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Mondo adulto e futuro dei giovani: progetti o illusioni ? (Guido Contessa)

Presentazione.
Questa serie di contributi cercherà di affrontare la questione del futuro dei giovani come viene percepito e definito dal mondo adulto. La prospettiva di fondo è che oggi la cultura degli adulti, di fronte all’impotenza di progettare il futuro delle nuove generazioni, copre questa mancanza con un’ideologia, una serie di slogan e di parole d’ordine, che servono a tacitare le coscienze ma non hanno alcun riscontro nei comportamenti reali. L’ideologia è quella che viene definita della “solidarietà” e si compone di slogan quali terzo settore, volontariato, formazione, auto-imprenditorialità. Si tratta di un’interpretazione post-moderna del vecchio concetto di Welfare State. Questa idea, di matrice nord- europea, impegnava lo Stato socialdemocratico a garantire a tutti i cittadini standard minimi di benessere “dalla culla alla tomba”. La traduzione italiana del concetto -sperimentata dagli Anni Settanta alla fine degli Ottanta- è diventata quasi subito quella di “Stato Assistenziale”: un impegno dello Stato a garantire assistenza a tutti i bisognosi. Si badi bene: non benessere, sviluppo, emancipazione, bensì assistenza. Le vicende dell’ultimo decennio sono note a tutti. Il deficit costante dello Stato, il progressivo rifiuto della ideologia socialdemocratica e la parallela consumazione di milioni di posti di lavoro, hanno creato un mixing culturale di sovietismo burocratico pervasivo e di liberismo selvaggio, riuscendo a creare un regime italiano con il peggio dei due sistemi culturali della modernità: capitalismo e comunismo. Per il quale l’assistenza è sotratta alle autonomia locali e sottoposta al dominio del centro, che controlla, lesina, rallenta ogni contribuzione sociale; il lavoro va inventato; tutte le attività immateriali e sociali del benessere (cultura, crescita, lavoro, ecc.) sono lasciate a carico dell’individuo e del suo censo. Naturalmente questa ideologia non è consapevole, né può essere dichiarata. Essa viene mascherata da un velo chiamato solidarietà (1), che si compone dei tasselli sopra elencati, ma la cui natura ideologica è resa evidente dalle osservazioni dei comportamenti politici, legislativi ed amministrativi concreti che speriamo di smascherare con questi articoli.
(1) cfr. Ricossa S. "I PERICOLI DELLA SOLIDARIETA'", Rizzoli, Milano, 1993

1.1.Terzo settore
Questa dizione comprende l’insieme delle organizzazioni, profit e non, che operano nel settore dei servizi alla persona e dei servizi immateriali. Il terzo settore è nato come l’insieme delle piccole imprese impegnate nei servizi sociali, cioè rivolti al “socius” (assistenza, cultura, ecologia, cittadinanza), poi ne sono state incluse le associazioni di volontariato “puro” (dalla Croce Rossa ai gruppi di auto-aiuto) e le associazioni di interesse (WWF, LegaAmbiente, ecc.), poi le federazioni e le confederazioni, i consorzi e le reti, nazionali e multinazionali. Oggi il terzo settore è una forza economica e soprattutto politica non inferiore agli altri settori (di produzione e scambio) del mondo post-industriale. Tutte le analisi relative alla diminuzione dei posti di lavoro, individuano in questo settore la soluzione a breve e lungo termine della crisi occupazionale. Le politiche sociali, prima pubbliche, ora vengono attuate attraverso questo settore. Molti sforzi di orientamento scolastico-professionale vengono diretti a stimolare i giovani verso il terzo settore. La tradizionale beneficenza, ridefinita solidarietà o sponsorizzazione, è diventata, insieme al gioco d’azzardo, una delle fonti primarie di finanziamento dello Stato e delle sue politiche sociali. Questo settore è oggi il braccio operativo dell’autorità statale o comunitaria per tutte le azioni assistenziali, sociali, formative e culturali. Possiamo affermare che l’unico ambito ancora (per poco) estraneo a questa concentrazione è la Scuola, pubblica e privata, dell’Obbligo.
Nel terzo settore sono comprese organizzazioni che operano nell’immateriale (cura, assistenza, tempo libero, cultura, ecologia, cittadinanza, sport, arte, ecc) di tipo diverso:

