Sommario -
Premessa - I. Origini II. Le Scuole:
1. la Scuola Yin-yang; 2) la Scuola dei Letterati; 3) la
Scuola mohista; 4) la Scuola dei Nomi; 5) la Scuola legalista;
6) la Scuola taoista III. La
filosofia al tempo degli Han IV. Il
neo-confucianesimo - V. Il
buddhismo - VI. La filosofia
dopo l'epoca Song.
PREMESSA - Trattasi di un modo filosofico
che pur mostrando un qualche interesse per la realtà ultrafenomenica,
si configura però come un naturalismo cosmico dove
il vivo senso dell'essere e la riflessione sui primi principi
non conducono mai ad una metafisica preternaturale. Anche
se non è possibile escludere che la prima concezione cinese
dell'universo sia stata di tipo teologico, i dati probanti
sono frammentari e insufficienti. È presente già in antico
la nozione di un "supremo sovrano" - shangdi - che
sarà venerato in epoca imperiale come il dispensatore delle
granaglie e di ogni altro bene. Ma lo shangdi è posteriore
alla venuta in esistenza dell'universo e sembra essere piuttosto
un demiurgo che un creatore. Questa nozione, tuttavia, non
è stata mai oggetto di specifiche analisi teoretiche e non
ha condotto allo sviluppo di una teologia. Si aggiunga che
nemmeno la presenza dei cristiani nestoriani (sec. VII e
VIII) e quella storicamente e numericamente molto più rilevante
dei musulmani (a partire dal sec. VII) hanno lasciato tracce
nel pensiero metafisico cinese.
La più antica nozione
sicuramente documentata è quella di un principio
dal quale trasse origine l'universo e del quale il pensiero
cinese non ha mai tentato l'identificazione. Il principio,
essendo il non-determinato in assoluto proprio in quanto
generatore di tutte le entità finite o determinate, resta
il nonconoscibile e quindi il non-definibile. Esso può essere
soltanto intuito come la forza inesauribile che è la fonte
stessa di vita e la cui energia si espande naturalmente,
manifestandosi attraverso la realtà delle cose. L'attività
del principio, in quanto espansione necessaria della
forza che esso è, presenta un carattere emanativo. Il suo
modo operativo, inoltre, che appare dettato da leggi necessarie
e immutabili, mostrandosi costante, indifferente e silente
nel suo fluire, tanto da non rivelare l'identità del principio
stesso, non permette di coglierne la motivazione né una
significazione trascendente o teleologica. Ne segue che
l'universo è interpretato come una realtà funzionale, perenne,
emanata e non creata, la cui presenza è da ritenersi coeva
alla forza stessa che la pervade.
L'indifferenza sovrana
del principio comporta che i significati e i valori
si diano soltanto in rapporto all'uomo. Questi però, partecipando
con l'universo intero del comune principio, resta
legato al tutto in modo indissolubile. Il senso per questo
sostanziale rapporto tra l'uomo e il cosmo, si traduce nella
consapevolezza di appartenere ad una indivisibile unità
ontologica. L'uomo, pertanto, pur trovando nella sua coscienza
e nel suo intelletto gli strumenti per la produzione dei
significati e dei valori, non è portato a dissociarsi dalla
realtà universale e a contrapporsi ad essa. Ne risulta una
visione monistica dell'universo, che esclude il dualismo
se inteso come contrapposizione di entità fra loro irriducibili
o "non-congruenti".
La tendenza a vedere
nei molteplici soltanto la manifestazione dell'uno, accresce
il senso per la relatività dei particolari e indirizza la
ricerca del vero e dell'assoluto verso la "sostanza" o il
"principio" inerente alle cose. Sostanza e funzione, noumeno
e fenomeno, eternità e temporalità, sono dunque realtà correlate.
Essendo priva di preoccupazioni
soteriologiche, la riflessione filosofica è realistica e
moraleggiante, trovando la sua espressione più compiuta
quando teorizza sull'uomo, le cui finalità restano circoscritte
nell'ambito fisico e sociale di questa realtà di mondo.
I. ORIGINI - I più antichi
documenti del pensiero cinese sono Shujing, Libro
della Storia; Shijing, Libro delle Odi; Yijing*,
Libro delle Mutazioni; Lijing, Libro dei Riti; Yuejing,
Libro della Musica. Queste opere, autentiche più nel contenuto
che nella forma, contengono testimonianze storiche che coprono
un arco di 1.700 anni - dal regno del mitico Huangdi
(c. 2500 a.C.) al periodo dei Regni combattenti (480-222
a.C.). Esse costituirono l'eredità di pensiero della quale
fruirono le Scuole filosofiche sorte a partire dal sec.
VI a.C.
Al sorgere delle cosiddette
"Cento Scuole" non furono estranee le condizioni politiche
e sociali del tempo. Le Scuole, infatti, ne riflettono e
ne interpretano le contraddizioni e le speranze, con l'intenzione
di offrire una risposta efficace. I primi storici (sec.
II-I a.C.), tentandone la classificazione, ne hanno elencate
come segue le sei maggiori: Yin-yang Jia, Scuola
cosmologica Yin-gang; Ru jia, Scuola dei Dotti
o Letterati (più nota in Occidente come Scuola confuciana);
la Mo jia, Scuola mohista; la Ming jia, Scuola
dei Nomi; la Fa jia, Scuola legalista; la Daode
jia, Scuola taoista. La causa immediata del loro costituirsi
fu vista da Liu Xin (sec. I a.C.) nei funzionari
che, avendo perduto gli incarichi di governo in seguito
alla crisi dello Stato Zhou, si erano dispersi per il Paese
dedicandosi all'insegnamento privato.
Importanza primaria
per la determinazione dei fondamentali concetti cosmologici
ebbero lo Shujing e lo Yijing. Il primo, che
può essere considerato il più antico documento cinese di
filosofia e di scienza politica, parla già della concordanza
delle cinque facoltà dell'uomo con i "cinque elementi" cosmici
ed espone l'arte della conoscenza e del governo sviluppata
dal mitico re Yu, ispirandosi alle segrete operazioni
del cielo.
Lo Yijing,
o Libro delle Mutazioni, risale nella sua parte più antica
(il cosiddetto Testo) alla fine della dinastia Yin
(o Shang) ed agli inizi della dinastia Zhou (periodo
del re Wang, 1143 a.C.). Detto anche Zhou Yi Zhu
Shu - lo Yi degli Zhou - fu risparmiato dal rogo dei
libri nel 213 a.C. in quanto massimo testo sapienziale e
divinatorio. L'opera, la cui incidenza sul costume e sul
pensiero cinese è difficilmente valutabile, ebbe oltre duemila
commentatori; di questi il più celebre fu Confucio che la
corredò, secondo la tradizione, delle cosiddette Appendici.
Lo Yijing consta di 64 brevi saggi, emblematici nella
forma, che hanno per oggetto un numero equivalente di esagrammi.
La seconda parte dell'opera è costituita dalle Appendici
divise in dieci sezioni, di provenienza confuciana e databili
tra il 450 e il 350 a.C. - Il linguaggio del Testo
è tale da non permetterne l'interpretazione: questa è resa
parzialmente possibile soltanto dalle Appendici che
non mancano però di oscurità e che fanno riferimento soltanto
occasionale al Testo stesso. Delle Appendici, la
quinta e la sesta sezione compongono il cosiddetto Grande
Trattato, il cui contenuto metafisico-speculativo ha un
valore singolare.
