Clemente Sparaco

Il Nichilismo nostro contemporaneo

Il nichilismo è divenuto oggi una sorta di mentalità largamente condivisa.

Esso può essere letto come una conseguenza della crisi del razionalismo e del modello di sapere assoluto ed onnicomprensivo che dal razionalismo era scaturito. Nel presente postideologico si configura come consapevolezza della fine delle ideologie e delle tensioni ideali che avevano accompagnato i grandi progetti di emancipazione dell'umanità, di cui esempi classici sono la filosofia hegeliana, il marxismo, il liberalismo economico e politico. Salva la libertà come valore, ma la relega nella sfera individuale come principio di autodeterminazione del singolo, al di là delle ideologie e delle morali. Prospetta, quindi, a livello etico, un relativismo generale e generalizzato, non proponendo un nuovo sistema di valori al posto di quello tradizionale. Si legge nella Fides et ratio: «Nell'interpretazione nichilista la vita è solo un'opportunità per sensazioni ed esperienze in cui l'effimero ha il primato».1

Non c'è nulla che resista alla corrosione del tempo, nulla che valga e che resti. Tutto è fugace e provvisorio.

Si possono distinguere (per comodità) tre risvolti del nichilismo:

1) uno teoretico, che nasce dalla crisi del razionalismo e dalla negazione di ogni fondamento e verità, costituente ormai una premessa quasi dovuta e necessaria nel panorama speculativo attuale;

2) uno morale, riscontrabile negli atteggiamenti e nelle condotte degli individui, che si origina da una sorta di svuotamento dell'etica in nome di un relativismo pervasivo e dissolutivo di ogni valore;

3) uno tecnico, che si insinua dietro l'ideologia della scienza e della tecnica e che porta alla caduta di ogni domanda di senso in funzione del dominio della sola razionalità strumentale.

Con il nichilismo non si è giunti ad un radicalismo negativo di ogni fondamento, alla base della filosofia, dell'etica e della politica, nonché dello stesso sapere scientifico, ma anche a realizzare una sorta di antropologia negativa. L'uomo, di cui si è innalzata la libertà, al di sopra e oltre qualsiasi altro valore, è un uomo condannato all'indifferenza e al non-senso, un uomo disorientato.

1. Il nichilismo secondo Nietzsche

Il nichilismo teoretico nega la verità delle cose e nelle cose. Tutto è ridotto a opinione. «Ci si accontenta di verità parziali e provvisorie, senza più tentare di porre domande radicali sul senso e sul fondamento ultimo della vita umana, personale e sociale».2 Pertanto, l'uomo dell'epoca del nichilismo compiuto sembra non dimostrare solo sfiducia verso la verità, ma anche incapacità di provare quella genuina meraviglia di fronte all'essere dalla quale si genera ogni ricerca di senso.

Con il termine nichilismo Nietzsche designa quella condizione in cui diventa insostenibile distinguere fra cosa in sé e fenomeno, fra realtà e apparenza, fra verità e falsità. Non si dà cosa in sé e non si dà costituzione assoluta delle cose. Pertanto, afferma Nietzsche:

«... che non ci si dia una verità; che non ci sia una costituzione assoluta delle cose, una "cosa in sé"; -- ciò stesso è un nichilismo, è anzi nichilismo estremo».3

Con la crisi del positivismo, scrive Nietzsche, l'idea stessa di «mondo vero è divenuta un'idea, che non serve più a niente, nemmeno più vincolante, un'idea inutile e superflua», un'idea da eliminare. Ma, eliminata la nozione di mondo vero, non ne consegue che essa possa essere sostituita: «Abbiamo tolto di mezzo il mondo vero: quale mondo ci è rimasto? Forse quello apparente? ... Ma no! Col mondo vero abbiamo eliminato anche quello apparente! ».4 Venuta a cadere la distinzione tra apparenza e verità, viene meno non tanto l'attribuibilità del vero ad un certo tipo di mondo, quello trascendente, ideale, pensato da Platone, quanto la stessa nozione di verità. Coerentemente, il nichilismo nietzschiano vuole proporsi come negazione reiterata, distruzione, che non prevede sostituzione di nuovi principi ai vecchi, di nuove verità alle vecchie.

