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Il lavoro di comunità nella società post-civile (dott. Guido Contessa / ARIPS) (Convegno SERT di Mantova il 4 giugno 2002)

RISPOSTE BREVI ALLE DOMANDE POSTE

Quali sono i loro modelli di riferimento per il lavoro di comunità e come sono cambiati da 30 anni a questa parte? Il modello di riferimento mio e del gruppo ARIPS col quale ho per 20 anni realizzato interventi di Comunità, si basa sulle Teorie di K.Lewin, ma si può definire sincretico: prendiamo dai vari modelli e dalle diverse discipline quello che ci serve, e quello che non c'è nel mondo, lo inventiamo noi.

Che rapporto c'è tra lavoro di comunità e cambiamento? (e soprattutto quale è il "cambiamento" atteso?)
Il lavoro di comunità è come tutti i lavori di intervento sociale, finalizzato al cambiamento. Anzi il cambiamento è l'unico obiettivo che legittima una pratica sociale. Il cambiamento atteso è la costruzione di comunità consapevoli e competenti, o meglio, la nascita di sistemi che abbiano una dimensione comunitaria. Specie oggi, non si tratta di sviluppare o promuovere le comunità, ma di farle nascere, sui detriti lasciati sul delta della Modernità. Nascita che non può ispirarsi a odelli esistenti ma che deve essere progettata creativamente.

Che rapporto c'è tra lavoro di comunità ed intervento politico? Il lavoro di comunità riguarda la consapevolezza e le competenze, il lavoro politico dovrebbe attenere alla rappresentanza e al consenso. Purtroppo, oggi, consapevolezza e competenze sono considerati fattori eversivi rispetto alla politica delle oligarchìe dominanti e disturbanti per il quieto vivere della maggioranza.

 Esiste ancora uno spazio (culturale, politico, relazionale, psicologico) per il lavoro di comunità?
Teoricamente enorme, praticamente nessuno. Per l'Impero "liquido" le comunità devono restare morte e se si creano devono essere inconsapevoli e incompetenti.

Quali sono le strategie per sviluppare comunità? Quali i partners? Quali gli ostacoli?
Le fasi dello sviluppo sono quelle di sempre, e riguardano ogni organismo dall'individuo alla società: autoriflessione, consapevolezza, competenza, progettazione, cambiamento. I partners siamo noi consulenti: l'attore dovrebbe essere la comunità nel suo insieme e nei suoi elementi (individui, gruppi, organizzazioni, istituzioni). Gli ostacoli sono enormi: dai soprasistemi che vogliono dominare le comunità, alle comunità che non vogliono nascere, ai sottosistemi che si difendono in modo strenuamente corporativo.

IL LAVORO DI COMUNITA’ NELLA SOCIETA’ POST-CIVILE
(dott. Guido Contessa / ARIPS) (Mantova SERT-4 giugno 2002)

A. Scenario

1. Lavoro della Comunità, con la Comunità, sulla Comunità

Il termine “lavoro di comunità” contiene diversi significati, ciascuno dei quali si basa su premesse differenti e prefigura sviluppi diversi. Uno indica la comunità come soggetto ed il lavoro che essa produce per il proprio sviluppo. Questa ipotesi parte dalla premessa di una totalità-organismo vivente e indica uno sviluppo autopoietico, intenzionale e programmato. Il secondo significato individua una struttura autonoma ma deficitaria, il cui sviluppo è legato al partenariato ed al sostegno di tecnici. Il terzo senso della definizione si basa sulla premessa di un organismo dipendente, passivo, malato, il cui sviluppo è legato ad azioni eterodirette, vicarianti, ortopediche o chirurgiche.

Le pratiche psicologiche, sociali, pedagogiche, culturali e normative del Dopoguerra hanno avuto il lavoro di comunità come fine dichiarato, il lavoro “con” la comunità come illusione e il lavoro sulla comunità come pratica quotidiana.

2. Modernità vs. Comunità: la Comunità come ostacolo e come sogno

La storia della Modernità è stata costruita sulla progressiva distruzione di tutte le realtà intermedie fra l’individuo e lo Stato nazionale, ad eccezione delle corporazioni di interessi. Famiglie, comunità locali, aggregazioni culturali autonome sono state colonizzate, smembrate o sottomesse dall’unica totalità ammessa dalla civilizzazione industriale moderna: lo Stato. La famiglia è stata colonizzata per via giuridica, con la sottrazione del potere educativo. Le aggregazioni culturali sono state sottomesse per via economica, con la cooptazione concessa dai finanziamenti del cosiddetto “welfare state”. La comunità locale è stata smembrata mediante processi di compartimentazione e despazializzazione della vita quotidiana. La “divisione del lavoro civico”, proiezione speculare della divisione del lavoro industriale, è stata accelerata dalla compartimentazione urbanistica che ha suddiviso le zone abitative da quelle produttive e da quelle ricreative; dalla dislocazione di competenze dal livello locale a quello regionale, nazionale o sopranazionale; dalla despazializzazione supportata dai mass media. In un certo senso, le comunità locali sono state le aggregazioni intermedie più resistenti alla desertificazione prodotta dallo Stato, proponendosi come unico, pur debole scudo, dei singoli cittadini in balìa delle corporazioni e dello Stato. Sia le autonomie locali giuridicamente riconosciute (i Comuni), sia le realtà locali autonomistiche e antagoniste sono state le sole isole di “gemeinshaft” che si è posta come freno alla dilagante e divorante “gesellshaft”, ma anche come sogno di recupero della totalità perduta.

Le uniche realtà intermedie non solo sopravvissute allo Stato moderno ma capaci anche di prenderne il controllo, sono state le corporazioni di interessi.

3. Corporazioni vs Comunità ovvero le Comunità come bottino

Lo Stato come difensore degli interessi generali è stato, nel corso della Modernità, poco più che un’ideologia, uno slogan, un simulacro. Salvo che in brevi e saltuari momenti, lo Stato moderno ha avuto il ruolo di mascherare il dominio delle corporazioni più forti, che attraverso esso hanno potuto legittimare la propria voracità. Il dibattito quasi secolare sul conflitto pubblico - privato non è stato altro che un’abile azione di offuscamento della realtà moderna, fondata sull’irrilevanza delle totalità e sul trionfo della parzialità. Il settore pubblico -in una parola, lo Stato- è stato fin dall’inizio della modernità privatizzato, cioè sottratto all’interesse generale dalle corporazioni di interessi parziali. Il provocatorio detto marxiano del Governo come “comitato d’affari della borghesia”si è rivelato fin troppo ingenuo di fronte agli Stati moderni che sono gradualmente diventati meri “comitati d’affari delle corporazioni”.  Il fatto che nella tarda modernità le corporazioni più forti ne abbiano dovuto cooptare moltissime altre più giovani e più deboli, non cambia la natura della forma Stato attuale, che resta il simulacro pubblico di interessi privatissimi. In questo processo di privatizzazione della totalità, allargata a sempre più numerose corporazioni, le comunità locali rappresentano il “bottino”. Le corporazioni più forti si spartiscono lo Stato nazionale in tutte le sue aree di potere e di reddito, mentre fra le corporazioni più deboli vengono spartiti il potere politico e il reddito derivanti dalle comunità locali. Il meccanismo è rafforzato dal sistema amministrativo che assegna alle realtà locali una limitatissima autonomia economica. Lo Stato assegna alle comunità locali i finanziamenti e vincola non solo le destinazioni ma anche  i processi di assegnazione di incarichi, appalti, consulenze. In tal modo le corporazioni controllano in toto le cosiddette autonomie locali. Con il consolidamento dell’UE il meccanismo è stato raffinato al punto che oggi non esiste quasi più alcuna autonomia negli Enti Locali.

