Tesi n. 6: Il reddito di cittadinanza
é una misura di contropotere alle odierne forme di esclusione sociale,
che mira all'autonomia soggettiva fondata sulla liberazione dalla coercizione
al lavoro precario, coatto e predeterminato.
Negli anni '50 e '60, il lavoro rappresentava
il passaporto principale per essere riconosciuti a tutti gli effetti
cittadini e degni di godere dei diritti civili, era cioè la forma di
inclusione sociale per eccellenza. Lo status sociale del fordismo era
mediato dal tipo di lavoro svolto e dalla mansione attribuita. Se si
accettavano le regole del potere disciplinare a livello economico, sociale
e politico, allora veniva garantita la partecipazione al benessere economico,
sulla cui base ne derivava il posizionamento sociale. Solo coloro che
non si sottoponevano al regime disciplinare della famiglia, della scuola,
della caserma e della fabbrica, rischiavano l'esclusione sociale. Il
compromesso fordista tra capitale e lavoro, tramite il ruolo e lo sviluppo
del "welfare state", garantiva così il soddisfacimento dei bisogni materiali
primari in modo collettivo. Se l'inclusione sociale era un fenomeno
collettivo, l'esclusione era invece una scelta individuale. La crisi
dell'organizzazione fordista ed il venire meno del compromesso sociale
che ne era sotteso porta allo svuotamento del "welfare state", al suo
ridimensionamento e alla scomparsa dei meccanismi sociali (quindi collettivi
e generali) di ammortizzamento delle disparità economiche. Il sopravvento
dell'ideologia liberista implica la sovranità dell'individuo come unico
agente in grado di provvedere alla propria inclusione e riconoscimento
sociale, indipendentemente dalle condizioni date e di partenza. Se nel
fordismo l'inclusione sociale era l'esito compromissorio di un conflitto
collettivo economico di tipo redistributivo, nell'era dell'accumulazione
flessibile essa è il frutto di una spietata competizione individuale.
La differenza sostanziale è che oggi anche chi anela all'inclusione
sociale, pur predisponendosi a sopportare ogni livello di subordinazione
gerarchica, non sempre é in grado di raggiungere tale obiettivo. La
stessa disponibilità al lavoro non garantisce più l'inclusione sociale:
il fenomeno dei "working poor", ovvero di coloro, che pur lavorando,
rimangono al di sotto della soglia di povertà, é un fenomeno dei nostri
giorni che sarebbe stato inconcepibile e incompatibile con le forme
della regolazione sociale dei tempi del fordismo (18).
In questo contesto, il reddito di cittadinanza rappresenta una decisa
inversione di rotta rispetto alle tendenze oggi dominanti. Si discuterà
più oltre il grado di complementarietà e/o di sostituibilità con i servizi
sociali del "welfare state" (cfr. tesi n.
8). Qui ci preme rammentare che il reddito di cittadinanza é strumento
di inclusione sociale (e quindi di progresso civile) per due ragioni
principali: da un lato garantisce nell'immediato le risorse materiale
per consentire una vita dignitosa a tutti e quindi risolvere, pur limitatamente,
l'aspetto della sopravvivenza primaria - non più oggetto di un intervento
esterno -, dall'altro, risolvendo, per lo meno in parte, l'aspetto della
sopravvivenza materiale (non della dipendenza culturale, economica,
religiosa, ecc.), aumenta i gradi di autonomia dal ricatto del bisogno
e quindi dalla necessità di sottostare a condizioni lavorative e/o di
procacciamento di reddito al limite della schiavitù o illegali. Da questo
punto di vista, il reddito di cittadinanza rappresenta un'arma potenziale
(non effettiva) per lo sviluppo di conflittualità sociale e rivendicazioni
economiche (vedi Tesi
n. 10).
Tesi n. 7: Il reddito di cittadinanza
non ha nulla a che vedere con il salario e con le caratteristiche del
processo di accumulazione (da cui il salario dipende).
Questa tesi ripropone in parte alcune considerazioni
già svolte nella presentazione della tesi n.
3. Tali osservazioni si basano sulle modalità con le quali avviene
la distribuzione del reddito in un'economia capitalistica. Una breve
premessa é al riguardo necessaria. Già si é avuto modo di ricordare
che il processo economico capitalistico può essere efficacemente descritto
da una sequenza di fasi economiche che definiscono un'economia monetaria
di produzione: la separazione sul mercato del lavoro tra capitale, ovvero
mezzi di produzione, e lavoro, ovvero forza-lavoro, necessita di uno
scambio
propedeutico tra imprese e sistema bancario che
anticipi la liquidità monetaria necessaria per acquistare forza-lavoro
e avviare l'attività di produzione secondo le strategie di investimento
unilateralmente decise dagli imprenditori. Il prezzo della forza-lavoro,
cioè il salario, viene così determinato in termini nominali prima ancora
che l'attività di produzione venga svolta e prima ancora che la stessa
produzione venga valorizzata nella fase finale di circolazione e realizzazione
del sovrappiù. Il profitto monetario è l'esito (residuale) del processo
di valorizzazione della produzione, a cui viene sottratto una quota,
destinata al pagamento degli interessi maturati dal sistema creditizio
sull'anticipazione monetaria che ha dato avvio a tutto il processo.
Ne consegue che il salario nominale viene fissato nella fase di apertura
del processo economico mentre profitto e rendita si determinano nella
fase di chiusura. La logica sequenziale, intrinsecamente dinamica, della
produzione capitalistica non consente quindi una remunerazione simultanea
dei fattori produttivi (come invece postulano le teorie neoliberiste)
. In secondo luogo, occorre considerare che tale struttura sequenziale
genera asimmetrie e gerarchie tra gli stessi fattori produttivi. Chi
decide le modalità della produzione (quanto, come e il prezzo a cui
produrre), ovvero gli imprenditori, determina anche il valore reale
della distribuzione: in altre parole, il potere d'acquisto effettivo
dei fattori produttivi che concorrono alla produzione. Tale esito è
frutto dei rapporti conflittuali che si generano nel mercato creditizio
e del lavoro, allorché si determina il prezzo della moneta-credito (interesse
monetario) e il prezzo della forza-lavoro (salario monetario), con l'aggiunta
che gli imprenditori, decidendo le tecniche di produzione, determinano
anche i livelli di produttività e il valore della produzione. Il prezzo
finale delle merci, infatti, non é altro che il risultato composito
del livello di scambio sul mercato del lavoro e della moneta e del livello
di produttività esistente, sulla base del grado di concorrenza esistente
nel settore in cui si opera. Il compromesso fordista tra capitale industriale
e lavoro si basava essenzialmente da un lato sulla determinazione di
un salario monetario che tenesse conto anche dei guadagni di produttività
in cambio di quella disciplina del lavoro che consentiva per l'appunto
alla produttività di crescere a saggi costanti o crescenti e dall'altro
da una garanzia di un livello di domanda aggregata, tramite il sostegno
del settore pubblico, tale da garantire una ripartizione del surplus
monetario tra profitti e interessi da soddisfare sia gli imprenditori
che i banchieri (19).