Lo Yi (radicale
di Kangxi 72/4) è interpretato come realtà energetica
sinonima di "produzione ininterrotta". In quanto tale esso
sarebbe la res ultima (da ji; radicali 37 e 75/9)
che avrebbe prodotto le due forze elementari, espresse simbolicamente
da una linea intera e da una spezzata. Le combinazioni ottenute
sovrapponendo le due linee, danno come risultato quattro
bigrammi (i quattro xiang; radicale 152/5); aggiungendo
una terza linea, intera o spezzata, si ottiene la combinazione
di otto trigrammi (bagua). Questi trigrammi, la cui
invenzione è attribuita al mitico sovrano Fuxi (3322
a.C.) ed ai quali fu riconosciuto dalla tradizione un carattere
soprannaturale, manifestano le forze composite della natura
e le loro operazioni, permettendo di classificare le qualità
delle cose. Il re Wang avrebbe in seguito sovrapposti
i trigrammi fino a comporre i 64 esagrammi, fornendo a ciascuno
di questi un nome, uno specifico valore simbolico e indicando,
in alcuni casi, quali azioni siano da compiersi secondo
le circostanze che gli esagrammi simboleggiano.
L'opera ha pertanto
un contenuto divinatorio dal quale ha preso origine una
vastissima e complessa scienza mantica, ed un contenuto
metafisico che ha informato in modo indelebile l'interpretazione
cinese della realtà dell'universo.
II. LE SCUOLE
1. La Scuola Yin-yang trasse ispirazione
dallo Yijing e fondò le sue analisi sulla nozione
già trattata nello Shujing (Parte V, Libro 4) dei
cinque principi dinamici o elementi (gli wu xing;
radicali 7/2 e 144) la cui azione pervade l'universo. Tentando
l'interpretazione degli eventi naturali sulla base dell'esame
delle forze naturali stesse, la Scuola dette l'avvio al
primo pensiero scientifico cinese. Questo tipo di ricerca,
per quanto ancora primitiva, contribuì allo sviluppo della
cosmologia, dell'astrologia e delle arti magiche. Poiché
le conoscenze acquisite erano però sempre rapportate al
lavoro umano (in particolare al lavoro dei campi) e all'organizzazione
sociale, esse influirono notevolmente anche su tutto il
costume cinese. Il pensatore più rappresentativo della Scuola,
Zou Yan (sec. III a.C.), che applicò rigorosamente
il metodo induttivo e coltivò con buoni risultati anche
gli studi geografici, sviluppò una teoria storico-filosofica
nella quale sostenne l'esistenza di un nesso tra i mutamenti
storici e le operazioni degli wu xing.
2. La Scuola dei Letterati. Confucio
(Kongzi, 551-479 a.C.), discendente di nobile famiglia
decaduta, fu dapprima insegnante. Dal 500 al 496 a.C. ricoprì
cariche pubbliche nello Stato di Lu, suo paese natale,
del quale avrebbe anche scritto una cronaca, il Chunqiu
o Annali di Primavera e Autunno, relativa agli anni 722-481
a.C. Esiliato in seguito a contrasti politici, peregrinò
per tredici anni di Stato in Stato, insegnando ed offrendo
ai vari duchi, ma senza suocesso, le proprie idee riformiste.
Fondatore della Scuola dei Letterati e primo insegnante
privato di Cina, fu il pensatore che più di ogni altro si
rapportò ai "classici". Pur avendo affermato di non aver
voluto creare del nuovo e di essersi limitato a trasmettere
la sapienza degli antichi (Ana. VII, 1) per restiturne
le idee e le istituzioni alla originaria purezza, dette
un contributo determinante anche se non precisabile, alla
definizione della dottrina che da lui prende il nome.
Il realismo ne caratterizza
il modo filosofico. Portato all'analisi e all'approfondimento
dei problemi etici e politici più che alla ricerca speculativa,
fu dominato dalla cura per le sorti della nazione e dal
desiderio di ridare al popolo i benefici del buon governo.
Dedicò tutto se stesso all'insegnamento, i cui lineamenti
sono contenuti nei venti libri del Lunyu - digesto
delle conversazioni e detti - redatto dai suoi discepoli
(donde il titolo di Analecta col quale l'opera è
conosciuta in Occidente).
Il suo metodo è induttivo:
egli muove dallo studio delle cose minori per giungere alle
più alte forme di penetrazione intellettuale. Avendo sempre
rifiutato lo studio delle scienze militari e non avendo
alcuna pratica di agricoltura, limitò il suo insegnamento
alle lettere, alle relazioni umane, alla giustizia e alla
sincerità (Ana. VII, xxiii s). La sua didattica vuole
anzitutto fissare nel discepolo i fondamenti o "radici"
(ben; Ana. I, ii, 2) per dargli stabilità
di carattere e chiarezza mentale. A questo fine ritiene
indispensabile l'apprendimento delle regole dei li
(Ana. XVI, xiii, 3) e la "rettifica dei nomi" (Ana.
XIII, iii, 1-7). La sua propedeutica richiede pertanto:
a) lo studio dei li (radicale 113/13) o delle norme
che regolano le cerimonie rituali in relazione agli spiriti
del cielo, della terra e degli uomini e che costituiscono
il codice di comportamento dell'uomo civile, stabilizzandone
il carattere con il loro contenuto morale; b) una proprietà
di linguaggio che perseguendo l'effettiva concordanza della
parola con la cosa designata, bandisca l'equivoco semasiologico,
rifiuti di usare la parola come strumento di frode intellettuale
e si faccia sinonimo di verità.
Il suo pensiero etico
poggia sull'assunto che nella natura esiste uno schema di
governo dato dalle spontanee e molteplici relazioni umane.
Basta sviluppare tali relazioni serbandone l'autenticità
per ottenere risultati positivi. Questa concezione giusnaturalistica
trova il suo fondamento teorico nella nozione di una unità
che pervade il tutto (Ana. IV, xv 1) e che si configura
alla ragione umana come la via o dao seguita
dall'universo. È la via che riflette il modo in cui l'universo
stesso sussiste e che ne manifesta, con sufficiente evidenza
per l'uomo istruito, le norme supreme e perenni. Informando
a tali norme i suoi ordinamenti pubblici e privati, l'uomo
potrà darsi una forma di vita che realizzi l'armonia. L'essenza
di queste norme - riportate alla realtà delle relazioni
umane - è costituita da due virtù: la lealtà, zhong
(radicale 61/4) che è sinonimo di onestà di ragione e di
cuore, e il sentimento umano, shu (radicale 61 /6)
le cui componenti sono la benignità e la clemenza. Dovere
dell'uomo è dunque indirizzare la sua volontà sul dao,
farne l'oggetto costante dei suoi pensieri e delle sue azioni,
e lasciare che esso dispensi copiosamente i suoi benefici.
La facilità con la
quale l'uomo può, purché lo voglia, mettersi sulla via,
è dovuta alla sua sostanziale partecipazione ontologica
all'universo stesso. Ogni individuo nasce giusto e tutti
gli individui hanno alla nascita l'identica natura (Ana.
VI, xvii; XVII, ii). Ma il persistere sulla via è cosa ardua
e possibile soltanto all'uomo superiore (il junzi).
Chiunque potrà però trovare, attraverso lo studio, la forza
necessaria per mantenersi sulla giusta via. Uno studio che,
essendo rivolto alla "comprensione" del dao dell'uomo,
ossia della natura dell'uomo e delle sue leggi, non mira
principalmente all'accrescimento delle capacità intellettuali
e della conoscenza. È uno studio che persegue la sapienza
attraverso l'educazione morale e che non si contrappone
mai, come autonoma attività spirituale, alla natura dell'uomo
e alle sue finalità essenziali.
La quintessenza dell'insegnamento
antico, che egli vuole trasmettere, è da lui compendiata
nella massima: Non avere pensieri corrotti (Ana.
II, ii). Questo comandamento, tutto centrato sulla coscienza
dell'individuo, risponde al fatto innegabile che la vita
dell'uomo si attualizza soltanto come vita comunitaria nell'ambito
della società. Di qui il valore paradigmatico delle "grandi
trame" - da jing - che governano "naturalmente" le
relazioni umane, ed il carattere di assoluta priorità riconosciuto
all'ordinamento della società e dello Stato.