Nietzsche nega insieme l'essere e il logos, e cioè la presenza degli enti su cui dire la verità e la forma legittima e unica della ragione entro la quale ammettere l'innegabilità della verità. Se non c'è verità non si vede perché dovrebbero valere altri valori o principi, come coerenza logica, identità, validità etc. .5 È semplicemente, pertanto, «tutto il sistema-verità ad essere congedato: con il mondo vero cade anche l'apparente, con la verità cade anche il falso».6

Ciò configura una situazione di assenza totale di verità che è del tutto nuova: «La novità nella nostra attuale posizione verso la filosofia è una convinzione che finora non fu propria di nessuna epoca: che cioè non possediamo la verità. Tutti gli uomini del passato 'avevano la verità: persino gli scettici».7 Non ci sono più punti di riferimento stabili, non si dà più una costruzione assoluta delle cose. Non c'è qualcosa che possa falsificare o verificare le certezze, al di là della volontà di affermazione. «Nichilismo vero -- ha scritto D'Agostini -- è sapere che il mondo vero non esiste; nichilismo estremo è sapere che non esiste neppure mondo, e che perciò non c'è alcuna verità né falsità».8 Ciò che la ragione esprime si rivela, al fondo, come non ragione. Il conoscere dei veri filosofi non risponde, infatti, a volontà di verità, ma a volontà di potenza.9

La caduta del mondo vero si lega in modo diretto al venir meno di ogni trascendenza, che sola poteva legittimarlo. Non si dà più la pretesa metafisica di irrigidire il movimento del mondo in forme stabili e definite né la credenza in un altro mondo, composto di entità astratte, come concetti primi, valori etc. Il nichilismo si configura, quindi, come la situazione in cui l'uomo riconosce costitutive della sua condizione esistenziale l'assenza di fondamento e il senso di vertigine che ne deriva10:

«Anche gli dei si decompongono! Dio è morto! Dio resta morto! E noi lo abbiamo ucciso! Come ci consoleremo noi, gli assassini di tutti gli assassini? Quanto di più sacro e di più possente il mondo possedeva fino ad oggi, si è dissanguato sotto i nostri coltelli; chi detergerà da noi questo sangue? Con quale acqua potremo noi lavarci? Quali riti espiatori, quali giochi sacri dovremo noi inventare? Non è troppo grande per noi la grandezza di questa azione? Non dobbiamo noi stessi diventare dei, per apparire almeno degni di essa? Non ci fu mai un'azione più grande: tutti coloro che verranno dopo di noi apparterranno, in virtù di questa azione, ad una storia più alta di quanto mai siano state tutte le storie sino ad oggi! ».11

Forma compiuta e radicale di immanentismo, il nichilismo si mostra compiuto nel negare tanto un criterio trascendente di verità, quanto ogni senso e valore. Nichilismo è, nelle sue dirette conseguenze pratiche, quella condizione in cui «manca il fine, manca la risposta al perché». E allora -- si chiede Nietzsche: «... che cosa significa nichilismo? Significa che i valori supremi si svalorizzano».12

I risvolti etici si saldano, alla fine, strettamente alle premesse teoretiche. Tutti i valori, concetti, fondamenti, messi in opera nella storia della metafisica si mostrano falsi e invalidati. La crisi dei fondamenti metafisici si salda alla negazione della verità. La negazione della verità si risolve, sul piano morale, nella trasvalutazione di tutti i valori.13

2. Il nichilismo postmoderno

La filosofia contemporanea condivide la descrizione di Nietzsche e riflette sulla perdita di verità, la fine dei valori, la morte di Dio, la crisi della ragione. Al grande racconto (all'ideologia) sostituisce una pluralità di narrazioni il cui senso e la cui logica non sono più garantiti da un'idea di fondo o da una verità in qualche modo esterna.

Il fatto è che, dopo Nietzsche, il pensiero occidentale è come esploso, frantumandosi e differenziandosi secondo direzioni e approcci diversi. La visione moderna del mondo è andata in pezzi e si sono moltiplicate le prospettive e i punti di riferimento, secondo cui guardare, intendere e dire. Nel mondo postmoderno, pertanto, non pare più pensabile una teoria capace di mettere insieme parti che non sono più ricomponibili né pare proponibile, a livello etico, riferirsi a valori incondizionati. Dominano una pluralità di linguaggi ormai difficilmente riconducibili ad unità.14

L'impossibilità di concepire visioni globali e univoche e la generalizzata moltiplicazione dei discorsi si riconducono a quella che si definisce come crisi dei fondamenti o delle metanarrazioni.15 La ricerca filosofica si è smarrita «nelle sabbie mobili di un generale scetticismo». La pluralità delle posizioni «ha ceduto il posto ad un indifferenziato pluralismo, fondato sull'assunto che tutte le posizioni si equivalgono». La sfiducia nella verità ha comportato la svalutazione di ogni orizzonte di significato, per cui «ci si accontenta di verità parziali e provvisorie, senza più tentare di porre domande radicali sul senso e sul fondamento ultimo della vita umana, personale e sociale».16