Con la crisi del fordismo, tale compromesso viene meno, non solo perché
viene meno il ruolo del welfare state (che del patto fordista rappresentava
il garante, attutendo gli eventuali "attriti") ma soprattutto perché
i guadagni di produttività non vengono più ripartiti tra i fattori della
produzione. Ciò dipende in buona parte dalle trasformazioni tecnologiche
(resesi necessarie per recuperare la profittabilità del sistema produttivo
e terziario alla fine degli anni '70) e dal peso crescente della cd.
produzione immateriale: con la messa in opera dell'"intellettualità
di massa" e il diffondersi delle tecnologie di linguaggio che ridefiniscono
i rapporti tra progettazione, esecuzione e commercializzazione della
produzione (potremmo dire tra lavoro manuale e lavoro intellettuale),
la produttività del lavoro, sganciata dalla materialità della produzione,
diventa sempre più difficile da misurare, diventa cioè "produttività
sociale" (20).
In tale contesto, la separazione tra salario e produttività é un dato
di fatto. Se non é possibile determinare il salario sulla base della
crescita di una produttività misurabile in termini individuali, si fa
sempre più pressante l'esigenza che la distribuzione dei guadagni della
produttività sociale avvenga per l'appunto a livello sociale. Parlare
di distribuzione sociale del reddito significa allora ridistribuire
il prodotto sociale simultaneamente tra i fattori produttivi, nella
fase logica di chiusura del processo economico, indipendentemente dal
livello del salario monetario. Reddito socialmente distribuito, ovvero
reddito di cittadinanza, é quindi logicamente incompatibile con la nozione
di salario.
Proprio sulla base della rettifica o meno di
questa differenza, sono oggi sul tappeto tre idee di distribuzione sociale
del reddito.
In primo luogo, occorre considerare le idee di
reddito di cittadinanza che si presentano funzionali alla flessibilità
del neo-modello di accumulazione. Esse nascono dalla necessità di dare
una sorta di indennizzo - limitato e temporaneo - perché la struttura
economica non garantisce un lavoro a tutti. Tale esigenza - a partire
dagli anni '50 - ha trovato due modalità di esplicazione fra loro molto
diverse seppur omogenee nel comprendere le esigenze di accumulazione
a seconda della fase economica di riferimento: fordista o post-fordista.
La prima fa riferimento all'introduzione di un
salario minimo garantito tramite la proposta di un'"imposizione
negativa sul reddito": essa è funzionale al contenimento dello sviluppo
del Welfare State ma nello stesso tempo contempla il perseguimento di
un consumo di massa compatibile con la produzione in serie all'interno
del modello fordista di accumulazione. Il salario minimo (che possiamo
assimilare ad una sorta di indennità di disoccupazione), essendo in
questo caso complementare all'attività lavorativa e di consumo, non
può essere universale né illimitato nel tempo, ma esclusivamente rivolto
a chi non ha un reddito minimo da lavoro, ovvero ai disoccupati. E'
sulla discordanza relativa a questo aspetto che la versione neo-keynesiana
del reddito di cittadinanza degli anni Novanta si differenzia dai precedenti
storici (si veda la proposta della Commissione Onofri sulla riforma
dello Stato Sociale e, in parte fatta propria, dal governo Prodi) (21).
Sulla base del riconoscimento della fine del modello fordista e del
fatto che la flessibilità e la precarizzazione dell'attività lavorativa
non sempre consentono un reddito stabile e continuo per tutti, si propone
un sostegno monetario, indipendentemente dalla condizione professionale
vigente, come palliativo alla carenze strutturali del nuovo modello
di accumulazione flessibile. In questo caso è più pertinente parlare
di reddito minimo garantito piuttosto che di salario minimo garantito,
perché le nuove e future condizioni del mercato del lavoro sanciscono
maggiormente la differenza tra reddito da un lato e lavoro dall'altro.
Tale reddito minimo verrebbe, non a caso, devoluto solo a chi è in età
lavorativa e con un ammontare che varia in funzione dell'età stessa,
con la clausola che il reddito di cui si disponga sia inferiore ad una
determinata soglia ritenuta di povertà (22).
In questo caso, la condizione professionale (in particolare se si è
disoccupati o no) non è rilevante (23).
Con la nozione di reddito di cittadinanza, invece,
si intende un intervento universale e illimitato nel tempo. Si tratta
quindi di una nozione più allargata che interessata la società nel suo
insieme e non solo coloro che si trovano in una situazione economicamente
sfavorevole (vedi Tesi n.
1). A tale riguardo, si può parlare di "dividendo sociale" (24),
intendendo con questo che esso è il frutto di una produzione sociale,
che a livello macroeconomico, non prevede trattamenti differenziati.
Tesi n. 8: Il reddito di cittadinanza
non é sostitutivo allo stato sociale, ma ne é complementare.
Un'obiezione molto comune al reddito di cittadinanza
(anche all'interno delle forze della sinistra radicale) consiste nel
ritenere che esista sostituibilità perfetta o quasi tra lo stesso reddito
di cittadinanza ed erogazione di servizi sociali, favorendo in tal modo
un approccio di tipo individualista a scapito di istanze di solidarietà
collettiva e, implicitamente, uno smantellamento del "welfare state"
tramite la monetizzazione dei servizi sociali di base.
La risposta può essere articolata su due livelli:
teorico e pratico.
A livello teorico, é necessario osservare che,
nel paradigma fordista, i servizi sociali venivano e vengono erogati
sulla base di una contribuzione corrispondente alla prestazione lavorativa
lungo tutto l'arco della vita lavorativa. I servizi sociali sono quindi
una componente del salario dei lavoratori, é salario differito o di
vita, oggetto dello scambio tra mondo del lavoro e l'organizzazione
sociale (stato). In altri termini, i servizi sociali non sono reddito,
cioè potere d'acquisto di merci reali e/o potenzialità di risparmio,
bensì parte integrante della remunerazione del lavoro. Al contrario,
quando si parla di reddito di cittadinanza si intende far riferimento
al potere d'acquisto e alla domanda di beni e servizi solvibili
ad esso associabili. Come già ampiamente ricordato (cfr. Tesi n.
3 e Tesi n.
7), esiste una differenza "stellare" tra reddito di cittadinanza
e salario di cittadinanza nelle sue diverse forme (minimo, garantito,
temporaneo, ecc.). Il primo è indipendente da qualsiasi prestazione
lavorativa e relativa contribuzione sociale e/o fiscale e quindi non
é assimilabile al concetto di "lavoro"; il secondo, invece, dipende
in modo subordinata dall'esistenza in qualche modo di una prestazione
lavorativa nel corso della durata complessiva dell'arco di vita.
