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DIECI TESI SUL REDDITO DI CITTADINANZA
(parte1 - parte2)
di Andrea Fumagalli prima stesura settembre 1998
 

Tesi n. 6: Il reddito di cittadinanza é una misura di contropotere alle odierne forme di esclusione sociale, che mira all'autonomia soggettiva fondata sulla liberazione dalla coercizione al lavoro precario, coatto e predeterminato.

Negli anni '50 e '60, il lavoro rappresentava il passaporto principale per essere riconosciuti a tutti gli effetti cittadini e degni di godere dei diritti civili, era cioè la forma di inclusione sociale per eccellenza. Lo status sociale del fordismo era mediato dal tipo di lavoro svolto e dalla mansione attribuita. Se si accettavano le regole del potere disciplinare a livello economico, sociale e politico, allora veniva garantita la partecipazione al benessere economico, sulla cui base ne derivava il posizionamento sociale. Solo coloro che non si sottoponevano al regime disciplinare della famiglia, della scuola, della caserma e della fabbrica, rischiavano l'esclusione sociale. Il compromesso fordista tra capitale e lavoro, tramite il ruolo e lo sviluppo del "welfare state", garantiva così il soddisfacimento dei bisogni materiali primari in modo collettivo. Se l'inclusione sociale era un fenomeno collettivo, l'esclusione era invece una scelta individuale. La crisi dell'organizzazione fordista ed il venire meno del compromesso sociale che ne era sotteso porta allo svuotamento del "welfare state", al suo ridimensionamento e alla scomparsa dei meccanismi sociali (quindi collettivi e generali) di ammortizzamento delle disparità economiche. Il sopravvento dell'ideologia liberista implica la sovranità dell'individuo come unico agente in grado di provvedere alla propria inclusione e riconoscimento sociale, indipendentemente dalle condizioni date e di partenza. Se nel fordismo l'inclusione sociale era l'esito compromissorio di un conflitto collettivo economico di tipo redistributivo, nell'era dell'accumulazione flessibile essa è il frutto di una spietata competizione individuale. La differenza sostanziale è che oggi anche chi anela all'inclusione sociale, pur predisponendosi a sopportare ogni livello di subordinazione gerarchica, non sempre é in grado di raggiungere tale obiettivo. La stessa disponibilità al lavoro non garantisce più l'inclusione sociale: il fenomeno dei "working poor", ovvero di coloro, che pur lavorando, rimangono al di sotto della soglia di povertà, é un fenomeno dei nostri giorni che sarebbe stato inconcepibile e incompatibile con le forme della regolazione sociale dei tempi del fordismo (18). In questo contesto, il reddito di cittadinanza rappresenta una decisa inversione di rotta rispetto alle tendenze oggi dominanti. Si discuterà più oltre il grado di complementarietà e/o di sostituibilità con i servizi sociali del "welfare state" (cfr. tesi n. 8). Qui ci preme rammentare che il reddito di cittadinanza é strumento di inclusione sociale (e quindi di progresso civile) per due ragioni principali: da un lato garantisce nell'immediato le risorse materiale per consentire una vita dignitosa a tutti e quindi risolvere, pur limitatamente, l'aspetto della sopravvivenza primaria - non più oggetto di un intervento esterno -, dall'altro, risolvendo, per lo meno in parte, l'aspetto della sopravvivenza materiale (non della dipendenza culturale, economica, religiosa, ecc.), aumenta i gradi di autonomia dal ricatto del bisogno e quindi dalla necessità di sottostare a condizioni lavorative e/o di procacciamento di reddito al limite della schiavitù o illegali. Da questo punto di vista, il reddito di cittadinanza rappresenta un'arma potenziale (non effettiva) per lo sviluppo di conflittualità sociale e rivendicazioni economiche (vedi Tesi n. 10).
 

Tesi n. 7: Il reddito di cittadinanza non ha nulla a che vedere con il salario e con le caratteristiche del processo di accumulazione (da cui il salario dipende).

Questa tesi ripropone in parte alcune considerazioni già svolte nella presentazione della tesi n. 3. Tali osservazioni si basano sulle modalità con le quali avviene la distribuzione del reddito in un'economia capitalistica. Una breve premessa é al riguardo necessaria. Già si é avuto modo di ricordare che il processo economico capitalistico può essere efficacemente descritto da una sequenza di fasi economiche che definiscono un'economia monetaria di produzione: la separazione sul mercato del lavoro tra capitale, ovvero mezzi di produzione, e lavoro, ovvero forza-lavoro, necessita di uno scambio

propedeutico tra imprese e sistema bancario che anticipi la liquidità monetaria necessaria per acquistare forza-lavoro e avviare l'attività di produzione secondo le strategie di investimento unilateralmente decise dagli imprenditori. Il prezzo della forza-lavoro, cioè il salario, viene così determinato in termini nominali prima ancora che l'attività di produzione venga svolta e prima ancora che la stessa produzione venga valorizzata nella fase finale di circolazione e realizzazione del sovrappiù. Il profitto monetario è l'esito (residuale) del processo di valorizzazione della produzione, a cui viene sottratto una quota, destinata al pagamento degli interessi maturati dal sistema creditizio sull'anticipazione monetaria che ha dato avvio a tutto il processo. Ne consegue che il salario nominale viene fissato nella fase di apertura del processo economico mentre profitto e rendita si determinano nella fase di chiusura. La logica sequenziale, intrinsecamente dinamica, della produzione capitalistica non consente quindi una remunerazione simultanea dei fattori produttivi (come invece postulano le teorie neoliberiste) . In secondo luogo, occorre considerare che tale struttura sequenziale genera asimmetrie e gerarchie tra gli stessi fattori produttivi. Chi decide le modalità della produzione (quanto, come e il prezzo a cui produrre), ovvero gli imprenditori, determina anche il valore reale della distribuzione: in altre parole, il potere d'acquisto effettivo dei fattori produttivi che concorrono alla produzione. Tale esito è frutto dei rapporti conflittuali che si generano nel mercato creditizio e del lavoro, allorché si determina il prezzo della moneta-credito (interesse monetario) e il prezzo della forza-lavoro (salario monetario), con l'aggiunta che gli imprenditori, decidendo le tecniche di produzione, determinano anche i livelli di produttività e il valore della produzione. Il prezzo finale delle merci, infatti, non é altro che il risultato composito del livello di scambio sul mercato del lavoro e della moneta e del livello di produttività esistente, sulla base del grado di concorrenza esistente nel settore in cui si opera. Il compromesso fordista tra capitale industriale e lavoro si basava essenzialmente da un lato sulla determinazione di un salario monetario che tenesse conto anche dei guadagni di produttività in cambio di quella disciplina del lavoro che consentiva per l'appunto alla produttività di crescere a saggi costanti o crescenti e dall'altro da una garanzia di un livello di domanda aggregata, tramite il sostegno del settore pubblico, tale da garantire una ripartizione del surplus monetario tra profitti e interessi da soddisfare sia gli imprenditori che i banchieri (19). Con la crisi del fordismo, tale compromesso viene meno, non solo perché viene meno il ruolo del welfare state (che del patto fordista rappresentava il garante, attutendo gli eventuali "attriti") ma soprattutto perché i guadagni di produttività non vengono più ripartiti tra i fattori della produzione. Ciò dipende in buona parte dalle trasformazioni tecnologiche (resesi necessarie per recuperare la profittabilità del sistema produttivo e terziario alla fine degli anni '70) e dal peso crescente della cd. produzione immateriale: con la messa in opera dell'"intellettualità di massa" e il diffondersi delle tecnologie di linguaggio che ridefiniscono i rapporti tra progettazione, esecuzione e commercializzazione della produzione (potremmo dire tra lavoro manuale e lavoro intellettuale), la produttività del lavoro, sganciata dalla materialità della produzione, diventa sempre più difficile da misurare, diventa cioè "produttività sociale" (20). In tale contesto, la separazione tra salario e produttività é un dato di fatto. Se non é possibile determinare il salario sulla base della crescita di una produttività misurabile in termini individuali, si fa sempre più pressante l'esigenza che la distribuzione dei guadagni della produttività sociale avvenga per l'appunto a livello sociale. Parlare di distribuzione sociale del reddito significa allora ridistribuire il prodotto sociale simultaneamente tra i fattori produttivi, nella fase logica di chiusura del processo economico, indipendentemente dal livello del salario monetario. Reddito socialmente distribuito, ovvero reddito di cittadinanza, é quindi logicamente incompatibile con la nozione di salario.