4. Desovranizzazione delle Comunità: dall’alto l’Impero, dall’interno le corporazioni

Una delle conseguenze più vistose della tarda Modernità è la completa desovranizzazione delle comunità territoriali. I Comuni, che sono stati il primo trampolino dell’epoca  moderna dopo i secoli imperiali del Medio Evo, sono oggi resi del tutto insignificanti non solo dagli Stati nazionali ma anche dal sistema dell’Impero che sta nascendo in Occidente. L’UE e gli USA stanno creando il blocco leader del “globo” post-moderno. Tale progetto, che prevede la desovranizzazione degli Stati nazionali, non può che prevedere uno svuotamento anche maggiore delle comunità locali. Il processo di imperializzazione d’Occidente ha visto una rivitalizzazione dei movimenti autonomistici, bellicosi come nelle ex-jugoslavia o non bellicosi come in Italia, spesso anche supportati dalle oligarchìe sopranazionali. L’Impero ha un interesse tattico all’indebolimento degli Stati, il che spiega l’intervento militare contro la Serbia e l’importanza data dalla UE alle Regioni. Ma in termini strategici, le comunità sono un ostacolo al progetto imperiale. In via ordinaria, il potere sopranazionale sta togliendo sovranità agli Stati e alle autonomie locali. Già ora i Comuni hanno perso ogni potere nelle politiche della formazione, dell’assistenza, della cultura, del reclutamento di risorse umane. La desovranizzazione delle comunità è avvenuta anche dall’interno, col viraggio di tutti i poteri da una destinazione generale ad una corporativa e privata. Quasi tutte le città sono amministrate da corporazioni, le cui scelte, ancorché definite pubbliche, sono in concreto dirette ad interessi privati organizzati. Si può dire che la corporativizzazione delle comunità è il modo con cui le elites di potere riescono a mantenere una apparente unità sociale. Per corporativizzazione possiamo indicare un processo di segmentazione per interessi omogenei della totalità comunitaria, accompagnato dalla cooptazione, in gradi diversi, nella fase di  “spartizione delle spoglie”, e concluso con la segregazione di ogni corporazione in un comparto limitato e circoscritto. Nessuna realtà comunitaria è più competente o legittimata ad affrontare i problemi complessi della totalità, o ad operare per gli interessi generali. Ciascuna corporazione ha una competenza parziale e privata, mentre il fantasma della polis resta sfuocato, come un fondale inanimato.

5. Il lavoro di Comunità come manipolazione e controllo

In questo scenario il lavoro di Comunità svolto da operatori è solo un lavoro “sulla comunità”. Il termine di operatori “sociali”, un tempo usato per indicare coloro che lavoravano per il “socius”, è divenuto obsoleto con la progressiva morte della polis. Le comunità territoriali non sono più aggregazioni di cittadini, uniti da un patto di interesse generale, ma assemblaggi di corporazioni e di singoli sudditi chiamati ad operare in ambiti parziali e privatizzati. I numerosi interventi operati verso le comunità territoriali, dai vecchi Organi Collegiali della scuola alle recenti leggi per la Famiglia, hanno col tempo mostrato la loro natura. Non strumenti di rafforzamento o crescita delle totalità comunitarie, ma mezzi di raccolta del consenso delle corporazioni professionali o para-professionali attraverso mezzi economici, e mezzi di controllo dei sudditi mediante le suddette corporazioni. Ormai è  evidente che il fine unico delle migliaia di miliardi erogati per le cosiddette politiche locali della formazione, dell’assistenza, della prevenzione, dell’occupazione e del volontariato è la cooptazione delle corporazioni addette a questi comparti, e tramite questa il controllo dei sudditi. Il sistema di reclutamento e selezione degli operatori è strutturato e controllato in modo che sia impossibile la minima autonomia degli stessi. E il sistema di erogazione dei servizi è tale da garantire la persistenza dell’assoggettamento dei sudditi al circuito del controllo, del consenso e dell’omologazione. Termini come autonomia, emancipazione, differenziazione sono dichiarati come fini del lavoro comunitario con la stessa frequenza con cui sono demonizzati nella quotidianità. Chiunque abbia gestito un Corso di formazione delle migliaia finanziati dalla UE sa che l’unico risultato previsto ed accettato è il mantenimento della corporazione degli addetti, nonché il controllo, durante e dopo il corso, dei partecipanti. Chiunque abbia partecipato ad un progetto per la promozione di qualche aspetto della vita giovanile (salute, occupazione, cultura, ecc.) sa bene che  l’emancipazione giovanile è l’ultima cosa richiesta. Chiunque abbia partecipato ad un progetto contro qualche dipendenza (droga, alcool, fumo, farmaci, ecc.) ha ben chiaro che l’unico fine, sia pur implicito, è quello di trasferire la dipendenza dalla sostanze agli operatori e da questi alle corporazioni dominanti. Non è un caso che tutti gli interventi di comunità realizzati dagli Anni Settanta ad oggi abbiano sempre dovuto fare riferimento al paradigma della patologia o dell’assistenza, mai a quello della cultura. I Centri di Aggregazione per gli adolescenti e i giovani sono affidati a “educatori” (notoriamente preparati per l’educazione di soggetti a disagio) invece che a ludotecari o animatori, e amministrati dagli Assessorati all’Assistenza. La prevenzione primaria delle dipendenze è affidata agli stessi servizi che curano le patologie delle dipendenze. Gli interventi che interessano i rapporti fra scuola e comunità sono delegati spesso a operatori dei servizi psichiatrici.

L’ideologia sottostante è quella di una comunità morta o moribonda, che richiede interventi terapeutici, realizzati da corporazioni centrate sulla “cura” anziché sulla crescita.  Negli anni recenti il sistema di manipolazione e controllo ha raggiunto i suoi vertici mediante dispositivi come le gare d’appalto e i bandi di assegnazione dei progetti di comunità, che sono congeniati in modo da evitare rischi nella spartizione fra le corporazioni

6. La Comunità come business: più si lavora, meno c’è Comunità.

Nella tarda Modernità, la comunità è un business. L’ISTAT ha reso noto che il comparto chiamato “volontariato” ha avuto nel 2001 un attivo di 4.000 miliardi, anche se non è chiaro in quali tasche sia finito. Alcune stime assegnano a questo comparto circa 4.000.000 di soggetti, teoricamente dediti ad un lavoro nella  o per la comunità. Non sappiamo quanti di questi 4.000.000 siano volontari veri (cioè operanti a titolo totalmente gratuito), quanti siano operatori sottopagati e sfruttati, e quanti siano professionisti retribuiti regolarmente o munificamente, e mascherati da volontari. Ma se a costoro aggiungiamo gli operatori professionisti dichiarati, operanti delle scuole, nella sanità, negli Enti Locali, nell’associazionismo, nella cultura, arriviamo ad una corporazione di 5 o 6 milioni di soggetti che gode di una modesta fetta di reddito, ma di un discreto potere politico. Se poi pensiamo che questo oceano di risorse è composto da reti o filiere a dimensione nazionale, e a volte sopranazionale, possiamo comprendere come il business di comunità sia interessante, sotto il profilo economico, ma soprattutto politico. Praticamente tutti questi soggetti dichiarano di fare “lavoro di comunità” sia pure con diverse sfumature. L’onda montante del lavoro di comunità, volontario e professionale, è continua dagli Anni Ottanta. I progetti e servizi realizzati in Italia in questi 20 anni sono migliaia. Malgrado ciò, le comunità territoriali non hanno  aumentato la loro qualità: al contrario l’hanno costantemente diminuita. Il gradi di incomunicabilità fra le parti delle comunità sono decresciuti. Le forme di associazionismo gratuito, di partecipazione civica e politica, di responsabilità collettiva attivate negli Anni Sessanta e Settanta sono oggi del tutto scomparse o ridotte a puro simulacro. La attenzione verso le comunità locali, dichiarata da quasi ogni organo di Governo (regionale, nazionale e comunitario), si è tradotta nel controllo e nell’inaridimento delle stesse, tramite lo strumento dei finanziamenti controllati.

B. Microfisica del dominio

1. Legalità come soggettività del potere

Uno degli slogan più frusti ed abusati nella cosiddetta Seconda Repubblica è quello inneggiante alla “legalità”. Apparentemente è ragionevole sostenere l’esigenza di legalità in ogni consesso umano, e nessuno teorizza il vantaggio di una illegalità generalizzata (persino i criminali si appellano continuamente alla legislazione, sia pure con intenti difensivi). Tuttavia occorre andare oltre l’astrazione e analizzare concretamente la fonte della legalità, i modi di costruzione e applicazione delle norme, le forme della legislazione.

L’Italia è il Paese col più alto numero di norme e con la magistratura civile meno efficiente e più costosa (per i sudditi) dell’intero Occidente. Considerando queste due condizioni, diventa facile interpretare la legalità come la mera prepotenza della soggettività delle corporazioni dominanti. L’esistenza di centinaia di migliaia di leggi, regolamenti, norme, spesso contradditorie e quasi sempre confuse ed imprecise, consegna una posizione dominante ai ceti che presiedono l’interpretazione e l’attuazione delle stesse. A prescindere dalla fonte della legge, la sua attuazione è sottomessa a coloro che la interpretano, i quali, in assensa di ogni possibile ricorso (per l’evidente crisi della Magistratura), gestiscono un mero dominio soggettivo. Il governo della maggior parte delle organizzazioni, profit e non, pubbliche e private, è di fatto controllato da notai, funzionari e contabili, che sono le corporazioni leaders del sistema buro-corporativo dominante.