Si è parlato di crisi della ragione e, conseguentemente, di crisi del sistema di valori dell'Occidente. Si è parlato ancora di fine delle credenze metafisiche, nonché di inversione della coscienza progressiva e ottimistica della modernità, in quanto il nichilismo sembra aver destituito di senso anche le filosofie della storia. Al posto di una forma di ragione progettuale e impositiva si è affermata, quindi, una razionalità depotenziata e debole.17

La filosofia contemporanea, sorta dalla crisi della soggettività cartesiana e idealistica, dalla critica dell'oggettivismo scientifico e dal tentativo di mettere a punto una nuova visione dell'oggetto (fenomenologia), è approdata alla crisi generalizzata di ogni certezza. Sono venuti meno gli assoluti: i valori civili e morali, le aspirazioni metafisiche e i valori religiosi. L'abbandono del concetto realistico-metafisico di verità18 (quello per cui vero è ciò che corrisponde alla realtà) ha portato all'ermeneutica, a quella posizione filosofica, che è ormai confinata nella molteplicità e mutabilità storica dei paradigmi e che, di conseguenza, non crede si possa raggiungere un orizzonte fondativo. Se un sapere c'è, questo è senza fondamenti. Come ha scritto G. Vattimo, «non vi è alcun fondamento per credere al fondamento, e cioè al fatto che il pensiero debba fondare».19

La contestualità e la contingenza sono divenute regole, in cui si avverte come il legame della ragione postmoderna a orizzonti, tradizioni, e situazioni sia ormai ritenuto inaggirabile: «I fatti non ci sono, bensì solo interpretazioni».20 Non c'è nulla che si ponga al di là dell'orizzonte del contestuale e contestualizzabile. Come ha scritto J. Derrida, non c'è fuori testo.21

Ma se la verità è un'interpretazione, allora ci sono differenti verità, che si moltiplicano e si svalutano al punto da non essere più distinguibili da pure e semplici opinioni. La verità sembra ormai irrimediabilmente rinchiusa all'interno dei diversi orizzonti linguistici che, a loro volta, non rimandano più ad un al di là del linguaggio. Giochi del tutto risolti in se stessi, all'interno delle proprie regole e delle proprie logiche, li si potrebbe definire. Da questi orizzonti linguistici non si esce più, né per indicare un mondo che sta al di là delle parole, né per comunicare con l'altro, che a sua volta pare rinchiuso all'interno di un suo incomprensibile ed inarrivabile mondo di parole. Accade così che nell'universo connotato dai filosofi in senso linguistico regna l'incomunicabilità e pare non esservi rimedio al solipsismo della coscienza.22 Il mondo dei linguaggi e dei saperi è assimilabile, pertanto, ad un labirinto,23 dal cui intrico di percorsi e discorsi non si riesce più a venire fuori.

La possibilità di ricomporre la molteplicità dei linguaggi in un unico metalinguaggio, che possa avere ragione sinteticamente della pluralità contraddittoria della realtà, viene denunciata ormai come illusione. Abbiamo solo un pensiero debole, congetturale e contestuale, che deve rinunciare a stabilirsi su premesse salde ed indubitabili, su quelli che un tempo erano definiti i fondamenti del sapere. Né la filosofia può più pretendere di rappresentare un linguaggio privilegiato con potere unificante e legittimante rispetto a tutti gli altri. Il racconto speculativo è, anzi, in crisi prima e più degli altri racconti. Ha scritto J. F. Lyotard: «la filosofia speculativa o umanista dal canto suo deve rinunciare alle sue funzioni di legittimazione».24

La condizione del nichilismo comporta, in definitiva, non solo l'accettazione della perdita di senso dell'esistenza, ma finanche la rinuncia alla ricerca del senso. E questo lo si riscontra ormai anche a livello di vissuto, perché oggi davvero gli dei sono finiti e al loro posto sono subentrati i problemi di una quotidianità schiacciata sul contingente, senza più trascendenza e senza più attese di redenzione.

Nell'epoca del dominio del sapere tecnico-scientifico, si tende ad attribuire, per di più, valore di conoscenza solo al sapere di tipo strumentale, cioè al sapere utile, finalizzato ad un obbiettivo raggiungibile. La filosofia, che un tempo sembrava capace di offrire ancora un indirizzo morale oggi sembra delegittimata anche in questo ruolo. Non c'è bisogno di comprendere o di rifarsi a dei principi. La crisi dello speculativo è forse approdata ad un punto di non ritorno.

3. Il nichilismo etico della libertà

Il nichilismo etico viene dopo il nichilismo conoscitivo. Supposta una posizione conoscitiva che nega la verità, ne viene la relativizzazione del bene e l'innalzamento di una libertà ormai indiscriminata e arbitraria. Tuttavia, il nichilismo etico, più di quello teoretico, pare entrato a far parte oggi di una mentalità comune. Esso è concretamente visibile negli stili di vita, nelle norme che guidano l'azione degli uomini. Ispira il senso comune e si connota come una condizione di esistenza.