Proprio sulla base della rettifica o meno di questa differenza, sono oggi sul tappeto tre idee di distribuzione sociale del reddito.

In primo luogo, occorre considerare le idee di reddito di cittadinanza che si presentano funzionali alla flessibilità del neo-modello di accumulazione. Esse nascono dalla necessità di dare una sorta di indennizzo - limitato e temporaneo - perché la struttura economica non garantisce un lavoro a tutti. Tale esigenza - a partire dagli anni '50 - ha trovato due modalità di esplicazione fra loro molto diverse seppur omogenee nel comprendere le esigenze di accumulazione a seconda della fase economica di riferimento: fordista o post-fordista.

La prima fa riferimento all'introduzione di un salario minimo garantito tramite la proposta di un'"imposizione negativa sul reddito": essa è funzionale al contenimento dello sviluppo del Welfare State ma nello stesso tempo contempla il perseguimento di un consumo di massa compatibile con la produzione in serie all'interno del modello fordista di accumulazione. Il salario minimo (che possiamo assimilare ad una sorta di indennità di disoccupazione), essendo in questo caso complementare all'attività lavorativa e di consumo, non può essere universale né illimitato nel tempo, ma esclusivamente rivolto a chi non ha un reddito minimo da lavoro, ovvero ai disoccupati. E' sulla discordanza relativa a questo aspetto che la versione neo-keynesiana del reddito di cittadinanza degli anni Novanta si differenzia dai precedenti storici (si veda la proposta della Commissione Onofri sulla riforma dello Stato Sociale e, in parte fatta propria, dal governo Prodi) (21). Sulla base del riconoscimento della fine del modello fordista e del fatto che la flessibilità e la precarizzazione dell'attività lavorativa non sempre consentono un reddito stabile e continuo per tutti, si propone un sostegno monetario, indipendentemente dalla condizione professionale vigente, come palliativo alla carenze strutturali del nuovo modello di accumulazione flessibile. In questo caso è più pertinente parlare di reddito minimo garantito piuttosto che di salario minimo garantito, perché le nuove e future condizioni del mercato del lavoro sanciscono maggiormente la differenza tra reddito da un lato e lavoro dall'altro. Tale reddito minimo verrebbe, non a caso, devoluto solo a chi è in età lavorativa e con un ammontare che varia in funzione dell'età stessa, con la clausola che il reddito di cui si disponga sia inferiore ad una determinata soglia ritenuta di povertà (22). In questo caso, la condizione professionale (in particolare se si è disoccupati o no) non è rilevante (23).

Con la nozione di reddito di cittadinanza, invece, si intende un intervento universale e illimitato nel tempo. Si tratta quindi di una nozione più allargata che interessata la società nel suo insieme e non solo coloro che si trovano in una situazione economicamente sfavorevole (vedi Tesi n. 1). A tale riguardo, si può parlare di "dividendo sociale" (24), intendendo con questo che esso è il frutto di una produzione sociale, che a livello macroeconomico, non prevede trattamenti differenziati.

Tesi n. 8: Il reddito di cittadinanza non é sostitutivo allo stato sociale, ma ne é complementare.

Un'obiezione molto comune al reddito di cittadinanza (anche all'interno delle forze della sinistra radicale) consiste nel ritenere che esista sostituibilità perfetta o quasi tra lo stesso reddito di cittadinanza ed erogazione di servizi sociali, favorendo in tal modo un approccio di tipo individualista a scapito di istanze di solidarietà collettiva e, implicitamente, uno smantellamento del "welfare state" tramite la monetizzazione dei servizi sociali di base.

La risposta può essere articolata su due livelli: teorico e pratico.

A livello teorico, é necessario osservare che, nel paradigma fordista, i servizi sociali venivano e vengono erogati sulla base di una contribuzione corrispondente alla prestazione lavorativa lungo tutto l'arco della vita lavorativa. I servizi sociali sono quindi una componente del salario dei lavoratori, é salario differito o di vita, oggetto dello scambio tra mondo del lavoro e l'organizzazione sociale (stato). In altri termini, i servizi sociali non sono reddito, cioè potere d'acquisto di merci reali e/o potenzialità di risparmio, bensì parte integrante della remunerazione del lavoro. Al contrario, quando si parla di reddito di cittadinanza si intende far riferimento al potere d'acquisto e alla domanda di beni e servizi solvibili ad esso associabili. Come già ampiamente ricordato (cfr. Tesi n. 3 e Tesi n. 7), esiste una differenza "stellare" tra reddito di cittadinanza e salario di cittadinanza nelle sue diverse forme (minimo, garantito, temporaneo, ecc.). Il primo è indipendente da qualsiasi prestazione lavorativa e relativa contribuzione sociale e/o fiscale e quindi non é assimilabile al concetto di "lavoro"; il secondo, invece, dipende in modo subordinata dall'esistenza in qualche modo di una prestazione lavorativa nel corso della durata complessiva dell'arco di vita.