Sulla base di queste osservazioni, l'erogazione
dei servizi sociali e il reddito di cittadinanza non possono essere
sostituti tra loro, bensì complementari. I primi hanno a che fare con
la remunerazione del lavoro, il secondo con il potere d'acquisto di
beni e servizi solvibili (cioè mercificabili, dotati di un prezzo e
contrattati sulla base della proprietà privata).
Occorre tuttavia essere realisti e ricordare
che sicuramente nel momento stesso in cui si propone il reddito di cittadinanza
si chiederà come contropartita la monetizzazione dei servizi sociali
e quindi la loro solvibilità all'interno del mercato privato. Tuttavia,
il processo di privatizzazione dei servizi sociali si sta realizzando
indipendentemente da qualsiasi richiesta di reddito di cittadinanza.
La possibilità di opporsi a tale dinamica dipende dal potenziale di
resistenza e di conflittualità che le forze antagoniste sono in grado
di mettere in campo e non dalla messa sul tappeto della problematica
di una redistribuzione sociale del reddito (intendendo con ciò il reddito
di cittadinanza). Le politiche sociali della commissione Onofri vanno
proprio in questa direzione: privatizzazione dei servizi sociali e,
come contropartita, introduzione di una sorta di salario minimo a scalare
nel tempo, limitato per fasce di età e solo per coloro che non arrivano
a disporre di un certo livello di reddito pur essendo parte integrante
della forza-lavoro (una sorta di sussidio di disoccupazione più che
un salario minimo). Se esiste una capacità di resistenza contro la proposta
di riforma della commissione Onofri, allora esisterà anche per impedire
che la proposta del reddito di cittadinanza sia sostitutiva all'erogazione
dei servizi sociali primari (istruzione, salute, casa, giustizia, ecc.).
Purtroppo, il problema sta molto più a monte del reddito di cittadinanza.
Infatti, la capacità di organizzare capacità
conflittuale si scontra la tendenza oggi in atto del predominio della
contrattazione individuale sulla contrattazione collettiva. Si tratta
di un processo di individualizzazione dei rapporti sociali ed economici
(americanizzazione della società) che può avvenire grazie a:
* flessibilizzazione dei rapporti di produzione;
* scomposizione e frammentazione del mondo del
lavoro e delle tipologie del lavoro;
* perdita di rilevanza del lavoro salariato e,
parimenti, intensificazione della subordinazione del lavoro al capitale
anche nelle mansioni più propriamente definite intellettuali nel fordismo
(taylorizzazione del "general intellect").
Si possono sviluppare diversi momenti di conflittualità,
ma nessuno di questi é in grado di inceppare il meccanismo di accumulazione.
E' necessario un processo di ricomposizione delle diverse soggettività
del lavoro, oggi scomposte e frammentate e troppo spesso in lotta fra
loro. Tale ricomposizione non può basarsi solo sulle singole condizioni
di lavoro, perché troppo diverse e non riconducibili ad un modello di
organizzazione produttiva unico con una figura (soggettività) lavorativa
dominante. In secondo luogo, il ricatto del bisogno e la subalternità
diretta del lavoro che non viene mediata da forme di rappresentatività
intermedia (crisi del sindacato) soprattutto in un ambito di contrattazione
individuale, non consente che generici e demagogici richiami alla solidarietà
di classe (quale classe, o meglio quale segmento di classe?) possano
essere ascoltati. Un processo di ricomposizione sociale in questa fase
così magmatica può avvenire lungo coordinate esterne alle modalità del
processo produttivo ma che comunque lo delimitano e ne sono conseguenti:
il reddito ed il tempo. Permettere una maggior disponibilità di reddito
in un ambito di contrattazione individuale porta ad un maggior potere
contrattuale perché meno dipendenti dal ricatto del bisogno e quindi
più possibilità di incidere almeno parzialmente sulle proprie condizioni
di lavoro (in primo luogo, il tempo di lavoro).
La questione viene dunque rovesciata. Non é il
reddito di cittadinanza a favorire il processo di "individualizzazione"
dei rapporti sociali e di produzione, bensì l'opposto. La possibilità
di disporre di un reddito maturato al di fuori dei rapporti di lavoro
e quindi sganciato dal "ricatto del bisogno" potrebbe, almeno da un
punto di vista teorico, favorire lo sviluppo di forme di resistenza
di conflittualità antagonista in quanto possibile elemento di ricomposizione
sociale delle diverse soggettività oggi sparpagliate e impossibilitate
a tradurre in lotta e conflitto sociale le proprie frustrazioni e alienazioni
lavorative (si veda la Tesi
n. 10 per ulteriori approfondimenti).
Infine occorre ricordare, che il reddito di cittadinanza
può assumere diverse forme. Infatti, può essere erogato in modo esclusivamente
monetario, se ciò non implica l'eliminazione dei servizi sociali primari
(casa, salute, istruzione, trasporto, energia, ecc.), oppure, in parte,
sotto forma di servizi reali supplementari (escludendo quelli primari),
che consentono l'ottenimento in modo gratuito degli stessi servizi primari.
In tal propositi, sarebbe auspicabile la possibilità di scelta in modo
da rendere il reddito di cittadinanza più consone a esigenze individuali
fra loro diverse.
A livello pratico, l'obiezione fondamentale riguarda
le forme di finanziamento di un processo di redistribuzione sociale
del reddito che sia complementare e parallelo al mantenimento del principio
del "welfare state". Su questo aspetto si rimanda alla Tesi n.
9.
Tesi n. 9: Il reddito di cittadinanza
crea le basi per il suo stesso finanziamento
L'attuale organizzazione sociale post-fordista,
ovvero di accumulazione flessibile, é incentrata da un lato su un paradigma
tecno-lavorativo che privilegia l'individualizzazione dei rapporti di
lavoro, lo sviluppo di produzione immateriale come componente sempre
più essenziale di generazione del sovrappiù tramite forti guadagni di
produttività sociale non ridistribuiti (o meglio trattenuti dai soli
profitti e rendite), dall'altro su livelli di incertezza crescenti con
orizzonti temporali di decisione molto brevi e mutevoli nonché di strumenti
di valorizzazione che si muovono su scala mondiale, al di fuori degli
stretti ambiti nazionali. In altre parole, sul piano dei rapporti di
lavoro si assiste ad una frammentazione e scomposizione crescente che
porta ad una precarizzazione dell'attività lavorativa stessa e a ridefinire
i rapporti tra lavoro salariato, lavoro a prestazione e lavoro coatto,
mentre sul piano della produzione e del suo finanziamento si assiste
a processi di concentrazione e di omogeneizzazione all'interno di macroaree
sovranazionali strategiche, grazie ai nuovi strumenti finanziari e allo
sviluppo del mercato internazionale dei capitali.
In un simile contesto, la possibilità di attivare
politiche economiche nazionali, soprattutto dal lato fiscale (dal momento
che dal lato monetario si é già verificata un'espropriazione dell'autonomia
delle singole banche centrali, sempre più subordinate o ad accordi sovranazionali
- come quello di Maastricht - o agli organismi internazionali che incidono
sui mercati finanziari), risulta molto ridotta. Ciò non toglie che proprio
l'esigenza di armonizzare realtà fiscali differenti in un contesto come
quello disegnato dall'Unione Monetaria Europea possa risultare particolarmente
utile per la specifica realtà italiana.
