- UN DOGMA DISASTROSO
Impigriamo in ogni cosa, fuorché nellamare
e nel bene, e fuorché nellimpigrire (Lessing)
Una strana follia si è impossessata delle
classi operaie nelle nazioni ove regna la civiltà capitalistica.
Questa follia trascina con sé le miserie individuali e sociali
che da due secoli torturano la triste umanità. Questa follia
è l'amore per il lavoro, la moribonda passione per il lavoro,
spinta fino all'esaurimento delle forze vitali dell'individuo e della
sua progenie. Invece di reagire contro questa aberrazione mentale,
i preti, gli economisti, i moralisti, hanno santificato il lavoro.
Uomini ciechi e limitati, essi hanno voluto essere più savi
del loro Dio; deboli e spregevoli, hanno voluto riabilitare ciò
che il loro Dio aveva maledetto. Io, che non mi professo cristiano,
economista o moralista, non posso fare a meno di mettere a confronto
il loro giudizio con quello del loro Dio, i precetti della loro morale
religiosa, economica e libero-pensatrice, con le spaventose conseguenze
del lavoro nella società capitalistica.
In essa, il lavoro è la causa di ogni degenerazione intellettuale,
di ogni deformazione organica. Paragonate il purosangue delle scuderie
delle scuderie di Rothschild, assistito da un servitorame di bimani,
alla pesante bestia delle fattorie normanne, che lavora la terra,
trasporta il letame, ripone il raccolto nel granaio. Guardate il nobile
selvaggio che i missionari del commercio e i commercianti della religione
non hanno ancora corrotto con il cristianesimo, la sifilide e il dogma
del lavoro, e osservale poi i nostri miserabili servi delle macchine
.
Quando, nella nostra incivilita Europa, si vuole ritrovare traccia
della bellezza originaria dell'uomo, bisogna andarla a cercare presso
le nazioni in cui i pregiudizi economici non hanno ancora sradicato
l'odio per il lavoro. La Spagna, che ahimè va degenerando,
può ancora vantarsi di possedere meno fabbriche che noi prigioni
e caserme; ma lartista gioisce ammirando lardito andaluso,
bruno come le castagne, dritto e flessibile come un fusto dacciaio;
e il cuore delluomo trasale udendo il mendicante, superbamente
avvolto nella sua capa bucata, trattare da amigo i buchi
di Ossuna. Per lo spagnolo, nel quale lanimale primitivo non
è atrofizzato, il lavoro è peggiore delle schiavitù.
Anche i greci dellantichità non provavano che disprezzo
per il lavoro: solo agli schiavi era permesso lavorare; luomo
libero conosceva unicamente gli esercizi corporali e i giochi di intelligenza.
Era anche il tempo in cui si camminava e si respirava tra il popolo
di Aristotele, Fidia, Aristofane; era il tempo in cui un pugno di
prodi annientava a Maratona le orde dAsia, che presto Alessandro
avrebbe conquistato. I filosofi dellantichità insegnavano
il disprezzo verso il lavoro, degradazione delluomo libero;
i poeti cantavano la pigrizia, dono degli Dei:
O Meliboee, deus nobis haec otia fecit
Nel suo discorso della montagna, Cristo predicò
la pigrizia:
"Osservate come crescono i gigli nel campo:
non lavorano e non filano. Eppure io vi dico che neanche Salomone,
con tutta la sua gloria, vestiva come uno di loro".
Jehova, il dio barbuto e arcigno, diede a coloro
che lo adoravano il supremo esempio della pigrizia ideale; dopo sei
giorni di lavoro, si riposò per leternità.
Quali sono invece le razze per le quali il lavoro è una necessità
organica? Gli Alverni; gli Scozzesi, alverini delle Isole Britanniche;
i Galleghi, alverni di Spagna; i Pomerani, alverni di Germania; i
Cinesi, alverni dAsia. Nella nostra società, quali sono
le classi che amano il lavoro per il lavoro? I contadini proprietari,
i piccoli borghesi, gli uni curvi sulle proprie terre, gli altri abbruttiti
nelle proprie botteghe, si agitano come la talpa nella sua galleria
sotterranea, e non si rialzano mai per guardare a proprio agio la
natura.