L’intero sistema dei concorsi pubblici e delle gare d’appalto, a volte è vistosamente e illegalmente truccato, ma più spesso è “truccato” in piena legalità. I frequenti scandali che emergono nei concorsi universitari e nei concorsi pubblici in genere, vengono soffocati semplicemente perché sono truccati, ma nella legalità. L’interpretazione di norme confuse o contradditorie consente ampi margini di discrezionalità “legale” che a sua volta consente la conservazione, da parte delle corporazioni addette al controllo, di un forte potere di scambio. E’ raro che di recente sia sorto uno scandalo relativo alle gare d’appalto truccate, per il fatto che il sistema legale e’ stato raffinato nella Seconda Repubblica in modo da consentire il controllo politico di quasi tutte le gare. Laddove succede che qualche assegnazione sfugge entra in gioco la discrezione “legale” nelle fasi di controllo, nuovamente assegnate alle burocorporazioni dominanti. Gli assegnatari di finanziamenti o progetti, che sono integrati nel sistema del dominio, godono di una totale franchigia dei controlli. Quelli che non sono integrati vengono controllati puntualmente e regolarmene puniti. Qui torna in aiuto ai controllori la confusione delle norme e la loro discrezionalità. Oggi nessuno, su nessun tema può essere dichiarato incolpevole di una qualche illegalità. La messa dei sudditi in stato di constante potenziale colpevolezza è il metodo del dominio legale usato dalle burocorporazioni dominanti. La comunità “legale” è un mero simulacro della arbitrarietà, della prepotenza e del dominio della soggettività delle élites. Naturalmente non è nemmeno pensabile  una rivalutazione dell’illegalità come prassi. Di fatto la attuale legalità è già una illegalità mascherata, rispetto ai principi fondanti delle democrazie. Ciò che restituirebbe senso alla legalità comunitaria, sarebbe la formulazione di nuovi patti negoziati  fra i cittadini, liberati dalla tirannia delle burocorporazioni.

2. Eugenetica dell’inclusione

La filosofia del dominio non è più l’esclusione, bensì l’inclusione controllata seguita dalla reclusione. Il potere lascia ampi spazi di inclusione, ma senza negoziare patti di alterità. Ciò che viene incluso deve prima essere omologato. In una sorta di eugenetica sociale, chi viene incluso deve essere “sano, conformato e integrato, ed il prezzo della salute, della conformazione e dell’integrazione è la piena sottomissione. Per partecipare al lavoro di comunità non basta la competenza: occorre che il potere sancisca la professionalità con un diploma o una laurea. In un secondo tempo, l’attestato non basta più: si richiede la iscrizione, ovviamente controllata, a qualche consorteria, ordine, albo, associazione. In terzo luogo esistono i “Registri o Elenchi” comunali, provinciali, regionali ai quali è necessario essere iscritti, per avere la possibilità di fare lavoro di comunità (o ogni altro lavoro “civile”). Naturalmente, tale iscrizione non esonera dall’iscrizione obbligatoria alla Camera di Commercio e al Tribunale, se si vuole fare un qualsiasi lavoro. Di recente ha preso piede un nuovo ostacolo all’inclusione, chiamata “certificazione di qualità”. Un processo che di “certo” garantisce solo la tangente da versare agli enti di certificazione e la produzione smisurata di carta. Ma tutto ciò non bastava a garantire il sistema di filtri eugenetici legali della inclusione. L’ultimo grido in fatto di inclusione per sottomissione è l’accreditamento, una sorta di finto esame di fantasiose variabili, legalmente regolare ma  in sostanza del tutto discrezionale. Ecco qui l’inclusione. Tutti possono entrare nel lavoro comunitario, a patto che: abbiano un diploma, l’iscrizione ad una consorteria, la presenza in un Registro o Elenco pubblico, il timbro del Tribunale e della camera di Commercio, una certificazione di qualità, e infine l’accreditamento. La trafila consente un’ampia inclusione, ma controllata da filtri (ogni gradino è del tutto a discrezione dei rappresentanti del sistema) che impediscono l’accesso a chiunque non sia completamente omologato e asservito. Ma non è finita qui. L’eugenetica sociale non richiede solo che i sudditi siano “doc”, assegna anche alle burocorporazioni dominanti svariati sistemi di controllo “in itinere”. Il suddito escluso viene di fatto espulso da ogni possibilità di lavoro comunitario e  recluso in ghetti di occupazione marginale quando non di mero precariato e disoccupazione. Il suddito incluso lo è solo “sub condicione”. Nel corso di una storia lavorativa egli è sottoposto a possibili controlli fiscali e contabili, come tutti i sudditi di altri comparti. L’arma fiscale è anch’essa regolamentata in modo che nessuno possa mai dirsi in regola: essa può essere usata in ogni momento per sanzionare sudditi sgraditi. Ma  il lavoro comunitario gode di un plus di controlli in itinere che offrono ulteriori mezzi di repressione. Col nome di “rendicontazione” e “valutazione” passano sistemi del tutto arbitrari e discrezionali di potere da parte delle burocorporazioni, che esistono solo nel campo del lavoro di comunità. Laddove la sudditanza fosse in qualche modo incrinata, questi sistemi in itinere hanno una decisiva funzione di ricatto. L’ultimo controllo in itinere, cioè l’arma finale di controllo, è quella meramente finanziaria. Mediante un calibrato sistema di norme e inefficienze burocratiche, gli Enti pubblici che controllano di fatto tutto il lavoro comunitario, decidono con quanti mesi di ritardo vogliono pagare questa o quella prestazione. Il tempo medio di ritardo dei versamenti dovuti è di 8 mesi ma non è infrequente vedere un ritardo di 12 o 16 mesi. Mediante questa accorta e legale normativa “eugenetica”, i detentori del dominio burocorporativo controllano in ingresso, in itinere e postea tutto il comparto del lavoro di comunità, garantendosi conformismo, consenso e sudditanza. Di fronte a questo quadro, sarebbe semplice ipotizzare un lavoro di comunità estraneo agli enti pubblici, ma non è possibile. La politica dell’inclusione controllata non ammette circuiti paralleli. Può fare lavoro di comunità solo chi è dentro il meccanismo di inclusione controllata.

I sudditi inclusi hanno peraltro un destino prestabilito in virtù di un meccanismo di reclusione. La comunità è sempre più compartimentata, secondo una logica di divisione del lavoro sociale mutuata dal più primitivo fordismo. Questo produce la conseguenza che l’inclusione avvenuta per un comparto o un settore del lavoro di comunità, relega i sudditi inclusi a quel comparto o settore che è presieduto da una specifica burocorporazione. Il sistema di reclusione è tale da arrivare ad ambiti geografici minuscoli: chi lavora in un piccolo paese non è ammesso a lavorare nel paese vicino; chi opera nel comparto disabili non può collaborare con quello delle dipendenze; chi ha sede in una regione non può lavorare in un’altra. A meno che non si sottopongano ad una nuova trafila di selezione gestita da altre burocorporazioni.

3. Ceti intermediari e parassitari

La microfisica del dominio richiede un controllo generalizzato del territorio che le grandi burocorporazioni non possono gestire da sole. La soluzione maturata nella tarda modernità è quella della proliferazione e moltiplicazione di ceti intermediari e parassitari, la cui unica funzione è il controllo. Queste giovani burocorporazioni, che si mantengono con l’esazione di quote di reddito dei sudditi, non forniscono servizi richiesti bensì prestazioni obbligatorie. Le burocorporazioni dominanti emettono una normativa legale che impone una qualche pratica ai sudditi (per esempio, la normativa della sicurezza negli uffici). Costoro sono vincolati a mantenere le corporazioni subalterne, pagando per servizi non solo inutili ma spesso dannosi. Il gioco riguarda centinaia di compiti e decine di burocorporazioni. Per citarne solo alcune: i notai, i commercialisti, i fiscalisti, i consulenti, i certificatori, i valutatori, gli amministrativi, le agenzie di pratiche, i rendicontatori, gli operatori degli Enti gestori di registri ed elenchi,  i divulgatori di informazioni legali, gli enti consortili, i funzionari della Pubblica Ammnistrazione, uffici di assistenza e consulenza.  Fatto 100 il bilancio di un qualsiasi lavoro di comunità, la somma destinata agli operatori o agli utenti (cioè agli attori del lavoro comunità) raramente supera il 30. Più spesso si attesta sotto al 30.

Tutto questo non serve al lavoro di comunità, ma è utilissimo alle burocorporazioni maggiori e minori. Ma genera un reddito da spartire, e soprattutto genera un plusvalore politico dato dal consenso di migliaia di operatori. La tarda modernità in Italia vede circa una metà della forza lavoro controllata direttamente o indirettamente dalle élites burocorporative dominanti (appartenenti indifferentemente al Governo o all’opposizione): circa 4 milioni di dipendenti pubblici, a cui si aggiungono circa 4 milioni di operatori del cosiddetto volontariato e circa 2 altri milioni di operatori di ceti meramente parassitari costituiscono più della metà della forza lavoro nazionale. I settori del mitico “privato” sono controllati mediante centinaia di strumenti normativi o centinaia di miliardi a pioggia che, oltre a garantire un plusvalore politico, giustificano l’esistenza delle burocorporazioni intermediarie e parassitarie. La stessa origine di questi ceti garantisce la loro omologazione alla cultura dominante ed al sistema imperiale. Qualsiasi gruppo o individuo che non segue le regole, può essere accusato di illegalità o semplicemente emarginato dal circuito produttivo.

