**Parte quarta**
Le prove dell'esistenza di Dio e dell'anima umana,ossia i fondamenti
della metafisica
Non so se debbo riferirvi le prime meditazioni che ho fatto
qui; perché sono tanto astratte e tanto insolite, che
non saranno forse apprezzate da tutti. Tuttavia, perché
si possa giudicare se sono abbastanza solidi i fondamenti
che mi son dato, mi trovo in qualche modo costretto a parlarne.
Avevo notato da tempo, come ho già detto, che in fatto
di costumi è necessario qualche volta seguire opinioni
che si sanno assai incerte, proprio come se fossero indubitabili;
ma dal momento che ora desideravo occuparmi soltanto della
ricerca della verità, pensai che dovevo fare proprio
il contrario e rigettare come assolutamente falso tutto ciò
in cui potevo immaginare il minimo dubbio, e questo per vedere
se non sarebbe rimasto, dopo, qualcosa tra le mie convinzioni
che fosse interamente indubitabile. Così, poiché
i nostri sensi a volte ci ingannano, volli supporre che non
ci fosse cosa quale essi ce la fanno immaginare. E dal momento
che ci sono uomini che sbagliano ragionando, anche quando
considerano gli oggetti più semplici della geometria,
e cadono in paralogismi, rifiutai come false, pensando di
essere al pari di chiunque altro esposto all'errore, tutte
le ragioni che un tempo avevo preso per dimostrazioni. Infine,
considerando che tutti gli stessi pensieri che abbiamo da
svegli possono venirci anche quando dormiamo senza che ce
ne sia uno solo, allora, che sia vero, presi la decisione
di fingere che tutte le cose che da sempre si erano introdotte
nel mio animo non fossero più vere delle illusioni
dei miei sogni. Ma subito dopo mi accorsi che mentre volevo
pensare, così, che tutto è falso, bisognava
necessariamente che io, che lo pensavo, fossi qualcosa. E
osservando che questa verità: penso, dunque sono, era
così ferma e sicura, che tutte le supposizioni più
stravaganti degli scettici non avrebbero potuto smuoverla,
giudicai che potevo accoglierla senza timore come il primo
principio della filosofia che cercavo.
Poi, esaminando esattamente quel che ero, e vedendo che potevo
fingere di non avere nessun corpo, e che non ci fosse mondo
né luogo alcuno in cui mi trovassi, ma che non potevo
fingere, perciò, di non esserci; e che al contrario,
dal fatto stesso che pensavo di dubitare della verità
delle altre cose, seguiva con assoluta evidenza e certezza
che esistevo; mentre, appena avessi cessato di pensare, ancorché
fosse stato vero tutto il resto di quel che avevo da sempre
immaginato, non avrei avuto alcuna ragione di credere ch'io
esistessi: da tutto ciò conobbi che ero una sostanza
la cui essenza o natura sta solo nel pensare e che per esistere
non ha bisogno di alcun luogo né dipende da qualcosa
di materiale. Di modo che questo io, e cioè la mente
per cui sono quel che sono, è interamente distinta
dal corpo, del quale è anche più facile a conoscersi;
e non cesserebbe di essere tutto quello che è anche
se il corpo non esistesse.
Dopo di ciò, considerai in generale quel che si richiede
ad una proposizione perché sia vera e certa; infatti,
poiché ne avevo appena trovata una che sapevo essere
tale, pensai che dovevo anche sapere in che cosa consiste
questa certezza. E avendo notato che non c'è niente
altro in questo io penso, dunque sono, che mi assicuri di
dire la verità, se non il fatto di vedere molto chiaramente
che, per pensare, bisogna essere, giudicai che potevo prendere
come regola generale che le cose che concepiamo molto chiaramente
e molto distintamente sono tutte vere; e che c'è solo
qualche difficoltà a vedere bene quali sono quelle
che concepiamo distintamente.
In seguito a ciò, riflettendo sul fatto che dubitavo,
e che di conseguenza il mio essere non era del tutto perfetto,
giacché vedevo chiaramente che conoscere è una
perfezione maggiore di dubitare, mi misi a cercare donde avessi
appreso a pensare qualcosa di più perfetto di quel
che ero; e conobbi in maniera evidente che doveva essere da
una natura che fosse di fatto più perfetta. Per quel
che riguarda i pensieri che avevo di molte altre cose fuori
di me, come il cielo, la terra, la luce, il calore, e mille
altre, non mi davo molta pena di cercare donde mi venissero,
giacché non notavo in essi nulla che li rendesse superiori
a me, e perciò potevo credere che, se erano veri, dipendevano
dalla mia natura in quanto dotata di qualche perfezione; e
se non lo erano, mi venivano dal nulla, cioè erano
in me per una mia imperfezione. Ma non potevo dire lo stesso
dell'idea di un essere più perfetto del mio: perché,che
mi venisse dal nulla, era chiaramente impossibile; e poiché
far seguire o dipendere il più perfetto dal meno perfetto
è altrettanto contraddittorio quanto far procedere
qualcosa dal nulla, non poteva neppure venire da me stesso.
Di modo che restava che fosse stata messa in me da una natura
realmente più perfetta della mia, e che avesse anche
in se tutte le perfezioni di cui potevo avere qualche idea,
e cioè, per spiegarmi con una sola parola, che fosse
Dio. A questo aggiunsi che, poiché conoscevo qualche
perfezione di cui mancavo del tutto, non ero il solo essere
esistente (userò qui liberamente, se non vi spiace,
alcuni termini della Scuola), ma occorreva necessariamente
che ce ne fosse qualche altro più perfetto, dal quale
dipendevo e dal quale avevo ottenuto tutto quel che avevo.
Giacché se ne fossi stato solo e indipendente da ogni
altro e avessi così avuto da me stesso tutto quel poco
che partecipavo dell'essere perfetto, avrei potuto avere da
me, per la stessa ragione, tutto il di più che sapevo
mancarmi, ed essere per tanto io stesso infinito, eterno,
immutabile, onniscente, onnipotente, avere insomma tutte le
perfezioni che potevo vedere in Dio. Poiché, seguendo
i ragionamenti appena fatti, per conoscere la natura di Dio
per quanto la mia ne era capace, non dovevo far altro che
considerare ogni cosa di cui trovavo in me qualche idea, se
era una perfezione possederla, e così ero sicuro che
nessuna di quelle che indicavano qualche imperfezione era
in lui, mentre vi erano tutte le altre. Così vedevo
che il dubbio, l'incostanza, la tristezza e le altre cose
simili a queste non potevano essere in lui dal momento che
sarei stato anch'io ben felice di esserne privo. Oltre a ciò
avevo idee di cose sensibili e corporee: giacché anche
se supponevo di sognare, e che fosse falso tutto quel che
supponevo o immaginavo, non potevo negare tuttavia che le
idee di queste cose fossero realmente nel mio pensiero. Ma
poiché avevo conosciuto molto chiaramente in me stesso
che la natura intelligente è distinta da quella corporea,
considerando che ogni composizione attesta una dipendenza,
e che la dipendenza è manifestamente un difetto, giudicai
da ciò che non avrebbe potuto costituire una perfezione
in Dio l'essere composto di quelle due nature, e dunque che
non lo era; e che anzi, se c'era qualche corpo al mondo, o
qualche intelligenza o altre nature che non fossero del tutto
perfette, la loro esistenza doveva dipendere dalla sua potenza
in modo tale che non potessero sussistere un solo momento
senza di lui.
Dopo di ciò, volli cercare altre verità, e rivoltomi
all'oggetto della geometria, che concepivo come un corpo continuo
ovvero uno spazio indefinitamente esteso in lunghezza, larghezza,
altezza o profondità, divisibile in diverse parti,
che potevano avere varie figure e grandezze, ed essere mosse
a piacere o trasportate da un posto a un altro, giacché
proprio questo i geometri suppongono nel loro oggetto, ripercorsi
alcune delle loro più semplici dimostrazioni. E avendo
notato che quella gran certezza che tutti vi riconoscono è
fondata soltanto sul fatto che sono concepite con evidenza,
secondo la regola che ho appena esposto, notai anche che non
c'era assolutamente nulla, in esse, che mi assicurasse dell'esistenza
del loro oggetto. Giacché, per esempio, vedevo bene
che, supposto un triangolo, era necessario che i suoi angoli
fossero uguali a due retti; ma con questo non vedevo nulla
che mi assicurasse dell'esistenza di qualche triangolo nel
mondo. Mentre, tornando alla mia idea di un essere perfetto,
trovavo che l'esistenza vi era compresa come è compreso
nell'idea di un triangolo che i suoi angoli sono uguali a
due retti, o in quella di una sfera che tutte le sue parti
sono equidistanti dal centro, o anche con maggiore evidenza;
e per conseguenza che Dio, che è questo essere perfetto,
è o esiste, è almeno altrettanto certo quanto
potrebbe esserlo una qualunque dimostrazione della geometria.