In primo luogo è necessario fare alcune analisi
quantitative per aver ben in chiaro l'entità della massa monetaria necessaria
per avviare una politica di reddito di cittadinanza.. A tal fine immaginiamo
di trovarci di fronte a tre scenari, supponendo (punto tutto da discutere
ancora e che richiederebbe un'analisi a parte) che l'entità del reddito
di cittadinanza corrisponda a L. 1.000.000 al mese (per un totale di
12 milioni all'anno). Il primo è quello che fa riferimento all'analisi
teorica di queste note, ovvero l'idea di un reddito di cittadinanza
uguale per tutti, dato a tutti coloro che hanno più di 15 anni di età,
e la cui introduzione è immediata e non graduale nel tempo.(vedi Tesi n.
1). In questa prospettiva, gli ultimi dati statistici, relativi
alla fine del 1997, ci dicono che la popolazione italiana con un'età
superiore ai 15 anni ammonta a circa 48 milioni di persone. Per garantire
a tutti costoro un reddito garantito di un milione di lire al mese,
lo stato dovrebbe avere a disposizione 576.000 miliardi di lire, vale
a dire il 29,5% del Pil prodotto nello stesso anno oppure il 60,5% del
totale delle entrate dell'Amministrazione pubblica. Il secondo scenario
che ipotizziamo è un'idea di reddito di cittadinanza, che all'inizio,
non contempla tutto coloro che già usufruiscono un reddito pensionistico
superiore a due milioni mensili. Secondo i dati del Ministero del Tesoro,
il numero delle pensioni al 31.12.1996 era di 9.962.072 (sono circa
9.839.000 coloro che hanno più di 65 anni di età) per una spesa totale
di L.105.000 miliardi circa, per un'erogazione media di circa L. 1.054.000
al mese. Secondo i dati Inps, il 36,8% delle pensioni è superiore al
milione di lire mensili, per un totale di circa 3,670 milioni di persone.
Se escludiamo tale quota, il reddito di cittadinanza dovrebbe riguardare
45,1 milioni di individui per un ammontare di spesa pari a L. 541.000
miliardi. Infine, sempre come scenario ipotetico, possiamo immaginare
un'introduzione graduale del reddito di cittadinanza inizialmente riservata
per tutti coloro che hanno un reddito annuo inferiore ai 50 milioni
di lire lordi, per poi estenderlo negli anni seguenti a tutti. Si tratta
di una quota di popolazione intorno al 70% (dato ancora da verificare),
il che ridurrebbe il numero dei beneficiari del reddito di cittadinanza
a 34,1 milioni di persone, per una spesa complessiva di L. 409.000 miliardi.
Tre sono infatti gli aspetti che ci interessano
analizzare ai fini della questione del finanziamento del reddito di
cittadinanza.
1. La proposta di reddito di cittadinanza si
inserisce in un processo di riforma fiscale dello stato, basato sui
seguenti punti principali:
- tassazione di tutti i redditi indipendentemente
dai cespiti tramite un'unica imposizione fortemente progressiva
sui redditi ma con aliquote minori di quelle attuali (da lavoro,
da impresa, da capitale ==> salari, profitti (utili), rendite
finanziarie private e pubbliche);
- riduzione delle aliquote Irpeg al pari di
quelle Irpef e introduzione di una patrimoniale delle imprese (tassa
sul capitale): riforma della contribuzione sociale, procedendo all'eliminazione
della fiscalizzazione degli oneri sociali in cambio di una riduzione
dei versamenti ed equiparazione tra lavoro salariato e lavoro autonomo
eterodiretto (con obbligo di partecipazione anche dei committenti) (25):
- prevalenza dell'imposizione diretta su quella
indiretta;
- semplificazione del sistema fiscale e controlli
incrociati per quanto riguarda i servizi al consumo onde minimizzare
l'evasione fiscale.
- introduzione di una sorta di "Tobin-tax"
sulle transazioni finanziarie di tipo speculative intermediate dalle
istituzioni finanziarie (banche e Sim), sia nazionali che internazionali (26);
- mantenimento e/o introduzione di una patrimoniale
sulle ricchezze mobiliari e immobiliari (con l'esclusione della
prima casa).
Sul lato delle spese é necessario procedere ad
una semplificazione del bilancio pubblico: mantenimento ed allargamento
delle spese sociali, riduzione delle spese militari e di difesa e di
ordine pubblico (l'unica voce in forte crescita negli ultimi anni),
eliminazione dei sostegni ed agevolazioni economiche alle imprese. Occorre
tenere presente che una seria politica di riduzione della disoccupazione
(tramite riduzione d'orario) e una politica di sostegno della domanda
(reddito di cittadinanza), pur rivelandosi strumenti di riformismo radicale,
hanno un duplice effetto sul bilancio pubblico: riduzione degli oneri
della disoccupazione (soprattutto indiretti, in termini di cassa integrazione,
lista di mobilità, prepensionamenti, agevolazioni alle imprese - cfr.
rottamazione - ecc.), oggi ammontanti a circa 24.000 miliardi all'anno
in modo diretto e a circa 40.000 miliardi in modo indiretto (prepensionamenti
calcolati sull'arco della durata media di vita, ecc.) e quindi riduzione
dei costi del settore pubblico (gli unici costi che i padroni si guardano
bene dal citare), da un lato, e incremento delle entrate fiscali, in
seguito all'accresciuta domanda interna, dall'altro (un aumento di un
punto percentuale di domanda, significa un aumento dell'1,3% del Pil
- a parità di condizioni - e un incremento fiscale dello 0,6%, pari
a circa 15.000 miliardi all'anno). Infine, occorre ricordare che la
spesa assistenziale pubblica in Italia alla fine del 1996 ammontava
a 30.857 miliardi di lire, costituita per il 61,8% da trasferimenti
a nuclei meritevoli (invalidi, cechi, mutilati, ecc.), per il 20% da
trasferimenti in denaro e natura per la generalità dei poveri.
2. E' necessario riprendere la questione della
redistribuzione dei guadagni di produttività, indotti dalle trasformazioni
tecnologiche e oggi ad esclusivo appannaggio del profitto e della rendita
e non del lavoro. Al riguardo occorre considerare che i tassi di crescita
della produttività sono oggi di gran lunga molto più elevati di quanto
le statistiche non dicano. Infatti, le statistiche ufficiali misurano
i guadagni di produttività in termini necessariamente materiali (numero
di pezzi, ore lavorate, ecc.) senza tenere conto che a tale produttività
occorre aggiungere un'altra produttività - di tipo immateriale - indotta
dall'attività intellettuale applicata alla produzione. E' tale produttività
altra che in molte produzione costituisce una quota rilevante del valore
aggiunto, che spesso non viene presa in considerazione. Ed é tale valore
aggiunto che deve costituire la base imponibile dal quale detrarre i
fondi per il finanziamento del reddito di cittadinanza.. Se la quota
dell'1% sulla produzione dei beni e servizi destinabili alla vendita
venisse devoluta per finanziare il reddito di cittadinanza, verrebbe
messa a disposizione una cifra. pari, a fine 1997, a circa 20.000 miliardi
di lire.