Sulla base di queste osservazioni, l'erogazione dei servizi sociali e il reddito di cittadinanza non possono essere sostituti tra loro, bensì complementari. I primi hanno a che fare con la remunerazione del lavoro, il secondo con il potere d'acquisto di beni e servizi solvibili (cioè mercificabili, dotati di un prezzo e contrattati sulla base della proprietà privata).

Occorre tuttavia essere realisti e ricordare che sicuramente nel momento stesso in cui si propone il reddito di cittadinanza si chiederà come contropartita la monetizzazione dei servizi sociali e quindi la loro solvibilità all'interno del mercato privato. Tuttavia, il processo di privatizzazione dei servizi sociali si sta realizzando indipendentemente da qualsiasi richiesta di reddito di cittadinanza. La possibilità di opporsi a tale dinamica dipende dal potenziale di resistenza e di conflittualità che le forze antagoniste sono in grado di mettere in campo e non dalla messa sul tappeto della problematica di una redistribuzione sociale del reddito (intendendo con ciò il reddito di cittadinanza). Le politiche sociali della commissione Onofri vanno proprio in questa direzione: privatizzazione dei servizi sociali e, come contropartita, introduzione di una sorta di salario minimo a scalare nel tempo, limitato per fasce di età e solo per coloro che non arrivano a disporre di un certo livello di reddito pur essendo parte integrante della forza-lavoro (una sorta di sussidio di disoccupazione più che un salario minimo). Se esiste una capacità di resistenza contro la proposta di riforma della commissione Onofri, allora esisterà anche per impedire che la proposta del reddito di cittadinanza sia sostitutiva all'erogazione dei servizi sociali primari (istruzione, salute, casa, giustizia, ecc.). Purtroppo, il problema sta molto più a monte del reddito di cittadinanza.

Infatti, la capacità di organizzare capacità conflittuale si scontra la tendenza oggi in atto del predominio della contrattazione individuale sulla contrattazione collettiva. Si tratta di un processo di individualizzazione dei rapporti sociali ed economici (americanizzazione della società) che può avvenire grazie a:

* flessibilizzazione dei rapporti di produzione;

* scomposizione e frammentazione del mondo del lavoro e delle tipologie del lavoro;

* perdita di rilevanza del lavoro salariato e, parimenti, intensificazione della subordinazione del lavoro al capitale anche nelle mansioni più propriamente definite intellettuali nel fordismo (taylorizzazione del "general intellect").

Si possono sviluppare diversi momenti di conflittualità, ma nessuno di questi é in grado di inceppare il meccanismo di accumulazione. E' necessario un processo di ricomposizione delle diverse soggettività del lavoro, oggi scomposte e frammentate e troppo spesso in lotta fra loro. Tale ricomposizione non può basarsi solo sulle singole condizioni di lavoro, perché troppo diverse e non riconducibili ad un modello di organizzazione produttiva unico con una figura (soggettività) lavorativa dominante. In secondo luogo, il ricatto del bisogno e la subalternità diretta del lavoro che non viene mediata da forme di rappresentatività intermedia (crisi del sindacato) soprattutto in un ambito di contrattazione individuale, non consente che generici e demagogici richiami alla solidarietà di classe (quale classe, o meglio quale segmento di classe?) possano essere ascoltati. Un processo di ricomposizione sociale in questa fase così magmatica può avvenire lungo coordinate esterne alle modalità del processo produttivo ma che comunque lo delimitano e ne sono conseguenti: il reddito ed il tempo. Permettere una maggior disponibilità di reddito in un ambito di contrattazione individuale porta ad un maggior potere contrattuale perché meno dipendenti dal ricatto del bisogno e quindi più possibilità di incidere almeno parzialmente sulle proprie condizioni di lavoro (in primo luogo, il tempo di lavoro).

La questione viene dunque rovesciata. Non é il reddito di cittadinanza a favorire il processo di "individualizzazione" dei rapporti sociali e di produzione, bensì l'opposto. La possibilità di disporre di un reddito maturato al di fuori dei rapporti di lavoro e quindi sganciato dal "ricatto del bisogno" potrebbe, almeno da un punto di vista teorico, favorire lo sviluppo di forme di resistenza di conflittualità antagonista in quanto possibile elemento di ricomposizione sociale delle diverse soggettività oggi sparpagliate e impossibilitate a tradurre in lotta e conflitto sociale le proprie frustrazioni e alienazioni lavorative (si veda la Tesi n. 10 per ulteriori approfondimenti).

Infine occorre ricordare, che il reddito di cittadinanza può assumere diverse forme. Infatti, può essere erogato in modo esclusivamente monetario, se ciò non implica l'eliminazione dei servizi sociali primari (casa, salute, istruzione, trasporto, energia, ecc.), oppure, in parte, sotto forma di servizi reali supplementari (escludendo quelli primari), che consentono l'ottenimento in modo gratuito degli stessi servizi primari. In tal propositi, sarebbe auspicabile la possibilità di scelta in modo da rendere il reddito di cittadinanza più consone a esigenze individuali fra loro diverse.

A livello pratico, l'obiezione fondamentale riguarda le forme di finanziamento di un processo di redistribuzione sociale del reddito che sia complementare e parallelo al mantenimento del principio del "welfare state". Su questo aspetto si rimanda alla Tesi n. 9.
 

Tesi n. 9: Il reddito di cittadinanza crea le basi per il suo stesso finanziamento

L'attuale organizzazione sociale post-fordista, ovvero di accumulazione flessibile, é incentrata da un lato su un paradigma tecno-lavorativo che privilegia l'individualizzazione dei rapporti di lavoro, lo sviluppo di produzione immateriale come componente sempre più essenziale di generazione del sovrappiù tramite forti guadagni di produttività sociale non ridistribuiti (o meglio trattenuti dai soli profitti e rendite), dall'altro su livelli di incertezza crescenti con orizzonti temporali di decisione molto brevi e mutevoli nonché di strumenti di valorizzazione che si muovono su scala mondiale, al di fuori degli stretti ambiti nazionali. In altre parole, sul piano dei rapporti di lavoro si assiste ad una frammentazione e scomposizione crescente che porta ad una precarizzazione dell'attività lavorativa stessa e a ridefinire i rapporti tra lavoro salariato, lavoro a prestazione e lavoro coatto, mentre sul piano della produzione e del suo finanziamento si assiste a processi di concentrazione e di omogeneizzazione all'interno di macroaree sovranazionali strategiche, grazie ai nuovi strumenti finanziari e allo sviluppo del mercato internazionale dei capitali.