4. Illusionismo del Welfare

Il cosiddetto Welfare State è stata l’operazione più vistosa della presa del potere delle grandi burocorporazioni. In via teorica il Welfare State è nato come lo Stato del Benessere, che doveva garantire a tutti i cittadini “dalla culla alla tomba”, una migliore qualità della vita. Il sistema pensionistico e sanitario pubblici, sono inclusi artatamente in questo quadro teorico. In realtà entrambi risalgono a ben prima che il Welfare fosse teorizzato e applicato. Il Welfare doveva essere la integrazione e l’arricchimento, attraverso mirate politiche sociali, dei tradizionali sistemi pubblici di tutela pensionistica e sanitaria. Le politiche sociali dovevano essere a sostegno delle comunità locali e dei gruppi sociali più deboli (giovani, donne, anziani, disabili). E’ difficile citare qualche intervento legislativo o progetto operativo che sia risultato effettivamente a favore dei gruppi più deboli, ma tutti hanno consentito la creazione di infinite burocorporazioni minori e, attraverso queste, il controllo del consenso dei sudditi svantaggiati. Gradualmente, ogni intervento si è rivelato per gli utenti poco più di una benevola elemosina, e per gli operatori una fonte di reddito controllato dal potere. La storia degli interventi per le tossicodipendenze è paradigmatica. Nelle fasi iniziali del fenomeno, intorno alla fine degli Anni Sessanta, la tossicodipendenza –malgrado i chiari segnali provenienti da oltreoceano- è stata ignorata. Sono dunque nati numerosi gruppi di matrice cattolica, solitamente ad opera di sacerdoti coraggiosi, che si sono fatti carico del problema. Lo Stato, invece di rilevare la questione direttamente ha preferito lasciarla nelle mani di questi enti “volontari”, semplicemente controllandoli con finanziamenti modesti e ritardati. Più tardi con i SERT, lo Stato ha avocato a sé le terapie di mantenimento, ma ha continuato a lasciare cura e prevenzione nelle mani dei gruppi privati, retribuiti quasi normalmente, ma  continuando ad usare lo strumento economico in funzione di ricatto. Il risultato è stato che i tossicodipendenti hanno goduto di un trattamento terapeutico e le comunità hanno fruito di interventi di prevenzione, gestiti da volontari raramente professionalizzati. Dal punto di vista del dominio invece il risultato è stato uno sviluppo abnorme di un sedicente volontariato, controllato politicamente. Trent’anni di politiche locali e nazionali hanno raramente visto le corporazioni del settore in conflitto coi centri decisionali, per il semplice fatto che queste erano e sono sotto il controllo delle burocorporazioni dominanti. Processi analoghi sono stati realizzati, sulla scia di quello che è diventato lo Stato Assistenziale, in psichiatria, verso il problema dei disabili, per le politiche giovanili e occupazionali, la formazione professionale, gli anziani e le minoranze deboli.

Un esame dettagliato e realistico degli interventi in corso, evidenzia come la maggior parte degli investimenti non è diretto agli utenti ma agli operatori ed ai ceti intermediari e parassitari. Ma anche circa la qualità degli interventi è evidente che l’utenza non è mai il primo bersaglio delle preoccupazioni normative e operative. Non sono affatto rari i servizi aperti nelle ore nelle quali gli utenti non possono accedervi, i progetti focalizzati assai più sugli aspetti burocratici che su quelli utili all’utenza, le iniziative il cui unico risultato possibile è il mantenimento degli operatori invece che i benefici per i ceti deboli. Non è raro che un intervento di successo venga vanificato dagli stessi organismi che l’hanno promosso per il fatto che non registra un consenso politico come output. Tutti i progetti di comunità afferenti al Welfare State dichiarano obiettivi di emancipazione, autonomizzazione, socializzazione, ma praticano evidenti  richieste di subalternità, dipendenza, omologazione verso gli operatori e, tramite questi, verso gli utenti. Gli operatori del Welfare sono gradualmente diventati i “secondini” del disagio, incaricati di segregare e controllare. Tutte le politiche per l’occupazione giovanile o l’autoimprenditorialità hanno dato vita a centinaia di migliaia di imprese la cui sopravvivenza non supera l’anno, per i semplice motivo che mentre è facile e corporativamente utile dare finanziamenti, è impensabile che il potere burocorporativo riduca il controllo che detiene sul mercato.

Il Welfare è stato ed è oggi ancora più una grande manipolazione per il controllo del consenso politico. Se infatti il settore non si può definire ricco economicamente, esso è molto ricco di valore politico. Il ceto politico e burocratico, che controllano per via normativa ed economica il Welfare State, traggono da esso un consenso indispensabile.

C. La Comunità fra nevrosi e psicosi

1. Jena Plissken tra rovine, ruderi, rottami e relitti travolti da una società "liquida"

Le comunità territoriali somigliano sempre più alla New York del famoso film. Un agglomerato di rovine non tanto murarie quanto psicologiche e culturali, abitato da “nuovi barbari” il cui unico fine sembra essere la mera sopravvivenza, contro tutti.  Il carattere di “liquidità” dell’Evo Immateriale ha avuto l’effetto di un fiume in piena su un villaggio. I rapporti faccia a faccia, che nella letteratura sociologica, davano maggiore qualità alle comunità rispetto a quelli anonimi della società, sono spariti sotto il dilagare di un anonimato di tipo urbano. La stessa estraneità fra le persone che si nota in una grande città, domina i rapporti anche nei piccoli agglomerati. Le risposte che i giornalisti ottengono dopo un fatto di sangue a Milano o Capracotta sono le stesse: sorpresa per quello che sembrava “una così brava persona”. Droga, criminalità e disoccupazione sono ormai un fenomeno equidistribuito fra le metropoli, le periferie e le piccole comunità. La epocale frantumazione delle soggettività individuali ha una sua speculare proiezione nella disarticolazione delle comunità. La competizione feroce, tanto spesso attribuita alla modernità metropolitana, assume nelle piccole comunità un volto anche più crudele per la totale mancanza di alternative. Non esiste assessore che non competa con un altro; un parroco che non sia pregiudizialmente ostile a quello vicino; un gruppo di volontariato che non operi per la soppressione dei gruppi operanti nello stesso settore. L’uso del potere da parte dei gruppi dominanti è pesante a livello generale, ma non è meno asfissiante nei paesi più piccoli. Farsi ricevere dal Sindaco di Milano è impossibile quanto da quello di Rivisondoli. Assessori, funzionari comunali, vigili urbani hanno la stessa media arroganza su ogni livello della scala di aggregazione. La metropoli giustifica la sua inefficienza con la complessità, il piccolo Comune la giustifica con la mancanza di mezzi. Comunità di ogni dimensione e qualità, siano pubbliche o private, vedono una gestione barbarica e selvaggia del potere, unita alla completa assenza di partecipazione. I sistemi formalmente legali di partecipazione dei cittadini nelle scuole, a livello urbano o nelle piccole comunità locali sono pensati e gestiti in modo da impedire la partecipazione o favorire solo quella che garantisce la piena omologazione a chi detiene il potere. I gruppi di potere, che siano formalmente preposti al governo o che siano “all’opposizione”di una comunità, si autorafforzano mediante negoziazioni informali e scambi di favori e complicità. Non esiste comunità oggi che non sopravviva in base alla pratica del voto di scambio. Naturalmente non sono affatto diminuiti i casi di vera e propria corruzione, basati sullo scambio danaro-privilegi. Ma il gioco è diventato insieme più immateriale e più devastante. Fra i ruderi della liquidità, non serve uno scambio diretto di danaro, quando basta operare uno scambio fra privilegi ed un consenso, che si traduce in danaro esigibile su un altro tavolo.