TAB. 1: COSTI E FINANZIAMENTO DI UNA POLITICA
DI REDDITO DI CITTADINANZA (IN MILIARDI DI LIRE)
|
Costi |
|
Finanziamento
|
|
Scenario 1 |
576.000
|
1. Risparmi su assistenza poveri |
30.000
|
|
|
|
2. Risparmi su spese CIG |
24.000
|
|
Scenario 2 |
514.000
|
3. Tobin Tax (con 20% di elusione) su movimenti
lordi di capitale finanziario (27) |
186.720 (aliquota 0,02%)
|
466. 800 (aliquota 0,05%)
|
Scenario 3 |
409.000
|
4. Interventi sull'Irpef e sull'Irpeg e patrimoniale |
30.000
|
|
|
|
5. Risparmi su spese previdenziali |
40.000
|
|
|
|
6. Tassa dell'1% sulla produttività |
20.000
|
|
|
|
7. Totale entrate |
330.720
|
610.800
|
Nota: Scenario 1: R.C. di L. 12 milioni annui a
tutti coloro con più di 15 anni;
Scenario n. 2: R.C. di L. 12 milioni annui a
tutti coloro con più di 15 anni, escluso coloro che godono di pensioni
superiori ai 2 milioni;
Scenario n. 3: R.C. di L. 12 milioni annui a
tutti coloro con più di 15 anni ma con reddito individuale inferiore
ai 50 milioni lordi annui.
3. Infine occorre ricordare che in un contesto
di accresciuta incertezza e instabilità economica e finanziaria l'esistenza
di un reddito di cittadinanza garantisce maggior stabilità dal lato
della domanda, favorendo una continuità nell'attività di consumo privato,
permettendo così una programmazione a più lungo termine delle scelte
di investimento delle imprese e, in ultima analisi, un aumento delle
entrate fiscali.
Sommando, in conclusione, tutte le fonti di finanziamento
(al netto di qualunque modifica delle aliquote della tassazione ma con
l'aggiunto della Tobin-tax con aliquote che vanno dallo 0.01% allo 0,05%
e la tassazione dell'1% della produttività), si avrebbe a disposizione
una cifra che può variare dai 237.000 ai 610.000 miliardi (vedi Tab.
1). Credo che rappresenti nella pratica una base più che consistente
per ragionare di reddito di cittadinanza.
Tesi n. 10: Il reddito di
cittadinanza é strumento di ricomposizione sociale e di coscienza conflittuale
in presenza di contrattazione individuale.
Se nel processo di produzione fordista, l'omogeneizzazione
della forza-lavoro era una necessità per lo sfruttamento delle economie
statiche di scala e un effetto dell'adozione di tecnologie ripetitive
meccaniche, le forme della rappresentanza nascevano direttamente dall'analisi
delle condizioni soggettive di lavoro. La soggettività operaia
del fordismo - così come è stata analizzata dai Quaderni Rossi - era
tutta contenuta all'interno del rapporto uomo-macchina, esemplificato
dalla linea di montaggio. Tale rapporto determinava in subordine le
condizioni di vita e di riproduzione della forza-lavoro. Nel paradigma
dell'accumulazione flessibile, non è possibile individuare un'unica
soggettività operaia, bensì una pluralità di soggettività,
a cui corrispondono stilemi e modelli di comportamento non massificabili.
Il processo di ricomposizione sociale non può quindi basarsi esclusivamente
sulle condizioni di lavoro soggettive. Paradossalmente, nel paradigma
dell'accumulazione flessibile, i livelli di subordinazione e di intensificazione
dello sfruttamento (sia in termini di tempo di lavoro che in termini
di remunerazione del lavoro) sono maggiori e più pervasivi di quelli
che operavano nella logica fordista, ma nello stesso tempo più diversificati
e indiretti (28).
In un simile contesto un processo di ricomposizione di queste diverse
soggettività può quindi verificarsi solo partendo da aspetti che non
siano direttamente riconducibili alle diverse esperienze di lavoro.
In alte parole, il comune denominatore che possa legare insieme realtà
soggettive di lavoro fra loro divergenti e spesso in contrapposizione
deve far riferimento a situazioni soggettive esterne all'ambito lavorativo
e non riducibili ad un momento puramente corporativo.
Nel paradigma dell'accumulazione flessibile,
due sono i gli aspetti che esulano dalle condizioni soggettive della
propria attività lavorativa ma che ne dipendono in modo diretto: il
reddito, da un lato e il controllo sul proprio tempo di lavoro,
dall'altro. Questi due aspetti sono trasversali alle diverse tipologie
di lavoro oggi esistenti (si tratti di lavoro autonomo o lavoro dipendente)
in quanto figlie del processo di flessibilizzazione del meccanismo di
accumulazione: lo sganciamento della remunerazione del lavoro dai guadagni
di produttività e la rottura del nesso produzione-occupazione (con conseguente
incremento dei livelli di disoccupazione). Questi due aspetti si traducono
nella pratica politica quotidiana nella richiesta di una distribuzione
sociale del reddito e di una riduzione dell'orario di lavoro.
Si tratta di due aspetti fra loro complementari e imprescindibili l'uno
dall'altro, nel senso che l'esistenza di una distribuzione sociale del
reddito (reddito di cittadinanza) può consentire una riduzione
dell'orario di lavoro a parità di remunerazione senza che i costi ad
essa associati ricadendo sulla fiscalità generale siano imputabili ad
unico soggetto economico (imprese, lavoratori, ecc.) (29).
In particolare il reddito di cittadinanza appare come uno strumento
trasversale di ricomposizione sociale del lavoro assai più generale
di quanto non appaia la riduzione dell'orario di lavoro come forma di
controllo del proprio tempo di vita. Infatti, se la riduzione dell'orario
di lavoro è un aspetto tutto all'interno della categoria degli occupati,
il reddito di cittadinanza riveste una funzione sociale, più
allargata, riferita a tutta la popolazione. Al riguardo occorre notare
che da ormai una decina d'anni è ben presente all'interno del mercato
del lavoro flessibile la tendenza all'allungamento della giornata lavorativa,
non solo all'interno del segmento degli occupati dipendenti (in seguito
al massiccio ricorso degli straordinari), ma soprattutto all'interno
di della categoria dei lavoratori autonomi eterodiretti (30).
Tali lavoratori, per definizione, in quanto autonomi e imprenditori
di se stessi, non sono soggetti ad una regolazione dei tempi di lavoro.
