del monte salari potrebbe ritorcersi contro lo stesso meccanismo di accumulazione. Perché se è vero che la struttura dei consumi interni non è più così vincolante come nell'epoca fordista, tuttavia è possibile ipotizzare un vincolo minimo sotto il quale la domanda interna è preferibile non cada per non compromettere i meccanismi di sviluppo dell'economia. Il potere d'acquisto dei lavoratori non può quindi diminuire infinitamente.

3. E' chiaro altrettanto, per motivi di realismo politico ed economico, che tutto il costo associabile ad una drastica riduzione dell'orario di lavoro non possa essere imputato inizialmente al sistema delle imprese; inizialmente, perché solo progressivamente, i guadagni di produttività e gli incrementi che scaturiscono da una più razionale organizzazione dei turni di lavoro che la riduzione di orario necessariamente comporta possono ragionevolmente finanziare il costo iniziale della riduzione d'orario.

Ne consegue che se la riduzione d'orario deve essere immediata, drastica e repentina, occorre che ci sua un costo iniziale. Tale costo dovrebbe essere sobbarcato dalla fiscalità sociale, cioè sul piano dei rapporti sociali e della distribuzione sociale del reddito. Al riguardo, diventa imprescindibile l'avvio di un processo di riforma fiscale, che, sulla base dell'assunto della pari trattamento dei cespiti di reddito (sia esso di lavoro, di impresa o di capitale finanziario), consenta a ciascun individuo di disporre di un assegno sociale di cittadinanza che, sommandosi, a quello percepito all'interno del meccanismo produttivo, gli permetta di godere di un reddito decente e dignitoso (vedi Tesi n. 9 per approfondimenti). In quest'ottica il reddito di cittadinanza è l'ovvio complemento, necessario per rendere praticabile la riduzione dell'orario di lavoro.

La necessità dell'introduzione di un reddito di cittadinanza non è limitata solo alla questione della riduzione dell'orario di lavoro, ma va oltre a questa problematica. Infatti, se la riduzione dell'orario di lavoro è un aspetto tutto all'interno della categoria degli occupati, il reddito di cittadinanza riveste una funzione sociale, più allargata, riferita a tutta la popolazione.

Da questo punto di vista, la prospettiva del reddito di cittadinanza risulta sicuramente la più idonea per far fronte alle modificazioni strutturali dell'accumulazione capitalistica.

Sempre in relazione all'aspetto della riduzione d'orario, troppo spesso ci si dimentica che da ormai una decina d'anni è ben presente all'interno del mercato del lavoro post-fordista la tendenza all'allungamento della giornata lavorativa, non solo all'interno del segmento degli occupati (in seguito al massiccio ricorso degli straordinari), ma soprattutto all'interno di quella nuova categoria di lavoratori autonomi o eterodiretti, figlia delle trasformazioni del mercato del lavoro negli ultimi anni. Tali lavoratori, essendo all'interno dei complessi rapporti di subfornitura degli attuali cicli produttivi, sono anch'essi soggetti a forme di subordinazione e gerarchie di varia intensità a seconda del grado di libertà che la propria attività professionale e/o il grado di specializzazione consente. Tuttavia, per definizione, in quanto autonomi e imprenditori di se stesso, non sono soggetti ad una regolazione dei tempi di lavoro. Di conseguenza. la sola riduzione dell'orario di lavoro rischia di diventare elemento di dualismo tra lavoratori formalmente con diverso statuto giuridico, ma sostanzialmente all'interno del medesimo modello di produzione. La flessibilizzazione e la precarizzazione del lavoro passa proprio tramite la segmentazione e la scomposizione del mercato del lavoro.

Da questo punto di vista, la tematica del reddito di cittadinanza svolge un importante funzione strategica di elemento unificatore e di fattore di ricomposizione delle diverse forme di erogazione di lavoro, proprio perché tematica non interna alla logica dell'accumulazione (vedi Tesi n. 10). Più in particolare, il reddito di cittadinanza può diventare l'obiettivo politico ed economico che non solo consente la riduzione dell'orario di lavoro ma diventa strumento di omogeneizzazione delle seguenti tre categorie di lavoro: la categoria dei disoccupati, perché con il reddito di cittadinanza, oltre a garantire loro un potere d'acquisto immediato senza necessariamente ricorrere a redditività illegali, sanno che può essere praticabile una riduzione d'orario che offra loro uno sbocco professionale; la categoria dei lavoratori autonomi e precari, in parte espulsi dai processi produttivi fordisti, che tramite un salario di cittadinanza, possono attuare una riduzione della loro attività lavorativa senza che ciò comporti necessariamente una riduzione del proprio reddito, oltre ad offrire loro una maggiore capacità contrattuale non soggetta al ricatto della necessità di lavoro; quelli degli occupati dipendenti, che grazie al reddito di cittadinanza, possono ottenere una riduzione dell'orario di lavoro che comporti un miglioramento della qualità della propria vita.