Ma la ragione per cui molti si convincono che ci sono difficoltà
a conoscere ciò, è anche a conoscere che cosa
è la propria anima, è che non portano mai la
loro mente al di là delle cose sensibili, e sono talmente
abituati a non considerare nessuna cosa se non immaginandola
(che è un modo particolare di pensare le cose materiali),
da ritenere che tutto quel che non è immaginabile non
è neppure intelligibile. Ciò appare abbastanza
chiaro dal fatto che anche i filosofi delle Scuole cosiderano
come massima che nulla sia nell'intelletto che prima non sia
stato nel senso: dove è certo tuttavia che le idee
di Dio e dell'anima non sono mai state. E mi sembra che quelli
che vogliono far uso della loro immaginazione per comprenderle,
fanno proprio come se volessero servirsi degli occhi per udire
i suoni o sentire gli odori: con in più questa differenza,
che la vista non ci rende meno sicuri della verità
dei suoi oggetti, di quanto facciano l'odorato e l'udito;
mentre né l'immaginazione né i sensi potrebbero
mai renderci certi di qualcosa senza l'intervento del nostro
intelletto.
Infine, se ci sono ancora degli uomini non abbastanza persuasi
dell'esistenza di Dio e della loro anima per le ragioni che
ho portato, voglio proprio che sappiano che tutte le altre
cose di cui pensano di essere forse più sicuri, come
di avere un corpo, e dell'esistenza degli astri, della terra
e simili, sono meno certe. Perché sebbene si abbia
di queste una certezza morale, tale che non si possa dubitarne
a meno di non essere stravaganti, tuttavia, a meno di non
essre irragionevoli, quando è in questione una certezza
metafisica, non si può neanche negare che sia un motivo
sufficente per no ritenersi interamente certi quello di accorgersi
che si può, allo stesso modo, immaginare nel sonno
di avere un altro corpo, o di vedere altri astri o un altra
terra senza che ci sia nulla di tutto questo. Perché
da dove sappiamo che sono più falsi degli altri i pensieri
che ci vengono in sogno, visto che non sono spesso meno vivaci
e netti? Cerchino pure i migliori ingegni, fintanto che a
loro piace: non vedo che possano addurre una ragione sufficente
a togliere questo dubbio, se non presuppongono la esistenza
di Dio. Perché, in primo luogo, anche quella che ho
assunto poc'anzi come regola, cioè che le cose che
concepiamo molto chiaramente e distintamente sono tutte vere,
non è certa se non perché Dio è o esiste,
perché è un essere perfetto e perché
da Lui riceviamo tutto quello che è in noi. Di qui
segue che le nostre idee o nozioni, essendo in tutto ciò
per cui sono chiare e distinte cose reali e che ci vengono
da Dio, non possono in questo non essere che vere. Di modo
che, se spesso ne abbiamo che contengono del falso, non può
trattarsi che di quelle che hanno qualcosa di confuso e oscuro,
per il fatto che pertecipano in questo del nulla, e cioè
sono in noi così confuse solo perché non siamo
del tutto perfetti. Ed è evidentemente tanto impensabile
che il falso o l'imperfezione, in quanto tale, procedano da
Dio, quanto lo è che la verità o la perfezione
proceda dal nulla. Ma se non sapessimo che tutto ciò
che vi è in noi di reale e di vero ci viene da un essere
perfetto e infinito, per chiare e distinte che fossero le
nostre idee non avremmo nessuna ragione di essere certi che
hanno la perfezione di essere vere.
Ora, dopo che la conoscenza di Dio e della mente ci ha in
tal modo reso certi di questa regola, è ben facile
intendere che i sogni immaginati nel sonno non debbono in
nessun modo farci dubitare della verità dei pensieri
che abbiamo durante la veglia. Perché se ci accadesse
di avere, anche dormendo, qualche idea molto distinta, se
un geometra, per esempio, scoprisse qualche nuova dimostrazione,
il fatto ch'egli dorma non le impedirebbe di essere vera.
E quando all'errore più comune dei nostri sogni, che
consiste nel fatto che ci rappresentano diversi oggetti proprio
come i sensi esterni, poco importa che ci dia motivo di diffidare
della verità di queste idee, giacché spesso
possiamo benissimo ingannarci senza che dormiamo: come quando
l'itterizia ci fa vedere tutto giallo, o quando ci sembra
che gli astri o altri corpi lontanissimi siano molto più
piccoli di quel che sono. Perché insomma, sia che vegliamo,
sia che dormiamo, non dobbiamo lasciarci convincere che dall'evidenza
della nostra ragione. E si badi che dico: della nostra ragione,
e non della nostra immaginazione, o dei nostri sensi. Così
il sole, sebbene lo vediamo molto chiaramente, non dobbiamo
perciò giudicarlo piccolo come lo vediamo; e possiamo
ben immaginare distintamente una testa di leone innestata
sul corpo di una capra, senza dover concludere perciò
che ci sia al mondo una chimera: perché la ragione
non ci dice affatto che quel che così vediamo o immaginiamo
è anche vero. Ci dice bensì che tutte le nostre
idee o nozioni debbono avere qualche fondamento di verità;
giacché in caso contrario non sarebbe possibile che
Dio, che è assolutamente perfetto e veritiero, le avesse
messe in noi. E poiché i nostri ragionamenti non sono
mai così evidenti né completi nel sonno come
nella veglia, sebbene le immagini quando dormiamo possano
essere a volte altrettanto o anche più vivaci e nette,
la ragione ci dice ancora che, non potendo i nostri pensieri
essere in tutto veri dal momento che non siamo interamente
perfetti, quanto hanno di verità deve trovarsi in quelli
che abbiamo da svegli, piuttosto che nei nostri sogni.
**Parte quinta**
Questioni di fisica
Sarei molto lieto di proseguire, e di far vedere qui tutta
la catena delle altre verità che ho dedotto da quelle
prime. Ma per far questo dovrei parlare ora di molte questioni
che sono tuttora controverse tra i dotti, con i quali non
desidero entrare in conflitto; perciò farò meglio,
credo, ad astenermene, dicendo soltanto in generale quali
siano le questioni, per lasciar giudicare ai più saggi
se sarebbe utile che il pubblico ne fosse informato con più
particolari. Sono rimasto sempre fermo nella decione che avevo
preso di non supporre nessun altro principio oltre quello
di cui mi sono servito ora per dimostrare l'esistenza di Dio
e dell'anima, e di non accettare nessuna cosa per vera, che
non apparisse più chiara e più certa di quanto
mi sembravano un tempo le dimostrazioni dei geometri. E tuttavia
oso affermare che non solo ho trovato il modo di giungere
in breve tempo a conclusioni soddisfacenti per tutto ciò
che riguarda le principali difficoltà di cui suole
trattare la filosofia, ma ho anche individuato certe leggi,
che Dio ha stabilito nella natura, imprimendone le nozioni
nella nostra mente in modo tale che, avendo riflettuto a sufficenza
su di esse, non potremmo dubitare che siano esattamente osservate
in tutto ciò che nel mondo è o accade. Poi,
considerando l'insieme di queste leggi, mi sembra di avere
scoperto molte verità più utili e importanti
di quel che in precedenza avevo appreso o soltanto sperato
di apprendere.
Ma poiché le principali tra quelle verità ho
cercato di spiegarle in un trattato che alcune considerazioni
mi impediscono di pubblicare, non potrei enunciarle meglio
che riassumendo qui il contenuto di quel trattato. Mi ero
proposto di raccogliere in esso tutto quello che, cominciando
a scrivere, pensavo di sapere sulla natura delle cose materiali.