  • le associazioni di volontariato puro, autofinanziate e senza alcun operatore retribuito
  • le cooperative di lavoro con 5/6 soci-dipendenti
  • le cooperative con 1.000 e più dipendenti
  • i gruppi che gestiscono servizi pubblici in appalto, e presentano un organico fatto di soci, dipendenti, obiettori, tirocinanti e volontari
  • le confederazioni o i consorzi che raggruppano oltre 700 imprese
  • le federazioni internazionali operanti in 20 e più Paesi
  • gli studi professionali di giovani laureati
  • le piccole società erogatrici di servizi sociali o immateriali, composte da collaboratori a gettone
  • le associazioni culturali e d’interesse, totalmente finanziate dagli Enti Locali o dal Governo
  • le cooperative di tipo “B”, che vedono al loro interno una quota di soggetti a disagio (malati di mente, ex- tossicodipendenti, disabili, ex -carcerati)

Carattere peculiare di questo settore è l’operare in assenza totale di un mercato, che non sia quello politico. Non esiste concorrenza, la libertà del cliente-utente-consumatore è limitata al binomio accettazione-rifiuto del servizio, non esistono regole anti-trust, non esiste sindacato, non esistono criteri di qualità. O meglio esistono tutte queste variabili ma solo in riferimento al sistema politico. La concorrenza è fra cordate ideologiche (partiti, correnti, leaders, famiglie, ecc.). Il fruitore del servizio è considerato un beneficiato dal quale si pretende un comportamento remissivo, cooperativo, subalterno. Le uniche barriere ai grandi trust sono date dalle spartizioni ideologiche e territoriali. Professioni, mansioni, contratti sono gestiti in maniera del tutto privatistica: il lavoro nero ed il precariato sono la regola, peraltro fondata sulla fedeltà e l’appartenenza ideologica. Letteralmente nessuno fra gli attori del sistema è portato a richiedere la Qualità delle prestazioni. Non gli Enti committenti, che hanno come solo obiettivo il risparmio ed il controllo formale. Non gli utenti, che vivono le prestazioni loro erogate come pura elargizione liberale, anziché come diritto. Non la comunità e la società, che richiedono essenzialmente la recinzione, il controllo e l’esclusione del disagio; e relegano l’immateriale ed il sociale nella sfera dell’individuale e del privato. Non gli operatori, che registrano la loro entrata e permanenza nel terzo settore come sottoposta al solo vincolo della fedeltà e sottomissione all’Organizzazione. Non i managers e gli imprenditori del privato sociale, che sono schiacciati nella morsa di un committente che non vuole la Qualità e di un utenza che non sa nemmeno che esiste.
Questo quadro un po’ impietoso non vuole assolutamente sminuire le isole del privato sociale che, del tutto a loro spese, si sforzano di cercare la qualità, per un ricerca di senso e per il desiderio di soddisfare effettivamente i bisogni immateriali della società. Il fatto è che si tratta appunto di isole molto limitate, fragili e solitamente emarginate. Né il quadro intende indicare l’esistenza di un mente perversa che progetta e pilota la situazione, per interessi di qualche occulto potere forte. Lo scenario descritto è anzitutto un sistema culturale, che pervade l’intera società e col quale tutti (potere statuale, potere civile, operatori, cittadini, mass media) colludono.