In un simile contesto, la possibilità di attivare politiche economiche nazionali, soprattutto dal lato fiscale (dal momento che dal lato monetario si é già verificata un'espropriazione dell'autonomia delle singole banche centrali, sempre più subordinate o ad accordi sovranazionali - come quello di Maastricht - o agli organismi internazionali che incidono sui mercati finanziari), risulta molto ridotta. Ciò non toglie che proprio l'esigenza di armonizzare realtà fiscali differenti in un contesto come quello disegnato dall'Unione Monetaria Europea possa risultare particolarmente utile per la specifica realtà italiana.

In primo luogo è necessario fare alcune analisi quantitative per aver ben in chiaro l'entità della massa monetaria necessaria per avviare una politica di reddito di cittadinanza.. A tal fine immaginiamo di trovarci di fronte a tre scenari, supponendo (punto tutto da discutere ancora e che richiederebbe un'analisi a parte) che l'entità del reddito di cittadinanza corrisponda a L. 1.000.000 al mese (per un totale di 12 milioni all'anno). Il primo è quello che fa riferimento all'analisi teorica di queste note, ovvero l'idea di un reddito di cittadinanza uguale per tutti, dato a tutti coloro che hanno più di 15 anni di età, e la cui introduzione è immediata e non graduale nel tempo.(vedi Tesi n. 1). In questa prospettiva, gli ultimi dati statistici, relativi alla fine del 1997, ci dicono che la popolazione italiana con un'età superiore ai 15 anni ammonta a circa 48 milioni di persone. Per garantire a tutti costoro un reddito garantito di un milione di lire al mese, lo stato dovrebbe avere a disposizione 576.000 miliardi di lire, vale a dire il 29,5% del Pil prodotto nello stesso anno oppure il 60,5% del totale delle entrate dell'Amministrazione pubblica. Il secondo scenario che ipotizziamo è un'idea di reddito di cittadinanza, che all'inizio, non contempla tutto coloro che già usufruiscono un reddito pensionistico superiore a due milioni mensili. Secondo i dati del Ministero del Tesoro, il numero delle pensioni al 31.12.1996 era di 9.962.072 (sono circa 9.839.000 coloro che hanno più di 65 anni di età) per una spesa totale di L.105.000 miliardi circa, per un'erogazione media di circa L. 1.054.000 al mese. Secondo i dati Inps, il 36,8% delle pensioni è superiore al milione di lire mensili, per un totale di circa 3,670 milioni di persone. Se escludiamo tale quota, il reddito di cittadinanza dovrebbe riguardare 45,1 milioni di individui per un ammontare di spesa pari a L. 541.000 miliardi. Infine, sempre come scenario ipotetico, possiamo immaginare un'introduzione graduale del reddito di cittadinanza inizialmente riservata per tutti coloro che hanno un reddito annuo inferiore ai 50 milioni di lire lordi, per poi estenderlo negli anni seguenti a tutti. Si tratta di una quota di popolazione intorno al 70% (dato ancora da verificare), il che ridurrebbe il numero dei beneficiari del reddito di cittadinanza a 34,1 milioni di persone, per una spesa complessiva di L. 409.000 miliardi.

Tre sono infatti gli aspetti che ci interessano analizzare ai fini della questione del finanziamento del reddito di cittadinanza.

1. La proposta di reddito di cittadinanza si inserisce in un processo di riforma fiscale dello stato, basato sui seguenti punti principali:

  • tassazione di tutti i redditi indipendentemente dai cespiti tramite un'unica imposizione fortemente progressiva sui redditi ma con aliquote minori di quelle attuali (da lavoro, da impresa, da capitale ==> salari, profitti (utili), rendite finanziarie private e pubbliche);
  • riduzione delle aliquote Irpeg al pari di quelle Irpef e introduzione di una patrimoniale delle imprese (tassa sul capitale): riforma della contribuzione sociale, procedendo all'eliminazione della fiscalizzazione degli oneri sociali in cambio di una riduzione dei versamenti ed equiparazione tra lavoro salariato e lavoro autonomo eterodiretto (con obbligo di partecipazione anche dei committenti) (25):
  • prevalenza dell'imposizione diretta su quella indiretta;
  • semplificazione del sistema fiscale e controlli incrociati per quanto riguarda i servizi al consumo onde minimizzare l'evasione fiscale.
  • introduzione di una sorta di "Tobin-tax" sulle transazioni finanziarie di tipo speculative intermediate dalle istituzioni finanziarie (banche e Sim), sia nazionali che internazionali (26);
  • mantenimento e/o introduzione di una patrimoniale sulle ricchezze mobiliari e immobiliari (con l'esclusione della prima casa).

Sul lato delle spese é necessario procedere ad una semplificazione del bilancio pubblico: mantenimento ed allargamento delle spese sociali, riduzione delle spese militari e di difesa e di ordine pubblico (l'unica voce in forte crescita negli ultimi anni), eliminazione dei sostegni ed agevolazioni economiche alle imprese. Occorre tenere presente che una seria politica di riduzione della disoccupazione (tramite riduzione d'orario) e una politica di sostegno della domanda (reddito di cittadinanza), pur rivelandosi strumenti di riformismo radicale, hanno un duplice effetto sul bilancio pubblico: riduzione degli oneri della disoccupazione (soprattutto indiretti, in termini di cassa integrazione, lista di mobilità, prepensionamenti, agevolazioni alle imprese - cfr. rottamazione - ecc.), oggi ammontanti a circa 24.000 miliardi all'anno in modo diretto e a circa 40.000 miliardi in modo indiretto (prepensionamenti calcolati sull'arco della durata media di vita, ecc.) e quindi riduzione dei costi del settore pubblico (gli unici costi che i padroni si guardano bene dal citare), da un lato, e incremento delle entrate fiscali, in seguito all'accresciuta domanda interna, dall'altro (un aumento di un punto percentuale di domanda, significa un aumento dell'1,3% del Pil - a parità di condizioni - e un incremento fiscale dello 0,6%, pari a circa 15.000 miliardi all'anno). Infine, occorre ricordare che la spesa assistenziale pubblica in Italia alla fine del 1996 ammontava a 30.857 miliardi di lire, costituita per il 61,8% da trasferimenti a nuclei meritevoli (invalidi, cechi, mutilati, ecc.), per il 20% da trasferimenti in denaro e natura per la generalità dei poveri.

2. E' necessario riprendere la questione della redistribuzione dei guadagni di produttività, indotti dalle trasformazioni tecnologiche e oggi ad esclusivo appannaggio del profitto e della rendita e non del lavoro. Al riguardo occorre considerare che i tassi di crescita della produttività sono oggi di gran lunga molto più elevati di quanto le statistiche non dicano. Infatti, le statistiche ufficiali misurano i guadagni di produttività in termini necessariamente materiali (numero di pezzi, ore lavorate, ecc.) senza tenere conto che a tale produttività occorre aggiungere un'altra produttività - di tipo immateriale - indotta dall'attività intellettuale applicata alla produzione. E' tale produttività altra che in molte produzione costituisce una quota rilevante del valore aggiunto, che spesso non viene presa in considerazione. Ed é tale valore aggiunto che deve costituire la base imponibile dal quale detrarre i fondi per il finanziamento del reddito di cittadinanza.. Se la quota dell'1% sulla produzione dei beni e servizi destinabili alla vendita venisse devoluta per finanziare il reddito di cittadinanza, verrebbe messa a disposizione una cifra. pari, a fine 1997, a circa 20.000 miliardi di lire.