Ma come i pittori, non potendo raffigurare egualmente bene
su una superficie piana tutte le diverse facce di un solido,
ne scelgono una delle principali e la mettono in luce, ombreggiando
le altre in modo che si possano vedere solo guardando quella:
così, nel timore di non poter far entrare nel mio discorso
tutto ciò che avevo in mente, decisi di esporre con
molta ampiezza soltanto la mia concezione della luce; poi,
di qui, aggiungere qualcosa sul sole e sulle stelle fisse,
da cui la luce, quasi interamente, proviene; e poi sui cieli
che la trasmettono; sui pianeti, sulle comete, e sulla terra,
che la riflettono; e, in particolare, su tutti i corpi che
sono sulla terra, per il fatto che sono o colorati o trasparenti
o luminosi; infine sull'uomo, perché ne è lo
spettatore. Anzi, per mettere un pò in ombra queste
cose e poter dire più liberamente quel che ne pensavo
senza essere obbligato a seguire o a confutare le opinioni
accolte tra i dotti, decisi di abbandonare tutto questo mondo
qui alle loro dispute, e di parlare soltanto di quel che accadrebbe
in uno nuovo, se Dio creasse ora da qualche parte, negli spazi
immaginari, abbastanza materia per comporlo, e ne agitasse
in vario modo e senza un ordine le diverse parti, così
da formarne un caos tanto confuso quanto possono immaginarlo
i poeti; e in seguito non facesse altro che prestare il suo
concorso ordinario alla natura, lasciandola agire secondo
le leggi da lui stabilite. Descrissi così, in primo
luogo, questa materia, e cercai di rappresentarla in modo
tale, che nulla al mondo, mi sembra, vi è di più
chiaro e intelligibile, salvo quanto è stato già
detto di Dio e dell'anima: infatti supposi quasi espressamente
che non ci fosse in essa nessuna di quelle forme e qualità
di cui si disputa nelle Scuole, nè alcuna cosa in generale
la cui conoscenza non sia per noi così naturale che
non possiamo neppure fingere di ignorarla. In secondo luogo,
mostrai quali sono le leggi della natura; e senza sostenere
i miei ragionamenti con nessun altro principio, ma solo con
le perfezioni infinite di Dio, mi sforzai di dare la dimostrazione
di tutte le leggi di cui si poteva aver qualche dubbio, e
di far vedere che sono tali, che se anche Dio avesse creato
molti mondi, non ce ne sarebbe nessuno in cui non verrebbero
osservate. Dopo di che, mostrai che la maggior parte della
materia di questo caos doveva, secondo quelle leggi, disporsi
e ordinarsi in un certo modo che la rendeva simile ai nostri
cieli; e come, nel frattempo, alcune parti dovevano coporre
una terra, altre pianeti e comete, altre ancora un sole e
stelle fisse. E qui, soffermandomi sull'argomento della luce,
spiegai molto a lungo la natura di quella che doveva trovarsi
nel sole e nelle stelle, e come di là attraversava
in un istante gli spazi immensi dei cieli, e come veniva riflessa
dai pianeti e dalle comete verso la terra. Aggiunsi ancora
molte cose sulla sostanza, la posizione, i movimenti e tutte
le varie qualità di questi cieli ed astri; in modo
che pensavo di dirne abbastanza da far capire che non si osserverebbe
nulla in quelli del nostro mondo che non debba o almeno che
non possa apparire del tutto simile in quelli del mondo da
me descritto. Di là venni a parlare, in particolare,
della terra; a spiegare come, pur supponendo espressamente
che Dio non abbia assegnato nessuna pesantezza alla materia
di cui è composta, tutte le sue parti non mancano tuttavia
di tendere esattamente veso il centro; e come, essendovi dell'acqua
e dell'aria sulla sua superficie, la disposizione dei cieli
e degli astri e, in primo luogo della luna vi dovesse determinare
un flusso e riflusso simile, in tutti i particolari, a quello
che osserviamo nei nostri mari; e a parlare inoltre di un
certo movimento dell'acqua e dell'aria da oriente a occidente,
come lo si osserva anche fra i tropici; e del modo in cui
le montagne, i mari, le sorgenti e i fiumi potevano formarsi
sulla terra naturalmente, e i metalli ammassarsi nelle miniere,
le piante crescere nei campi; e come in generale potevano
generarsi tutti quei corpi che chiamiamo mosti o composti.
E poiché dopo gli astri non conosco nulla al mondo
che produca la luce se non il fuoco, mi sforzai tra le altre
cose di spiegare molto chiaramente tutto ciò che appartiene
alla sua natura, come nasce e come si alimenta; come mai a
volte ci sia calore senza luce, e a volte luce senza calore;
come possa far assumere a diversi corpi diversi colori e varie
altre qualità; come provochi la fusione di alcuni,
e altri ne indurisca; come possa consumarli quasi tutti, o
mutarli in cenere e fumo; infine come da queste ceneri per
la sola violenza della sua azione possa formare il vetro,
giacché questa trasformazione delle ceneri in vetro
è più straordinaria di qualsiasi altra in natura,
e mi piacque descriverla in modo particolare.
Da questo tuttavia non volevo concludere che il nostro mondo
sia stato creato nel modo da me descritto; perché è
molto più probabile che Dio l'abbia fatto dal principio
come doveva essere. Ma è certo, ed è un opinione
comunemente accettata dai teologi, che l'azione con cui ora
lo conserva è proprio la stessa di quella con cui l'ha
creato; onde è pensabile, senza far torto al miracolo
della creazione, che quand'anche non gli avesse dato all'inizio
altra forma che quella del caos, bastava che, una volta stabilite
le leggi della natura, gli prestasse il suo concorso per farla
agire come suole, e già per questo tutte le cose che
sono semplicemente meteriali avrebbero potuto, col tempo,
diventare quali ora le vediamo. E la loro natura è
ben più facile da concepire quando si osservano nascere
a poco a poco in questo modo, che non quando si vedono bell'e
fatte.
Dalla descrizione dei corpi inanimati e delle piante passai
a quella degli animali, in particolare a quella dell'uomo.
Ma poiché non ne avevo ancora una conoscenza sufficente
per parlarne con lo stesso metodo usato per le altre cose,
e cioè dimostrando gli effetti mediante le cause e
indicando da quali elementi e in qual modo la natura debba
produrli, mi contentai di supporre che Dio formasse il corpo
di un uomo del tutto simile a uno dei nostri sia nell'aspetto
esteriore delle membra che nella conformazione interna dei
suoi organi, e usando la stessa materia da me descritta. E
che al principio non infondesse in lui nessun'anima ragionevole,
né altro che gli servisse da anima vegetativa o sensitiva,
ma solo gli accendesse nel cuore uno di quei fuochi senza
luce che avevo già spiegato e la cui natura mi pareva
la stessa di quello che riscalda il fieno, quando lo si rinchiude
prima che sia secco, o che fa bollire il vino nuovo quando
si lascia fermentare insieme ai raspi. Perché, esaminando
le funzioni possibili in questo corpo secondo la mia ipotesi,
vi ritrovai proprio tutte quelle che possono essere in noi
senza che vi pensiamo, e dunque senza che ad esse contribuisca
la nostra mente, cioè quella parte distinta dal corpo
della quale ho detto sopra che la sua natura è soltanto
di pensare. Erano, tutte, le stesse funzioni per cui possiamo
dire che gli animali privi di ragione ci somigliano. Ma con
quell'ipotesi non potevo trovarne nessuna di quelle che, dipendendo
dal pensiero, sono le sole che ci appartengono in quanto siamo
uomini; mentre ce le ritrovavo tutte dopo, supponendo che
Dio avesse creato un'anima ragionevole, e l'avesse unita a
questo corpo in una certa maniera, che pure descrivevo.
Per mostrare in che modo trattavo questo argomento, voglio
mettere qui la spiegazione del movimento del cuore e delle
arterie, che è il primo e il più generale di
quelli che si osservano negli animali, sicché da esso
si può facilmente giudicare cosa si debba pensare di
tutti gli altri. E perché risulti meno difficile capire
quel che ne dirò, vorrei che quelli che non sanno nulla
di anatomia si dessero la pena, prima di leggere queste pagine,
di farsi mostrare il cuore tagliato di un grande animale dotato
di polmoni, perché è simile in tutto a quello
umano, e di farsi indicare le due camere o cavità che
vi si trovano. Per prima, quella del lato destro, alla quale
corrispondono due condotti molto larghi: cioè la vena
cava, che è il principale ricettacolo del sangue e
come il tronco di un albero di cui tutte le altre vene, nel
corpo, sono i rami; e la vena arteriosa, chiamata così
impropriamente, perché è in realtà un'arteria,
che ha origine nel cuore e si divide dopo esserne uscita in
molti rami che si espandono per tutti i polmoni. Poi, la cavità
del lato sinistro, alla quale corrispondono allo stesso modo
due condotti altrettanto o anche più larghi dei precedenti:
cioè l'arteria venosa, che ha anch'essa un nome improprio
perché non è che una vena che viene dai polmoni,
dove è divisa in molti rami intrecciati a quelli della
vena arteriosa e del condotto dal quale entra l'aria che respiriamo;
e la grande arteria, che uscendo dal cuore irraggia i suoi
rami in tutto il corpo. Vorrei anche che si facessero mostrare
con cura le undici pellicole che con le altrettante valvole
aprono e chiudono le quattro aperture che si trovano nelle
due cavità: e cioè tre all'ingresso della vena
cava, dove sono disposte in modo da consentire al sangue contenuto
in essa di passare nella cavità destra del cuore, mentre
gli impediscono completamente di uscirne; tre all'ingresso
della vena arteriosa che, disposte in senso contrario, consentono
sì al sangue che è in questa cavità di
andare nei polmoni ma non a quello che è nei polmoni
di tornarvi; e ancora, altre due all'ingresso dell'arteria
venosa, che lasciano scorrere il sangue dai polmoni verso
la cavità sinistra del cuore, ma ne impediscono il
ritorno; tre all'ingresso della grande arteria, che gli consentono
di uscire dal cuore, ma gli impediscono di rifluirvi. Non
c'è bisogno di cercare un'altra ragione del numero
delle valvole, se non che l'apertura dell'arteria venosa,
essendo ovale, a causa del luogo in cui si trova, può
essere facilmente chiusa da due, mentre per le altre, che
sono rotonde, ne occorrono tre. Inoltre, vorrei che si considerasse
che la grande arteria e la vena arteriosa sono di un composto
molto più duro e solido dell'arteria venosa e della
vena cava; e che queste ultime prima di introdursi nel cuore
si allargano formando come due borse che son dette orecchiette
del cuore, e son fatte di una carne simile alla sua; e vorrei
che si osservasse come nel cuore ci sia sempre una quantità
di calore maggiore che in ogni altra parte del corpo; infine
che questo calore maggiore fa sì che quando qualche
goccia di sangue penetra nelle sue cavità, subito si
formi e si dilati, come accade in generale a tutti i liquidi
che si lasciano cadere goccia a goccia in un recipiente molto
caldo.