«Che cosa significa nichilismo? Significa che i valori supremi si svalorizzano»25 -- scrive Nietzsche, offrendo una definizione del nichilismo, in cui si evidenziano le conseguenze sul piano etico. Ma Nietzsche non si ferma alla constatazione dell'inevitabile caduta dei valori in un mondo che viene dopo la morte di Dio. Prospetta una trasvalutazione di tutti i valori, e cioè un nuovo orizzonte valoriale non più fondato sulla trascendenza:

«Trasvalutare i valori. Che sarebbe questo? Devono esistere tutti i movimenti spontanei, quelli nuovi, forti, dell'avvenire: ma ora essi si trovano ancora sotto falsi nomi e false valutazioni e non hanno ancora preso coscienza di sé. Vogliamo ottenere una coraggiosa consapevolezza di ciò che è già raggiunto. Vogliamo sbarazzarci dall'andazzo delle valutazioni antiche, che ci svalutano nelle cose migliori e più forti finora da noi raggiunte».26

L'uomo deve liberarsi dalle opprimenti menzogne che gli impediscono di essere pienamente uomo: dalla menzogna che c'è una vita eterna, dalla menzogna che esistono valori assoluti e trascendenti, dall'idea di un'anima immortale, che non soccombe alla corruzione del corpo, dalla menzogna che oltre il mondo materiale c'è un mondo spirituale ed eterno e, soprattutto, dalla menzogna che non è l'essere supremo, perché al di sopra di lui c'è Dio.27 Deve mantenersi fedele alla terra e non affidarsi più alle sovraterrene speranze.28 Alla fine, l'uomo deve essere superato per divenire superuomo, che, superata ogni aspirazione verso la trascendenza, vive nella compiuta immanenza del mezzogiorno apogeo dell'umanità.29

Nietzsche distingue, pertanto, fra un nichilismo passivo e un nichilismo attivo. Nel nichilismo passivo, ossia incompleto, rimane ancora operante una fede. Infatti, per rovesciare il mondo dei valori, si deve ancora credere in qualcosa e si ha ancora bisogno di verità. Nel nichilismo attivo, invece l'uomo dell'oltre cavalca la fine dei valori e la perdita della verità attivamente, senza remore e senza rimpianti, interpretando positivamente i destini di un'umanità postmetafisica. Da questo punto di vista, il pensiero di Nietzsche si rivela un messaggio di libertà radicale,30 di conquista di una potenza dello spirito così straordinaria che «i fini sinora perseguiti (convinzioni, articoli di fede) le riescano inadeguati».31

La filosofia contemporanea condivide la posizione di Nietzsche sulla fine dei valori e la morte di Dio, ma lascia cadere l'idea di un nichilismo attivo, attardandosi su un nichilismo nostalgico e crepuscolare, senza conati e lontano da annunci epocali. Così, non crede più possibile prospettare un orizzonte valoriale nuovo nel quadro di una nuova qualità attiva della vita.

Ciò che si percepisce oggi come esperienza storica generalmente acquisita è precisamente la fine di ogni mito e, dunque, anche del mito superomistico. Nel mondo attuale, che ha vissuto il disincanto di tutti i miti, al soggettivismo umanitaristico si è sostituito un individualismo soggettivistico. Pertanto, appare caratteristico dell'oggi la radicalizzazione del concetto di libertà e insieme la sua limitazione al singolo individuo: non più, quindi, una libertà intesa come emancipazione collettiva e neppure come rigenerazione dell'umanità, ma una libertà che trova rifugio nella sfera privata.

Oggi la politica non rincorre più grandi progetti ideali e non offre più scopi di vita e «si manifestano dubbi verso tutte le forme dei movimenti di liberazione».32 La libertà di autodeterminazione dell'individuo in dipendenza dalle proprie opinioni è considerata intangibile. Si ingigantisce e pervade il diritto, la politica, l'etica. Valori o diritti che entrino in concorrenza con essa, limitandola, appaiono come vincoli o divieti intollerabili. Ha scritto Ch Taylor:

«Viviamo in un mondo in cui gli uomini hanno il diritto di scegliere da sé il proprio modo di vita, di decidere in piena libertà di coscienza quali convinzioni abbracciare, di foggiare la loro vita in mille diverse maniere su cui i loro antenati non avevano nessun controllo. E in genere questi diritti sono difesi dai nostri sistemi giuridici. In linea di principio, gli essere umani non vengono più sacrificati alle esigenze di ordinamenti presunti sacri che li trascendono».33

È stata rifiutata, per principio, una verità che sia prima della libertà (la Verità che rende liberi), in quanto si è visto in essa qualcosa di lesivo delle convinzioni e delle scelte individuali. A maggior ragione si è negato che la verità possa essere indipendente e trascendente rispetto all'uomo. Di fatto, la verità è stata subordinata alla libertà. Ma, venendo meno il legame della libertà con una verità trascendente la sfera delle convinzioni individuali, ci si è preclusa la possibilità di indicare una scala di valori indipendente dal giudizio individuale. Di conseguenza, la distinzione fra giudizio morale e arbitrio si è fatta talmente sottile da divenire quasi impalpabile.