1.2. L’organizzazione d’impresa nel Terzo settore.
Abbiamo già sostenuto che il problema non va visto come un disegno occulto di forze dello sfruttamento, ma come un equivoco culturale della società. Il terzo settore è pieno di persone in buona fede, che si sacrificano con gratuità, che vicariano un regime totalitario e vorace, in concreto anti-solidale, ed una società che aborre le responsabilità. I leaders delle organizzazioni del Terzo settore hanno molti limiti, ma è pur vero che gestiscono sistemi che garantiscono condizioni vitali minime, in un contesto del tutto ostile.
Intanto non esiste a nessun livello un’ombra di pianificazione. Vi sono appalti, fatti da Enti Locali o Pubblici, per servizi della durata di 1 mese. I Progetti finanziati dalle varie politiche sociali hanno per solito durata annuale, ma poiché l’approvazione arriva con ritardi dai 3 ai sei mesi, la durata diventa semestrale. In secondo luogo, la tendenza attuale è quella del risparmio sopra ogni altra considerazione, per cui le gare sono fatte al ribasso del prezzo: non è raro che per vincere un appalto, occorra pagare operatori qualificati 6.000 lire orarie lorde. Vi sono appalti esplicitamente basati sull'idea di sottopagare gli operatori; ed altri che addirittura prevedono perdite secche per l'aggiudicatario, rendendo quasi ineluttabili le illegalità. Quando la cifra è più alta, viene espressamente esclusa la possibilità che l’organizzazione carichi sull’appalto i costi generali, il che costringe a tagliare i compensi degli operatori con giri conto che vanno oltre la legalità. Tutto il terzo settore è in perenne situazione di ricatto da parte della burocrazia che può sempre trovare, in organizzazioni non subalterne, irregolarità formali da punire. In terzo luogo, i pagamenti dovuti al Terzo settore, vengono attentamente condizionati ai problemi di cassa dello Stato e delle Regioni, per cui ritardano a volte di anni. Basti un esempio, su tutti. I finanziamenti per progetti apporvati dalla Legge 309 (prevenzione della tossicodipendenza) per l’anno 1995 (sic!) sono a tutt’oggi in attesa di erogazione. Infine, e non meno importante, la precarietà è aggravata dal fatto che, poiché i criteri di assegnazione dei progetti sono in gran parte legati alle cordate politiche, le organizzazioni sono costrette a legarsi a questo o quell’Amministratore, subendo poi un danno da ogni ribaltamento di alleanze e da ogni precarietà del calendario politico (sei mesi prima e sei mesi dopo ogni elezione nessuno decide alcunché; durante e subito dopo le lunghe crisi di Giunta, nessuno decide, ecc.).

1.3. Terzo settore e lavoro giovanile.
La descrizione fin qui fatta, ha numerose conseguenze politiche, sociali, culturali che non possiamo esaminare in questa sede. Ci soffermiamo solo sui risvolti che riguardano il lavoro giovanile. La tanto sbandierata potenzialità occupazionale del terzo settore va analizzata alla luce delle concrete condizioni di lavoro nelle quali si trovano gli operatori. E dunque vediamo.

Le professioni, i titoli di studio, le competenze formali sono elementi del tutto casuali.
Non presiedono al reclutamento, che si basa sulle conoscenze, i rapporti di fedeltà, l’appartenenza ideologica. Il terzo settore è zeppo di educatori senza qualifica, animatori senza diploma, psicologi senza abilitazione, formatori senza specializzazione. Quindi è del tutto infondato il classico ragionamento che collega la formazione di base con il lavoro. La maggioranza delle figure operanti nel terzo settore hanno qualifiche del tutto eccentriche con la mansione assegnata. In certe Regioni oggi le cose stanno migliorando, ma sono ancora tante quelle in cui la frequentazione dell’Oratorio, l’amicizia del leader dell’organizzazione o di un capo-partito hanno molto più valore, ai fini dell’assunzione, del titolo di studio o della specializzazione. I quali nemmeno presiedono alla retribuzione ed al tipo di contratto. La vecchia idea di una paga e di un inquadramento commisurati alla qualifica è quasi del tutto ignota al terzo settore, dove il sindacato è praticamente inesistente e gli operatori sono privi di qualunque tutela. Questo peraltro non è un problema che riguarda solo il privato sociale, ma anche il pubblico sociale dei servizi immateriali, dove il precariato (ci sono Comuni nei quali vi sono operatori precari da oltre 10 anni), di lavoro nero (è prassi pagare come liberi professionisti operatori che di fatto sono dipendenti), assenza di diritti sindacali ,sono la regola. Laureati che svolgono mansioni dequalificate e sottopagate operano a fianco di soggetti senza diploma di Scuola Media Superiore che svolgono mansioni da laureati: tutti insieme comunque sono pagati al minimo o sotto il minimo sindacale, e sono in regime contrattuale di precariato. In tutto ciò la crescita delle professioni sociali, la deontologia professionale, la formazione di base e la motivazione alla qualificazione risultano fortemente indebolite. E’ intuitivo come, di conseguenza, la qualità delle prestazioni e il trattamento degli utenti siano largamente al di sotto della soglia di sufficienza.