Dopo di ciò, non ho bisogno di dire altro, per spiegare
il movimento del cuore, se non che, quando le cavità
sono vuote, il sangue fluisce necessariamente dalla vena cava
in quella di destra, e dall'arteria venosa in quella di sinistra;
perché i due vasi sono sempre pieni, e le loro aperture,
che guardano verso il cuore, non possono allora essere chiuse;
ma appena due gocce di sangue entrano una in ciascuna cavità
-e tali gocce sono per forza assai grosse, perché le
valvole da cui entrano sono molto larghe e i vasi da cui vengono
sono molto pieni- esse si rarefanno e si dilatano a causa
del calore che vi trovano, e così, facendo gonfiare
tutto il cuore, spingono e chiudono le cinque valvole che
stanno all'entrata dei vasi da cui provengono, impedendo in
tal modo che altro sangue scenda nel cuore; e continuando
a rarefarsi sempre più spingono e aprono le altre sei
valvole, che sono all'ingresso degli altri due vasi da cui
escono, facendo così gonfiare tutti i rami della vena
arteriosa e della grande arteria, quasi nello stesso istante
che il cuore; il quale, subito dopo si gonfia, come anche
le arterie, perché il sangue che è entrato vi
si raffredda e le loro sei valvole si chiudono mentre le cinque
della vena cava e della arteria venosa si riaprono, consentendo
ad altre due gocce di passare e di far gonfiare di nuovo il
cuore e le arterie, proprio come le precedenti. E poiché
il sangue che entra così nel cuore passa attraverso
quelle due borse che sono dette orecchiette, il movimento
di queste è contrario al suo, ed esse si gonfiano quando
quello si gonfia. Del resto, perché quelli che ignorano
la forza delle dimostrazioni matematiche e non sono abituati
a distinguere le vere ragioni dalle verosimili non ardiscano
negare tutto ciò senza esaminarlo, voglio avvertirvi
che il movimento che ho appena spiegato deriva dalla sola
disposizione degli organi visibile nel cuore, dal calore che
vi si può avvertire con le dita, e dalla natura del
sangue che è nota per esperienza, con una necessità
pari a quella del movimento che in un orologio dipende dalla
forza, dalla posizione e dalla forma dei contrappesi e delle
ruote.
Ma se si domanda perché il sangue delle vene non si
esaurisca passando così di continuo nel cuore, e perché
le arterie non se ne riempiano troppo dal momento che tutto
quello che passa dal cuore si riversa in esse, mi basta rispondere
con quel che ha già scritto un medico inglese, il quale
va lodato per avere rotto il ghiaccio su questo punto, e per
essere stato il primo a insegnare che ci sono alle estremità
delle arterie molti piccoli passaggi attraverso i quali il
sangue che ricevono dal cuore penetra nelle piccole ramificazioni
delle vene, e di qui torna di nuovo al cuore, di modo che
il suo corso non è altro che una circolazione ininterrotta.
E questo lo prova assai bene con l'esperienza ordinaria dei
chirurghi, che, legato il braccio senza stringere troppo al
di sopra del punto in cui incidono una vena, fanno sì
che il sangue ne esca più abbondante che se non l'avessero
legato. Accadrebbe proprio il contrario che se la legatura
fosse al di sotto, tra la mano e il punto di incisione, o
anche se fosse al di sopra e molto stretta. E' chiaro infatti
che la legatura poco stretta può impedire al sangue
che è nel braccio di tornare al cuore attraverso le
vene, ma non che continui ad arrivarne di nuovo alle arterie,
perché sono poste sotto le vene, e hanno un tessuto
più duro, meno facile da comprimere; e anche perché
il sangue che viene dal cuore tende attraverso le arterie
ad andare attraverso la mano con una forza maggiore di quella
che ha quando torna di là al cuore, nelle vene. E poiché
il sangue esce dal braccio attraverso l'incisione fatta in
una vena, ci deve essere necessariamente qualche passaggio
al di sotto dei legacci, e cioè verso le estremità
dell'arto, attraverso cui possa arrivare dalle arterie. Inoltre,
egli prova molto bene quel che dice della circolazione del
sangue con certe piccole pellicole disposte in diversi punti
lungo le vene in modo da non permettergli il passaggio dal
centro del corpo alle estremità, ma solo di tornare
dalla periferia al cuore; e ancora, con l'esperienza che ci
insegna come tutto il sangue contenuto nel corpo possa fuoriuscire
in pochissimo tempo da una sola arteria, quand'è recisa,
anche se fosse legata strettamente e vicinssimo al cuore,
e tagliata tra questo e il legaccio, in modo che non si possa
immaginare che il sangue che ne esce venga da una parte diversa.
Ma ci sono molti altri fatti che confermano che la vera causa
del movimento del sangue è quella da me indicata. Come,
in primo luogo, la differenza che si nota da quello che esce
dalle vene e quello che esce dalle arterie, e che non può
dipendere se non da questo, che essendosi rarefatto passando
per il cuore e quasi distillato, è più sottile,
più vivo e più caldo subito dopo esserne uscito,
cioè quando è nelle arterie, che non poco prima
di entrarvi, ossia quando è nelle vene; se si fa attenzione
si osserverà che questa differenza è più
visibile vicino al cuore e meno nei punti più distanti.
La durezza dei tessuti di cui sono composte la vena arteriosa
e la grande arteria mostra poi a sufficenza che il sangue
batte con maggior forza qui che non nelle vene. E perché
mai la cavità sinistra del cuore e la grande arteria
sarebbero più ampie e più larghe di quella destra,
e della vena arteriosa, se non fosse che il sangue dell'arteria
venosa, essendo stato solo nei polmoni dopo essere passato
dal cuore, è più sottile e si rarefà
di più e più facilmente di quello che viene
immediatamente dalla vena cava? E che cosa potrebbero mai
capire i medici quando sentono il polso, se non sapessero
che, secondo che muti la sua natura, il sangue può
rarefarsi per il calore del cuore più o meno fortemente
e più o meno in fretta di prima? Se poi si cerca come
questo calore si comunichi alle altre membra, non si deve
forse ammettere che avviene per mezzo del sangue che passando
attraverso il cuore si riscalda e di qui si espande in tutto
il corpo? Per questo, se si toglie il sangue da una parte,
se ne toglie anche il calore; e anche se il cuore ardesse
come ferro rovente, non basterebbe a scaldare le mani e i
piedi, come fa, se non vi mandasse in continuazione nuovo
sangue. Inoltre, si comprende da ciò che la vera funzione
della respirazione è di portare nei polmoni tanta aria
fresca da consentire al sangue che viene dalla cavità
destra del cuore, dove si è rarefatto e quasi trasformato
in vapore, di ispessirsi e convertirsi di nuovo in sangue
prima di rifluire nella cavità di sinistra; senza di
che non sarebbe adatto ad alimentare il fuoco che vi si trova.
Il che è confermato dall'osservazione che gli animali
privi di polmoni hanno nel cuore una sola cavità, e
che i bambini non possono servirsene mentre sono rinchiusi
nel ventre materno hanno una apertura attraverso la quale
il sangue va dalla vena cava nella cavità sinistra
del cuore, e un condotto attraverso il quale dalla vena arteriosa
viene nella grande arteria, senza passare dal polmone. E poi,
come avverrebbe la digestione nello stomaco, se il cuore non
vi mandasse calore attraverso le arterie e insieme alcune
delle parti più fluide del sangue che aiutano a sciogliere
il cibo digerito? Ancora, l'azione che trasforma il succo
di questi cibi in sangue, non si comprende forse facilmente
se si considera che, passando e ripassando per il cuore, si
distilla forse più di cento o duecento volte al giorno?
Non occorre dire altro, allora, per spiegare la nutrizione
e la produzione dei diversi umori del corpo, se non che la
forza con cui il sangue rarefacendosi passa dal cuore verso
le estremità delle arterie fa sì che alcune
delle sue parti si arrestino fra quelle delle membra in cui
si trovano, prendendovi il posto di altre parti di sangue
che di lì espellono; e che secondo la posizione, la
figura o la piccolezza dei pori in cui si imbattono, solo
alcune vanno a finire in certi luoghi, come ognuno può
aver visto con i setacci diversamente forati che servono a
separare gli uni dagli altri grani diversi. Infine, il fatto
più notevole in tutto questo è la generazione
degli spiriti animali, che sono come un vento sottilissimo,
o piuttosto come una fiamma molto pura e molto viva che, salendo
in continuazione e in grande abbondanza dal cuore al cervello,
va a finire di là, attraverso i nervi, nei muscoli,
e dà movimento a tutte le membra. E non c'è
bisogno di immagnare un altra causa che faccia muovere le
parti del sangue più agitate e penetranti, e quindi
più adatte a formare questi spiriti, verso il cervello
piuttosto che in una direzione diversa, se non che le arterie
che le trasportano sono quelle che vengono più direttamente
dal cuore, e secondo le leggi della meccanica, che sono le
stesse leggi della natura, quando molte cose tendono insieme
a muoversi verso una stessa parte dove non c'è abbastanza
posto per tutte, come accade alle parti del sangue che uscendo
dalla cavità sinistra del cuore vanno verso il cervello,
le più deboli e meno mobili sono deviate dalle più
forti, che così vi giungono sole.