La pietra angolare
di questo pensiero socio-politico è costituita dalla nozione
di ren (radicale 9/2), affine a quella greca di filótes
(Esiodo, Th. 234, 980, 1005). Ren denota la
predisposizione ontologica che si manifesta come il naturale
sentimento di corrispondenza di ciascun essere umano verso
il suo simile. Il ren, che non è dunque pathos,
si attiva senza particolari sollecitazioni, rimandando ogni
individuo al rapporto con il mondo circostante. Con l'esercizio
costante di ren, l'individuo farà vera professione
di umanità e affermerà la sua genuina natura contro la disonestà
intellettuale, l'egoismo e le ipocrisie prodotte dalla sua
ragione se male impiegata.
Vivendo consapevolmente
un siffatto rapporto con il mondo, l'uomo realizzerà di
conseguenza i vari modi in cui si articolano le relazioni
umane, quali: il rapporto di pietà filiale, xiao
(radicale 39/4); di lealtà tra ministro e sovrano; di correttezza
verso gli amici e così via. Sulle relazioni umane e familiari
si innesta pertanto, diventandone quasi l'estensione, l'ordinamento
della società e dello Stato. Il buon governo sarà assicurato
quando il principe operi con onestà di intenti verso il
Paese e quando la sua condotta sia tale da convincere il
popolo ad imitarlo (Ana. XIII, i, 1; iv, 3). L'efficacia
insuperabile dell'esempio permetterà infatti al principe
di governare senza ricorrere agli ordini e alle minacce;
la stabilità del Paese, infine, sarà assicurata dalla fiducia
del popolo (xin; rad. 9/7; Ana. XII, vii,
1-3), poiché nessuna misura costrittiva o repressiva potrà
salvare lo Stato quando la condotta del principe sia scorretta.
Pur trovando attraverso
l'osservazione dell'ordine naturale un valido fondamento
metafisico, centrato sulla nozione di una superiore realtà
che è il principio - tian - e della quale
afferma la "purezza spirituale" (shen; radicale 113/5),
Confucio rifiuta ogni indagine sulle misteriose forze spirituali.
Egli condanna chi spreca il suo tempo rivolgendo insistentemente
il pensiero agli spiriti: l'uomo sapiente si dedica con
serietà ai doveri propri dell'uomo e sta lontano dagli spiriti
pur rispettandoli (Ana. VI, xx). L'umanesimo confuciano,
costruttivo, sobrio e razionale, mentre respinge tutto ciò
che è oscuro, specioso e licenzioso (Ana. XV, x,
1-6), si realizza dunque soltanto nell'azione che sia di
vantaggio comune, respingendo anche coloro che si limitano
a contemplare il bene senza operare per la sua affermazione
nella società.
I fondamenti della
dottrina sono contenuti inoltre nel Daxue o Grande
Studio (o Insegnamento), nel Zhongyong o Dottrina
del giusto mezzo e nel Mengzi o Mencio.
Il Daxue, attribuito
a Zeng Shan (sec. V a.C.) e considerato la migliore
introduzione allo studio del pensiero confuciano, fu definito
da Zhu Xi (11301200) "la porta d'ingresso nella virtù".
Composto di un breve testo attribuito a Confucio (sette
paragrafi) e del Commento di Zhang (dieci capitoli),
il Daxue si rivolge in particolare al principe, trattando
delle cinque virtù (del sovrano, del funzionario, del padre,
del figlio, dell'uomo verso il suo simile) sulle quali si
fondano la convivenza civile e il buon governo. Vengono
qui ribaditi e commentati i concetti dell'onestà intellettuale
(chengyi; radicali 149/7 e 61/9) e del valore determinante
dello studio e del coltivare se stessi, come esercizi necessari
allo sviluppo delle facoltà naturali. Di particolare interesse
è l'argomentazione epistemologica (Cap. V) inerente al metodo
induttivo, al significato dell'indagare le cose e al perfezionamento
della conoscenza. Dal Daxue ha tratto ispirazione
l'indirizzo socio-politico della Scuola confuciana.
Il Zhongyong,
attribuito a Kong Ji, nipote di Confucio (più noto
come Zisi 483-402 a.C.), consta di una introduzione,
di 33 capitoli e di un commento finale. È stato definito
il libro della sincerità, dove il termine sta per quella
genuinità che sola conduce l'uomo alla piena realizzazione
di sé, permettendogli così di affiancarsi al cielo e alla
terra come realtà operante nell'ambito cosmico. L'opera,
il cui contenuto appare organicamente distribuito in tre
parti, è di tutte la più difficile perché l'unica che presenti
un carattere eminentemente speculativo. In essa è svolta
una complessa teoresi che approfondisce i concetti, che
fornisce numerose precisazioni terminologiche e che affronta
il problema della condizione dell'uomo nell'universo. Dal
Zhongyong - l'opera che più si ispira allo Yijing
- ha tratto origine la corrente metafisico-religiosa della
Scuola confuciana.
Il Mengzi prende
nome da Mencio (371-229 a.C.), il più celebre tra i filosofi
della Scuola e colui che influì più di ogni altro sul confucianesimo
moderno. L'opera consta di sette libri divisi in due parti,
dei quali il settimo, il più complesso e profondo, è ritenuto
frutto della maturità di Mencio. Il Mengzi, rispetto
alle precedenti opere, presenta un linguaggio meno ermetico
e un uso più estensivo dei termini concettuali. Esso entra
nei dettagli, affronta la polemica con le altre Scuole e
mostra una maggiore partecipazione ai problemi della gente
comune. Senza modificare i fondamenti dell'insegnamento
del Maestro, pone l'accento sui suoi aspetti pratici, adattandolo
alle effettive esigenze della realtà sociale e politica.
Prende così forma un pensiero politico con accenti democratici,
che assegna al popolo il primo posto. Vi è ripetutamente
affermato il principio della originaria bontà della natura
umana e viene dato ampio spazio alla trattazione delle questioni
connesse alle relazioni umane. Particolare rilievo ha poi
la virtù della pietà filiale (xiao) che è qui presentata
come il fondamento principale dell'ordine sociale.
Xunzi (289-238
a.C.) visse nell'ultimo e più tormentato periodo della dinastia
Zhou. Fu uno dei grandi pensatori cinesi ed il massimo espositore
del pensiero confuciano che acquistò con lui il carattere
di una ben articolata dottrina. Sostenne, contro Mencio,
la malvagità originaria della natura umana, assegnando un
valore primario all'educazione, come unico mezzo per migliorare
l'uomo e per svilupparne le facoltà che lo distinguono dall'animale.
Il pronunciato realismo che ne caratterizza il pensiero
si manifesta anche nel valore determinante da lui attribuito
alle istituzioni sociali e all'ordine gerarchico, in quanto
forme di quel contratto sociale che la imperfetta natura
umana rende necessario per garantire la convivenza civile.
Nella sua voluminosa
opera che ne porta il nome (il Xunzi, diviso in 20
libri e 32 capitoli nell'edizione principe curata da Wang
Xianqian), riesaminò tutti i concetti fondamentali già
enunciati da Confucio, sottolineandone l'aspetto utilitaristico
ed esaltando le facoltà di ragione. Confermò l'importanza
della pratica dei li (i riti) e del culto degli antenati,
non tanto per il loro intrinseco valore religioso o spirituale,
quanto come esercizi necessari all'uomo per garantirne la
dignità. Trattò diffusamente anche il problema del "raddrizzamento
dei nomi" non limitandosi, come i precedenti pensatori della
Scuola, ad esaminarne gli aspetti etici. Condusse infatti
una acuta analisi sulla logica del linguaggio, entrando
anche in vivaci polemiche con i filosofi della Scuola dei
Nomi e della Scuola mohista.