TAB. 1: COSTI E FINANZIAMENTO DI UNA POLITICA DI REDDITO DI CITTADINANZA (IN MILIARDI DI LIRE)


  Costi  

Finanziamento

 
Scenario 1

576.000

1. Risparmi su assistenza poveri

30.000

 

 

 

2. Risparmi su spese CIG

24.000

 

Scenario 2

514.000

3. Tobin Tax (con 20% di elusione) su movimenti lordi di capitale finanziario (27)

186.720 (aliquota 0,02%)

466. 800 (aliquota 0,05%)

Scenario 3

409.000

4. Interventi sull'Irpef e sull'Irpeg e patrimoniale

30.000

 

 

 

5. Risparmi su spese previdenziali 

40.000

 

 

 

6. Tassa dell'1% sulla produttività

20.000

 

 

 

7. Totale entrate

330.720

610.800


Nota: Scenario 1: R.C. di L. 12 milioni annui a tutti coloro con più di 15 anni;

Scenario n. 2: R.C. di L. 12 milioni annui a tutti coloro con più di 15 anni, escluso coloro che godono di pensioni superiori ai 2 milioni;

Scenario n. 3: R.C. di L. 12 milioni annui a tutti coloro con più di 15 anni ma con reddito individuale inferiore ai 50 milioni lordi annui.
 

3. Infine occorre ricordare che in un contesto di accresciuta incertezza e instabilità economica e finanziaria l'esistenza di un reddito di cittadinanza garantisce maggior stabilità dal lato della domanda, favorendo una continuità nell'attività di consumo privato, permettendo così una programmazione a più lungo termine delle scelte di investimento delle imprese e, in ultima analisi, un aumento delle entrate fiscali.

Sommando, in conclusione, tutte le fonti di finanziamento (al netto di qualunque modifica delle aliquote della tassazione ma con l'aggiunto della Tobin-tax con aliquote che vanno dallo 0.01% allo 0,05% e la tassazione dell'1% della produttività), si avrebbe a disposizione una cifra che può variare dai 237.000 ai 610.000 miliardi (vedi Tab. 1). Credo che rappresenti nella pratica una base più che consistente per ragionare di reddito di cittadinanza.

Tesi n. 10: Il reddito di cittadinanza é strumento di ricomposizione sociale e di coscienza conflittuale in presenza di contrattazione individuale.

Se nel processo di produzione fordista, l'omogeneizzazione della forza-lavoro era una necessità per lo sfruttamento delle economie statiche di scala e un effetto dell'adozione di tecnologie ripetitive meccaniche, le forme della rappresentanza nascevano direttamente dall'analisi delle condizioni soggettive di lavoro. La soggettività operaia del fordismo - così come è stata analizzata dai Quaderni Rossi - era tutta contenuta all'interno del rapporto uomo-macchina, esemplificato dalla linea di montaggio. Tale rapporto determinava in subordine le condizioni di vita e di riproduzione della forza-lavoro. Nel paradigma dell'accumulazione flessibile, non è possibile individuare un'unica soggettività operaia, bensì una pluralità di soggettività, a cui corrispondono stilemi e modelli di comportamento non massificabili. Il processo di ricomposizione sociale non può quindi basarsi esclusivamente sulle condizioni di lavoro soggettive. Paradossalmente, nel paradigma dell'accumulazione flessibile, i livelli di subordinazione e di intensificazione dello sfruttamento (sia in termini di tempo di lavoro che in termini di remunerazione del lavoro) sono maggiori e più pervasivi di quelli che operavano nella logica fordista, ma nello stesso tempo più diversificati e indiretti (28). In un simile contesto un processo di ricomposizione di queste diverse soggettività può quindi verificarsi solo partendo da aspetti che non siano direttamente riconducibili alle diverse esperienze di lavoro. In alte parole, il comune denominatore che possa legare insieme realtà soggettive di lavoro fra loro divergenti e spesso in contrapposizione deve far riferimento a situazioni soggettive esterne all'ambito lavorativo e non riducibili ad un momento puramente corporativo.

Nel paradigma dell'accumulazione flessibile, due sono i gli aspetti che esulano dalle condizioni soggettive della propria attività lavorativa ma che ne dipendono in modo diretto: il reddito, da un lato e il controllo sul proprio tempo di lavoro, dall'altro. Questi due aspetti sono trasversali alle diverse tipologie di lavoro oggi esistenti (si tratti di lavoro autonomo o lavoro dipendente) in quanto figlie del processo di flessibilizzazione del meccanismo di accumulazione: lo sganciamento della remunerazione del lavoro dai guadagni di produttività e la rottura del nesso produzione-occupazione (con conseguente incremento dei livelli di disoccupazione). Questi due aspetti si traducono nella pratica politica quotidiana nella richiesta di una distribuzione sociale del reddito e di una riduzione dell'orario di lavoro. Si tratta di due aspetti fra loro complementari e imprescindibili l'uno dall'altro, nel senso che l'esistenza di una distribuzione sociale del reddito (reddito di cittadinanza) può consentire una riduzione dell'orario di lavoro a parità di remunerazione senza che i costi ad essa associati ricadendo sulla fiscalità generale siano imputabili ad unico soggetto economico (imprese, lavoratori, ecc.) (29). In particolare il reddito di cittadinanza appare come uno strumento trasversale di ricomposizione sociale del lavoro assai più generale di quanto non appaia la riduzione dell'orario di lavoro come forma di controllo del proprio tempo di vita. Infatti, se la riduzione dell'orario di lavoro è un aspetto tutto all'interno della categoria degli occupati, il reddito di cittadinanza riveste una funzione sociale, più allargata, riferita a tutta la popolazione. Al riguardo occorre notare che da ormai una decina d'anni è ben presente all'interno del mercato del lavoro flessibile la tendenza all'allungamento della giornata lavorativa, non solo all'interno del segmento degli occupati dipendenti (in seguito al massiccio ricorso degli straordinari), ma soprattutto all'interno di della categoria dei lavoratori autonomi eterodiretti (30). Tali lavoratori, per definizione, in quanto autonomi e imprenditori di se stessi, non sono soggetti ad una regolazione dei tempi di lavoro. Di conseguenza. la sola riduzione dell'orario di lavoro rischia di diventare elemento di dualismo tra lavoratori formalmente con diverso statuto giuridico, ma sostanzialmente all'interno del medesimo modello di produzione. La flessibilizzazione e la precarizzazione del lavoro passa proprio tramite la segmentazione e la scomposizione del mercato del lavoro. Da questo punto di vista, la tematica del reddito di cittadinanza può svolgere un importante funzione strategica di elemento unificatore e di fattore di ricomposizione delle diverse forme di erogazione di lavoro, proprio perchè tematica non interna alla logica dell'accumulazione. Più in particolare, il reddito di cittadinanza può diventare l'obiettivo politico ed economico che non solo consente la riduzione dell'orario di lavoro ma diventa strumento di omogeneizzazione delle seguenti tre categorie di lavoro: la categoria dei disoccupati, perché con il reddito di cittadinanza, oltre a garantire loro un potere d'acquisto immediato senza necessariamente ricorrere a redditività illegali, sanno che può essere praticabile una riduzione d'orario che offra loro uno sbocco professionale; la categoria dei lavoratori autonomi e precari, in parte espulsi dai processi produttivi fordisti, che tramite un reddito di cittadinanza, possono attuare una riduzione della loro attività lavorativa senza che ciò comporti necessariamente una riduzione del proprio reddito, oltre ad offrire loro una maggiore capacità contrattuale non soggetta al ricatto della necessità di lavoro; quella degli occupati dipendenti, che possono ottenere una riduzione dell'orario di lavoro che comporti un miglioramento della qualità della propria vita. Come si vede, la tematica del reddito di cittadinanza rappresenta un potente fattore di ricomposizione sociale assimilabile al fattore dell'identità territoriale per alcune tipologie di lavoro del Nord-Italia.