Tutte queste cose le avevo spiegate con molti particolari
nel trattato che mi proponevo allora di pubblicare. Di seguito
avevo mostrato quale dev'essere la struttura dei nervi e dei
muscoli del corpo umano per far sì che gli spiriti
animali, standovi dentro, abbiano la forza di muovere le sue
membra: come si vede nelle teste da poco tagliate che ancora
si muovono e mordon la terra, benché inanimate. Inoltre,
quali mutamenti devono avvenire nel cervello per causare la
veglia, il sonno, i sogni; e come la luce, i suoni, gli odori,
i sapori, il caldo e tutte le altre qualità degli oggetti
esterni possano imprimervi idee diverse attraverso i sensi;
e la fame, la sete e le altre passioni interne possano inviarvi
altresì le loro; quale sua parte si debba intendere
come senso comune che accoglie quelle idee; come memoria che
le conserva; e come immaginazione, che può mutarle
in diverse maniere e forgiarne di nuove, e con lo stesso mezzo,
distribuendo gli spiriti animali nei muscoli, può far
muovere le membra di quel corpo imprimendo in esso, sia in
rapporto agli oggetti che si presentano ai sensi, sia in rapporto
alle passioni interne, tutti quei movimenti di cui le nostre
membra sono capaci senza intervento della volontà.
Il che non sembrerà per nulla strano a coloro che sapendo
quanti diversi automi, o macchine semoventi, può costruire
l'industria umana, e con pochissimi pezzi, in confronto alla
grande quantità di ossa, muscoli, nervi, arterie, vene
e tutte le altre parti che sono nel corpo di ogni animale,
considereranno questo corpo come una macchina fatta dalle
mani di Dio e quindi ordinata incomparabilmente meglio e capace
di movimenti più meravigliosi di qualunque altra gli
uomini possano inventare.
Qui in particolare mi ero fermato per far vedere che se ci
fossero macchine con organi e forma di scimmia o di qualche
altro animale privo di ragione, non avremmo nessun mezzo per
accorgerci che non sono in tutto uguali a questi animali;
mentre se ce ne fossero di somiglianti ai nostri corpi e capaci
di imitare le nostre azioni per quanto è di fatto possibile,
ci resterebbero sempre due mezzi sicurissimi per riconoscere
che, non per questo, sono uomini veri. In primo luogo, non
potrebbero mai usare parole o altri segni combinandoli come
facciamo noi per comunicare agli altri i nostri pensieri.
Perché si può ben concepire che una macchina
sia fatta in modo tale da proferire parole, e ne proferisca
anzi in relazione a movimenti corporei che provochino qualche
cambiamento nei suoi organi; che chieda, ad esempio, che cosa
si vuole da lei se la si tocca in qualche punto, o se si tocca
in un altro gridi che le si fa male e così via; ma
non si può immaginare che possa combinarle in modi
diversi per rispondere al senso di tutto quel che si dice
in sua presenza, come possono fare gli uomini, anche i più
ottusi. L'altro criterio è che quando pure facessero
molte cose altrettanto bene o forse meglio di qualcuno di
noi, fallirebbero inevitabilmente in altre, e si scoprirebbe
così che agiscono non in quanto conoscono, ma soltanto
per la disposizione degli organi. Infatti mentre la ragione
è uno strumento universale, che può servire
in ogni possibile occasione, quegli organi hanno bisogno di
una particolare disposizione per ogni azione particolare;
ed è praticamente impossibile che in una macchina ce
ne siano a sufficenza per consentirle di agire in tutte le
circostanze della vita, come ce lo consente la nostra ragione.
Ora, con questi due criteri si può conoscere anche
la differenza che c'è tra gli uomini e i bruti. E assai
noto che non c'è uomo tanto ebete e stupido, neppure
un pazzo, che non sia capace di mettere insieme diverse parole
e farne un discorso per comunicare il suo pensiero; e che
al contrario non c'è altro animale, per quanto perfetto
e felicemente creato, che possa fare lo stesso. Questo avviene
non per mancanza di organi, perché gazze e pappagalli
sono in grado di articolare parole come noi, e tuttavia non
possono parlare come noi, mostrare cioè che pensano
quel che dicono; mentre chi è nato sordo e muto, privato
perciò come e più delle bestie degli organi
che servono a parlare, suole inventare da sè segni
con i quali si fa intendere da chi, standogli solitamente
vicino, può apprendere facilmente il suo linguaggio.
E questo non dimostra soltanto che gli animali sono meno ragionevoli
degli uomini, ma che non lo sono per nulla. Perché
vediamo che di ragione, per essere capaci di parlare, ce ne
vuole assai poca; e poiché si osservano tra gli animali
di una medesima specie disuguaglianze, come ce ne sono anche
tra gli uomini, e si nota che alcuni si possono ammaestrare
meglio di altri, sarebbe incredibile che una scimmia o un
pappagallo che fossero tra i migliori della loro specie non
eguagliassero in questo un bambino dei più stupidi
o almeno uno che abbia il cervello leso, se non avessero un
anima di natura affatto diversa dalla nostra. Né si
devono confondere le parole con i moti naturali che rivelano
le passioni, e possono essere imitati dalle macchine tanto
bene quanto dagli animali; o pensare, come qualcuno nell'antichità
che le bestie parlino anche se non ne intendiamo il linguaggio:
se fosse vero, dal momento che molti dei loro organi corrispondono
ai nostri, potrebbero farsi intendere tanto bene da noi quanto
dai loro simili. Ed è ancora assai notevole il fatto
che, sebbene molti animali mostrino in qualche loro azione
un abilità maggiore della nostra, non ne rivelino tuttavia
nessuna in molte altre, per cui quel che fanno meglio non
prova che abbiano un intelligenza, giacché se così
fosse ne avrebbero più di chiunque fra noi e riuscirebbero
meglio in ogni cosa; prova piuttosto che non ne hanno affatto,
e che ciò che agisce in essi è la natura, in
virtù della disposizione dei loro organi: così
come un orologio, fatto solo di ruote e di molle, può
contare le ore e misurare il tempo con maggiore precisione
di quanto possiamo noi con tutto il nostro senno.
Avevo descritto, dopo di ciò, l'anima razionale, e
mostrato che non può in nessun modo essere tratta dalla
potenza della materia, come le altre cose di cui avevo parlato,
ma deve essere creata appositamente, e che non basta che sia
collocata nel corpo umano come il pilota della nave, se non
forse per muovere le membra, ma è necessario che sia
congiunta ad esso e unita più strettamente perché
si abbiano, in più, sentimenti e appetiti simili ai
nostri, e ne risulti così un uomo vero. Del resto,
mi sono soffermato un poco su questo argomento perché
è dei più importanti; infatti, subito dopo l'errore
di chi nega Dio, errore che ritengo di avere confutato a sufficenza,
non c'è un altro che allontani maggiormente gli spiriti
deboli dalla retta via della virtù, che l'immaginare
che l'anima dei bruti abbia la stessa natura della nostra,
e che pertanto non abbiamo nulla da temere né da sperare
dopo questa vita, proprio come le mosche e le formiche; mentre
quando si conosce quanta differenza ci sia si capiscono molto
meglio le ragioni che provano che la nostra è di una
natura indipendente dal corpo, e dunque non è destinata
a morire con esso; e dal momento che non si vedono altre cause
che possano distruggerla, si è portati naturalmente
a giudicarla immortale.
**Parte sesta**
Le cose richieste per andare più avanti nello studio
della natura
Sono passati tre anni da quando, arrivato alla fine del trattato
che contiene tutte queste cose, e mentre mi accingevo a rivederlo
per metterlo nelle mani di un tipografo, venni a sapere che
persone alle quali mi inchino e la cui autorità non
ha sulle mie azioni un peso minore di quello che la mia ragione
ha sui miei pensieri, avevano disapprovato un'opinione di
fisica pubblicata qualche tempo prima da un altro e dalla
quale non dirò che la condividessi, ma solo che non
vi avevo trovato nulla, prima della loro censura, che potessi
immaginare pregiudizievole alla religione o allo Stato, e
dunque nulla che mi avrebbe impedito di sostenerla, se la
ragione me ne avesse convinto; e il fatto mi fece temere che
se ne potesse trovare qualcuna delle mie in cui avessi errato,
nonostante la grande cura che ho sempre avuto di non accoglierne
di nuove, senza averne certissime dimostrazioni, e di non
enunciarne che potessero risultare dannose a qualcuno. Tanto
bastò perché cambiassi la prima decisione che
avevo presa di pubblicarle. Sebbene infatti fossero assai
forti le ragioni della prima decisione, l'inclinazione che
mi ha fatto sempre odiare il mestiere di far libri me ne fece
trovare tante altre per dispensarmene. I motivi in un senso
o nell'altro sono tali che non solo ho io qui qualche interesse
a dirli, ma forse anche il pubblico ad ascoltarli.