2. Elusioni fobiche  e rituali ossessivi.

Come in ogni comunità devastata da una catastrofe, il sentimento più diffuso è la paura: del nemico, del contagio, dell’estraneo. Il fatto è che il cerchio della sicurezza risulta vistosamente ristretto all’appartamento, e qualche volta alla propria camera (come testimoniano gli aumentati casi di stragi familiari). La paura è aspecifica, generalizzata, metafisica e si concreta via via in ogni oggetto che abbia una parvenza di eterogeneità. Ogni diversità è percepita come potenziale conflitto, ed ogni possibile conflitto è percepito come mortale: di qui la paura e l’orrore. I casi più vistosi riguardano le minoranze etniche, ma questi non sono nemmeno i più diffusi. La paura riguarda il vicino di casa che ha diverse opinioni; il collega di lavoro che non condivide un progetto;  il conoscente vestito in modo strano. Il potenziale conflitto non viene affrontato e simbolizzato, ma evitato mediante continui comportamenti da nevrosi fobica: fuga, sottrazione, evitamento dell’altro, del diverso, dell’eterodosso. Oppure il conflitto viene negato con periodici rituali ossessivi di fusione: allo stadio, nelle discoteche, nelle manifestazioni di piazza, nel turismo di massa.  L’altro evitato e l’altro “con-fuso” smettono di essere una minaccia. Quando l’evitamento e la fusione non sono più sufficienti, prende corpo l’ipotesi del massacro.

L’orrore  per la differenza è tale che non viene demonizzata solo all’esterno, ma è repressa anche nel mondo interno. Lo sforzo costante è quello di negare la propria individualità mediante pratiche anestetiche, consolatorie, rassicuratorie, autopunitive, omologanti. Quando il nemico esterno scarseggia, è la paura di sé a diventare centrale. Allora ogni sforzo viene dedicato all’autorepressione, all’autoflagellazione, alla dissimulazione. Gli abitatori della comunità devastata vivono nell’ombra, in costante allarme, tesi continuamente a mimetizzarsi, disposti  a mutilarsi, per via chimica (droghe e alcol) o chirurgica (plastiche e piercing) per non distinguersi. Essere normali, che agli albori della modernità era l’equivalente di un insulto, è diventato il massimo ideale della tarda modernità. La diversità individuale che, malgrado tutto, tende a dimostrare la sua irriducibilità, si esprime attraverso pratiche rischiose, pericolose, azzardate che non di raro esitano in forme di suicidio dissimulato: gli sport estremi, i massacranti rave parties, il gioco d’azzardo.

3. Sintomi schizo-paranoidi

La comunità devastata manifesta una pervicace negazione dell’evidenza, costruendo un’immagine di sé del tutto allucinata. Il dichiarato nelle scuole, nei servizi socio-sanitari, negli enti locali, nelle associazioni è che la loro comunità e quella immediatamente circostante sono il migliore dei mondi possibili. Laddove è pratica quotidiana l’autoritarismo è tutto uno sbandierare di democrazia. La più feroce e distruttiva competitività viene negata e soffocata da slogan inneggianti la cooperazione e il “lavoro di rete”. Laddove le persone vengono utilizzate alla stregua di automi o soprammobili, è tutto un peana per l’umanità. Insegnanti e scuole che praticano la repressione sistematica di ogni originalità, fanno un gran parlare di creatività e valore dell’individuo. Mentre il sistema burocorporativo è centrato sul controllo e la sottomissione di ogni ipotesi di intrapresa, profit e non, si sente il coro costante che inneggia l’autoimprenditorialità. Apparenza, dichiarato e illusioni non hanno alcun riscontro nella realtà. Nessun test di realtà riesce a contenere questa posizione schizoide. In una piccola comunità di mille abitanti, durante una riunione convocata il giorno seguente al funerale –civile, perché quello religioso fu negato- di un giovane tossicodipendente trovato morto sul sagrato, il parroco teorizzava che “qui la droga esiste solo come fatto sporadico”. In una scuola tecnica superiore, con un tasso di espulsione del 50% annuo, il Preside ha il coraggio di andare dicendo che “le cose non vanno male come dicono alcuni”. Il fatto più sorprendente è che né parroco né preside sono stati pubblicamente biasimati.

Naturalmente, quando tutto crolla e la comunità di autoassolve, occorre trovare un colpevole all’esterno. La posizione schizoide assume caratteri paranoici. Ogni parte della comunità disloca il negativo sulle altre: la scuola funziona male a causa della famiglia; la famiglia è in crisi a causa delle famiglie vicine; i servizi sono messe in difficoltà dall’Assessorato. E la comunità nel suo complesso disloca il negativo sulle comunità limitrofe o sui soprasistemi: nessun Comune collabora con i Comuni vicini; tutti i problemi della comunità dipendono dalla Provincia, dal Governo, dall’Unione Europea. Le tifoserie sportive sono il paradigma della fenomenologia schizoparanoidea.

I sintomi schizoparanoidei sono un carattere eclatante della tarda modernità, che si esprime nel locale come un frattale del globale. Anche l’Impero vive sulla negazione della sua crisi endogena ed è alla continua ricerca di crociate planetarie. La forza con cui la realtà è negata e il nemico esterno reso indispensabile è tale che chiunque provi ad opporvisi rischia la lapidazione. Chiunque facendo lavoro di comunità ha sperimentato pratiche serie di ricerca valutativa, ricerca-intervento, ricerca sui climi organizzativi e comunitari ha fatto l’esperienza del capro espiatorio. Qualsiasi ricerca che metta in luce realtà sgradevoli o rischi di stimolare la consapevolezza dei processi schizoparanoidei ha solo un esito: l’oblio negli archivi più remoti e l’ostracismo perpetuo –quando non la pura ritorsione- dei ricercatori che non lo accettano.

4. Depressione.

La comunità devastata che Jena Plissken scopre attraversandola è anche uno scenario di depressione. Fra rovine, ruderi, rottami e relitti si aggirano individui e gruppi il cui orizzonte è schiacciato sulle tribolazioni del presente. Il senso di vuoto radicale è riempito con l’affollamento di impegni quotidiani dei quali nessuno è in grado di fornire una motivazione. La generatività , fisica o simbolica, è sostituita dalla sterilità . Il peso della censura è limitato solo dalla gravità ed estensione dell’autocensura e dell’inibizione spontanea. Si moltiplicano i tentativi di suicidio indiretto tramite l’uso di sostanze chimiche, il traffico stradale, le abitudini alimentari. Tutto ciò configura un evidente quadro depressivo.

Il sintomo più evidente della depressione è la sparizione del futuro. Di fronte alla frantumazione, la comunità non reagisce col progetto. L’orizzonte non supera mai l’estate: non si ha notizia di progetti a respiro triennale e tantomeno decennale. La scomparsa del futuro è anche testimoniata dal rapporto ambiguo con le nuove generazioni. Ad un dichiarato trionfalistico di amore, rispetto e valore attribuiti ai giovani, non esiste comunità che nei fatti non agisca ogni tipo di ostacolo, vessazione o tirannia verso le nuove generazioni. La pseudo-nutritività che estende la giovinezza fino ai 35 anni non è in realtà che una punizione per la colpa dei giovani di abitare il futuro.  Nemmeno più il crimine assegna la condizione di adultità: è frequente sentir parlare di “due giovani rapinatori di 32 anni”. Le comunità soffocano i giovani con la retorica di un amore perverso, che impedisce loro di avere una casa, una famiglia, un lavoro, uno status di cittadino (in definitiva, un’identità autonoma). L’infanzia, l’adolescenza, la giovinezza sono sottratte alle età corrispondenti e trascinate in avanti, fino alla soglia dei 40 anni. Mentre gli adulti fanno a gara a comportarsi da bambini e ragazzi, i bambini ed i ragazzi veri vengono investiti di responsabilità, senso del dovere, decisioni critiche. E l’odio per i giovani è la traduzione in concreto della paura-odio per il futuro. Fra i ruderi è palese la convinzione che quando morirà l’ultimo adulto si spegnerà la luce sul pianeta.

La sparizione del futuro è affiancato dal vuoto del presente. Un vuoto che ricorda la morte e che dunque terrorizza e deve essere riempito in ogni modo. Impegni, rumori, stimoli visivi hanno raggiunto una dimensione ipertrofica, come una gabbia esistenziale che ha il compito di sostenere simulacri di individui non più capaci di reggersi senza sussidi ortopedici. La regola è essere altrove o stare per andarci. La regola è la scarsità del tempo: per parlare, per pensare, per ascoltare. Le riunioni nelle comunità sono sempre più simili a stazioni ferroviarie: gente che va e viene, qualcuno che non si presenta, pochissimi che restano. Il pieno del contesto corrisponde al vuoto dell’attenzione: decine di stimoli e persone con cui si entra in contatto ogni giorno, senza che avvenga alcuna vera esperienza. L’impossibilità di “esserci” e di “essere con” è un altro sintomo della depressione.