E intanto il proletariato, la grande classe che comprende tutti i
produttori delle nazioni civili, la classe che emancipandosi emanciperà
l'umanità dal lavoro servile e farà dellanimale
uomo un essere libero, il proletariato, tradendo i propri istinti,
rinnegando la propria missione storica, si è lasciato pervertire
dal dogma del lavoro. Aspro e terribile è stato il suo castigo.
Tutte le miserie individuali e sociali sono nate dalla sua passione
per il lavoro.
- BENEDIZIONI DEL LAVORO
Nel 1770 apparve a Londra uno scritto anonimo intitolato: An
essay on trade and commerce. All'epoca fece un certo scalpore.
Il suo autore, un grande filantropo, s'indignava per il fatto che
"la nostra plebe si è messa in testa l'idea fissa
che le spetti, come inglese, per diritto di nascita, il privilegio
di essere più libera e indipendente (della popolazione lavoratrice)
di ogni altro paese di Europa. Ora, questa idea può essere
di qualche utilità quando influisca sul coraggio dei nostri
soldati, ma quanto meno essa è forte negli operai manifatturieri,
tanto meglio per loro e per lo Stato. Gli operai non dovrebbero ritenersi
mai indipendenti dai loro superiori. E' estremamente pericoloso incoraggiare
la plebe, in uno Stato commerciale come il nostro, dove forse, su
otto parti della popolazione complessiva, sette sono gente con scarsa
o nessuna proprietà... La cura non sarà completa, finché
i nostri poveri dellindustria non si acconceranno a lavorare
sei giornate per la stessa somma che ora guadagnano in quadro giornate".
Così, circa un secolo prima di Guizot, a Londra si raccomandava
apertamente il lavoro come un freno alle nobili passioni dell'uomo.
"Più i miei popoli lavoreranno, meno ci saranno vizi",
scriveva Napoleone da Osterode, il 5 maggio 1807. "Io sono l'autorità...
e sarei disposto a ordinare che la domenica, dopo l'ora delle funzioni,
si riaprissero i negozi e gli operai tornassero al lavoro."
Per estirpare la pigrizia e piegare i sentimenti di fierezza e indipendenza
che essa genera, l'autore dellEssay on trade proponeva
di incarcerare i poveri in case ideali di lavoro (ideal workhouses),
che sarebbero divenute delle
"case del terrore" dove si dovrebbe lavorare per "quattordici
ore giornaliere, compresi però i periodi, occorrenti ai pasti,
cosicché rimangano dodici ore lavorative piene".
Dodici ore di lavoro al giorno, ecco l'ideale dei filantropi e dei
moralisti del XVIII. Quanto abbiamo superato questo nec plus ultra!
Gli opifici moderni sono divenuti case ideali di correzione dove si
incarcerano le masse operaie e le si condanna ai lavori forzati, per
12 e 14 ore, non solo gli uomini, ma le donne e i bambini! E dire
che i figli degli eroi del Terrore si sono lasciati degradare dalla
religione del lavoro al punto di accettare, dopo il 1848, come una
conquista rivoluzionaria, la legge che limitava a dodici ore il lavoro
nelle fabbriche; essi proclamavano, come un principio rivoluzionario,
il diritto al lavoro. Vergogna al proletariato francese! Solo
degli schiavi sarebbero stati capaci di una tale bassezza. A un greco
dell'epoca eroica ci vorrebbero vent'anni di civiltà capitalistica
per concepire una simile degradazione.
E se i dolori del lavoro forzato, se i tormenti della fame si sono
abbattuti sul proletariato, più numerosi delle cavallette della
Bibbia, è stato lui a invocarli.
Questo lavoro, che nel giugno del 1848 gli operai reclamavano con
le armi in pugno, essi l'hanno imposto alle proprie famiglie; essi
hanno consegnato ai baroni dell'industria le loro donne e i loro bambini.
Con le loro stesse mani, essi hanno demolito il focolare domestico;
con le loro stesse mani hanno prosciugato il latte delle proprie donne;
le sventurate, incinte e coi bimbi al seno, sono dovute andare nelle
miniere e nelle manifatture, a chinare la schiena e sfinire i nervi;
con le loro stesse mani, hanno spezzato la vita e il vigore dei bambini.