Nel suo appello imperativo
alla coscienza individuale e richiamando al dovere come
espressione della necessità obiettiva dell'adempimento di
azioni suggerite dalla luminosa via dell'universo, il pensiero
confuciano ha fatto della coscienza dell'uomo la più alta
istanza ideale e morale. La nobiltà dei suoi fondamenti
teoretici, unita alla straordinaria consequenzialità con
cui sono ordinati gli elementi etici, pratici e sociali
che la compongono, collocano la dottrina confuciana nel
novero delle più alte ed omogenee concezioni di convivenza
civile realizzate dall'uomo.
Nelle sue qualità
stanno però anche i presupposti dell'involuzione che ne
ha caratterizzato il processo storico. Poiché quando venga
a mancare la motivazione morale, il sistema degenera inevitabilmente.
La pace interiore, non più conquistata per libera e cosciente
scelta dell'individuo, si muta allora in quietismo. Tutto
il contenuto etico del concetto dell'autolimitazione (yue),
inteso come espressione del massimo equilibrio intellettuale
e morale, si perde: il "legarsi" genera la mediocrità; il
rispetto per gli "uomini superiori" diventa servilismo;
la venerazione per la sapienza degli antichi si fa sinonimo
di passività. Ciò che resta è allora soltanto l'uniformità
delle idee e dei costumi; l'opportunismo; l'arresto del
processo evolutivo che è rinuncia all'azione e al pensiero.
3. La Scuola mohista prende nome da Mozi
(479-381 a.C.), il filosofo che più si oppose alle teorie
confuciane e che godette al suo tempo di un prestigio non
inferiore a quello di Confucio. Mozi pose in dubbio l'utilità
dei testi antichi e criticò fortemente le istituzioni del
passato. La sua estrazione sociale (apparteneva alla classe
dei cavalieri) lo indusse a proporre un modello di vita
semplice e schietta, anche se intellettualmente meno raffinata
di quella vagheggiata dalla Scuola dei Letterati. Uniformò
pertanto la sua etica a quella dei cavalieri, esaltandone
la sincerità, la tendenza egualitaría ed il senso per il
bene comune. Dette alla sua Scuola, che fu numericamente
esigua, un'organizzazione di tipo militare, impegnando i
suoi membri alla fedeltà reciproca e all'ubbidienza al Gran
Maestro. Questo atteggiamento lo condusse a contestare i
privilegi, anche nel campo della cultura, dei quali aveva
goduto la classe degli aristocratici, e a condividere con
maggiore disponibilità le opinioni e i sentimenti delle
classi popolari. Il suo pensiero è raccolto nell'opera che
ne porta il nome (il Mozi, diviso in 53 capitoli).
Convinto della necessità di dare al Paese un governo fortemente
centralizzato come unica soluzione al disordine imperante,
si oppose agli interessi di classe, ai gruppi di potere,
alle guerre di aggressione. Profondamente religioso e credente
nell'intelligenza degli spiriti e nella volontà operante
del Cielo (tian), rimproverò ai confuciani il loro
razionalismo agnostico, accusandoli di incoerenza per il
fatto che essi, mentre negavano la realtà degli spiriti,
davano tanta importanza alle cerimonie e ai sacrifici. Si
oppose all'insegnamento confuciano ritenendolo troppo compiaciuto
di raffinatezze intellettuali e di costume, ma soprattutto
perché subordinato alla tesi della predestinazione che spegneva
ogni iniziativa individuale e che induceva a rivolgersi
più al passato che all'avvenire.
Il principio filosofico
che più ne caratterizzò il pensiero è quello che interpreta
le nozioni di ren (il rapporto ontologico con il
prossimo) e di yi (radicale 123/8) - la rettitudine
come un comandamento all'amore universale. Predicò pertanto
un amore senza discriminazioni e un agire il cui metro doveva
essere soltanto il beneficio che ne avrebbe ricevuto la
nazione. Fondò questa sua teoria con argomentazioni religiose
e politiche, citando le benefiche e imparziali operazioni
del tian e la vigilanza che esso esercitava sugli individui.
Aderendo al modello dell'ordine universale, difese dunque
la legittimità dell'istituto monarchico ed il carattere
autocratico dell'autorità statale.
4. La Scuola dei Nomi. Provenienti in gran
parte dalla categoria dei giuristi, i rappresentanti della
Scuola si rivolsero al problema della concordanza tra realtà
e linguaggio e tra linguaggio e pensiero. Essi furono anzitutto
" disputanti" (bianzhe), amanti delle sottigliezze
dialettiche e dei paradossi ed abili nel "far apparire giusto
l'ingiusto". Il gusto per i ragionamenti capziosi ed il
fatto che esercitassero la professione di consiglieri e
maestri di sapienza esigendo sempre un compenso, li avvicinano
ai sofisti greci.
La Scuola ha una sua
rilevanza nella storia del pensiero cinese poiché ne rappresenta
il primo momento di sistematico relativismo gnoseologico
e morale. Essa si contrappone alla tradizione iniziatica
del sapere, fatta propria dalle altre Scuole, e irride a
quanti si impegnano a definire una conoscenza obiettiva,
rilevando le ineliminabili contraddizioni dei dati di conoscenza
e l'equivalenza vera o presunta delle ragioni contrarie.
Malgrado la critica distruttiva e lo pseudologismo di molti
suoi rappresentanti, conobbe tuttavia un tentativo di ricerca
dottrinale centrato sulle nozioni di "verità" ed "errore"
e sul riconoscimento della funzione universalizzante della
ragione. Una corrente, che fa capo a Hui Shi (350-260
a.C.) e che si sofferma sul relativismo delle cose, ha condotto
interessanti analisi sul linguaggio, sul problema della
conoscenza e sull'essere delle cose. L'opera di Hui Shi
è purtroppo perduta: essa ci è nota soltanto attraverso
la brevissima esposizione fattane nel Zhuangzi XXXIII,
7, e poche altre citazioni. Una seconda corrente, il cui
esponente fu Gongsun Long (284-259 a.C.), distinse
tra l'idea della cosa e la cosa stessa che è oggetto di
esperienza, svolgendo una teoria delle idee nella quale
vi sono assonanze con quella platonica. Affrontando il problema
degli universali, in riferimento al valore logico e non
a quello metafisico del concetto, ed esaminando il rapporto
tra linguaggio e pensiero, Gongsun Long sostenne
la tesi del valore assoluto dei nomi. Nell'opera che ne
porta il nome, definì l'idea oggettiva (zhi; radicale
64/6) e manifestò, in contrapposizione al nominalismo primitivo,
un alto grado di maturazione logica e dialettica.
5. La Scuola legalista. Denominati "uomini
dei metodo" perché ricercatori del più efficace criterio
di governo, i legalisti non furono uomini di legge. Posseduti
da un forte senso dello Stato e della pratica politica,
essi furono l'espressione più coerente del radicalismo politico
e filosofico cinese. Cultori delle arti marziali, sostenitori
del centralismo politico e amministrativo e fautori di un
criterio imparziale di selezione per l'attribuzione delle
cariche pubbliche, essi propagarono il loro metodo
che trovò applicazione, con esito molto positivo per lo
Stato, sotto i due sovrani della dinastia Qin (221-206).
Il massimo teorico della Scuola fu Hanfeizi (morto
nel 233 a.C.), che ha lasciato un'opera in 55 capitoli.