Il diffondersi del linguaggio come strumento di produzione e la diffusione di elementi immateriali nel processo lavorativo ridefinisce totalmente i tradizionali rapporti tra lavoro manuale e lavoro intellettuale, svuotando questi concetti di molta parte del loro significato storico, indipendentemente dalla forma di erogazione della prestazione lavorativa (autonoma o dipendente). La meccanizzazione dell'attività intellettuale, che si manifesta tramite una sua crescente precarizzazione da un lato e nuove forme di elitismo corporativo (vedi istruzione universitaria) dall'altro, pone come imprescindibile (altra condizione preliminare per discutere di trasformazioni sociali) la questione culturale come problema sociale. Il decrescente livello culturale medio è infatti un utile strumento per la costituzione di una sorta di dittatura dell'informazione e dello stereotipo. Senza entrare nel merito dell'argomento, che richiederebbe ben altro spazio, è sufficiente notare che le condizioni di flessibilità e precariato lavorativo imposte nella maggior parte dei casi impedisce qualsiasi processo di presa di coscienza e di analisi delle proprie condizioni soggettive individuali. Lo sviluppo della contrattazione individuale al posto della contrattazione collettiva non consente all'interno di una produzione diffusa sul territorio e non in unico luogo la percezione della propria condizione soggettiva. Il reddito di cittadinanza può svolgere anche su questo versamento un ruolo decisivo di collettore di coscienze.

Da un punto di vista teorico, dunque, è possibile pensare a strumenti di ricomposizione sociale che si esplichino anche sul piano dei diversi conflitti individuali o settoriali. Tuttavia ciò non scioglie la contraddizione delle modalità politiche attraverso cui il conflitto (se di ciò si tratta) si possa esplicare sul piano pratico ed effettivo. Ad esempio, nel contesto del paradigma dell'accumulazione flessibile, forme di conflitto uniformi ed omogenee come quelle rappresentate dallo sciopero, vedono diminuire la propria incisività, se non sono strettamente riferite ad unica tipologia di lavoro, sia a livello settoriale che di mansione. Appena lo sciopero diventa uno strumento di conflitto più generale, tende a perdere di efficacia, tanto più il contesto economico è frammentato e scomposto (31). Ammesso (ma non concesso) che fattori di ricomposizione trasversale delle soggettività e delle mentalità dei diversi segmenti del lavoro (soprattutto autonomo) possano avere luogo sulla base delle parole d'ordine del reddito e del controllo del tempo, rimane del tutto irrisolto il problema della definizione sia del soggetto politico che fa pone le richieste che del soggetto politico che dovrebbe accoglierle. Nella logica della rappresentanza fordista, si tratterebbe da un lato di individuare una forma di sindacato e/o di associazione e dall'altro di ripristinare il ruolo dello stato come luogo di attuazione autonoma delle politiche fiscali necessarie per l'introduzione dell'eventuale reddito di cittadinanza (32). Tuttavia, riproporre forme di rappresentanza superate dalla dinamica strutturale dei processi produttivi sarebbe, oltre che contraddittorio, foriero di illusioni e di confusione. Di deve però riconoscere che al momento non si intravedono nuovi modelli di rappresentanza in grado di cogliere i molteplici aspetti del mondo del lavoro e di farsi portavoce delle diverse istanze oggi presenti. Un aiuto in tal senso potrebbe essere fornito non dalla creazione di nuove forme di rappresentanza, bensì dalla costituzione di luoghi fisici e liberati di incontro delle diversificate esperienze lavorative. Dai Centri Sociali Autogestiti alle associazioni negli ultimi anni si è assistito ad un fiorire di iniziative e di di strutture aggreganti fondate sul volontariato o su forme di mutuo soccorso (33). E' questa la sfida che rimane ancora aperta, nella quale sono riposte le sempre più incessanti domanda di cambiamento e alla quale non siamo finora in grado di offrire una risposta soddisfacente.

Note

1. Per una veloce carrellata di dati, si rimanda all'articolo di J.Vincour, su International Herald Tribune del 15 e 16 ottobre 1997. La fonte, insospettabile, afferma che "a proposito di realtà scomode, in maggio (del 1997) l'Eurostat ha reso noto che (al 1993 ndr.) 57 milioni di europei, il 17% della popolazione dell'Unione Europea, vive in condizioni di povertà. Negli Stati Uniti i poveri sono il 13,7%. In Francia le famiglie povere sono il 16% e in Germania il 13%, il 29% in Portogallo e il 24% in Grecia (in Italia, il dato è del 18%, ndr.). All'agosto 1997, secondo le stime ufficiali, i disoccupati dell'Ue erano 17,9 milioni. Forse perché i dati Eurostat si riferiscono al 1993 (…), o perché i governi si sentono poco responsabili per cifre di quattro anni fa, fatto sta che la pubblicazione delle statistiche dell'Eurostat ha prodotto pochissima indignazione e scarse reazioni politiche. Oggi l'orgoglio con cui i paesi europei sono convinti di aver smussato per sempre le spigolosità del capitalismo, e di essere veramente riusciti a distribuire la ricchezza nazionale, sembra più che mai un'illusione" (tratto dall'articolo: Poverty grows Quietly Along With Wealth, trad. di B.Tortorella). Back