Vergogna ai proletari! Dove sono le comari di cui parlavano le novelle
e le antiche fiabe, ardite nelle intenzioni, franche nel parlare,
amanti della divina bottiglia? Dove sono quelle donne gagliarde, sempre
di corsa, sempre in cucina, sempre a cantare, a seminare la vita ingenerando
la gioia, a partorire, senza dolori, piccoli sani e vigorosi?... Oggi
abbiamo le fanciulle e le donne di fabbrica, fiori miseri dai pallidi
colori, dal sangue senza rosso splendore, dallo stomaco rovinato,
dalle membra illanguidite!... Esse non hanno mai conosciuto la forza
dei piacere e non saprebbero raccontare spavalde come venne infranta
la loro conchiglia! E i bambini? Dodici ore di lavoro ai bambini.
O miseria!
Ma tutti i Jules Simon dell'Accademia delle scienze morali e politiche,
tutti i Germinys del gesuitismo, non avrebbero potuto inventare un
vizio che abbrutisse l'intelligenza dei bambini, corrompesse i loro
istinti, distruggesse il loro organismo più del lavoro, nell'atmosfera
viziata dell'opificio capitalistico.
Si dice che la nostra epoca sia il secolo del lavoro; è invece
il secolo del dolore, della miseria e della corruzione.
E tuttavia, i filosofi, gli economisti borghesi, dal penosamente confuso
Auguste Comte fino al ridicolmente chiaro Leroy-Beaulieu; i letterati
borghesi, dal ciarlatanescamente romantico Victor Hugo fino all'ingenuamente
grottesco Paul de Kock, tutti hanno intonato i canti nauseabondi in
onore del dio Progresso, figlio primogenito del Lavoro. A sentir loro,
la felicità avrebbe regnato sulla terra: già se ne percepiva
l'arrivo. Essi riandavano nei secoli passati, a grufolare nella polvere
e nella miseria feudali, per riportare cupi esempi in contrasto con
le delizie dei tempi presenti.
Ci hanno stancati, questi individui ben pasciuti, soddisfatti, or
non è molto ancora membri della servitù dei grandi signori,
oggigiorno pennivendoli della borghesia ben provvisti di rendile;
ci hanno stancati con i! contadino del retorico La Bruyère?
Ebbene! ecco il brillante quadro dei piaceri proletari nell'anno del
progresso capitalistico 1840, dipinto da uno di loro, il dottor Villermé,
membro dell'Institut; lo stesso che nel 1848 fece parte di quella
società di sapienti (e con lui Thiers, Cousin, Passy, l'accademico
Blanqui) che diffuse tra le masse le scempiaggini dell'economia e
della morale borghesi.
Il dottor Villermé parla dell'Alsazia manifatturiera, l'Alsazia
di Kestner, di Dollfus, fiori della filantropia e del repubblicanismo
industriale. Ma prima che il dottore sollevi di fronte a noi il quadro
delle miserie proletarie, ascoltiamo un manifatturiere alsaziano,
il signor Th. Mieg, della ditta Dollfus, Mieg & Co., che ci descrive
la condizione dell'artigiano nella vecchia industria:
"A Mulhouse cinquant'anni fa (nel 1813, quando nasceva lindustria
meccanica moderna), gli operai erano tutti figli della terra, che
abitavano in città e nei paesi circostanti e possedevano quasi
tutti una casa e spesso un campicello"
Era l'età d'oro del lavoratore. Ma allora l'industria alsaziana
non inondava il mondo con i suoi tessuti di cotone, e non arricchiva
i suoi Dollfus e Koechlin. Ma venticinque anni dopo, quando Villermè
visitò lAlsazia, la fabbrica capitalistica moderno
minotauro aveva conquistato il paese; nella sua bulimia del
lavoro umano, aveva strappato gli operai al loro focolare per strizzarli
meglio, e per meglio spremere il lavoro che essi contenevano. A migliaia
gli operai accorrevano al fischio della macchina.
"In gran numero afferma Villermè cinquemila
su un totale di diciassettemila, erano costretti ad alloggiare nei
paesi vicini, a causa degli affitti molto cari. Alcuni abitavano a
due leghe e un quarto dalla manifattura dove lavoravano.