Di conseguenza. la sola riduzione dell'orario di lavoro rischia di diventare
elemento di dualismo tra lavoratori formalmente con diverso statuto
giuridico, ma sostanzialmente all'interno del medesimo modello di produzione.
La flessibilizzazione e la precarizzazione del lavoro passa proprio
tramite la segmentazione e la scomposizione del mercato del lavoro.
Da questo punto di vista, la tematica del reddito di cittadinanza
può svolgere un importante funzione strategica di elemento unificatore
e di fattore di ricomposizione delle diverse forme di erogazione di
lavoro, proprio perchè tematica non interna alla logica dell'accumulazione.
Più in particolare, il reddito di cittadinanza può diventare l'obiettivo
politico ed economico che non solo consente la riduzione dell'orario
di lavoro ma diventa strumento di omogeneizzazione delle seguenti tre
categorie di lavoro: la categoria dei disoccupati, perché con il reddito
di cittadinanza, oltre a garantire loro un potere d'acquisto immediato
senza necessariamente ricorrere a redditività illegali, sanno che può
essere praticabile una riduzione d'orario che offra loro uno sbocco
professionale; la categoria dei lavoratori autonomi e precari, in parte
espulsi dai processi produttivi fordisti, che tramite un reddito di
cittadinanza, possono attuare una riduzione della loro attività lavorativa
senza che ciò comporti necessariamente una riduzione del proprio reddito,
oltre ad offrire loro una maggiore capacità contrattuale non soggetta
al ricatto della necessità di lavoro; quella degli occupati dipendenti,
che possono ottenere una riduzione dell'orario di lavoro che comporti
un miglioramento della qualità della propria vita. Come si vede, la
tematica del reddito di cittadinanza rappresenta un potente fattore
di ricomposizione sociale assimilabile al fattore dell'identità territoriale
per alcune tipologie di lavoro del Nord-Italia.
Il diffondersi del linguaggio come strumento
di produzione e la diffusione di elementi immateriali nel processo lavorativo
ridefinisce totalmente i tradizionali rapporti tra lavoro manuale e
lavoro intellettuale, svuotando questi concetti di molta parte del loro
significato storico, indipendentemente dalla forma di erogazione della
prestazione lavorativa (autonoma o dipendente). La meccanizzazione dell'attività
intellettuale, che si manifesta tramite una sua crescente precarizzazione
da un lato e nuove forme di elitismo corporativo (vedi istruzione universitaria)
dall'altro, pone come imprescindibile (altra condizione preliminare
per discutere di trasformazioni sociali) la questione culturale come
problema sociale. Il decrescente livello culturale medio è infatti un
utile strumento per la costituzione di una sorta di dittatura dell'informazione
e dello stereotipo. Senza entrare nel merito dell'argomento, che richiederebbe
ben altro spazio, è sufficiente notare che le condizioni di flessibilità
e precariato lavorativo imposte nella maggior parte dei casi impedisce
qualsiasi processo di presa di coscienza e di analisi delle proprie
condizioni soggettive individuali. Lo sviluppo della contrattazione
individuale al posto della contrattazione collettiva non consente all'interno
di una produzione diffusa sul territorio e non in unico luogo la percezione
della propria condizione soggettiva. Il reddito di cittadinanza può
svolgere anche su questo versamento un ruolo decisivo di collettore
di coscienze.
Da un punto di vista teorico, dunque, è possibile
pensare a strumenti di ricomposizione sociale che si esplichino anche
sul piano dei diversi conflitti individuali o settoriali. Tuttavia ciò
non scioglie la contraddizione delle modalità politiche attraverso cui
il conflitto (se di ciò si tratta) si possa esplicare sul piano pratico
ed effettivo. Ad esempio, nel contesto del paradigma dell'accumulazione
flessibile, forme di conflitto uniformi ed omogenee come quelle rappresentate
dallo sciopero, vedono diminuire la propria incisività, se non sono
strettamente riferite ad unica tipologia di lavoro, sia a livello settoriale
che di mansione. Appena lo sciopero diventa uno strumento di conflitto
più generale, tende a perdere di efficacia, tanto più il contesto economico
è frammentato e scomposto (31).
Ammesso (ma non concesso) che fattori di ricomposizione trasversale
delle soggettività e delle mentalità dei diversi segmenti del lavoro
(soprattutto autonomo) possano avere luogo sulla base delle parole d'ordine
del reddito e del controllo del tempo, rimane del tutto irrisolto il
problema della definizione sia del soggetto politico che fa pone le
richieste che del soggetto politico che dovrebbe accoglierle. Nella
logica della rappresentanza fordista, si tratterebbe da un lato di individuare
una forma di sindacato e/o di associazione e dall'altro di ripristinare
il ruolo dello stato come luogo di attuazione autonoma delle politiche
fiscali necessarie per l'introduzione dell'eventuale reddito di cittadinanza (32).
Tuttavia, riproporre forme di rappresentanza superate dalla dinamica
strutturale dei processi produttivi sarebbe, oltre che contraddittorio,
foriero di illusioni e di confusione. Di deve però riconoscere che al
momento non si intravedono nuovi modelli di rappresentanza in grado
di cogliere i molteplici aspetti del mondo del lavoro e di farsi portavoce
delle diverse istanze oggi presenti. Un aiuto in tal senso potrebbe
essere fornito non dalla creazione di nuove forme di rappresentanza,
bensì dalla costituzione di luoghi fisici e liberati di incontro delle
diversificate esperienze lavorative. Dai Centri Sociali Autogestiti
alle associazioni negli ultimi anni si è assistito ad un fiorire di
iniziative e di di strutture aggreganti fondate sul volontariato o su
forme di mutuo soccorso (33).
E' questa la sfida che rimane ancora aperta, nella quale sono riposte
le sempre più incessanti domanda di cambiamento e alla quale non siamo
finora in grado di offrire una risposta soddisfacente.
Note
1. Per una veloce
carrellata di dati, si rimanda all'articolo di J.Vincour, su International
Herald Tribune del 15 e 16 ottobre 1997. La fonte, insospettabile, afferma
che "a proposito di realtà scomode, in maggio (del 1997) l'Eurostat
ha reso noto che (al 1993 ndr.) 57 milioni di europei, il 17% della
popolazione dell'Unione Europea, vive in condizioni di povertà. Negli
Stati Uniti i poveri sono il 13,7%. In Francia le famiglie povere sono
il 16% e in Germania il 13%, il 29% in Portogallo e il 24% in Grecia
(in Italia, il dato è del 18%, ndr.). All'agosto 1997, secondo le stime
ufficiali, i disoccupati dell'Ue erano 17,9 milioni. Forse perché i
dati Eurostat si riferiscono al 1993 (
), o perché i governi si
sentono poco responsabili per cifre di quattro anni fa, fatto sta che
la pubblicazione delle statistiche dell'Eurostat ha prodotto pochissima
indignazione e scarse reazioni politiche. Oggi l'orgoglio con cui i
paesi europei sono convinti di aver smussato per sempre le spigolosità
del capitalismo, e di essere veramente riusciti a distribuire la ricchezza
nazionale, sembra più che mai un'illusione" (tratto dall'articolo: Poverty
grows Quietly Along With Wealth, trad. di B.Tortorella). Back
2. Contro il pensiero
unico, si veda i periodici scritti di I. Ramonet su "Le Monde Diplomatique".