Le carriere sono un’utopia, la crescita professionale un caso. Il terziario sociale è soprattutto costituito da piccole organizzazioni, che in quanto tali, hanno difficoltà a prevedere carriere verticali o orizzontali. Diventare dirigente o coordinatore, passare da una funzione sul campo ad una di ricerca, sono opzioni rese vane dalle dimensioni della media organizzazione del terzo settore. Le organizzazioni che crescono di dimensione, o si collegano a livello nazionale e internazionale, o che sono storicamente già grandi, creano di solito un doppio livello di carriera. Il livello operativo, sul campo, a contatto con l’utenza per il quale non si prevede alcuna carriera; il livello decisionale o politico, centrale, strategico, nel quale i criteri di carriera sono squisitamente politici. Addirittura non è raro nelle grosse organizzazioni, con una vistosa funzione di collateralismo partitico, che la dirigenza sia scelta in vista dell’entrata nei ranghi politici, o che sia cooptata, come forma di compensazione o pensionamento, dal ceto politico. Stando così le cose, l’aggiornamento, la formazione permanente e la crescita professionale sono casuali, quando non malvisti perché introducono elementi di irrequietezza e insoddisfazione. Al loro posto viene preferito l’imbonimento, cioè il tipo di formazione in uso nelle grandi organizzazioni di massa. Quando fortuitamente, e spesso a spese degli operatori che se ne fanno (segretamente) carico, la crescita culturale e professionale avviene, in genere essa trova sbocchi e fruizione all’esterno del terzo settore. E’ raro che un operatore che si qualifica venga premiato all’interno: spesso viene visto come inaffidabile e gli viene preferito un esterno, per mansioni più qualificate. Il modo più diffuso di fare carriera e crescere professionalmente è in genere quello dell’avvio di organizzazioni autonome, generate dal distacco o dalla frantumazione del sistema di partenza. Ma qui sorgono i problemi presentati nel paragrafo precedente e che saranno sviluppati nel prossimo articolo sull’auto-imprenditorialità.

Le condizioni di lavoro pre-moderne.
Il terziario sociale, ad onta del fatto che è il settore nato più recentemente, è modellato sulle condizioni di lavoro della pre-modernità, e del pre-capitalismo fordista. Gli orari di lavoro arrivano non di rado alle 60/70 ore settimanali. Le assegnazioni ai servizi, alle mansioni, ai luoghi di lavoro vengono fatte d’autorità, non di rado senza il consenso o l’informazione dell’operatore. I licenziamenti non sono difficili in quanto è raro che gli operatori siano assunti nel senso legale del termine: le collaborazioni sono basate su accordi verbali, oppure mascherate da incarico libero-professionale, da volontariato, tirocinio obbligatorio o servizio civile. L’organizzazione del lavoro è di tipo fusionale, nel senso che “tutti fanno tutto” secondo le necessità o le propensioni della dirigenza o del singolo operatore, non necessariamente in base alla competenza formale o sostanziale. I ruoli sono in genere indefiniti, salvo i due essenziali: leader e subalterni. La leadership sfugge quasi sempre allo sforzo dell’obiettività e della trasparenza, preferendo la segretezza ed il carisma.