Considerazioni analoghe a quelle svolte a proposito della riduzione dell'orario di lavoro, possono essere anche svolte per quanto riguarda l'attivazione di lavori concreti oppure lo sviluppo di pratiche di autorganizzazione o del terzo settore. In questo caso, infatti, la maggior libertà individuale derivante dalla disponibilità di reddito consentirebbe a più persone di poter svolgere attività non strettamente mercantile, senza essere sottoposte al vincolo selettivo imposto dalle gerarchie di mercato.

Come si vede, la tematica del reddito di cittadinanza rappresenta un grimaldello rilevante per scardinare alcuni luoghi comuni, presenti anche all'interno della sinistra, che hanno portato e tuttora portano ad una supina accettazione del pensiero unico oggi dominante. Non è poco.

Tesi n. 5: Il reddito di cittadinanza é una misura di contropotere al potere della moneta di discriminare tra proprietà dei mezzi di produzione e semplice erogazione di forza lavoro.

La trasformazione materiale delle merci ovvero la produzione manifatturiera come momento unico dell'origine del sovrappiù (a differenza della società feudale - basata sull'espropriazione agricola - e mercantile - basata sulla gerarchia degli scambi), presuppone la separazione tra capitale (mezzi di produzione) e lavoro (erogazione di lavoro) e quindi implica per sua natura uno scambio monetario di ricomposizione tra le due parti, differentemente definite (e pure su piani diversi); in altre parole, la produzione capitalistica é produzione di denaro a mezzo di merci (D-M-D') e necessita pertanto di un'anticipazione monetaria per poter avviare l'attività di trasformazione materiale delle merci (D-M) che sia in grado, successivamente nella fase di circolazione e realizzazione, di trasformarsi in un profitto monetario (M-D'). Alla funzioni di unità di conto, di scambio e di misura della ricchezza (equivalente generale), la moneta assume, per la prima volta nella storia umana, anche la funzione di moneta-credito. La disponibilità di moneta-credito, vale a dire di un finanziamento iniziale, è condizione propedeutica non per produrre sulla base di un comportamento routinario, ma per ampliare ed estendere il livello di produzione e di generazione di sovrappiù. In altre parole è moneta di nuova creazione che entra nel processo economico dinamicizzandolo e procedendo alla sua metamorfosi continua (unitamente al progresso tecnologico: da questo punto di vista, il "denaro" e le" macchine" sono i motori dello sviluppo capitalistico e della continua ridefinizione della gerarchia capitale - lavoro). La disponibilità di moneta-credito é dunque riservata a chi, detenendo privatamente i mezzi di produzione, può in modo autonomo e unilaterale (nel prezzo, nelle quantità e nelle tecniche) organizzare la produzione. La possibilità di disporre di moneta-credito segna, così, il discrimine economico (ma con tutte le implicazioni sociali che ne derivano) tra chi detiene i mezzi di produzione (gli imprenditori) e chi solo la propria forza-lavoro (i salariati).

Da un altro punto di vista - complementare - si potrebbe osservare che la moneta-credito é moneta-segno e virtuale perché il rapporto di debito e credito che comanda é scambio non solvibile (immateriale), non mediato da una merce e quindi non assimilabile allo scambio mercantile (da qui l'equivoco e la mistificazione dell'economia politica neoclassica); il rapporto di debito-credito ha come oggetto il tempo (il ponte tra presente e futuro, nelle parole di Keynes) ed una promessa di restituzione (da cui ha origine il tasso d'interesse, che, infatti, varia in funzione della rischiosità e della durata del prestito). Da qui deriva il ruolo discriminante della moneta-credito, il cui accesso é selezionato sulla base, capitalisticamente determinata, della funzione economica svolta, riducibile, direttamente o indirettamente, al fatto se si ha la proprietà dei mezzi di produzione (garanzia) oppure no.

Ne consegue che la sostanza del potere capitalistico della moneta sta nella suo essere fonte di discrimine tra capitale e lavoro, quindi nella sua funzione sociale di divisione in classi (17). Tale funzione tocca il suo apogeo nel compromesso fordista: la disponibilità di moneta-credito di nuova creazione definisce la proprietà dei mezzi di produzione, la disponibilità al lavoro garantisce la cittadinanza e il godimento dei diritti civili dei salariati. Per i salariati (dipendenti) e per i prestatori di lavoro (indipendenti), la disponibilità di moneta é comunque residuo, esito del processo lavorativo, é reddito (l'ultimo anello di trasformazione della moneta). Alla luce di queste considerazioni, diventa necessario slegare la disponibilità di moneta, cioè reddito, dalla disponibilità di lavoro. Separare reddito da lavoro significa, da questo punto di vista, disinnescare uno degli elementi portanti del potere della moneta: essere aprioristicamente disponibile solo per chi detiene la proprietà dei mezzi di produzioni, cioè per gli imprenditori. Ciò ovviamente non modifica le modalità del rapporto capitale-lavoro, in quanto non viene intaccata il potere degli imprenditore di gestire in modo unilaterale l'attività produttiva e la tecnologia, ma favorisce quel processo di liberazione degli individui dalla schiavitù del lavoro e dal ricatto del bisogno.

Il reddito di cittadinanza è, pertanto, strumento di contropotere monetario.