Back
3. Si ricordano
qui solo i principali testi: in Francia, tra i molti, si vedano, oltre
agli articoli su Futur Anterieur, gli ultimi testi di A.Gorz, Misere
du present, richesse du possible, Galilee, 1997 e di R. Castel,
Les Métamorphoses de la question sociale, Fayard, Paris, 1996;
in Italia, gli scritti sul General Intellect (fra i tanti, M.Lazzarato,
Lavoro immateriale, OmbreCorte, Verona, 1997 e M.Hardt-T.Negri,
Il lavoro di Dioniso, Manifestolibri, Roma, 1996), sul lavoro
autonomo di II° generazione (S.Bologna-A.Fumagalli, Il lavoro autonomo
di II° generazione, Feltrinelli, Milano, 1997), sulle mutazioni
sociali e finanziarie (C.Marazzi, Il posto dei Calzini, Casagrande,
Bellinzona, 1994 e Il denaro va, Bollati Boringhieri, Torino,
1998). Occorre infine ricordare le riviste che maggiormente trattano
di questi argomenti nell'area dell'antagonismo sociale, (Altreragioni,
Derive&Approdi, Futuro Anteriore, Intermarx, ecc.) Back
4. Su questo tema,
mi permetto di rimandare a A. Fumagalli, Pensiero economico, accumulazione
flessibile e reddito di cittadinanza, in Aa.Vv., La democrazia del
reddito universale, Manifestolibri, Roma 1997. Back
5. Al fine di
essere il più possibile espliciti, è necessario precisare che anche
la famiglia Agnelli dovrebbe godere del reddito di cittadinanza. Back
6. Per un'analisi
più approfondita, si rimanda a B. Coriat, L'atelier et le robot,
Christian Bourgois, Paris, 1994. Back
7. Su questo tema,
credo che sia ancora illuminante il saggio scritto quasi 60 anni fa,
da M.Kalecki, Gli aspetti politici della piena occupazione, 1939.
Back
8. In effetti,
in Italia, l'attuale politica economica perseguita dal governo di centro-sinistra
con l'appoggio del sindacato confederale, denominata "riformista", non
porta altro che alla totale subordinazione alle esigenze di compatibilità
economiche del capitale stesso Back
9. E' questa ad
esempio la critica fatta da G.Mazzetti, Quel pane da spartire,
Bollati Boringhieri, Torino, 1996. Back
10. Al riguardo,
si rimanda alle pagine introduttive dell'ultimo saggio di A.Gorz, Misères
du prèsent, richesse du possible, cit. Back
11. Il riferimento
immediato è al genero di Marx, P.Lafargue, Il diritto all'ozio,
1887. Back
12. Un esempio,
in tal senso, è rappresentato dalle cd. "poor laws" inglesi della seconda
metà del 700. Per un approfondimento, si rimanda a A. Fumagalli,
Pensiero economico, accumulazione flessibile ...., cit. Back
13. La destinazione
dei profitti a attività di investimento piuttosto che allacquisto
di beni di lusso o di consumo ha avuto un ruolo molto importante nel
secolo scorso per finanziare il processo di accumulazione, sino al punto
di far ritenere a livello teorico che è il risparmio a generare linvestimento.
Tale credenza, ancora oggi al centro dellinsegnamento accademico
in quasi tutte le università occidentali, era stata in modo definitivo
confutata da Keynes nella Teoria Generale. Back
14. Il riferimento
è alla regola doro della distribuzione fordista che lega la dinamica
del salario reale a quella della produttività, ovvero tecnologia e domanda
di beni. Back
15. Su questa
opzione alternativa, si veda M.Revelli, La sinistra sociale,
Bollati Boringhieri, Torino, 1997. Back
16. Su questo
punto e sulla definizione di lavori concreti, si rimanda a G.Lunghini,
Leconomia dello spreco, Bollati Boringhieri, Torino, 1996.
Back
17. Su questa
tematica, si veda K.Marx, Lineamenti di critica alleconomia
politica (Grundrisse), in particolare quaderno 2. Back
18. Il fenomeno
dei working poor nasce negli Usa di Reagan nel corso degli anni 80.
Oggi si sta diffondendo anche in Europa. In Italia, le ultime statistiche
ci dicono che le famiglie al di sotto della soglia di povertà (600.000
lire pro capite, meno della metà del reddito medio) ammontano a 2.245.000.
Laumento della povertà è particolarmente elevato tra i lavoratori
dipendenti che da una quota dell8,4% del 1996 sono passati al
9,7% del 1997. Nella stessa direzione va laumento della povertà
tra i giovani capofamiglia fino a 35 anni: dal 10,1% del 1996 all11%
del 1997. Al riguardo si veda G.Procacci, La cittadinanza sociale di
fronte alla crisi del welfare, mimeo e Commissione Povertà, Rapporto
1997. Back
19. Sullevoluzione
dei rapporti tra sistema bancario e capitale industriale agli albori
del fordismo, ancora illuminante è il contributo di Hilferding. Back
20. Su tali argomenti,
vedi C. Marazzi, E il denaro va, cit., pagg. 98-103 Back
21. Per una critica
alla proposta Onofri e allattuale momento di sperimentazione di
un reddito minimo ad alcune famiglie "povere" di alcuni comuni italiani,
si rimanda a G. Procacci, La cittadinanza sociale di fronte alla crisi
del welfare, mimeo. Scrive G. Procacci: "La sperimentazione che la ministra
della solidarietà sociale ha presentato alle Regioni il 30 luglio 1998
riguarda 42 comuni, di cui solo 13 sono capoluoghi di provincia: ....
a cinquantamila famiglie verrà corrisposto un reddito mensile di L.
500.000 (6 milioni annui), contro limpegno in precisi programmi
di lavoro sociale, che i comuni dovranno presentare al ministero entro
il 30 ottobre 1998". Ricordiamo che la soglia di povertà definita dallIstat
è di L. 600.000 pro capite. Si tratta quindi di un reddito non minimo,
ma infimo e che va a coprire per due anni solo il 2% delle famiglie
povere (stimate in 2.245.000)! Back
22. In tale direzione
si muove anche la proposta di legge presentata in Parlamento dallonorevole
P. Cento il 12 febbraio 1998. Rispetto alla proposta Onofri, la proposta
Cento riguarda in particolare gli iscritti al collocamento e quindi
è di fatto una sorta di indennità di disoccupazione e/o di precariato.