Pertanto, la libertà oggi non è più vista come tensione verso il bene, ma si definisce piuttosto come un'emancipazione da tutti i condizionamenti che impediscono a ciascuno di seguire la propria coscienza.34 Verità morali che trascendano la coscienza individuale semplicemente non si danno. Si è arrivati a vedere nelle regole morali ereditate da generazioni nient'altro che qualcosa di imposto in ragione di vincoli sociali o di tabù sessuali.

Appare palese, tuttavia, che la libertà, affermata senza legame con la verità, comporta l'annullamento di ogni altro valore e alimenta un'interpretazione totalmente negativa della vita. Appare palese che: «sradicare la libertà dalla verità oggettiva rende impossibile fondare i diritti della persona su una solida base razionale e pone le premesse perché nella società si affermino l'arbitrio ingovernabile dei singoli o il totalitarismo mortificante del pubblico potere».35

Si profila, quindi, il rischio paradossale che la super-esaltazione della libertà porti alla distruzione stessa della libertà.

Nella riflessione morale contemporanea il problema cruciale è divenuto, quindi, quello di come intendere veramente la libertà dell'uomo.36 In un contesto di rescissione del nesso libertà-verità, «la persona finisce con l'assumere come unico e indiscutibile riferimento per le proprie scelte non più la verità sul bene e sul male, ma solo la sua soggettiva e mutevole opinione o, addirittura, il suo egoistico interesse e il suo capriccio».37

Smarrito l'essenziale legame di Verità-Bene-Libertà, nell'ambito morale non è più possibile accordarsi sulle norme del comportamento. Se, infatti, «la libertà cessa di essere collegata con la verità e comincia a renderla dipendente da sé, pone le premesse di conseguenze morali dannose, le cui dimensioni sono a volte incalcolabili».38 Una concezione della libertà, che consideri come liberazione la dissoluzione sempre più ampia delle norme e l'ampliamento continuo delle libertà individuali fino alla totale liberazione da ogni ordinamento, è semplicemente falsa.39 La libertà, se non intende portare alla menzogna e all'autodistruzione, deve orientarsi alla verità. In altri termini, la libertà individuale deve necessariamente comporsi all'interno di un contesto di responsabilità e di doveri che vanno oltre l'individuo.

4. Le radici del nichilismo etico

È evidente che dietro l'assolutizzazione del valore della libertà c'è l'eredità del pensiero moderno, del razionalismo e del liberalismo. C'è, in particolare, il principio kantiano dell'autonomia morale,40 intesa come liberazione da ogni forma di dipendenza morale, avvertita come ostacolo alla libera affermazione ed espressione dell'individuo. Scrive Kant:

«La volontà non è semplicemente sottoposta alla legge, ma lo è in modo da dover essere considerata autolegislatrice, e solo a questo patto sottostà alla legge».41

Tuttavia, è altrettanto evidente che nell'attuale esaltazione della libertà in senso strettamente individualista, c'è anche un'insofferenza nei confronti della stessa ragione illuministica che ha prodotto il principio dell'autonomia. C'è, in particolare, una reazione alle pretese omologanti e sostanzialmente autoritarie di una ragione forte, che in un'epoca di crisi delle ideologie pare non più sostenibile.

Si rendono, quindi, evidenti le differenze fra l'attuale visione dell'autonomia morale e quella, ad esempio, di Kant.

In Kant, il principio dell'autonomia, è principio di affrancamento morale, ma non resta confinato alla sfera interiore dell'individuo. Ha, quindi, una valenza universale. L'autonomia inizia a cambiare la coscienza individuale per poi estendersi e dilatarsi negli sviluppi della storia, progredendo dal piano morale a quello politico. Si presenta, prima, come fonte di un dovere che non deve essere esterno al soggetto, ma che deve coincidere con ciò che il soggetto vuole razionalmente, si traduce, poi, in una ribellione contro la società del privilegio in nome dell'uguaglianza. Ha come conseguenza l'affermazione dell'emancipazione come valore collettivo, che chiama i popoli alla ribellione di fronte alle schiavitù e alle ingiustizie. Si incarna e realizza nelle solenni Dichiarazioni universali dei diritti dell'uomo, tipiche di quell'epoca.