Il legalismo si distingue
per il netto rifiuto della tradizione, per il realismo con
cui prese atto dei mutamenti occorsi nella società e dei
suoi nuovi bisogni, per il rifiuto del principio della originaria
bontà della natura umana, per l'importanza riconosciuta
agli affari militari e per il gusto dell'azione. Affermando
che l'educazione e gli insegnamenti morali non avrebbero
mai potuto modificare l'uomo né renderlo come egli dovrebbe
essere, proposero un metodo fondato su due istituzioni:
l'autorità del sovrano ed un corpo di leggi scritte. Le
leggi avrebbero dovuto rendere edotto ogni individuo di
ciò che era lecito fare; l'autorità centrale, a sua volta,
si sarebbe limitata a garantire l'esecuzione imparziale
delle leggi, premiando i meritevoli e punendo i colpevoli,
ed impedendo di fatto che gli uomini agissero male. La loro
dottrina politica - totalitaria, sorda ai richiami culturali
e scettica in merito ai valori spirituali dell'individuo
- condusse al tentativo sovrano di "unificare il pensiero"
della popolazione e alla distruzione di tutte le opere letterarie
nel 213 a.C.
I legalisti vennero
in contrasto con i taoisti, tenaci assertori della libertà
individuale, e con i letterati che credevano nella essenziale
bontà della natura umana e che esaltavano l'educazione come
fondamento del buon governo. Al razionalismo idealistico
dei letterati essi opposero il loro realismo pratico, rilevando
il significato prevalentemente normativo delle leggi, rifiutando
di esemplare il diritto positivo su quello naturale e negando,
di quest'ultimo, la validità oggettiva dei fondamenti.
6. La Scuola taoista o del Daode ha
il suo fondatore in Laozi (570-490 a.C.). Stando
alle poche notizie fornite dallo storico Sima Qian
(145-86 a.C.), Laozi fu originario del distretto
di Li (Cina meridionale), lavorò a lungo come bibliotecario
e archivista alla corte degli Zhou e abbandonò infine il
lavoro e la società, partendo a piedi per l'Occidente senza
lasciare più traccia di sé. Mentre era in procinto di varcare
la frontiera, una guardia volle essere informata sul suo
pensiero; avrebbe allora dettato quello che in seguito fu
denominato Daodejing o Libro del Daode, un'opera
di circa 5.000 caratteri, divisa in 81 capitoli e che compendia
la filosofia del dao. Il suo pensiero fu esposto
più tardi da Zhuangzi (seconda metà del sec. IV a.C.)
- il filosofo più geniale e rappresentativo della Scuola
- in un'opera che ne porta il nome e che è distribuita in
33 libri raggruppati in 10 volumi. I testi del Daodejing
e del Zhuangzi costituiscono la più alta espressione
del pensiero speculativo cinese. La ricchezza e la densità
concettuale della terminologia, il linguaggio ellittico
e vigoroso di Laozi e quello fecondo e immaginoso
di Zhuangzi, sono rimasti ineguagliati.
Dao è il nome
convenzionale dato alla realtà unica e perfetta, occulta
e immutabile, immateriale e silente, che era prima che il
cielo e la terra venissero in esistenza (Laozi 25,
i-iv). Una realtà che ha in sé l'origine e la norma, e le
cui categorie sono il moto e la verità (Zhuangzi
VI, 7). Dao è l'assoluto, yuan (Laozi
1, iv) che non sarà mai oggetto di conoscenza. Esso potrà
essere soltanto compreso attraverso la chiara intelligenza
(hui) o percezione intuitiva resa possibile dall'unica
"manifestazione" del dao - ossia dalla sua condizione
di moto o non-stasi. Il moto, che equivale all'attività
del dao e che ne rivela il modo di essere, è caratterizzato
da riversibilità e da dolcezza. Dao, infatti, è nei
due momenti alterni di espansione e di rientro: il primo
coincide con la sua manifestazione attraverso le cose, il
secondo con il suo totale occultamento quando rientra in
se stesso o nel "nulla" (Laozi 14, ii; 40, i, ii).
Questo moto che determina il ritmo della vita dell'universo,
è costante, lineare e agevole, simile ad un regolare respiro.
L'azione del dao si configura inizialmente come un
"traboccamento" che coincide con l'espansione delle sue
energie o "virtù" (de). Ma il dao non si erge
per questo a signore delle cose e non manifesta il suo nome,
restando nell'anonimato e nel silenzio (Laozi 34,
i, ii). Per esemplificarne il modo operativo lo si paragona
all'acqua incolore e insapore, umile e benefica, che penetra
dolcemente in ogni dove, che sembra debole all'aspetto ma
che è in grado di annientare tutto ciò che appare solido
e forte. Non stupisce pertanto che la realtà del dao,
così semplice, costante e sommessa, sembri stupida e ridicola
alla piccola gente e ai dotti di bassa categoria (Laozi
41, i).
Di fatto, nulla è
fuori del dao e nulla è privo di dao. La sua
onnipresenza non è costrittiva ed è prontamente accettata
da tutte le cose poiché essa equivale alla presenza della
vita. Dal punto di vista formale, dao è l'infinito
o il non determinato. Il suo non determinarsi è ciò che
lo distingue dagli enti da esso prodotti e che ci spiega
anche perché la sua attività non si risolva con la produzione
del suo nome. Ma dalla non-determinazione derivano altresì
la sua onnipresenza e la sua imparzialità. L'attività del
dao è infatti caratterizzata da non-azione - wuwei
- ossia dalla assenza di volizione, di intenzionalità e
di sforzo, poiché le sue operazioni non sono che il modo
in cui esso sussiste. I concetti della non-determinazione
e della onnipresenza sono l'argomento di una parabola nello
Zhuangzi XXII, 6, dove la dimora del dao è
situata nel palazzo di "Nessun-luogo" nel paese di "Non-azione":
anche l'uomo capace di arrivare alla dimora del dao
non ne trarrebbe un arricchimento di sapere poiché non vi
troverebbe i riferimenti necessari all'acquisizione della
conoscenza.
Lo stato precedente
alla venuta in essere dell'universo è ritenuto simile ad
una "torbida confusione". Esso subì un'improvvisa e misteriosa
alterazione, che il pensiero taoista non ha tentato di interpretare,
rivolgendo invece il suo interesse al fatto che la venuta
in essere delle cose ha causato, con la determinazione degli
enti in quanto realtà circoscritte e distinte, la loro separazione
dallo stato originario di confusione. Da questa concezione
trae origine l'acuto desiderio del pensatore taoista, di
rientrare nello stato originario di totale comunione attraverso
l'annullamento di sé e di ogni altra limitazione di essere.
La comunione totale col dao equivale dunque al rientro
nel "nulla" o "vuoto", xu (radicale 141/6) - ossia
in quello stato che, avendo preceduto la manifestazione
dell'essere, non è carenza di essere. Il "vuoto", infatti,
è l'essere assoluto nel suo momento misterioso e dinamico,
esuberante di energia e liberale, che riconosciamo come
il "grande inizio" (Taichu; Zhuangzi XII,
8).
Mentre restiamo consapevoli
dell'impossibilità di definire compiutamente il dao,
possiamo allora distinguerne due valori formali: quello
del dao senza nome, in quanto realtà assoluta e occulta
che precede il cielo e la terra, e quello del dao in espansione
al quale diamo un nome, chiamandolo "madre" o "antenato"
di tutte le cose (Laozi 4, i).
Il modo operativo
di dao equivale, concretamente, alla sua estrinsecazione
in due forze elementari: l'una, Yin, che costituisce
la componente femminile, ricettiva, fredda, oscura, lunare
e il cui domicilio è il cielo; l'altra, Yang, è la
componente maschile, calda, solare, che opera come principio
di individuazione e il cui domicilio è la terra. Le due
forze hanno pari dignità e sono ambedue necessarie poiché
soltanto la loro azione congiunta produce armonia e quella
forza vitale, qi, che pervade l'universo (Zhuangzi
VI, 9, 10; XVII, 1). Questo qi (radicale 84/6), in
quanto presenza efficiente e normativa, si articola nelle
molteplici energie o "virtù" (de) proprie a ciascun
ente. Il binomio frequentemente usato: daode, denota
dunque dao nelle sue virtù in atto, virtù che ineriscono
alle cose e che ne determinano la forma interiore ed esteriore.