2. Contro il pensiero unico, si veda i periodici scritti di I. Ramonet su "Le Monde Diplomatique". Back

3. Si ricordano qui solo i principali testi: in Francia, tra i molti, si vedano, oltre agli articoli su Futur Anterieur, gli ultimi testi di A.Gorz, Misere du present, richesse du possible, Galilee, 1997 e di R. Castel, Les Métamorphoses de la question sociale, Fayard, Paris, 1996; in Italia, gli scritti sul General Intellect (fra i tanti, M.Lazzarato, Lavoro immateriale, OmbreCorte, Verona, 1997 e M.Hardt-T.Negri, Il lavoro di Dioniso, Manifestolibri, Roma, 1996), sul lavoro autonomo di II° generazione (S.Bologna-A.Fumagalli, Il lavoro autonomo di II° generazione, Feltrinelli, Milano, 1997), sulle mutazioni sociali e finanziarie (C.Marazzi, Il posto dei Calzini, Casagrande, Bellinzona, 1994 e Il denaro va, Bollati Boringhieri, Torino, 1998). Occorre infine ricordare le riviste che maggiormente trattano di questi argomenti nell'area dell'antagonismo sociale, (Altreragioni, Derive&Approdi, Futuro Anteriore, Intermarx, ecc.) Back

4. Su questo tema, mi permetto di rimandare a A. Fumagalli, Pensiero economico, accumulazione flessibile e reddito di cittadinanza, in Aa.Vv., La democrazia del reddito universale, Manifestolibri, Roma 1997. Back

5. Al fine di essere il più possibile espliciti, è necessario precisare che anche la famiglia Agnelli dovrebbe godere del reddito di cittadinanza. Back

6. Per un'analisi più approfondita, si rimanda a B. Coriat, L'atelier et le robot, Christian Bourgois, Paris, 1994. Back

7. Su questo tema, credo che sia ancora illuminante il saggio scritto quasi 60 anni fa, da M.Kalecki, Gli aspetti politici della piena occupazione, 1939. Back

8. In effetti, in Italia, l'attuale politica economica perseguita dal governo di centro-sinistra con l'appoggio del sindacato confederale, denominata "riformista", non porta altro che alla totale subordinazione alle esigenze di compatibilità economiche del capitale stesso Back

9. E' questa ad esempio la critica fatta da G.Mazzetti, Quel pane da spartire, Bollati Boringhieri, Torino, 1996. Back

10. Al riguardo, si rimanda alle pagine introduttive dell'ultimo saggio di A.Gorz, Misères du prèsent, richesse du possible, cit. Back

11. Il riferimento immediato è al genero di Marx, P.Lafargue, Il diritto all'ozio, 1887. Back

12. Un esempio, in tal senso, è rappresentato dalle cd. "poor laws" inglesi della seconda metà del ‘700. Per un approfondimento, si rimanda a A. Fumagalli, Pensiero economico, accumulazione flessibile ...., cit. Back

13. La destinazione dei profitti a attività di investimento piuttosto che all’acquisto di beni di lusso o di consumo ha avuto un ruolo molto importante nel secolo scorso per finanziare il processo di accumulazione, sino al punto di far ritenere a livello teorico che è il risparmio a generare l’investimento. Tale credenza, ancora oggi al centro dell’insegnamento accademico in quasi tutte le università occidentali, era stata in modo definitivo confutata da Keynes nella Teoria Generale. Back

14. Il riferimento è alla regola d’oro della distribuzione fordista che lega la dinamica del salario reale a quella della produttività, ovvero tecnologia e domanda di beni. Back

15. Su questa opzione alternativa, si veda M.Revelli, La sinistra sociale, Bollati Boringhieri, Torino, 1997. Back

16. Su questo punto e sulla definizione di lavori concreti, si rimanda a G.Lunghini, L’economia dello spreco, Bollati Boringhieri, Torino, 1996. Back

17. Su questa tematica, si veda K.Marx, Lineamenti di critica all’economia politica (Grundrisse), in particolare quaderno 2. Back

18. Il fenomeno dei working poor nasce negli Usa di Reagan nel corso degli anni ‘80. Oggi si sta diffondendo anche in Europa. In Italia, le ultime statistiche ci dicono che le famiglie al di sotto della soglia di povertà (600.000 lire pro capite, meno della metà del reddito medio) ammontano a 2.245.000. L’aumento della povertà è particolarmente elevato tra i lavoratori dipendenti che da una quota dell’8,4% del 1996 sono passati al 9,7% del 1997. Nella stessa direzione va l’aumento della povertà tra i giovani capofamiglia fino a 35 anni: dal 10,1% del 1996 all’11% del 1997. Al riguardo si veda G.Procacci, La cittadinanza sociale di fronte alla crisi del welfare, mimeo e Commissione Povertà, Rapporto 1997. Back

19. Sull’evoluzione dei rapporti tra sistema bancario e capitale industriale agli albori del fordismo, ancora illuminante è il contributo di Hilferding. Back

20. Su tali argomenti, vedi C. Marazzi, E il denaro va, cit., pagg. 98-103 Back

21. Per una critica alla proposta Onofri e all’attuale momento di sperimentazione di un reddito minimo ad alcune famiglie "povere" di alcuni comuni italiani, si rimanda a G. Procacci, La cittadinanza sociale di fronte alla crisi del welfare, mimeo. Scrive G. Procacci: "La sperimentazione che la ministra della solidarietà sociale ha presentato alle Regioni il 30 luglio 1998 riguarda 42 comuni, di cui solo 13 sono capoluoghi di provincia: .... a cinquantamila famiglie verrà corrisposto un reddito mensile di L. 500.000 (6 milioni annui), contro l’impegno in precisi programmi di lavoro sociale, che i comuni dovranno presentare al ministero entro il 30 ottobre 1998". Ricordiamo che la soglia di povertà definita dall’Istat è di L. 600.000 pro capite. Si tratta quindi di un reddito non minimo, ma infimo e che va a coprire per due anni solo il 2% delle famiglie povere (stimate in 2.245.000)! Back

22. In tale direzione si muove anche la proposta di legge presentata in Parlamento dall’onorevole P. Cento il 12 febbraio 1998. Rispetto alla proposta Onofri, la proposta Cento riguarda in particolare gli iscritti al collocamento e quindi è di fatto una sorta di indennità di disoccupazione e/o di precariato. Back