La libertà illuministica è figlia, quindi, della ragione, delle sue certezze ed autoevidenze. Vanta le sue stesse pretese universali ed universalizzanti. Come l'autocoscienza regge cartesianamente la costruzione di un sapere universale e totale (la mathesis universale), così l'autonomia fonda l'ambito morale e politico.

Tuttavia, si avverte oggi, anche a livello morale, il peso di una crescente individualizzazione della ragione. La ragione postmoderna deve, infatti, fare i conti con la crisi dei saperi universali, di quelli che Lyotard chiamava metanarrazioni. Deve limitarsi, di conseguenza, ai saperi particolari rinunciando a tentare una sintesi, e cioè a comporre i diversi saperi in una visione più generale.

La radicalizzazione del concetto di libertà, a scapito di ogni vincolo morale e di ogni verità, sembra realizzare oggi il mito superomistico, ma senza quei connotati mitici, quasi palingenetici, che ancora trovavano spazio nel nichilismo attivo di Nietzsche. Non ci sono finalità da perseguire. Non ci sono valori, ma non è neppure pensabile una trasvalutazione dei valori. L'individualizzazione del concetto di libertà corre, semmai, in parallelo con l'individualizzazione della ragione42 e, quindi, con la sua rinuncia a proporre scenari che vanno oltre il pragmatico, il privatistico e l'intimistico.

L'imprescindibile esigenza di verità dell'etica è scomparsa in favore dell'autenticità, ossia della sincerità e dell'accordo con se stessi, che oggi arriva «ad essere intesa come scopo a se stessa».43 La libertà, pertanto, non è un mezzo della volontà umana attraverso cui essa realizza la sua essenza, ma ha un valore legittimante e validante l'azione. «La libertà stessa, sola e senza riferimenti», appare infatti come «il principio efficiente e formale dell'azione morale: tutto ciò che è compiuto liberamente è di per se stesso conforme all'uomo e pertanto intrinsecamente morale».44

Siamo ad «uno spostamento verso di noi del centro di gravità dell'imperativo morale»45 o, se preferite, ad una vera e propria metamorfosi del principio di autonomia46 in senso individualistico.

Quando Kant (Fondazione della metafisica dei costumi) teorizzava l'autonomia morale, aveva dinanzi alla mente un'unica legge morale e un'unica, universale, immutabile autolegislazione della ragione. Oggi, invece, i grandi ideali collettivi di libertà del passato sono come slittati verso modalità egocentriche. Seguire le tendenze spontanee nell'agire sembra sufficiente per essere morali. Domina del tutto incontrastata la retorica dell'autenticità. In questo contesto, l'autorealizzazione si qualifica come il compimento è l'espletamento della libertà, il principale scopo della vita. In questo contesto, si afferma il disimpegno dai legami affettivi e sociali, come pure dagli imperativi morali esterni. Ogni imperativo morale, infatti, finisce necessariamente per configgere con le esigenze di un ego individuale che si è fatto tanto pletorico quanto capriccioso.47

Tutto quanto l'uomo compia seguendo la propria personale deliberazione sembra moralmente lecito. Il bene viene a coincidere con il grado di autonomia con cui il soggetto agisce. Si sottolinea, in altri termini, l'obbligo soggettivo, inteso in senso marcatamente individualistico, ma si trascura il fondamento, o se preferite la direzione della morale, cioè il bene e il giusto.48

La libertà diviene, in tale contesto, condizione non solo necessaria, ma anche sufficiente dell'agire morale: «La moralità non riguarda più il contenuto dell'azione in rapporto alla soggettività della persona, ma la sola motivazione soggettiva della persona».49 E ciò fa, di fatto, della scelta il fattore cruciale giustificante lo scopo, al di là di ogni considerazione delle conseguenze e delle responsabilità che si hanno verso gli altri.

Questa libertà funzione di una coscienza individuale, che si sottrae ad ogni legame con la verità e ad ogni forma di responsabilità verso gli altri o verso le cose, alimenta, in concreto, un'interpretazione totalmente negativa della vita e dell'uomo. Essa, usando le parole di Sartre, è «costituzione e annichilazione del mondo».50 È annullamento anche dell'uomo, perché questi non «ha alcuna natura, ma è solo libertà. Deve vivere la vita da qualche parte, ma comunque essa finisce nel vuoto».51 Scrive Sartre: «Io non sono altro che il progetto di me stesso al di là di una situazione determinata».52