Consapevole di tanto, l'uomo sapiente praticherà il "digiuno
della mente" (Zhuangzi IV, 2): saprà cioè far tacere
la sua soggettività per lasciare che il qi prosperi indisturbato,
dispensando così vita e armonia. Con l'indifferenza che
viene dal superamento dell'io - causa di ogni miseria
- egli confronterà anche il dao nella sua dimensione temporale,
ossia nella sequenza di eventi e nella concatenazione di
rapporti (ming; radicale 30/5) che l'uomo sperimenta
come "invio" o "destino".
Nel pensiero taoista,
che offre una superiore visione dell'essere e che esorta
l'uomo a non tesaurizzare beni in terra, stanno anche i
presupposti del solipsismo sociale, della disistima della
"cultura", del distacco dagli affari del mondo, che contrastano
fortemente con l'insegnamento socio-politico dei letterati.
Eppure taoismo e confucianesimo sono felicemente convissuti:
l'uomo cinese, dando prova di un alto grado di maturità
morale, ha riconosciuto la legittimità ontologica di ambedue.
In ambedue, più che una dottrina elaborata dagli uomini,
egli ha saputo vedere l'esposizione dei due modi essenziali
in cui può essere vissuta questa nostra realtà di mondo,
riconoscendo ad entrambi la loro porzione di verità.
III. LA FILOSOFIA AL TEMPO DEGLI
HAN - La caduta della dinastia Zhou nel 256 a.C.
segnò la fine del periodo arcaico e l'inizio del medioevo
cinese. Le opere "classiche" distrutte dai Qin furono recuperate
dagli Han e incise per la prima volta su pietra nel 175
d.C. - L'operazione fu ripetuta nel 240-248 e nell'836,
finché la conservazione dei testi fu garantita dalle edizioni
a stampa. La versione dei "classici" a noi pervenuta risale
presumibilmente al sec. I a.C.
Alla dinastia dei
Qin, il cui breve governo aveva dato alla Cina l'unità nazionale,
una efficiente amministrazione, l'unificazione della lingua
scritta, la prima rete stradale e la Grande Muraglia, subentrò
la dinastia Han (206 a.C.-220 d.C.). Questa scelse come
suo fondamento etico-politico la dottrina confuciana, che
conobbe ora i primi successi fino a diventare la dottrina
ufficiale dello Stato. Vi contribuì in modo determinante
Dong Zhongshu (179-104 a.C.), un letterato che servendosi
dei testi confuciani per dare una giustificazione teorica
alla politica degli Han, fuse vari elementi della Scuola
Yin-yang e della cosmologia contenuta nel Shujing,
sviluppando una teoria dell'universo in cui manifestò, più
che novità di idee, quella disponibilità al sincretismo
che avrebbe caratterizzato d'ora innanzi tutta la storia
del pensiero cinese.
Gli Han non rifiutarono
quanto di positivo era stato fatto dai Qin: essi ne furono
piuttosto i continuatori, adottando però un metodo meno
violento e cercando il consenso popolare che era mancato
alla precedente dinastia. Per consolidare l'unificazione
del Paese fu ripetuto il tentativo di "unificare il pensiero":
i testi antichi denominati collettivamente i liuyi,
ossia le "sei discipline", furono proclamati insegnamento
ufficiale e materia d'obbligo degli esami di Stato, senza
impedire però l'insegnamento privato delle teorie di altre
Scuole. Il successo della dottrina confuciana favorì una
straordinaria fioritura di scritti apocrifi e l'esaltazione
oltre ogni limite della persona del Maestro, specialmente
da parte dei seguaci della Scuola del Testo nuovo. Di questo
periodo è infatti la controversia tra la Scuola del Testo
antico e quella del Testo nuovo, il cui oggetto erano il
testo delle opere confuciane rinvenuto subito dopo la caduta
dei Qin e quello rinvenuto più tardi ma scritto nella lingua
antica, che costituiva per alcuni la lezione autentica dell'insegnamento
del Maestro. La disputa sulle differenze riscontrate nei
due testi rispecchiò le diverse posizioni delle correnti
costituitesi nell'ambito del confucianesimo.
Wang Chong
(27-100 d.C.), il più significativo rappresentante della
Scuola del Testo antico, fu colui che nei celebri Saggi
critici - Lun Heng - reagì al conformismo filosofico,
rifiutando le fantastiche teorie della Scuola Yin-yang
e l'ipocrisia adulatrice del tempo.
Verso la fine della
dinastia Han si registra con il risveglio del pensiero taoista
(daojia) anche la nascita della religione taoista
(daojiao) che ebbe ben poco in comune con la omonima
filosofia e che fece propria la concezione cosmologica della
Scuola Yin-yang. La sua incidenza sul costume popolare
è stata rilevante. La religione taoista si dette un'organizzazione
comunitaria ed accentuò in modo inconsueto il carattere
esoterico del suo linguaggio e delle sue fastose cerimonie.
Nel suo seno ebbe anche origine il movimento dei "turbanti
gialli" la cui rivolta nel 184 preluse alla caduta della
dinastia Han.
Il buddhismo, giunto
in Cina nel sec. I d.C., se fu per un verso stimolante,
contribuì però ad accrescere la tendenza al sincretismo
e la fumosità dei concetti. Esso introdusse anche l'uso
della conversazione preziosa e erudita, qin tan,
praticata anche dai neo-taoisti, come espressione di quello
spirito elegante e indipendente, il feng liu, che
si dilettava argomentando sull'arte della vita e facendo
mostra di spontanea naturalezza, di serenità interiore e
di saggezza.
La Scuola neo-taoista,
detta xuanxue o "studio oscuro", sorse come reazione
al confucianesimo di Stato e al suo formalismo giuridico.
Essa si dedicò alla riscoperta dell'autentica metafisica
confuciana, realizzandone per la prima volta la fusione
con quella taoista. Un'altra corrente neo-taoista teorizzò
sulle nozioni di dao, dell'essere e del suo fondamento:
i rilevanti risultati di questa teoresi stanno nel commento
allo Yijing e al Laozi scritto da Wang
Bi (226-269) e nei commentari al Zhuangzi compilati
da Xiang Xiu (221-300) e da Guo Xiang (morto
nel 312).
IV. IL NEO-CONFUCIANESIMO
- Il tempo della seconda disintegrazione dello Stato unitario
- protrattosi per circa quattro secoli (220-580) e caratterizzato
dai Tre Regni (220-280) e dalle cinque dinastie del nord
e del sud - vide anche l'affermazione del buddhismo. Ristabilita
l'unità nazionale nel 580, i Tang (618-906), succeduti ai
Sui, riconfermarono però il confucianesimo come insegnamento
ufficiale di Stato. Fu eretto allora il primo tempio dedicato
al Maestro e fu curata la prima edizione ufficiale dei testi,
fissandone la lezione e dandone l'interpretazione "esatta".
Si ebbe così la compilazione di nuovi commentari, dei quali
i più interessanti sono di Han Yu e Li Ao
(ambedue del sec. VIII-IX). In aderenza allo spirito del
tempo, essi svilupparono gli aspetti metafisici della dottrina,
definiti problemi della natura, xing (radicale 61/5)
e del destino, ming, dando massimo rilievo allo Zhongyong
e meritando alla loro Scuola l'appellativo di Daoxuejia
o Scuola dello studio del dao. In questa confluirono
elementi del pensiero confuciano, del taoismo e del buddhismo
chan, che trovarono però una sistemazione unitaria dando
vita ad un nuovo sistema filosofico soltanto nel sec. XI,
al tempo della dinastia Song. L'interesse cosmologico portò
anche, con Zhou Dunyi (1017-1073), Shao Yong
(10111077) e Zhang Zai (1020-1077), alla riviviscenza
della corrente mistica del taoismo e alla ennesima rielaborazione
della tradizione cosmologica dello Yin-yang, dei
trigrammi, dei wuxing e delle teorie esposte nelle
Appendici.