A Mulhouse, a Dornach, il lavoro iniziava alle cinque del mattino
e finiva alle cinque della sera, estate e inverno
.Bisogna vederli,
arrivare ogni mattino in città e ripartire ogni sera. Vi è,
tra di loro, una moltitudine di donne pallide, magre, che camminano
a piedi nudi in mezzo al fango e che, in caso di pioggia e neve e
in mancanza di ombrello, portano rovesciati sulla testa il grembiule
o la sottana per ripararsi il viso e il collo, e un numero ancora
più consistente di bambini piccoli non meno sporchi e smunti,
coperti di stracci, tutti unti dellolio delle macchine che cade
loro addosso mentre lavorano. Questi ultimi, meglio protetti dalla
pioggia grazie allimpermeabilità dei loro indumenti,
non hanno nemmeno, come le donne di cui ho parlato, un paniere sotto
il braccio in cui riporre le provviste della giornata; ma portano
in mano, oppure nascondono sotto la giacca o come possono, il tozzo
di pane che deve nutrirli fino al momento del rientro a casa.
Così, alla fatica di una giornata smisuratamente lunga
poiché è di almeno quindici ore per gli sventurati
si aggiunge quella del tragitto di andata e ritorno, tanto frequente
e penoso. Ne deriva che la sera rientrano a casa prostrati dal bisogno
di dormire, e che lindomani escono prima di essersi completamente
riposati per trovarsi in fabbrica allorario di apertura".
Ecco ora i tuguri dove si ammassa chi alloggia in città:
"Ho visto a Mulhouse, a Dornach e in alcune case vicine,
quei miserabili alloggi dove due famiglie dormivano ciascuna in un
angolo, sulla paglia gettata sul pavimento e trattenuta da due assi
.
La miseria nella quale vivono gli operai dellindustria del cotone
nel dipartimento dellAlto-Reno è così profonda
da produrre un triste risultato: mentre nelle familgie dei fabbricanti,
commercianti, negozianti di stoffe, direttori di fabbrica, la metà
dei bambini raggiunge il ventunesimo anno di età, questa stessa
metà cessa di vivere prima di aver compiuto i due anni, nelle
famiglie dei tessitori e degli operai delle filande di cotone."
Parlando del lavoro dell'opificio, Villermé aggiunge:
"Non è un lavoro, un'occupazione, e una tortura, e la
si infligge a bambini fra i sei e gli otto anni... E' proprio questo
lungo supplizio di tutti i giorni che mina gli operai nelle fabbriche
di cotone".
E a proposito della durata del lavoro, Villermé osserva che
i forzati dei bagni penati lavoravano solo dieci ore, gli schiavi
delle Antille in media nove ore, mentre nella Francia che aveva fatto
la Rivoluzione dell'89, che aveva proclamato i pomposi Diritti dell'uomo,
esistevano manifatture dove la giornata era di sedici ore, delle quali
se ne concedeva agli operai una e mezza per i pasti.
O miserabile aborto dei princìpi rivoluzionari della borghesia!
O lugubre dono del suo dio Progresso! I filantropi acclamano come
benefattori dell'umanità chi per arricchirsi nella fannullagine
da lavoro ai poveri; meglio sarebbe spargere la peste, avvelenare
le sorgenti, piuttosto che erigere una fabbrica in mezzo a una popolazione
rurale. Introducete il lavoro di fabbrica, e addio gioia, salute,
libertà, addio tutto ciò che rende la vita bella e degna
d'esser vissuta .
E gli economisti seguitano a ripetere agli operai: "Lavorate
per aumentare il patrimonio sociale!". E tuttavia un economista,
Destutt de Tracy, risponde loro:
"E nelle nazioni povere che il popolo è agiato;
è nelle nazioni ricche che esso è comunemente povero".
E il suo discepolo Cherbuliez prosegue:
"I lavoratori stessi, cooperando all'accumulazione di capitali
produttivi, contribuiscono allevento che, presto o tardi, dovrà
privarli di una parte del loro salario"
Ma resi sordi e idioti dalle loro stesse grida, gli economisti rispondono:
"Lavorate, lavorate sempre per creare il vostro benessere!".
E nel nome della mansuetudine cristiana, un prete della Chiesa anglicana,
il reverendo Townsend, salmodia: Lavorate, lavorate notte e giorno;
lavorando, fate crescere la vostra miseria, e la vostra miseria ci
dispensa dall'imporvi il lavoro con la forza della legge.
"La costrizione legale al lavoro è legata a troppa
fatica, violenza e a troppo rumore, mentre le fame non soltanto è
una pressione pacifica, silenziosa, incessante, ma, come motivo più
naturale dellindustria e del lavoro, desta gli sforzi più
potenti".