Quando il senso iniziale sbiadisce col tempo, cosa resta? L’inserimento di un giovane in una organizzazione del Terzo settore è soprattutto ispirato alla genuina voglia di essere d’aiuto, o alla ideologia della solidarietà. Solo in dose minore gioca il bisogno di fare un qualche “lavoretto” transitorio per racimolare un’entrata, in attesa di un vero posto di lavoro. Il senso dunque è attribuito a priori al lavoro sociale, che viene investito di valenze positive assolute. Impegnarsi nell’aiuto agli altri o nella crescita della comunità è bene per definizione, e mette il giovane e l’organizzazione in cui entra nella posizione di indiscutibile “santità”. A partire da questo assunto, la ricerca della qualità, la professionalità, la carriera, le condizioni di lavoro vengono considerati problemi accessori, quando non addirittura volgari ostacoli. Dopo un inizio solitamente molto euforico, simile all’innamoramento, subentrano le difficoltà, le frustrazioni, le contraddizioni. Il tempo attenua l’ardore e l’illusione della santità viene offuscata dalla routine. Dove trovare il senso dell’impegno dopo cinque, dieci, quindici anni ? Laddove la partecipazione era puramente volontaria, la prima crisi si risolve nella fuga. Il turn over nelle organizzazioni di volontariato puro o nelle associazioni, è altissimo. Laddove essa era considerata un’occupazione lavorativa, la fuga è quasi impossibile a 35-40 anni e la depressione vince.

La sindrome del burn-out è sempre in agguato. Il Terzo settore, anche se non esistono ricerche su larga scala che lo provano, sembra avere un tasso di morbilità sociale e psicosomatica più alto di tutti gli altri settori della società post-moderna. E’ stata trovata una specifica malattia lavorativa del settore sociale, chiamata “burning out syndrome” (4). La quale produce disadattamento sociale e familiare (alto numero di divorzi), disturbi psicosomatici diffusi, comportamenti di tipo sadico verso l’utenza. Molti casi saliti alla cronaca, di maltrattamenti di anziani e disabili, di violenza nelle carceri e nelle comunità per tossicodipendenti, di violenza fisica e sessuale a minori, hanno come concausa il burn-out. Nessuno tuttavia, compresi i sindacati, ha mai affrontato la questione.

Ex giovani, maturi per il disadattamento. Il giovane, entrato a 20 o 25 anni nel Terzo settore, come si trova, una volta giunto intorno ai 40 anni ? Dopo 10-15 anni di impegno per la “solidarietà”, in organizzazioni formalmente non profit, si trova con uno stipendio solitamente precario sotto ai 2 milioni mensili, di rado in possesso di regolari contribuzioni pensionistiche, senza prospettive di carriera, privo di risparmi, con un lavoro dal senso vacillante. Questa figura già si intravede nelle avanguardie di coloro (pochi) che hanno iniziato nei primi anni Ottanta. Ma il grosso di questo esercito (si parla di non meno di 3 milioni di giovani) lo vedremo nel primo decennio del prossimo secolo, perché il boom del Terzo settore è iniziato in quest’ultima decade. Milioni di giovani sfruttati, nel segno della solidarietà, da una società incapace di farsi carico seriamente dei problemi del disagio, della crescita, dei bisogni immateriali, che preferisce l’ideologia e gli slogan al progetto ed alla responsabilità di cambiare.

Bibliografia
De Leonardis O., Mauri D., Rotelli F. "L'IMPRESA SOCIALE", Anabasi, Milano, 1994
Ferrara M. "LE TRAPPOLE DEL WELFARE", Il Mulino, Bologna, 1998
De Leonardis O. "IN UN DIVERSO WELFARE", Feltrinelli, Milano, 1998
Contessa G. “L’OPERATORE SOCIALE CORTOCIRCUITATO: LA “BURNING-OUT SYNDROME IN ITALIA” su Animazione Sociale, nn.42-43, 1982 (a riprova che non si tratta di un problema nuovissimo)