La libertà anarchica, che ha perso il naturale legame con la verità, "non ha nessuna direzione e nessun criterio». Pensata come «determinazione essenziale dell'essere umano si svela non come l'esaltazione suprema dell'esistenza, ma come la vanificazione della vita».53 Il nulla fa presa sulla coscienza. La abita dal di dentro, si annida «nel seno stesso dell'essere, nel suo nocciolo, come un verme».54 Si insinua nelle riflessioni e nelle scelte, metastatizza nei sentimenti e nelle emozioni, cancellando ogni capacità di stupore di fronte alla vita e al mondo. È all'inizio e alla fine di ogni atto.55 Si estende ad abbracciare l'intero mondo dei rapporti umani e delle relazioni con le cose.56 Rende invalicabile la distanza che separa dall'altro e impraticabile l'amore che tale distanza annullerebbe.57

E proprio a questo punto si palesa il risvolto più concreto ed esperibile del nichilismo etico: l'incapacità dell'individuo, rinchiuso nel suo egocentrismo, di stabilire rapporti durevoli e relazioni significative.

5. Il nichilismo della ragione strumentale

Anche la scienza è stata coinvolta nella generale caduta di certezza che ha segnato l'epoca della crisi dei fondamenti. A livello epistemologico si è affermato un relativismo conoscitivo connotato in senso probabilistico. Contemporaneamente nella pratica del lavoro quotidiano dello scienziato, la scienza si è inestricabilmente legata alla tecnica, nel senso che a livello di procedure e di metodo il ruolo della tecnologia nella ricerca è divento sempre più pervasivo. Nell'ambito del sapere scientifico si è operata, quindi, una sorta di slittamento in senso pragmatico ed utilitaristico, per quanto attiene alle finalità della ricerca stessa.

Nell'epoca in cui la scienza moderna nasceva la verità della natura era intesa come qualcosa che nello stesso tempo andava scoperto e custodito. Certo, lo scienziato moderno si muoveva in un ambito specifico, che era quello delle cause meccaniche e delle quantità, ma restava convinto che la scoperta delle regolarità riscontrabili in natura portasse direttamente allo svelamento di una verità interna alla natura e, quindi, trascendente il piano meramente soggettivo. Copernico, Keplero, Galileo, Newton, Leibniz erano persuasi che le leggi da loro scoperte corrispondessero alla natura delle cose e che esprimessero qualcosa dell'intelligibilità del mondo.58 Prevaleva la convinzione che, seppure sollecitata dal ricercatore, fosse la stessa natura a rispondere e a rivelare parte dei suoi segreti. Scrive Galilei:

«La filosofia è scritta in questo grandissimo libro che continuamente ci sta aperto innanzi agli occhi (io dico l'universo), ma non si può intendere se prima non s'impara a intender la lingua, e conoscer i caratteri, ne'quali è scritto».59

Oggi invece si assiste all'esito estremo di un'involuzione della verità scientifica nei termini dell'utile e dell'efficiente. Mentre gli apparati teorici sono corrosi dallo stesso morbo nichilistico che affligge altri saperi, la fusione tra scienza e tecnica si fa sempre più intima, al punto che i confini fra teoria e prassi diventano indefiniti. Scienza e tecnica risultano fuse nell'intimo stesso della ricerca, che non è più ricerca pura, ma sempre più ricerca in vista di un'applicabilità in senso tecnico. Pertanto, la tecnologia oggi non è solo una conseguenza di cui è premessa la scienza, ma è qualcosa di cui la scienza deve inevitabilmente avvalersi nelle sue ricerche interne.60 Il concetto stesso di esperienza scientifica si è riformulato in funzione delle simulazioni virtuali, che spesso sostituiscono o anticipano l'osservazione diretta dei fenomeni. Viviamo «uno straripare sempre più inarginabile dalla teoria, per quanto pura, al campo volgare della prassi sotto forma di tecnica scientifica».61 Nessun ramo delle scienze naturali sembra ormai esente da un'utilizzazione tecnica e i compiti stessi sono determinati da interessi esterni alla ricerca pura, «anziché dalla stessa logica della scienza».62 Per E. Agazzi:

«La considerazione delle scienze, nell'ambito del sapere in generale, si riformula in funzione dei suoi benefici pratici. E anche le ragioni del giudizio quasi incondizionatamente positivo sulla scienza sono di natura essenzialmente pratico-strumentale».63

Dietro tutto questo si nasconde un altro e, forse, più pernicioso volto del nichilismo. Esso è figlio di un modo di intendere la verità della natura ormai meramente strumentale. L'epoca del nichilismo è anche l'epoca della riduzione della natura ad oggetto, in nome della razionalizzazione tecnico-scientifica.