La sterilità biologica (meno figli) ma anche sociale (meno intraprese civili) sono un altro sintomo della defuturizzazine e della depressione. L’Italia è il Paese occidentale col tasso di natalità più basso e col minor numero di grandi imprese realizzate dagli Anni Settanta ad oggi. Non generare e non intraprendere, sono legati alla sparizione del futuro ma anche alla scomparsa della libertà. La depressione è determinista, sottomessa al destino, estranea al costruzionismo. Le comunità hanno ridotto a zero i gradi di libertà attraverso un capillare controllo del territorio per via normativa, massmediatica, ed infine visiva. Il sistema normativo consente già un ampio controllo preventivo dei comportamenti: non esiste praticamente alcuna attività comunitaria o privata che non sia sottomessa ad autorizzazione. Le telecamere ad ogni angolo sono l’ultima novità di un controllo già diffuso capillarmente con migliaia di norme e la pervasività di giornali, radio, tv, spettacoli che lanciano praticamente una sola ideologia: il controllo quotidiano. Tale controllo esterno è rafforzato,  dalla sua introiezione a livello individuale e dalla sua distribuzione a livello interpersonale. Questa dislocazione del controllo permette all’Impero di avere un volto bonario: la repressione avviene a livello preventivo nelle fasi di inclusione sociale, e poi è delegata in gran parte all’inibizione autogena ed alla censura interpersonale. Si moltiplicano, attraverso la pedagogia massmediatica, gli appelli all’autocontrollo e al controllo-denuncia dei vicini che trasgrediscono. Naturalmente a posteriori, nei casi di comportamenti troppo eterodossi, il volto bonario del controllo può diventare in ogni momento sadico. Le telecamere ad ogni angolo di strada non scandalizzano perché raramente qualcuno ha il tempo e le competenze per vedere il materiale girato. Ma possiamo giurare che in presenza di un qualsiasi comportamento eterodosso, non necessariamente criminale, il materiale video girato diventa subito una prova a carico. Sterilità biologica e sociale, defuturizzazione, libertà zero chiudono il cerchio della fenomenologia depressiva delle comunità post-moderne. Nei casi più gravi si registrano i suicidi reali o i tentativi di suicidio per via indiretta chimica, stradale, sportiva, alimentare.

D. Tassonomia delle Comunità postmoderne

La devastazione delle comunità territoriali e delle comunità organizzative tradizionali, non ha eliminato i bisogni di totalità, di appartenenza, di condivisione, di identità collettiva specifica che l’idea di comunità soddisfa. La comunità è un’aggregazione antropologica che assume diverse forme storiche ma la cui essenza si fonda su irriducibili bisogni umani. Se le comunità tradizionali sono state frantumate dalla liquidità torrenziale della tarda modernità, non per questo è sparito il bisogno umano di aggregazioni più ampie del piccolo gruppo e meno ampie della società. In questi di transizione dalla Modernità all’Immaterialesimo troviamo numerose sperimentazioni di comunità. Tentativi di ritrovare uno spazio comunitario diverso dai tradizionali, ma capace di rispondere ai bisogni che quelli soddisfacevano. L’uomo ha sempre bisogno di appartenere ad uno spazio di scambio di “doni ed oneri” (cum-munus), circoscritto da mura (cum-moenia) che distinguano il “noi” dagli altri. Il fatto strano è che questi tentativi di comunità sono abitualmente esenti da quello che chiamiamo “lavoro di comunità”. Gli operatori di comunità tradizionali (educativi, psicosociali, assistenziali, ecc.) sono coinvolti nelle frantumate comunità territoriali, ma assenti dalle sperimentazioni di nuove comunità in atto. Ecco alcuni esempi.

1. Cloniformi: corporazioni e new towns

Con questo termine indichiamo quelle comunità che sono “clonate”, cioè ripetute sempre uguali sulla base di un modello che ha mostrato la sua funzionalità. Questi tipi di comunità si basano sull’omologazione col sistema imperiale, fra loro ed al loro interno. Intanto esse nascono non come alternativa al sistema sociale dominante ma semmai come sua imitazione iperrealistica. Le nuove corporazioni che nascono (professionali, di interessi, di volontariato, ecc.) si preoccupano di strutturarsi in modo funzionale al sistema e si organizzano secondo gli stessi parametri. Aggregano soggetti che hanno un carattere distintivo uguale, e che organizzano la loro visione del mondo intorno a questo tratto. Cloniformi sono anche le “New towns”, nuove comunità progettate dal nulla –molto simili fra loro- , e centrate su valori come la sicurezza, l’isolamento, la omogeneità di classe. Le corporazioni e le New towns rispondono certamente al bisogni di identità, relegando tutti gli estranei al ruolo di potenziali nemici. Soddisfano anche il bisogno di totalità, ponendosi come fornitrici di servizi plurivalenti e integrati fra loro, e diventando spesso una fonte di socializzazione esclusiva (molti membri di queste comunità hanno relazioni solo fra loro). L’appartenenza in genere è anche stimolata dal vantaggio di status sociale che l’essere membro di una corporazione o di una New Town fornisce. Il lato debole delle comunità cloniformi risiede nella scarsa varietà biologica e culturale che consentono. Con una metafora genetica, possiamo dire che queste comunità sono destinate all’indebolimento progressivo da “incesto”.

2. Retoriche

Le comunità retoriche sono quelle a carattere prevalentemente verbale. L’esempio più vistoso è quello legato alla rianimazione recente del campanilismo e del patriottismo. Ovunque è un fiorire delle tradizioni campanilistiche dei palii, delle quintane, delle rappresentazioni sacre o storiche, delle feste contadine dimenticate. Perlopiù questi revivals hanno una funzione turistica, ma accarezzano anche l’ipotesi di rianimare il senso delle radici, della tradizione, della “piccola patria”. L’invenzione della patria “padana”, come l’importanza assegnata all’inno e alla bandiera nazionali, appartengono a questa retorica. La fragilità di queste comunità risiede nel fatto che raramente riescono a porsi come soddisfattici dei bisogni di totalità, appartenenza, identità e condivisione. Si tratta infatti di fenomeni afferenti alla società dello spettacolo, privi di conseguenze concrete. Nessun lombardo percepisce una qualsiasi comunità padana, come nessun italiano aumenta la sua appartenenza alla patria cantando l’inno o esponendo la bandiera al balcone. Queste comunità si vitalizzano solo nel caso di un esplitico e grave attacco esterno, e durano il tempo di quello. Raramente si tratta di comunità “per”: più spesso esistono solo in quanto “contro”. Di questo tipo sono anche diventate molte comunità partitiche o religiose, cioè a sfondo ideologico. Comunità che in via ordinaria hanno una vita simil-comatosa, si rianimano in occasione di anniversari, celebrazioni, festival oppure a seguito di un attacco esterno.

3. Artificiali

Le comunità artificiali sono quelle più legate alla società dello spettacolo ed ai media in generale. Raramente queste si definiscono tali dall’interno. Spesso sono inventate e denominate dai mezzi di comunicazione: i boat people, il popolo del fax o della notte, i girotondini. Altre volte sono pure creazioni dello star system: i fan club di musicisti, sportivi, starlet;  i sostenitori del Grande Fratello; i partecipanti e gli spettatori di un talk show.  Si tratta di comunità create a tavolino e dall’esterno, che aggregano individui per un semplice comportamento (acquistare un disco, inviare una lettera, presenziare ad uno spettacolo, ecc.) e dunque caratterizzate da una estrema volatilità. Strutturano una identità e consentono un’appartenenza molto parziali, occasionali, superficiali. Raramente offrono scambi fra i membri, anche se, basandosi su una leadership con un certo carisma, consentono identificazione  in cambio di sudditanza.

L’unico tipo di comunità “artificiale” che meriterebbe uno studio approfondito e che mostra caratteri sorprendentemente interessanti è quello della “tifoseria” calcistica. Il calcio è l’unico sport che presenta questo fenomeno comunitario. Per molti tifosi la squadra amata rappresenta una totalità: parlano di fede, visione del mondo, filosofia. L’appartenenza è forte e sembra slegata dai singoli individui o da leadership carismatiche: i tifosi restano tali anche se cambiano i calciatori, gli allenatori, i presidenti. L’identità offerta dal tifo calcistico è così forte da arrivare a giustificare abituali scontri fisici, che arrivano anche alla morte. Anche lo scambio, sia pure in forma minima, non è assente dalla comunità di una squadra calcistica. I tifosi non sono meri fruitori, come i membri delle altre comunità artificiali, ma influenzano la vita della squadra, partecipano ed a volte anche determinano certe decisioni, godono di privilegi. Inoltre le tifoserie sono veramente interclassiste, e aggregano membri di diverso reddito, cultura, origine geografica.Le comunità del tifo hanno dunque caratteri molto estesi e molto simili a quelli delle comunità tradizionali. Il loro unico limite è la totale distanza dalla vita reale e quotidiana. Sembra che il fantasma delle comunità civili defunte, sia potuto incarnarsi in queste comunità di tifosi in quanto abitatrici di una dimensione parallela, un universo a parte, un’oasi spazio-temporale, senza contatti con la vita civile e lavorativa quotidiana.