23. Si osservi che i vari tentativi di introdurre un reddito minimo comunque richiede la clausola dell’impegno da parte dei beneficiari di avviare un progetto di ricerca per il reinserimento attivo tramite una prestazione lavorativa. Si pensi a quella figura ibrida del "Contrat d’insertion social" richiesto dalla legge del 19888 sul reddito minimo (Rmi) in Francia. Al riguardo, I.Astier, Revenu minimum et souci d’insertion, Paris, Desclée de Brower, 1997. Back

24. E’ questa ad esempio la denominazione usata da J.Meade, sostenitore del reddito di cittadinanza (pur in una visione neokeynesiana, funzionale all’attuale meccanismo di accumulazione). Cfr. J.Meade, Agathopia, Feltrinelli, Milano, 1994. Back

25. Attualmente al 31.12.1997, le entrate fiscali dello Stato ammontano a 182.608 miliardi di Irpef, 44.231 di Irpeg, 24.308 di Ilor (oggi sostituita dall’Irap), a 36.548 di imposta sostitutiva sugli interessi (al momento dell’acquisto dei titoli di stato) e di soli 3.467 sugli utili distribuiti per un totale di imposte dirette pari a 315.792. A livello di imposte indirette, 117.933 miliardi provengono dall’Iva e quasi 116.000 da varie imposte (affari, bollo, Rai-Tv, tabacchi, imposte di fabbricazione varie, ecc.) per un totale di 234.387 miliardi. Si tratta di un volume di entrate che potrebbe essere modificato, ampliando l’imponibile delle rendite e dei profitti tramite una riduzione delle aliquote sugli utili ed equiparando l’Irpeg all’Irpef, auspicabilmente con un carico fiscale inferiore. Il guadagno in termini fiscali dei possessori di titoli e degli imprenditori finanziari e industriali verrebbe compensato dall’inserimento nell’imponibile delle rendite finanziarie e dall’introduzione di una sorta di Tobin-tax (vedi nota seguente). Back

26. La Tobin-tax consisterebbe nell’introduzione di un aliquota molto bassa, nell’ordine dello 0,02% - 0,05%, sui flussi finanziari destinati alla speculazione, che transitano nelle mani delle società di intermediazione mobiliare, dei fondi di investimento e delle aziende di credito per essere comprati e venduti. Si tratterebbe, in altri termini, di una lievissima tassazioni sugli scambi finanziari, quindi una sorta di imposizione indiretta di tipo finanziario. Secondo i dati Banca d’Italia, nel corso del 1997 sono stati scambiati titoli, prodotti derivati ("futures" e "hedge") e fondi comuni nazionali ed esteri in Italia per un totale di 11.708.000 miliardi (quasi sei volte il Pil italiano) (dati Banca d’Italia). Con un calcolo molto approssimativo, l’applicazione di una aliquota dello 0,02%, calcolata sull’80% del valore di scambio porterebbe un’entrata annuale più o meno pari a 186.720 miliardi. Se si applicasse un’aliquota dello 0,05%, l’introito fiscale ammonterebbe a 466.800 miliardi di lire. Si noti che si tratta di transazioni registrate interamente dalle società di intermediazioni e dalle banche e quindi difficilmente eludibili. E’ evidente che una misura di questo deve essere presa a livello comunitario e con riferimento anche ai mercati anglosassoni. Ed è proprio in questa direzione che ad esempio si stanno muovendo realtà autorganizzate in Europa a partire dalla Francia (ad esempio, AC! (Action contre le chomage!)) incominciando dall’ultimo marcia europea su Bruxelles. Back

27. Per movimenti lordi di capitale finanziario si intende la somma degli acquisti e delle vendite di titoli, fondi comuni e strumenti derivati, pari nel 1997 a circa 11.708.000 miliardi di lire. L’80% corrisponde a L. 9.336.000 miliardi (dati Banca d’Italia). Back

28. Con una battuta, si potrebbe affermare che se negli anni Sessanta e Settanta, il peso del lavoro era concentrato nella maggior parte dei casi all’interno dell’orario di lavoro (dalle 8 alle 17), oggi tale peso rimane presente per tutto l’arco della giornata, anche nei cosidetti periodi di riposo o nel mentre si beve un bicchiere di vino all’osteria. Back

29. In proposito si veda la Tesi n. 6. Si tratta di costi che derivano dalla necessità che la riduzione di orario sia drastica, immediata e repentina affinchè possa avere effetti positivi sull’occupazione. Cfr. A.Fumagalli, Per una dibattito serio sulla disoccupazione e sulla riduzione dell’orario di lavoro, in Economia e Politica Industriale, n. 85, 1995, pp. 249-267. Per un’esame della tematica della riduzione dell’orario di lavoro, si rimanda a Aa. Vv., Il giusto lavoro per un mondo giusto. Dalle 35 ore alla qualità del tempo di vita, Edizioni Punto Rosso, Milano 1995. Back

30. Cfr. S.Bologna, Orari di lavoro e postfordismo, in Aa. Vv., Il giusto lavoro per un mondo giusto. Back

31. Su queste tematiche, che dovrebbero essere affrontare in altra sede per lo spessore teorico che comportano, si può rimandare, a livello esemplificativo, al settore editoriale, nel quale l’arma dello sciopero risulta più che mai spuntata ed inefficace. Cfr. C.Morini, Lavoro autonomo e settore editoriale, in Altreragioni n. 4, 1995 e Lavoro autonomo e settore editoriale: parabola di una professione, in S.Bologna-A.Fumagalli, Il lavoro autonomo di II° generazione, cit. Per un’interpretazione del ruolo dello sciopero nell’era telematica (lo sciopero telematico), cfr. Aa.Vv, Net Strike, No Copyright, ecc. Pratiche antagoniste nell’era telematica, AAA Edizioni, Bertiolo 1996. Back

32. Una visione ottimistica che tende a intravvedere una sorta di neo-compromesso socialdemocratico in una logica politica ancora pervasa dalla tradizionale dinamica fordista, pur con l’inserimento di modalità organizzative della rappresentanza di stampo nuovo (es.: i nuclei di autoorganizzazione), è ravvisabile nella parte conclusiva del bel saggio di A. Bihr, Dall’assalto al cielo all’alternativa: la crisi del movimento operaio europeo, Biblioteca F. Serantini, Pisa 1995. Back

33. Per una discussione abbozzata su questi temi, con riferimento anche all’espereienza maturati in altri periodi storici, cfr. S.Bologna, B.Cartosio, A.Fumagalli, Il sapere delle lotte, Spray Edizioni, Milano 1996. Back


Queste pagine sono tratte da  Isole nella Rete (pubblicato su un reddito un futuro) e riorganizzate e sistemate per voi da senzasoldi.
Il documento di Andrea Fumagalli non e' coperto da Copyright, in caso di utilizzo si prega di citarne l'autore e la fonte / NB. Le tesi sono diventate 12 e pubblicate sul testo di Fumagalli Tute bianche (vedi in giro).