Non ho mai tenuto in gran conto i parti del mio ingegno, e
finché non ho raccolto dal metodo di cui mi servo altri
frutti che qualche soddisfazione a proposito di alcune difficoltà
delle scienze speculative, oppure l'aver tentato di regolare
i miei costumi secondo le norme che mi prescriveva, non ho
mai considerato un obbligo di scriverne. Giacché, riguardo
ai costumi, ognuno abbonda a tal punto di senno che ci sarebbero
così tanti riformatori quante sono le teste se non
fosse consentito soltanto a quelli che Dio ha fatto sovrani
dei suoi popoli, o ha riempito di grazia e di zelo profetico,
di intraprendervi qualche mutamento; e sebbene le mie speculazioni
mi piacessero molto, credevo che pure gli altri ne avessero
che a loro forse piacevano anche di più. Ma non appena
ebbi acquistato alcune nozioni generali di fisica, e cominciando
a saggiarle in qualche problema particolare, compresi fino
a qual punto potevano condurre e quanto differito dai princìpi
di cui ci si è seviti finora, ritenni che non potevo
tenerle nascoste senza peccare gravemente contro la norma
che ci obbliga a favorire per quanto possiamo il bene generale
di tutti gli uomini. Giacché esse mi hanno fatto vedere
che è possibile arrivare a conoscenze molto utili alla
vita, e che in luogo della filosofia speculativa che si insegna
nelle Scuole, se ne può trovare una pratica, in virtù
della quale, conoscendo la forza e le azioni del fuoco, dell'acqua,
dell'aria, degli astri e dei cieli e di tutti gli altri corpi
che ci circondano così distintamente come conosciamo
le diverse tecniche degli artigiani, potremo parimenti impiegarle
in tutti gli usi a cui sono adatte, e renderci quasi signori
e padroni della natura. Il che non soltanto è desiderabile
per inventare una infinità di macchine che ci consentirebbero
di godere senza alcuna fatica dei frutti della terra e di
tutti gli altri beni che vi si trovano, ma anche e in primo
luogo di conservare la salute, che è senza dubbio il
primo di questi beni e il fondamento di tutti gli altri in
questa vita; perché anche lo spirito dipende a tal
punto dal temperamento e dalla disposizione degli organi corporei,
che se è possibile trovare qualche mezzo che renda
in generale gli uomini più saggi e più abili
di quanto siano stati fin qui, è proprio nella medicina,
credo, che si deve cercarlo. E' vero che quella che si pratica
ora contiene poche cose di cui si possa davvero indicare l'utilità;
ma senza volerla disprezzare, son certo che non c'è
nessuno, neppure tra quelli che la esercitano, che non confessi
che tutto quel che in essa si sa si riduce quasi a nulla in
confronto di quel che resta da sapere, e che potremo liberarci
da una infinità di malattie, sia del corpo che dello
spirito, e forse anche dalla decadenza della vecchiaia, se
ne conoscessimo a sufficenza le cause, e tutti i rimedi di
cui la natura ci ha provvisto. Ora, essendomi proposto di
impiegare tutta la mia vita nella ricerca di una scienza così
necessaria, e avendo scoperto una strada lungo la quale mi
sembra che si debba senz'altro trovarla, a meno di non esserne
impediti o dalla brevità della vita o dal difetto di
esperienze, giudicai che non ci fosse miglior rimedio contro
questi due ostacoli che quello di comunicare fedelmente al
pubblico tutto il poco che avrei scoperto, e di invitare gli
uomini di ingegno a sforzarsi di andare avanti contribuendo
ciascuno secondo l'inclinazione e le capacità sue agli
esperimenti necessari, e comunicando anche loro al pubblico
tutto quel che avrebbero appreso, affinché, partendo
gli ultimi dal punto di arrivo di chi li precedeva, e unendosi
così le vite e il lavoro di molti, andassimo tutti
insieme molto più avanti di quanto ciascuno avrebbe
potuto da solo.
Notai anzi, a proposito delle esperienze, che sono tanto più
necessarie tanto più si è avanti nella conoscenza.
All'inizio è meglio servirsi soltanto di quelle che
si presentano da sé ai nostri sensi e che facendo un
pò di attenzione non possiamo ignorare, piuttosto che
ricercarne di più rare e artificiose; perché
le più rare ingannano spesso, quando non si conoscono
ancora le cause delle più comuni, e perché le
circostanze da cui dipendono sono quasi sempre così
particolari e minime che è assai difficile notarle.
Ma l'ordine che ho seguito quì è il seguente.
Ho cercato come prima cosa di trovare in generale i princìpi
o cause prime di tutto ciò che è o può
essere al mondo, considerando per questo soltanto Dio che
l'ha creato, e ricavandoli solo da certi semi di verità
che sono naturalmente nella nostra anima. In seguito ho cercato
quali fossero gli effetti primi e più ordinari che
era possibile dedurre da queste cause: e mi sembra di aver
trovato così cieli, astri, una terra e, su questa,
acqua, aria, fuoco, minerali e altre cose simili, che sono
le più comuni e le più semplici e dunque le
più facili a conoscersi. Poi quando ho voluto discendere
a quelle più particolari, se ne sono presentate tante
così diverse che l'ingegno umano mi è sembrato
incapace di distinguere le forme o specie che sono sulla terra
dalle infinite altre che avrebbero potuto esserci, se Dio
avesse voluto mettercele, e di conseguenza anche incapace
di rendercele utili, a meno di non andare dagli effetti alle
cause, servendosi anche di esperienze particolari. In seguito,
richiamando alla mente tutti gli oggetti che si erano presentati
ai miei sensi, oso dire di non aver notato nulla che non potessi
spiegare abbastanza facilmente mediante i princìpi
che avevo trovato. Ma debbo anche confessare che la potenza
della natura è così ampia e diffusa, e i princìpi
così semplici e generali, che non mi accade quasi più
di osservare un effetto particolare, senza vedere subito che
può esserne dedotto in molti modi diversi, e la mia
più grande difficoltà è di solito trovare
qual è questo modo. Per riuscirvi non conosco altro
mezzo che cercare di nuovo altri esperimenti, tali che il
loro risultato non sia lo stesso a seconda che lo si debba
spiegare nell'uno o l'altro modo. Per il resto, sono arrivato
al punto di vedere molto bene, mi pare, come si deve procedere
per fare quasi tutte quelle esperienze che possono servire
allo scopo; ma vedo anche che sono tali e tante che non basterebbero
a tutte né le mie mani né i miei averi, anche
se fossero moltiplicati per mille; sicché i progressi
maggiori o minori che riuscirò a fare nella conoscenza
della natura dipenderanno d'ora in poi dai mezzi che avrò
di farne di più o di meno. Questo mi ripromettevo di
far conoscere col trattato che avevo scritto, e anche di mostrare
con tanta chiarezza l'utilità che il pubblico ne avrebbe
ricevuto, da obbligare coloro che desiderano il bene comune
degli uomini, e cioè quanti sono virtuosi realmente
e non solo secondo l'apparenza o l'opinione, sia a comunicarmi
le esperienze già fatte, sia ad aiutarmi nella ricerca
di quelle che restano da fare.
Ma da allora altri argomenti mi indussero a cambiare opinione,
e a pensare che dovevo certamente continuare a scrivere tutto
quello che giudicavo di qualche importanza man mano che ne
scoprivo la verità, e farlo con la stessa attenzione
che se volessi pubblicarlo. E questo, in primo luogo, per
avere così un altra occasione di esaminare le cose
con cura, giacché indubbiamente si stà più
attenti a quel che si pensa debba essere visto da molti, che
a quel che si fa solo per sé; e spesso cose che mi
erano sembrate vere quando avevo cominciato a pensarle, mi
apparvero false quando volli metterle su carta. In secondo
luogo per non perdere nessuna occasione di essere utile al
pubblico, se ne sono capace, e perché dei miei scritti,
se valgono qualcosa, possano fare l'uso più appropriato
quelli che ne verranno in possesso dopo la mia morte. Ma pensavo
che non dovevo assolutamente permetterne la pubblicazione
finché ero in vita perché né le opposizioni
e controversie a cui sarebbero forse esposti, né la
fama, qualunque essa fosse, che mi avrebbero acquistato, mi
facessero perdere il tempo che voglio impiegare a istruirmi.