4. Transitorie

Le comunità transitorie sono quelle limitate nel tempo: grandi kermesses, fiere, gruppi musicali o teatrali in tournèe, troupes cinematografiche, seminari di formazione a carattere residenziale, villaggi turistici. Migliaia, centinaia o decine di persone che, per un periodo limitato, vivono insieme per l’intera giornata. Il tipo più generalizzato di questa categoria è certamente quello dei villaggi turistici, oggi frequentati da milioni di persone nel mondo. Tutte queste comunità condividono il carattere “parallelo” delle precedenti, con la differenza che in genere hanno un impatto abbastanza significativo sulla vita reale. Pur essendo transitorie, la loro durata è piuttosto significativa per cui risultano essere una parentesi che influenza il corso della vita ordinaria. Per il periodo che durano esse sono la vita ordinaria. Creano una forte appartenenza e una discreta identità, si presentano come totalità esperienziale perché invadono tutte le ore della giornata,  offrono opportunità di scambio e condivisione a volte anche profondi. E’ un peccato che gli studi su queste comunità siano tanto rari, perché potrebbero dare elementi da trasferire nelle comunità territoriali tradizionali. Anche se in particolare la  transitorietà costituisce un elemento di compressione che accelera i processi e una riduzione del peso della  routine che invece connota le comunità territoriali. Le comunità transitorie godono del vantaggio da “statu nascenti” che è difficilmente trasferibile.

5. Mistiche

Queste comunità, generalmente piccole, sono le uniche ad avere mantenuto i caratteri delle comunità territoriali tradizionali. Siano di tipo New Age (cioè tecnofile), religiose come quelle “arancioni”, pauperiste come gli Amish, o di tipo terapeutico, hanno in comune una ideologia forte ed carattere settario. Forte identificazione ed appartenenza, valore totalizzante, elevato e significativo numero di scambi, decisa separazione dal mondo esterno. La diffusione di queste comunità è generalmente combattuta dalla società in generale in modo ideologico, ma a volte anche militare (ricordando la strage di Waco). D’altro canto è innegabile che la loro diffusione è una delle risposte al bisogno di comunità negato dalla società tardo moderna. Il motivo principale dell’ostracismo che colpisce queste comunità è dato dal loro presentarsi come totalità: di qui le accuse di settarismo, di plagio verso i membri, di autoritarismo della leadership interna. La debolezza di queste accuse risiede nel fatto che sono proprio questi elementi che caratterizzano le comunità mistiche come tali, e che proprio la loro esistenza motiva l’adesione dei membri. Questa intollerante cultura tardo-moderna dimentica d’altronde di essere nata proprio da comunità monastiche  e da Comuni  che avevano gli stessi caratteri oggi rimproverati alle comunità mistiche. Il limite delle comunità mistiche, come di tutte le comunità sembra la non generalizzazione, ma in realtà è proprio il carattere localistico, di non  esportabilità, che distingue le comunità da altre aggregazioni umane. Le comunità soddisfano appunto il bisogno umano di particolarismo totalizzato: qualcosa di molto esclusivo che può essere considerato come universale, esaustivo, globale.

6. Virtuali

Di grande interesse sono le nuove comunità in forma virtuale. Capaci di creare forte appartenenza e identità, sicuramente basate sullo scambio, hanno come solo limite il canale telematico, anche se, a livello d’immaginario, arrivano in certi casi ad assumere una valenza totalizzante. Le comunità telematiche sono di tipo artificiale (quando sono generate sia per scopi puramente commerciali) ma anche  di tipo mistico (quando aggregano passioni molto forti). Le esperienze sono relativamente giovani, se pensiamo che la prima comunità telematica (formata da genitori e chiamata Well) risale agli Anni Ottanta. Tuttavia, quello che possiamo osservare sul web è che le comunità virtuali sembrano avere molti titoli per prendere il posto delle comunità tradizionali. Quando le abitazioni saranno fortemente informatizzate e i dispositivi elettronici portatili altrettanto, le comunità virtuali potranno estendere la loro azioni al quotidiano consentendo la ri-creazione di un tessuto di scambi e identità.

E. La Comunità del lavoro di Comunità: frattale o virus?

1. Fra corporativismo e precariato perpetuo

La comunità dei lavoratori di comunità è tragicamente simile alle comunità nelle quali lavora. Il lavoro di comunità ha una storia di circa 40 anni, ma non è ancora riuscito a trovare una coesione, un’identità, una base di scambio. Da una parte c’è la tendenza ad entrare nel sistema buro- corporativo, affiliandosi alle corporazioni più forti (federazioni, cordate partitiche, clientele politiche, associazioni professionali, culturali o sindacali consolidate) o creando nuove corporazioni (come gli Ordini degli assistenti sociali o degli psicologi). Dall’altra domina una sorta di precariato perpetuo che non garantisce alcuna continuità ed alcuna autonomia operativa. La comunità del lavoro di comunità è nelle stesse condizioni di decine di altre, di fronte al sistema imperiale: al bivio fra l’essere inclusa alle condizioni imposte dal potere, o l’essere perpetuamente esclusa. La comunità del lavoro di comunità non offre a tutt’oggi identità e appartenenza, né occasioni di scambio interno. Questo, malgrado esistano curricula formalizzati di psicologia, servizio sociale, psichiatria, medicina, educazione “di comunità”. E malgrado esistano centinaia di interventi, progetti, leggi che si richiamano al lavoro di comunità. Ad oggi insomma la comunità del lavoro di comunità è speculare alle comunità territoriali in cui opera. E’ un frattale, con tutte le caratteristiche del contesto cui appartiene.

2. Tutti in guerra contro tutti

La frantumazione della comunità del lavoro di comunità si esprime attraverso l’assenza di comunicazioni e interazioni fra i membri, ma anche mediante un conflitto globale che vede tutti contro tutti. Chi deplora l’esasperata competizione del capitalismo produttivo, finge di non conoscere i livelli di competizione esistente nel cosiddetto “lavoro sociale”. Pubblico contro pubblico: raramente un servizio pubblico coopera con servizi della sua organizzazione, o con servizi operanti nella stessa comunità territoriale. Pubblico contro privato: non esiste servizio pubblico che non tratti le realtà private del lavoro di comunità con un misto di disprezzo, paternalismo, manipolazione; d’altronde sono rare le realtà private che non cercano di sfruttare i servizi pubblici come vacche da mungere. Privato contro privato: come in tutte le situazioni deprivate e precarie, i “poveri” sbranano altri “poveri” per ogni pelle di patata. Fra le realtà del privato sociale il gioco è quello della savana: avere più territorio a disposizione e mangiare quante più vittime possibili.  La guerra di tutti contro tutti, in presenza di un “mercato” drogato dal controllo corporativo non ha alcuna relazione coll’innovazione o la qualità dei servizi e prodotti. La ragione della guerra non è l’utente, ma il potere. Non vince mai chi offre servizi migliori o prestazioni di maggiore qualità: vince e sopravvive chi naviga meglio nel labirinto delle dinamiche buro-corporative. Sicchè è normale vedere progetti di comunità affidati a enti o gruppi che non hanno alcuna competenza interna. Né la conferma e la continuazione di un progetto è legato ai risultati ottenuti. L’inesistenza di sistemi di inclusione e valutazione formalizzati è la prova evidente che il lavoro di comunità non è in alcun modo finalizzato al miglioramento della loro qualità, ma solo al controllo dei lavoratori di comunità e, tramite questi, al controllo dei sudditi.

3. Più potere che capitale

Malgrado ormai il lavoro di comunità ed il settore sociale in genere muovano migliaia di miliardi, non si può dire che si tratta di un ricco business. Certo è un comparto produttivo se dà lavoro a qualche milione di soggetti e produce qualche migliaio di miliardi di utile l’anno. Se il solo volontariato ha avuto nel 2001 ben 4.000 miliardi di utile, non è assurdo attribuire all’intero comparto un utile di 4 o 5 volte maggiore. Ma non è questo il centro del gioco. Che invece è il potere derivante dal controllo e dal consenso, in un gioco di sponda fra operatori di comunità e burocorporazioni politico-amministrative. L’esempio paradigmatico di questa dinamica è il Gruppo Abele, una specie di Fininvest del sociale. Pochi ricordano che, fino a poco prima di diventare capo del Governo, era R.Prodi il presidente del Gruppo Abele. Pochi hanno sottolineato che qualche mese fa tutti i parlamentari di opposizione hanno fatto un’interrogazione al Governo per la esclusione del gruppo Abele dal registro dei Formatori di insegnanti. Nessuno può negare i meriti del gruppo Abele in molti campi, ma è evidente la sua integrazione nel sistema di scambio politico, se un “povero” gruppo di volontariato ha come ex-presidente il n.1 dell’Unione Europea e riesce a ottenere interrogazioni parlamentari firmate da tutta l’opposizione. Sul piano e con lo stesso potere del Gruppo Abele, ci sono altre decine di organizzazioni operanti nel lavoro di comunità. Ma se poche arrivano a certi vertici di potere, quasi tutte sono modellate sulla stessa filosofia: lavoro di comunità-controllo politico-consenso-potere. Le organizzazioni del lavoro di comunità, in cambio di danaro e potere, garantiscono alle burocorporazioni dominanti il consenso degli operatori e il controllo degli utenti.