Le due Scuole in cui
si divise la corrente neo-confuciana - la Lixue o
dello Studio dei li, e la Xinxue o dello Studio
del pensiero o spirito - furono fondate rispettivamente
dai fratelli Cheng Yi (1033-1107) e Cheng Hao
(1032-1085). Il loro pensiero è contenuto nei Er Cheng
Yi Shu o Frammenti letterari dei due Cheng e
nel Ming Dao Wenji o Raccolta di scritti di Ming
Dao (quest'ultimo appellativo, il cui significato letterale
è "illuminatore del dao", è il titolo conferito dopo
la morte a Cheng Hao). Troviamo qui riconfermato
il concetto dell'unità dei molteplici, mentre il ren,
ossia il naturale sentimento di corrispondenza dell'uomo
verso il suo simile, è riproposto, con il valore metafisico
che aveva in Confucio, come la virtù che permette di realizzare
la vera unione con il mondo circostante.
A Cheng Yi ed
a Zhu Xi (1130-1200), il massimo esponente del cosiddetto
neoconfucianesimo, si deve l'approfondimento delle analisi,
già iniziate da Gongsun Lun della Scuola dei Nomi,
sul valore oggettivo delle idee e la rinnovata ricerca sulle
leggi del mondo fisico e sul rapporto tra forma e materia.
Fu anche trattato diffusamente il problema morale, ponendo
l'accento sulla condotta del saggio e sul suo agire imparziale
come risultato del controllo delle proprie emozioni.
Zhu Xi, autore
di una vasta raccolta di massime in 140 libri, fu l'ordinatore
del sistema filosofico neo-confuciano che prevalse in Cina
fino all'introduzione del pensiero occidentale. Scrisse
un commentario ai quattro testi canonici: Grande Insegnamento,
Dottrina del Mezzo, Analecta e Mencio, che ricevettero
ora il titolo collettivo di Sishu o Quattro Libri.
La dinastia mongola Yuan (12791368) proclamò i Sishu
testi fondamentali per gli esami di Stato, unitamente al
commentario compilato da Zhu Xi che restò, fino all'abolizione
degli esami nel 1905, l'unica interpretazione ufficiale
della dottrina.
Il più significativo
contributo teoretico di Zhu Xi sta nello sviluppo
da lui dato alla teoria dei li, già avviata da Cheng
Yi. I li (radicale 96/7) o principi delle cose,
sono ancora prima che le cose vengano in esistenza e sussistono,
in quanto archetipi inalterabili e perenni, indipendentemente
dall'esistenza delle cose che ad essi corrispondono. L'uomo,
mentre svolge la sua attività investigativa e produttiva,
non fa dunque che scoprire i li che informano le
cose che egli va conoscendo o producendo. Il più alto li,
che unifica gli innumeri li del cielo e della terra, è quello
dell'universo. Ad esso compete l'appellativo di Tai Ji
o Grande estremo, essendo il li che abbraccia tutto
e che inerisce a tutte le cose insieme allo specifico li
di ciascuna di esse. I li, pertanto, possono essere
definiti anche come ciò che dà forma ai corpi o alla materia
determinata (qi; radicale 30/13).
Il supremo li,
però, mancando di volizione, di intenzionalità e di potere
creativo, non è il motore dell'universo. Pur sfiorando il
concetto di una causa prima intelligente, Zhu Xi
non arriva alla chiara distinzione tra il valore ipostatico
e quello eidetico del li universale, e tra l'aspetto
metafisico e quello gnoseologico del problema. L'analisi
non supera dunque i consueti limiti del pensiero speculativo
cinese, restando ancorata all'ilemorfismo tradizionale.
La teoresi di Zhu Xi rappresenta nondimeno lo sforzo
più originale e più riuscito, compiuto da un pensatore cinese
per offrire una sintesi aggiornata del pensiero confuciano.
V. IL BUDDHISMO - Il buddhismo fu introdotto
al tempo degli Han nella sua forma più recente - la Mahayana
- che si affermò e prevalse sulla Hinayana. Religione
universalistica fondata sul principio dell'ordine universale
- il Dharma o "legge onnicomprensiva" il b. mahayana
persegue l'elevazione dell'umanità ad un certo grado di
salvezza (il deva, l'arhat, il bodhisattva,
il Buddha), fornendo il maggior numero possibile
di vie per il raggiungimento di questo fine. La salvezza
sta nel conformare la propria vita al Dharma, nell'estinguere
il dolore che nasce dal desiderio e dai coinvolgimenti negli
affari mondani, nell'amore indiscriminato per tutti gli
esseri animati. I secoli VII-IX videro la massima diffusione
del buddhismo cinese che non riuscì tuttavia a sostituirsi
al confucianesimo come dottrina ufficiale. I conventi, tipica
istituzione del b. mahayana, sorsero numerosissimi, esercitando
sul Paese una grande influenza come centri di purificazione
spirituale e di propagazione culturale e artistica. La reazione,
motivata anche da un risveglio nazionalistico, venne nell'845
quando i Tang decretarono la distruzione dei 4.600 conventi
e dei 40.000 edifici religiosi buddhisti allora esistenti,
nel corso di una persecuzione che coinvolse anche i nestoriani
e che ne cancellò la presenza. La persecuzione segnò la
fine della potenza buddhista: oltre 260.000 religiosi di
ambo i sessi furono costretti a rientrare nella vita secolare,
mentre l'edificazione di nuovi conventi fu da allora subordinata
ad una speciale autorizzazione imperiale. Ma la religione
buddhista permase. Profondamente assimilata (nel 972 fu
stampata l'edizione completa del canone - il Tripitaka
- tradotto dal sancrito e dal pali) e divenuta "cinese"
attraverso l'osmosi col taoismo e col confucianesimo, essa
conformò la sua esistenza alle nuove condizioni, frantumandosi
però in numerosissime sette. Dette vita così anche alle
"associazioni segrete" che avrebbero costituito in seguito
i focolai tradizionali delle agitazioni popolari.
Il successo del buddhismo
fu causato, oltre che dalle sue evidenti affinità col taoismo,
da alcune sue componenti dottrinali che erano invece assenti
nel pensiero confuciano. Di queste ricordiamo: il carattere
soteriologico del suo messaggio; la dimensione metafisica
incentrata sulla nozione dell'Uno compassionevole; il ruolo
primario assegnato alle donne nell'attività religiosa.
Il contributo buddhista
al pensiero cinese è stato considerevole: basti pensare
alla terminologia filosofica che ne trasse un notevole arricchimento
con conseguenze che si ripercossero anche sulla lingua parlata
e sul costume. Alcuni tra i principali concetti la cui introduzione
vivificò la ricerca filosofica, sono: quello del karma
o dell'insieme di azioni e di esperienze interiori che compongono
l'essere dell'individuo; dell'illuminazione o ming
(radicale 72/4); del distacco dalle cose che permette all'uomo
di entrare in comunione con lo spirito universale e di identificarsi
con esso nello stato di nirvana; la teoria delle
due verità - l'una legata alla realtà fenomenica e quotidiana,
l'altra, superiore, pertinente al non-essere; la profonda
e complessa nozione del vuoto o kong (radicale 116/3).
Su questi concetti teorizzarono alcuni tra i più sensibili
e acuti pensatori cinesi, quali Sengzhao (384-414),
Daosheng (morto nel 434) e Jizang (549-623).