Lavorate, lavorate, proletari, per aumentare il patrimonio sociale
e le vostre miserie individuali; lavorate, lavorate, affinchè,
diventando più poveri, abbiate maggiori motivi per lavorare
ed essere miserabili. Questa è la legge inesorabile della produzione
capitalistica.
Dato che, prestando ascolto alle fallaci parole degli economisti,
i proletari si sono abbandonati anima e corpo al vizio del lavoro,
essi precipitano l'intera società in quelle crisi industriali
di sovrapproduzione che sconvolgono l'organismo sociale. E quindi,
essendovi pletora di mera e penuria di compratori, gli opifici chiudono
e la fame sferza le popolazioni operaie con la sua frusta dalle mille
corregge. I proletari, abbrutiti dal dogma del lavoro, senza comprendere
che il superlavoro che si sono inflitti durante il periodo di pretesa
prosperità è la causa della loro attuale miseria, invece
di correre al granaio e gridare "Abbiamo fame e vogliamo mangiare!...E'
vero, non abbiamo un soldo in tasca, ma per quanto pezzenti siamo,
abbiamo mietuto noi il grano, e noi abbiamo vendemmiato l'uva...",
invece di assediare i magazzini del signor Donnei di Jujurieux, l'inventore
dei conventi industriali, e di gridare "Signor Bonnet, guardate
le vostre operaie ovaliste ,torcitrici, filandaie, tessitrici, esse
tremano di freddo sotto le loro vesti di cotonina, rappezzate da far
lacrimare gli occhi a un Giudeo; e tuttavia sono state loro a filare
e tessere le vesti di seta delle cocottes di tutta la cristianità.
Le poverette, lavorando tredici ore al giorno, prima non avevano il
tempo di badare al loro abbigliamento, mentre ora che sono disoccupate
possono fare fru fru con le sete che hanno lavorato. Da quando hanno
perduto i denti da latte esse si sono dedicate alla vostra fortuna
e hanno vissuto nell'astinenza; ora hanno del tempo libero e vogliono
godere un po' dei frutti del proprio lavoro. Andiamo, signor Bonnet,
mettete nelle loro mani le vostre sete, il signor Harmel fornirà
le sue mussoline, il signor Fouyer-Quertier i suoi calicò,
il signor Pinet gli stivaletti per i loro cari piedini freddi e umidi...
Rivestite da capo a piedi e piene di brio, le contemplerete con piacere.
Andiamo, bando agli indugi. Voi siete l'amico dell'umanità,
non è vero, e cristiano, per giunta? Mettete a disposizione
delle vostre operaie la fortuna che esse vi hanno costruito con la
carne della propria carne. Siete amico del commercio? Facilitate la
circolazione delle merci; ecco qui dei consumatori per eccellenza;
aprite loro crediti illimitati. Siete ben obbligati a concederli a
dei negozianti, che non conoscete dal tempo di Adamo ed Eva, che non
vi hanno regalato niente, neppure un bicchiere d'acqua. Le vostre
operaie si sdebiteranno come potranno: e se il giorno della scadenza
se la daranno a gambe e lasceranno protestare la propria firma, voi
farete loro istanza di fallimento, e se non hanno nulla che possiate
sequestrare, esigerete che vi paghino in preghiere; esse vi spediranno
in paradiso, meglio dei vostri sacchi neri, dal naso rigurgitante
di tabacco".
Invece di approfittare dei momenti di crisi per una distribuzione
generale dei prodotti e una baldoria universale, gli operai, sul punto
di crepare di fame, vanno a battere la testa contro le porte della
fabbrica. Con la faccia smunta, il corpo smagrito, essi assillano
i fabbricanti con discorsi pietosi: "Buon signor Chagot, gentile
signor Schneider, dateci del lavoro, non è la fame, ma la passione
per il lavoro che ci tormenta!". E quei miserabili, che hanno
appena la forza di stare in piedi, vendono dodici e quattordici ore
di lavoro due volte meno caro di quando avevano il pane nella madia.
E i filantropi dell'industria, eccoli approfittarsi della disoccupazione
per produrre più a buon mercato.