Se è vero, infatti, che ognuno ha l'obbligo di favorire,
per quanto gli è possibile, il bene altrui, e che non
essere utile a nessuno significa proprio non valere nulla,
è vero anche che le nostre preoccupazioni debbono estendesri
più in là del presente, e che è bene
tralasciare cose che potrebbero forse arrecare qualche vantaggio
ai viventi, quando se ne vogliono fare altre che ne procurino
di maggiori alla posterità. Non voglio nascondere,
infatti, che il poco che ho appreso fin qui è quasi
nulla in confronto a quello che ignoro e che non dispero di
riuscire ad apprendere; perché quelli che scoprono
a poco a poco la verità nelle scienze sono come chi,
cominciando ad arricchirsi, non fatica tanto ora, a guadagnare
molto, quanto faticava prima, quand'era più povero,
a guadagnare di meno. Li si può anche paragonare ai
condottieri, le cui forze aumentano di solito in ragione delle
vittorie, e che per tenere le loro posizioni dopo una sconfitta
hanno bisogno di un accortezza maggiore di quella richiesta
per occupare città e province dopo una vittoria. Perché
sforzarsi di vincere tutte le difficoltà e gli errori
che ci impediscono di arrivare alla conoscenza della verità
è davvero una battaglia che si perde quando accogliamo
qualche falsa opinione su questioni generali e di qualche
importanza; giacché per tornare al punto di prima è
necessaria, dopo, un abilità molto maggiore di quella
che ci vuole per avanzare di molto, quando si è in
possesso di princìpi sicuri. Quanto a me, se ho già
trovato qualche verità nelle scienze (e dal contenuto
di questo libro spero che così si giudicherà),
posso dire che ciò è soltanto il risultato o
la conseguenza del superamento di cinque o sei principali
difficoltà, che considero come altrettante battaglie
felicemente concluse. Oso anche affermare che penso di doverne
vincere anche altre due o tre simili, per compiere interamente
il mio disegno; e che non sono tanto in là con gli
anni da non averne ancora davanti, stando al corso ordinario
della natura, quanti bastano all'impresa. Ma credo di essere
tanto più obbligato a spendere con parsimonia il tempo
che mi resta, quanto maggiore è la speranza di poterlo
impiegare bene; e avrei senza dubbio molte occasioni di perderlo
se pubblicassi i fondamenti della mia fisica. Sebbene siano,
infatti, quasi tutti così evidenti, che basta soltanto
intenderli per convincersene, e non ce ne sia nessuno di cui
non penso di poter dare la dimostrazione, tuttavia, dal momento
che è impossibile che si accordino con tutte le diverse
opinioni degli altri uomini, prevedo che sarei spesso distratto
dalle obiezioni che farebbero nascere.
Si dirà che queste obiezioni sarebbero utili sia a
farmi conoscere i miei errori, sia a favorire negli altri,
per questa via, una migliore intelligenza di quel tanto di
buono che posso avere; e dal momento che molti vedono meglio
di uno solo, cominciando a servirsi fin da ora delle mie,
mi aiuterebbero anche con le loro scoperte. Ma benché
riconosca di essere estremamente soggetto all'errore, e non
mi fidi quasi mai dei primi pensieri che mi vengono, l'esperienza
che ho delle obiezioni che mi si possono fare non mi consente
di sperarne qualche vantaggio. Infatti ho già sperimentato
più volte i giudizi sia di coloro che consideravo miei
amici, sia di altri a cui pensavo di essere indifferente,
come anche di alcuni che sapevo si sarebbero sforzati per
malignità di mettere in luce quel che l'affetto nascondeva
agli amici. Ma raramente mi è accaduto di sentirmi
fare qualche obiezione che non avessi per nulla prevista,
a meno che non fosse assai lontana dal mio argomento; sicché
non ho mai incontrato un censore delle mie opinioni, che non
mi sembrasse o meno severo o meno equo di me stesso. E non
ho neppure mai notato che con le dispute che si tengono nelle
Scuole si sia scoperta qualche verità che prima si
ignorava; giacché quando si tratta di avere la meglio
ognuno si esercita molto di più a far valere il verosimile
che a pesare le ragioni dell'una e dell'altra parte; e quelli
che sono stati per lungo tempo buoni avvocati non per questo
diventano in seguito buoni giudici.
Quanto all'utilità che altri ricaverebbero dalla pubblicazione
dei miei pensieri, non potrebbe essere, neppure questa, molto
grande, tanto più che non li ho portati fino a un punto
che non ci sia bisogno di aggiungervi molte altre cose prima
di renderli atti all'uso. Posso dire senza vanità che
se c'è qualcuno che ne è capace sono io piuttosto
che un altro: non che non ci possano essere al mondo molti
ingegni senza paragone migliori del mio, ma perché
non si può concepire una cosa così bene né
farla propria quando la si apprende da altri, come quando
si scopre da sé. Questo è nel mio campo così
vero che, sebbene abbia spiegato spesso qualche mia opinione
a persone assai acute, che sembravano mentre parlavo capirle
molto distintamente, tuttavia quando le ripetevano notavo
che le avevano quasi sempre cambiate a tal punto che non potevo
riconoscerle per mie. Con l'occasione voglio pregare qui i
posteri di non credere mai che io sia l'autore delle cose
che verranno loro riferite se non le avrò rese pubbliche
io stesso. Non mi stupisco per niente delle stravaganze che
si attribuiscono a tutti i filosofi antichi di cui non abbiamo
gli scritti; essendo le migliori intelligenze del tempo non
ritengo che i loro pensieri fossero tanto irragionevoli, ma
piuttosto che ce li abbiano mal riferiti. D'altronde non si
è visto quasi mai che qualcuno dei loro seguaci li
superasse; sono certo che i più zelanti aristotelici
di oggi si riterrebbero fortunati di avere la stessa conoscenza
della natura che ebbe Aristotele, anche a costo di non saperne
mai di più. Sono come l'edera, che non cerca mai di
salire più su degli alberi che la sostengono, e spesso
anzi ricade, quando è arrivata fino alla loro cima;
come mi sembra che ricadano, e cioè si rendano in qualche
modo meno sapienti che se smettessero di studiare, quelli
che, non contenti di sapere tutto quello che è spiegato
nel loro autore in maniera comprensibile, vogliono oltre a
ciò trovarci dentro la soluzione di molte difficoltà
di cui non fa cenno e alle quali forse non ha mai pensato.
Eppure il loro modo di filosofare è molto comodo per
quelli che hanno ingegno assai mediocre; giacché l'oscurità
delle distinzioni e dei princìpi di cui si servono
li rende capaci di parlare di ogni cosa con tanto ardire,
come se la conoscessero, e di sostenere le proprie affermazioni
contro chi è più acuto e più abile, senza
che si riesca a convincerli. In questo mi sembrano simili
a un cieco che, per battersi alla pari con uno che non ci
vede lo fa scendere in fondo a un sotterraneo assai buio;
e posso aggiungere che costoro hanno interesse a che mi astenga
dal pubblicare i princìpi della filosofia di cui mi
servo, perché sono molto semplici e molto evidenti,
pubblicarli sarebbe come aprire qualche finestra e fare entrare
la luce del giorno nel sotterraneo in cui sono discesi per
battersi. Ma neanche gli ingegni migliori hanno motivo di
augurarsi di coglierli; perché se vogliono parlare
di tutto e acquisire la fama di dotti, ci riusciranno più
facilmente accontendandosi del verosimile, che si può
trovare senza grande fatica per oggetti di ogni genere, piuttosto
che cercando la verità, che non si scopre se non a
poco a poco e per alcune cose soltanto, e che ci impone, quando
si tratta di parlare di altre, di confessare con franchezza
che non ne sappiamo nulla. Se poi preferissero quello ch'è
senza dubbio assai preferibile, cioè la conoscenza
di poche verità alla vanità di apparire sapienti
in ogni cosa, e volessero seguire un programma simile al mio,
non avrebbero bisogno per questo di sentirsi dire nulla di
più di quanto ho già detto in questo discorso.
Se sono infatti capaci di andare più avanti di me,
lo saranno anche a maggior ragione di trovare da sé
quel che penso di avere scoperto. Tanto più che, avendo
sempre proceduto con ordine nelle mie ricerche, è certo
che quel che mi resta ancora da scoprire è di per sé
più difficile e nascosto di quanto ho potuto incontrare
fin qui, sicché proverebbero molto meno piacere ad
apprenderlo da me che da se stessi. Si aggiunga che l'abitudine
che acquisteranno cercando dapprima le cose facili, e passando
via via per gradi ad altre più difficili, servirà
loro più di quanto potrebbero tutti i miei insegnamenti.
Così, per quel che mi riguarda, sono certo che se mi
avessero insegnato fin da giovane le verità di cui
ho più tardi cercato le dimostrazioni, e non avessi
fatto alcuna fatica per impararle, non ne avrei forse mai
appresa nessun'altra, o almeno non avrei mai acquistato l'abitudine
e la facilità, che penso di avere, di trovarne sempre
di nuove, quando mi applico alla loro ricerca. In una parola,
se c'è al mondo una opera che non può essere
compiuta così bene da nessun altro come da chi l'ha
cominciata, è proprio quella a cui stò lavorando.
E' vero che per le esperienze che possono occorrere un uomo
solo non basterebbe a farle tutte; ma è anche vero
che, oltre alle sue, non potrebbe impiegarvi altre mani che
quelle di artigiani o di gente che possa pagare, e che la
speranza del guadagno, mezzo assai efficace, indurrebbe a
eseguire esattamente tutte le cose ordinate. Perché
i volontari, che potrebbero offrirgli il loro aiuto mossi
dalla curiosità o dal desiderio di imparare, oltre
che di solito promettono più di quanto non facciano,
e si propongono tante belle cose di cui nessuna mai riesce,
pretenderebbero senz'altro di essere pagati con la soluzione
di qualche problema, o almeno con complimenti e conversazioni
inutili, che gli farebbero perdere tanto tempo che ci rimetterebbe.