Back
23. Si osservi
che i vari tentativi di introdurre un reddito minimo comunque richiede
la clausola dellimpegno da parte dei beneficiari di avviare un
progetto di ricerca per il reinserimento attivo tramite una prestazione
lavorativa. Si pensi a quella figura ibrida del "Contrat dinsertion
social" richiesto dalla legge del 19888 sul reddito minimo (Rmi) in
Francia. Al riguardo, I.Astier, Revenu minimum et souci dinsertion,
Paris, Desclée de Brower, 1997. Back
24. E questa
ad esempio la denominazione usata da J.Meade, sostenitore del reddito
di cittadinanza (pur in una visione neokeynesiana, funzionale allattuale
meccanismo di accumulazione). Cfr. J.Meade, Agathopia, Feltrinelli,
Milano, 1994. Back
25. Attualmente
al 31.12.1997, le entrate fiscali dello Stato ammontano a 182.608 miliardi
di Irpef, 44.231 di Irpeg, 24.308 di Ilor (oggi sostituita dallIrap),
a 36.548 di imposta sostitutiva sugli interessi (al momento dellacquisto
dei titoli di stato) e di soli 3.467 sugli utili distribuiti per un
totale di imposte dirette pari a 315.792. A livello di imposte indirette,
117.933 miliardi provengono dallIva e quasi 116.000 da varie imposte
(affari, bollo, Rai-Tv, tabacchi, imposte di fabbricazione varie, ecc.)
per un totale di 234.387 miliardi. Si tratta di un volume di entrate
che potrebbe essere modificato, ampliando limponibile delle rendite
e dei profitti tramite una riduzione delle aliquote sugli utili ed equiparando
lIrpeg allIrpef, auspicabilmente con un carico fiscale inferiore.
Il guadagno in termini fiscali dei possessori di titoli e degli imprenditori
finanziari e industriali verrebbe compensato dallinserimento nellimponibile
delle rendite finanziarie e dallintroduzione di una sorta di Tobin-tax
(vedi nota seguente). Back
26. La Tobin-tax
consisterebbe nellintroduzione di un aliquota molto bassa, nellordine
dello 0,02% - 0,05%, sui flussi finanziari destinati alla speculazione,
che transitano nelle mani delle società di intermediazione mobiliare,
dei fondi di investimento e delle aziende di credito per essere comprati
e venduti. Si tratterebbe, in altri termini, di una lievissima tassazioni
sugli scambi finanziari, quindi una sorta di imposizione indiretta di
tipo finanziario. Secondo i dati Banca dItalia, nel corso del
1997 sono stati scambiati titoli, prodotti derivati ("futures" e "hedge")
e fondi comuni nazionali ed esteri in Italia per un totale di 11.708.000
miliardi (quasi sei volte il Pil italiano) (dati Banca dItalia).
Con un calcolo molto approssimativo, lapplicazione di una aliquota
dello 0,02%, calcolata sull80% del valore di scambio porterebbe
unentrata annuale più o meno pari a 186.720 miliardi. Se si applicasse
unaliquota dello 0,05%, lintroito fiscale ammonterebbe a
466.800 miliardi di lire. Si noti che si tratta di transazioni registrate
interamente dalle società di intermediazioni e dalle banche e quindi
difficilmente eludibili. E evidente che una misura di questo deve
essere presa a livello comunitario e con riferimento anche ai mercati
anglosassoni. Ed è proprio in questa direzione che ad esempio si stanno
muovendo realtà autorganizzate in Europa a partire dalla Francia (ad
esempio, AC! (Action contre le chomage!)) incominciando dallultimo
marcia europea su Bruxelles. Back
27. Per movimenti
lordi di capitale finanziario si intende la somma degli acquisti e delle
vendite di titoli, fondi comuni e strumenti derivati, pari nel 1997
a circa 11.708.000 miliardi di lire. L80% corrisponde a L. 9.336.000
miliardi (dati Banca dItalia). Back
28. Con una battuta,
si potrebbe affermare che se negli anni Sessanta e Settanta, il peso
del lavoro era concentrato nella maggior parte dei casi allinterno
dellorario di lavoro (dalle 8 alle 17), oggi tale peso rimane
presente per tutto larco della giornata, anche nei cosidetti periodi
di riposo o nel mentre si beve un bicchiere di vino allosteria.
Back
29. In proposito
si veda la Tesi n.
6. Si tratta di costi che derivano dalla necessità che la riduzione
di orario sia drastica, immediata e repentina affinchè possa avere effetti
positivi sulloccupazione. Cfr. A.Fumagalli, Per una dibattito
serio sulla disoccupazione e sulla riduzione dellorario di lavoro,
in Economia e Politica Industriale, n. 85, 1995, pp. 249-267. Per unesame
della tematica della riduzione dellorario di lavoro, si rimanda
a Aa. Vv., Il giusto lavoro per un mondo giusto. Dalle 35 ore alla
qualità del tempo di vita, Edizioni Punto Rosso, Milano 1995. Back
30. Cfr. S.Bologna,
Orari di lavoro e postfordismo, in Aa. Vv., Il giusto lavoro per
un mondo giusto. Back
31. Su queste
tematiche, che dovrebbero essere affrontare in altra sede per lo spessore
teorico che comportano, si può rimandare, a livello esemplificativo,
al settore editoriale, nel quale larma dello sciopero risulta
più che mai spuntata ed inefficace. Cfr. C.Morini, Lavoro autonomo e
settore editoriale, in Altreragioni n. 4, 1995 e Lavoro autonomo e settore
editoriale: parabola di una professione, in S.Bologna-A.Fumagalli,
Il lavoro autonomo di II° generazione, cit. Per uninterpretazione
del ruolo dello sciopero nellera telematica (lo sciopero telematico),
cfr. Aa.Vv, Net Strike, No Copyright, ecc. Pratiche antagoniste nellera
telematica, AAA Edizioni, Bertiolo 1996. Back
32. Una visione
ottimistica che tende a intravvedere una sorta di neo-compromesso socialdemocratico
in una logica politica ancora pervasa dalla tradizionale dinamica fordista,
pur con linserimento di modalità organizzative della rappresentanza
di stampo nuovo (es.: i nuclei di autoorganizzazione), è ravvisabile
nella parte conclusiva del bel saggio di A. Bihr, Dallassalto
al cielo allalternativa: la crisi del movimento operaio europeo,
Biblioteca F. Serantini, Pisa 1995. Back
33. Per una discussione
abbozzata su questi temi, con riferimento anche allespereienza
maturati in altri periodi storici, cfr. S.Bologna, B.Cartosio, A.Fumagalli,
Il sapere delle lotte, Spray Edizioni, Milano 1996. Back
Queste pagine sono tratte da Isole nella Rete (pubblicato su un reddito un futuro)
e riorganizzate e sistemate per voi da senzasoldi.
Il documento di Andrea Fumagalli non e' coperto
da Copyright, in caso di utilizzo si prega di citarne l'autore e la
fonte / NB. Le tesi sono diventate 12 e pubblicate sul testo di Fumagalli
Tute bianche (vedi in giro).
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