Il buddhismo Chan
(radicale 113/12; in giapponese Zen), sorto all'inizio del
sec. VI, si sviluppò secondo l'indirizzo datogli da Huineng
(638-713; Scuola del sud) e, limitatamente al sec. VII-VIII,
da Shenxiu (605?-706; Scuola del nord). Esso costituisce,
oltre che la sintesi più compiuta tra il taoismo filosofico
e la setta della Scuola del Vuoto (Kongzong), l'affermazione
dello spirito cinese che si affranca da quello indiano.
Il chanismo o "filosofia del silenzio", è dominato dalla
consapevolezza che il primo principio è inesprimibile; che
in quanto realtà che tutto trascende, esso è silenzio; che
l'illuminazione, l'unico mezzo per entrarvi, non può essere
in alcun modo mediata dalla parola. Questi concetti informano
anche il peculiare metodo "educativo" chan, fondato
sul silenzio, sui contatti personali, e teso al raggiungimento
dello stato di non-intenzionalità o wuxin che presenta grande
affinità con il concetto taoista del wuwei.
VI. LA FILOSOFIA DOPO L'EPOCA SONG
- Al dualismo di Zhu Xi si contrappose il monismo
di Lu Jiuyuan (1139-1193), esponente della Scuola
dello Spirito. Il suo pensiero, documentato in una raccolta
- Quanji - si sofferma sulle categorie dello spazio,
yu (radicale 40/3), e del tempo, zhou (radicale
40/5), per affermare che non vi è altra realtà all'infuori
dello spirito. Lo spirito diventa l'equivalente della natura
e comprende anche il li essendo esso, come spirito
supremo, ciò che informa tutte le cose. Data la sostanziale
unità dello spirito dell'uomo con quello dell'universo,
ne consegue per l'uomo l'impegno di estendere all'universo
intero la sfera dei suoi interessi e dei suoi doveri.
Sui presupposti di
questo panpsichismo, della sua affermata sovra-personalità
dello spirito come garanzia dell'universalità dei valori,
e sui risultati di ordine gnoseologico e morale che ne derivano,
ha operato molto più tardi Wang Shouren (1472-1528),
il cui pensiero è compendiato nel Chuanxi Lu o raccolta
di istruzioni. Egli rifiuta il "mondo delle idee" costituito
dai li come realtà autonome, confermando che nulla può essere
fuori dello spirito. Il processo della conoscenza è da lui
inteso come "estensione" della conoscenza intuitiva, attraverso
l'esperienza pratica della vita quotidiana. Questa concezione,
che racchiude un movente politico, trovò il suo fondamento
nel Daxue, l'opera confuciana della quale Wang Shouren esaltò
le componenti metafisiche traducendole nella realtà sociale
e teorizzando sulla necessità di "raddrizzare le cose".
Egli polemizzò pertanto con i buddhisti che si limitavano
a cercare la conoscenza attraverso la contemplazione e la
meditazione, favorendo una condizione di isolamento dalla
società.
Le analisi dei maggiori
esponenti della Scuola neo-confuciana, Cheng Yi e
Zhu Xi (donde il nome Cheng-Zhu usato in Cina
per designare la Scuola), avevano dato come ultimo risultato
pratico l'identificazione dei li con i principi già
applicati in epoca arcaica. Contro il rinnovato conservatorismo
si rivoltarono, ma con scarso successo, la Scuola Lu-Wang
e quella detta Han Xue o dell'Insegnamento degli
Han. Quest'ultima, proponendo il ritorno all'interpretazione
data ai testi al tempo degli Han, rifiutò i commentari dei
neo-confuciani la cui dottrina fu ora detta Song Xue
o Insegnamento dei Song.
Che il ritorno ai
commentari dell'epoca Han sia stato proposto come ultima
possibile via di rinnovamento, è sintomatico del grado di
totale involuzione raggiunto dalla filosofia cinese. La
Scuola Cheng-Zhu conservò inalterata, per tutto il
periodo che va dall'ascesa dei Ming nel 1368 alla fine dell'impero
con la deposizione dei Qing nel 1911, la sua posizione
di dottrina ufficiale. Ma il crescente stato di arretratezza
economica e scientifica nei confronti dei Paesi occidentali
e del Giappone, aggravò nel corso del sec. XIX la situazione
interna.
I problemi politici
relativi alla crisi in atto coinvolsero anche il mondo della
cultura, sì che i più frequenti contatti avuti ora con il
pensiero occidentale e con il cristianesimo non valsero
a dargli nuovo vigore. Anche gli uomini di cultura, rinunciato
all'ascolto delle leggi interiori, soggiacquero al crescente
condizionamento di leggi esterne prodotte dal giuoco mutevole
dei rapporti economici e politici.
Quando si rivolsero
finalmente all'Occidente in cerca di idee e di guida, essi
operarono le loro scelte cedendo, oltre che alle pressioni
delle grandi potenze, alla suggestione di generiche assonanze
riscontrate tra il loro pensiero tradizionale e alcune teorie
filosofiche straniere. Il rapporto con il pensiero occidentale
fu dunque viziato fin dall'inizio. Ne risultò un'immagine
parziale e imprecisa della cultura dell'Occidente, tanto
da indurre i cinesi a identificarne il pensiero filosofico
con l'antropologia morale e sociale di A. Smith, col meccanicismo
materialistico di H. Spencer, col positivismo di J. S. Mill,
con l'evoluzionismo di T. H. Huxley, con il naturalismo
sperimentale e lo strumentalismo logico di J. Dewey.
Quando nei primi decenni
del sec. XX lo stato di corruzione e di disordine interno
- non inferiore a quello che aveva caratterizzato la disintegrazione
della Cina degli Zhou - richiese ancora una volta,
e con assoluta priorità, misure idonee per la riunificazione
del Paese, per il risanamento economico e amministrativo
e per la rinnovata "unificazione del pensiero", la cultura
ufficiale ormai esautorata e priva di prestigio non poté
dare alcun contributo determinante. La lunga operazione
di rinnovamento nazionale, resa ancor più difficile dall'invasione
giapponese e condizionata dagli eventi della seconda guerra
mondiale, fu opera di uomini esperti nella pratica politica
e nelle arti militari.
Dopo alterne vicende il successo ha arriso al comunismo
marxista, le cui teorie compongono, a partire dal 1949,
la nuova dottrina ufficiale dello Stato. La persistenza,
anche se in parte involontaria, di alcune costanti del tradizionale
modo filosofico e l'adattamento delle istanze comuniste
alle reali condizioni del Paese hanno impresso tuttavia
al marxismo cinese un carattere peculiare, assicurando altresì
una notevole mobilità dialettica.
Giancarlo Finazzo
La Cina Contemporanea, a cura di Giorgio Melis e Franco
Demarchi
*Yijing (titolo
che spesso si trova citato nelle sue veccgie trascrizioni
di Yi King, I king, Yi Ching)
BIBL.: W.T. Chan,
A Source in Chinese Philosophy, Princeton U. Press, Princeton
1963. - Chi Chai, Chai Winberb, Il pensiero cinese, Comunità,
Milano 1963. - Anne Cheng, Storia del pensiero cinese, 2
voll., Einaudi, Torino 2000 - H.G. Creel, Filosofia cinese,
in G. Tucci (ed.), Le Civiltà dell'oriente, vol. III, Casini,
Firenze-Roma 1958. - P. Filippani Ronconi, Storia del perosiero
cinese, Boringhieri, Torino 1964. - A. Forke, Geschichte
der alten chinesischen PhilosophJe; Geschichte der mittelalterliche
chinesischen Philosophie; Geschichte der neueren chinesischen
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1977. - G. Tucci, Storia della filosofia cinese antica,
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Cultura, Letteratura, Storia, Taoismo.
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