E quanto alle esperienze fatte già da altri, anche
quando volessero comunicargliele, cosa che non farebbero mai
quelli che le chiamano segreti, sono rese per lo più
complicate da tante circostanze o ingredienti superflui, che
gli sarebbe assai difficile districarne la verità;
si aggiunga che le troverebbe quasi tutte spiegate così
male, o addirittura falsate, perché chi le ha eseguite
si è sforzato di farle apparire conformi ai suoi princìpi,
che se ce ne fosse qualcuna di utile, non potrebbe neppur
essa valere il tempo necessario per individuarla. Di modo
che se ci fosse un uomo al mondo del quale si sa con certezza
ch'è capace di scoprire le cose più grandi e
più utili a tutti, e per questo gli altri cercassero
con ogni mezzo di aiutarlo a realizzare i suoi progetti, non
vedo cosa altro potrebbero fare per lui, se non contribuire
alle spese richieste dagli esperimenti necessari, e per il
resto impedire che nessuno lo importuni. Ma oltre a non presumere
tanto di me da promettere cose straordinarie, e oltre al fatto
che non mi compiaccio di pensieri così vani da immaginare
che lo Stato debba interessarsi tanto dei miei progetti, non
ho neppure l'animo così basso da accettare da chicchessia
favori che si possano ritenere immeritati.
Tutte queste considerazioni messe insieme furono il motivo
per cui non volli, tre anni fa rendere pubblico il trattato
che avevo per le mani e decisi anzi di non farne circolare
nessun altro, finché ero in vita, che fosse altrettanto
generale o dal quale si potessero intendere i fondamenti della
mia fisica. Ma dopo intervennero due nuove ragioni che mi
indussero a dare quì alcuni saggi particolari e a rendere
in parte conto al pubblico di quello che ho fatto e che intendo
fare. La prima era che, se non lo avessi fatto, molti che
erano al corrente della mia precedente intenzione di far stampare
alcuni scritti avrebbero potuto immaginare che i motivi della
rinuncia fossero meno onorevoli per me di quanto non siano.
Perché sebbene non ami eccessivamente la gloria, e
anzi -se posso dirlo- la detesti, in quanto la ritengo avversa
alla quiete, che stimo più di ogni altra cosa, non
ho mai neppure cercato di nascondere le mie azioni come se
fossero delitti, né ho usato eccessive precauzioni
per restare sconosciuto; giacché avrei creduto di far
torto a me stesso, e poi me ne sarebbe venuta una certa inquietudine,
contraria anch'essa alla perfetta tranquillità dell'animo
a cui aspiro. E poiché, non avendo mai ceduto né
al desiderio di essere famoso né a quello di essere
ignorato, non ho potuto fare a meno di acquistare una sorta
di reputazione, ho pensato che dovessi fare del mio meglio
per evitare almeno che questa fosse cattiva. L'altra ragione
che mi ha spinto a scrivere queste pagine è che, vedendo
crescere ogni giorno di più il ritardo subito dal progetto
che ho di istruirmi, a causa di una infinità di esperienze
di cu ho bisogno e che non posso fare senza l'aiuto altrui,
anche se non mi lusingo tanto da sperare che lo Stato partecipi
molto ai miei interessi, non voglio tuttavia neppure venir
meno a me stesso, e dare così motivo a coloro che mi
sopravviveranno di rimproverarmi un giorno perché avrei
potuto lasciare forse molte più cose e molto migliori
di quelle che ho lasciato, se non avessi trascurato troppo
di far conoscere in che cosa potevano contribuire ai miei
progetti.
E ho pensato che mi era facile scegliere qualche argomento
che, senza essere esposto a troppe controversie e senza obbligarmi
a dichiarare dei miei princìpi più di quanto
desidero, lasciassero vedere abbastanza chiaramente quello
che posso, o non posso, nelle scienze. Non so dire se ci sono
riuscito né voglio anticipare i giudizi di nessuno
parlando io dei miei scritti; ma sarò ben lieto che
vengano presi in esame, e perché se ne abbia maggiore
opportunità, prego tutti coloro che vorranno farmi
qualche obiezione di prendersi la pena di inviarla al mio
libraio; quando mi avvertirà, cercherò di aggiungervi
la mia risposta nello stesso tempo e così i lettori,
vendendo l'una e l'altra insieme potranno più facilmente
giudicare dove sta la verità. Prometto infatti di non
dilungarmi mai nelle risposte, ma solo di riconoscere con
grande franchezza i miei errori quando li vedrò, oppure,
se non riesco a vederli, di dire semplicemente quel che credo
necessario per difendere quanto ho scritto, senza aggiungere
la spiegazione di qualche nuova materia, per non trovarmi
costretto a passare da una all'altra all'infinito.
E se alcune cose di cui ho parlato all'inzio della Diottrica
e delle Meteore colpiranno a prima vista perché le
chiamo ipotesi e mostro di non volerle provare, chiedo che
si abbia la pazienza di leggere tutto il saggio con attenzione,
e credo che si finirà col trovarsi soddisfatti. Perché
mi sembra che le ragioni si seguano l'una all'altra in modo
tale che come le ultime vengono dimostrate dalle prime che
ne sono le cause, così le prime vengono reciprocamente
dimostrate dalle ultime, che ne sono gli effetti. Non si deve
pensare che ho commesso qui l'errore che i logici chiamano
circolo; infatti poiché l'esperienza rende per lo più
certissimi questi effetti, le cause da cui li deduco non servono
tanto a provarli quanto a spiegarli; e al contrario sono quelle
che vengono provate da questi. E le ho chiamate ipotesi solo
perché si sappia che penso di poterle dedurre da quelle
prime verità che ho esposto sopra, ma che non ho voluto
farlo di proposito, per evitare che certe teste che si figurano
di poter imparare in un giorno, appena ne hanno sentito due
o tre parole, tutto quello che un altro ha pensato in venti
anni, e che sono tanto più soggette all'errore e tanto
meno capaci di arrivare alla verità quanto più
sono acute e vivaci, colgano qui l'occasione per costruire
su quelli che immaginano essere i miei princìpi qualche
filosofia stravagante della quale mi si possa far colpa. Giacché
per le opinioni che sono proprio mie, non ho bisogno di giustificarle
come se fossero nuove, perché son certo che, al considerarne
bene le ragioni, risulteranno tanto semplici e conformi al
senso comune da sembrare meno straordinarie e strane di qualunque
altra che si possa avere sugli stessi argomenti. E neppure
mi vanto di essere stato il primo inventore di qualcuna di
esse, bensì di non averne mai accolta nessuna per il
semplice fatto che fosse o anche che non fosse insegnata da
altri, ma solo perché me ne aveva persuaso la ragione.
Se gli artigiani non possono dare subito esecuzione all'invenzione
spiegata nella Diottrica, non credo che si possa dirla per
questo cattiva; per costruire e mettere apunto la macchina
che ho descritto, in modo che non vi manchi nessun particolare,
sono necessari abilità e esercizio, sicché,
se vi riuscissero al primo tentativo, non mi stupirei di meno
che se qualcuno potesse in un giorno solo, imparare a suonare
in modo eccellente il liuto, per il solo fatto che gli è
stata data una buona partitura. E se scrivo in francese, che
è la lingua della mia terra, piuttosto che in latino,
che è quella dei miei precettori, è perché
spero che quanti si servono della loro ragione naturale pura
e semplice giudicheranno meglio delle mie opinioni di quelli
che credono soltanto ai libri degli antichi. Quelli poi che
al buon senso uniscono lo studio, e che mi auguro di avere
come soli giudici, non saranno, ne sono certo, tanto partigiani
del latino da rifiutarsi di intendere le mie ragioni perché
le spiego in volgare.
Per il resto, non voglio dir nulla, qui, nei particolari,
dei progressi che spero di fare in futuro nelle scienze, né
impegnarmi pubblicamente con promesse che non sono sicuro
di mantenere; dirò soltanto che ho deciso di impiegare
unicamente il resto della mia vita nello sforzo di acquistare
qualche conoscenza della natura, da cui possano trarre per
la madicina precetti più sicuri di quelli avuti fin
qui; e che la mia natura mi tiene tanto lontano da ogni disegno
di altro genere, soprattutto da quelli che non potrebbero
giovare ad alcuni senza arrecare danno ad altri, che se qualche
caso mi costringesse a impegnarmi in essi, non sarei, credo,
capace di riuscirci. Faccio qui una dichiarazione che, lo
so bene, non può servire a procurarmi considerazione
nel mondo, ma non ne ho neppure nessuna voglia; e mi riterrò
più obbligato, sempre, verso quelli che mi consentiranno
col loro favore di godere senza impedimenti del mio tempo,
di quanto lo sarei verso chi mi offrisse le cariche più
onorevoli della terra.
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