4. Asserviti al potere, prepotenti coi deboli 

La microdinamica del potere è ormai evidente a tutti i livelli dell’impero, ma nel lavoro di comunità lo è ancora di più. La regola principale è la sottomissione acritica a chiunque detenga un potere. Da anni non si sente una voce pubblica che critica un Assessore, un dirigente regionale o ministeriale, un segretario comunale. Tanto meno si levano voci critiche verso le normative perverse prodotte per i diversi comparti del Welfare State. Ogni eventuale tentativo di critica e di sottrazione al potere è punito con la esclusione dal banchetto. La quale avviene per via del tutto legale. Come si è riusciti a eliminare da un settore tanto delicato ogni critica o dissenso? Con un meccanismo in cinque fasi. La fase uno consiste nella  creazione di una normativa ipertrofica, incomprensibile, spesso irrazionale e vessatoria. Un simile carcere cartaceo rende chiunque colpevole in ogni caso. La fase due risiede nei meccanismi di inclusione: una selva di gradini e filtri consente la soppressione preventiva di ogni potenziale soggetto non omogeneo al sistema. Le fasi 1 e 2 già ottengono come risultato la fase tre: la introiezione della normativa come super-io inibitorio e paralizzante, alimentato da un senso di colpa permanente. La fase 4 completa il processo, con i controlli in itinere: dalle telecamere in ogni angolo alle ispezioni, dalle rendicontazioni alle lettere di richiamo. La fase cinque, l’ultima assicurazione del sistema, è nel ritardo dei finanziamenti, che può essere modulato a piacere. Il meccanismo in cinque fasi non funzionerebbe se il tutto fosse trasparente e pubblico. Invece, e questa è l’idea grandiosa del potere, l’intero processo è opaco e privatizzato, a discrezione dei detentori del potere. I quali possono interpretare una norma, autorizzare o rifiutare una inclusione, effettuare o no un controllo in itinere, sollecitare o sedare i sensi di colpa, ritardare o accelerare un pagamento, del tutto a piacere. Ma tutto ciò non è illegale? Niente affatto: l’ipetrofìa ed il caos normativo consentono di trovare pezze giustificative legali per ogni comportamento del potere. Esiste sempre una norma che si può utilizzare per escludere qualcuno, perche’ il punto di forza è che tutti sono a priori colpevoli. Quindi escludere i colpevoli sgraditi -peraltro rari, vista la pervasività dell’autorepressione- è azione perfettamente legale.

5. Da servi e secondini a  ideatari: leader dell’Evo Immateriale?

Gli operatori di comunità sono oggi completamente asserviti al sistema di dominio buro-corporativo. Sono i “secondini buoni” del controllo sociale. La polizia del consenso. Prima di tutto operando un controllo su se stessi, e in secondo luogo contenendo gli utenti.  Il  fatto trascurato anche dagli analisti più acuti è che gli operatori di comunità, gli operatori sociali e culturali, sono l’unica aggregazione pensante del sistema imperiale. Corrispondono a quella che un tempo veniva definita come “ceto intellettuale”a vocazione umanistica. Gli “ideatari” cioè coloro che non hanno altro da perdere che le loro idee sono la sola categoria potenzialmente rivoluzionaria, in un’epoca che sta diventando a prevalenza immateriale. La post-modernità, che preferisco chiamare immaterialesimo, sta mettendo al suo centro, per la produzione della ricchezza e del potere, i processi immateriali. Al centro di questi processi immateriali si colloca il ceto intellettuale umanistico, del quale i lavoratori di comunità fanno parte a pieno titolo. I lavoratori di comunità, sociali o immateriali che si vogliano, sono al centro del centro della grande onda immateriale. Un cambiamento effettivo della civilizzazione imperiale, globalizzata, turbo-capitalista potrà avvenire solo attraverso un salto di qualità culturale, emotivo, educativo, relazionale. Quali ceti potranno assumere la leadership di questo salto di qualità? Non certo i contadini o gli operai, già attori di rivoluzioni precedenti, ma oggi praticamente in via di estinzione. Non certo la borghesia, protagonista della rivoluzione moderna e dunque oggi principale elemento di conservazione e reazione. All’orizzonte ci sono solo due possibili attori di un cambiamento epocale. Gli immigrati e l’Islam come forze antagoniste dall’esterno; e gli ideatari come forse innovatrici dall’interno. L’antagonismo esterno fa presagire un mutamento di carattere violento e dunque è poco auspicabile, anche se piuttosto probabile. L’innovazione dall’interno, ispirata dal ceto degli ideatari sembra l’unica opzione pacifica possibile. Ma perché gli ideatari, e fra loro gli operatori di comunità, possano porsi come guida di un mutamento pacifico verso l’Immaterialesimo occorre che sorga una coscienza per ora molto lontana all’orizzonte.

NUOVI PRINCIPI PER IL LAVORO DI COMUNITA’

L’Intervento di Comunità migliore è quello che non abbiamo ancora fatto (e non ci lasceranno mai fare), ma che faremmo secondo queste idee di fondo.

1.          La comunità non esiste, ma va costruita  e dunque nessun Ente ha i titoli per rappresentarla.

Il Comune è una mera espressione amministrativa della comunità, quindi non può che essere una parte della comunità “cliente”. Lo stesso vale per la ASL, o per altre organizzazioni “parziali”. Il committente formale è sempre un ente sovracomunale (Regione, Ministero, UE), ma la comunità nel suo insieme va considerata come committente e cliente effettivo. Una eccessiva attribuzione di potere al Comune o alla ASL si configura come servitù immotivata.

2.          Nessun Ente è in grado di esprimere una effettiva delega o rappresentanza della comunità o di sue parti.

Contrariamente a quanto abbiamo fatto dal 1980 al 2000, il governo di un intervento di comunità non può più essere affidato a un Ente o ad un Comitato composto da Enti territoriali (Parrocchia, Comune, ASL, Scuola, ecc.). E’ ormai acclarato che nessun Ente non rappresenta che la sua leadership. Quindi il governo di un intervento dovrebbe essere nelle mani di cittadini volontari che se ne assumono la responsabilità a titolo personale.

3.          La frantumazione è anche assenza di patto sociale.

Non è affatto scontato che oggi esista ancora un “patto sociale” fra i cittadini di una comunità, né che esista a priori una motivazione condivisa a migliorare la comunità.  Quindi  ogni cittadino  interessato e disponibile a partecipare ad un intervento di comunità , dovrà discutere e sottoscrivere un “patto di sviluppo comunitario”.

4.          Lo sviluppo della Comunità deve prendere il posto della vecchia costruzione di cattedrali.

Dato il grado di devastazione attuale delle comunità territoriali e delle loro parti, non è accettabile alcun intervento che sia inferiore al triennio. Nel  periodo dell’intervento tutte i progetti degli Enti partners dovrebbero essere  coordinati e convogliati verso lo stesso, e tutte le attività straordinarie dovrebbero essere sospese.

5.          Il finanziamento dell’intervento deve essere sottratto al controllo di poteri extra-comunitari.

Quindi  il finanziamento dovrebbe essere o autogeno, tramite auto-tassazione delle realtà individuali e collettive della comunità. Nel caso di finanziamento da parte di un Ente sovra-comunale, questo dovrebbe essere sottoposto al solo controllo dei cittadini che partecipano al progetto.

6.          L’intervento di Comunità deve avere come oggetto l’insieme e le connessioni fra le parti.

Un intervento parziale o settoriale favorisce la frantumazione comunitaria. Quindi l’intervento dovrà toccare ogni comparto materiale e immateriale, pubblico e privato, della vita comunitaria senza alcuna destinazione settoriale.

7.          Meta obiettivo di ogni lavoro di comunità è l’emancipazione comunitaria.

Quindi ogni intervento deve prevedere un’azione formativa finalizzata alla costituzione di équipes tecniche locali che possano continuare il lavoro dopo il periodo di start-up.

8.          Ogni azione del lavoro di comunità deve essere pubblico.

Particolare attenzione dovrà essere assegnata alle forme di marketing sociale, documentazione, informazione.