Se le crisi industriali seguono i periodi di superlavoro con la stessa
fatalità della notte il giorno, trascinandosi dietro la disoccupazione
forzata e la miseria senza sbocco, esse provocano inesorabilmente
anche la bancarotta. Finché il fabbricante gode di credilo,
allenta la briglia alla frenesia del lavoro, si indebita e si indebita
ancora per fornire la materia prima agli operai. Continua a produrre,
senza riflettere che il mercato si ingorga, e che, se le merci non
saranno vendute, le sue cambiali arriveranno alla scadenza. Messo
alle strette, va ad implorare il Giudeo, si getta ai suoi piedi, gli
offre il proprio sangue, il proprio onore. "Un po' d'oro farebbe
meglio al caso - risponde il Rothschild di turno - voi avete 20.000
paia di calze in magazzino che valgono venti soldi, io le prendo a
quattro soldi". Ottenute le calze, il Giudeo le vende a sei e
otto soldi, e intasca i guizzanti pezzi da cento che non devono niente
a nessuno: ma il fabbricante ha rinculato per saltare meglio. Alla
fine si giunge allo sfacelo e i magazzini traboccano; si gettano allora
tante di quelle merci dalla finestra, che non si sa come siano entrate
dalla porta. Il valore delle merci distrutte si calcola in centinaia
di milioni; nel secolo scorso, venivano bruciate oppure buttate in
acqua.
Prima di ridursi a questa Fine, tuttavia, i fabbricanti corrono per
il mondo in cerca di nuovi mercati per le merci che si accumulano;
costringono il loro governo ad annettersi il Congo, a impossessarsi
del Tonchino, a demolire a colpi di cannone le muraglie della Cina,
per smerciare i loro tessuti. Nei secoli scorsi era un duello mortale
tra la Francia e l'Inghilterra, per decidere a chi toccasse il privilegio
esclusivo di vendere in America e nelle Indie. Migliaia di giovani
vigorosi hanno arrossalo i mari con il proprio sangue, durante le
guerre coloniali dell'XI, XVI e XVIII secolo.
I capitali abbondano come le merci. I finanzieri non sanno più
dove collocarli; si recano allora nelle nazioni felici che si rosolano
come lucertole al sole fumando sigarette, e costruiscono strade ferrate,
erigono fabbriche e importano la maledizione del lavoro. Questa esportazione
di capitali francesi termina un bei mattino a causa di complicazioni
diplomatiche: in Egitto, la Francia, l'Inghilterra e la Germania erano
sul punto di accapigliarsi per decidere quali usurai sarebbero stati
pagati per primi; o a causa delle guerre in Messico, dove si mandano
i soldati francesi a fare gli ufficiali giudiziari per riscuotere
e coprire i debiti.
Queste miserie individuali e sociali, per quanto grandi e innumerevoli
siano, per eterne che sembrino, svaniranno come le iene e gli sciacalli
all'approssimarsi del leone, quando il proletariato dirà: "Io
lo voglio.". Ma per arrivare alla consapevolezza della propria
forza, bisogna che il proletariato calpesti i pregiudizi della morale
cristiana, economica, e libero-pensatrice; bisogna che ritorni agli
istinti naturali, che proclami i Diritti della pigrizia,
mille e mille volte più nobili e sacri dei tisici Diritti
dell'uomo, elaborati dagli avvocati metafisici della rivoluzione
borghese; che vi sia l'obbligo di lavora re solo tre ore al giorno,
a fannullare e fare bisboccia per il resto della giornata e della
notte.
Fin qui, il mio compito è stato facile: non dovevo fare altro
che descrivere dei mali reali, ahimè ben conosciuti da noi
tutti! Ma convincere il proletariato che la parola inoculata gli è
perversa, che il lavoro sfrenato al quale si è votato dall'inizio
del secolo è il più terribile flagello che abbia mai
colpito l'umanità, che il lavoro potrà diventare un
piacevole condimento della pigrizia, un esercizio benefico all'organismo
umano, una passione utile allorganismo sociale, solo quando
sarà maggiormente regolamentato e contenuto entro un massimo
di tre ore al giorno, è un arduo compito, superiore alle mie
forze; solo fisiologi, igienisti, economisti comunisti potrebbero
intraprenderlo. Nelle pagine che seguono, io mi limiterò a
dimostrare che, considerati i mezzi moderni di produzione e le loro
capacità riproduttiva illimitata, bisogna domare la passione
stravagante degli operai per il lavoro e obbligarli a consumare le
merci che producono.
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