Ciò significa che le tecnoscienze manifestano una volontà nei confronti della natura che non è ormai più quella di scoprire e custodire, ma è quella «di assicurarsi la signoria sull'essere dell'ente mediante la riduzione dell'ente a oggetto di calcolo e rappresentazione».64 Si disancora l'ente naturale dal suo è, dal suo mistero ontologico, per inserirlo nell'orizzonte anticipato dalla rappresentazione soggettiva, all'interno di un sistema di rimandi in cui tutto è funzionale al sistema. Accade così che nel mondo della scientificità e della tecnica il senso dell'essere sembra estinguersi. Al posto dell'essere troviamo la natura ridotta ad oggetto e i fenomeni reificati, considerati cioè come altrettanti oggetti di calcolo. Si impone un pensare nella modalità del pensiero possessivo che al sapere nel senso di contemplare (theorein) sostituisce il sapere come potere, come fruizione distratta. Una volta obliato il senso dell'essere e il significato della sua trascendenza, resta come assoluto solo il progresso nell'ordine della manipolazione dell'ente, ridotto, prima, in termini e rapporti assoggettabili alla mente e, poi, utilizzato a vantaggio dell'uomo. L'utilizzo tecnico della natura presuppone, quindi, una progressiva riduzione della natura a fondo a disposizione65 in funzione delle richieste o provocazioni66 del sistema complessivo che procede ormai motu proprio.

La potenza tecnologica si pone, allora, come indiscriminata, deliberata e globale; non solo non è controllata, ma non crede di aver bisogno di controllo. È un volere incondizionato che si giustifica in nome della convinzione che, attraverso la produzione, la trasformazione, l'accumulazione e il governo delle energie naturali, si possa rendere più agevole la situazione umana. Ma nel possesso e nel consumo delle cose, l'uomo inizia un cammino che è insieme fine a se stesso e senza fine, e cioè non più sostenibile e non più programmabile. L'agire tecnico si trasforma, conseguentemente, in un meccanismo che non si governa più, in cui scompare la possibilità di scegliere, una volta che esso sia avviato.

Di fatto, l'ordine di grandezza delle imprese umane è smisuratamente cresciuto all'insegna della tecnica. Abbiamo a che fare, ormai, «con una ragione strumentale sfuggita di mano»,67 e ciò appare evidente nei problemi collegati allo sfruttamento indiscriminato delle risorse naturali. Oggi è l'intera biosfera del pianeta con tutta la ricchezza delle sue specie e la sua vulnerabilità a soffrire «di fronte all'eccessivo intervento dell'uomo».68

6. Heidegger e il nichilismo della tecnica

Per Heidegger «l'uomo è diventato i1 rappresentante dell'ente risolto in oggetto»,69 per cui l'ente naturale non è lasciato essere così come è, ma è come l'uomo, anticipandolo, l'ha predeterminato. L'uomo tecnico è essenzialmente il manipolatore del mondo, colui che si impadronisce materialmente del mondo, dopo che la scienza se ne era impadronita concettualmente. Del resto, lo sviluppo della ragione scientifica è avvenuto in conformità al disegno umanistico che prevede la riduzione del mondo a misura d'uomo.70

Ora il nichilismo è in questa fondamentale dimenticanza:

«Nella dimenticanza dell'essere, promuovere solo l'ente, questo è nichilismo».71

Le tecnoscienze ingenerano, pertanto, un approccio conoscitivo che esclude la validità di qualsiasi approccio al reale ad esse estraneo. Ciò che è spiccatamente teorico tende ad essere espunto dall'interesse dello scienziato e contemporaneamente si afferma un sapere totale e pervasivo che esclude la domanda radicale sull'essere. Si afferma in ogni campo la pura razionalità strumentale che presiede alla tecnica.

Si riduce il senso di ogni cosa all'interno di un orizzonte di strumentalità e utilizzabilità. In questo orizzonte l'incontro quotidiano con le cose avviene sotto la categoria dell'utile, quindi, del rimando. Le cose non sono considerate per quelle che sono, ma per quello che servono. Il che cos'è? è soppresso dall'a che cosa serve? . Le cose si collegano tra loro in una serrata funzionalità, in una catena utilitaristica che tutto include in vista dell'appagamento.72 Inutile è precisamente ciò che in questa catena non si inserisce. Anche l'essere, che non è utile, vive nel mondo tecnico sotto la negatività dell'inutile, del non, del niente.

La ragione strumentale esprime una razionalità finalistica assoluta, che, in nome del calcolo e dell'utilizzo, tende con la tecnica ad un dominio globale sulla natura. Ora, questo universo tecnicizzato e tecnologico, in cui domina una ragione del mero calcolo e dell'utilizzo, è un altro volto del nichilismo, forse il più insidioso. Il nichilismo nasce, in tal caso, dall'aver eliminato un rapporto d'essere con le cose, e dall'aver ridotto tutto a possesso oggettivato, ad avere. Nasce ancora dall'illusione di aver realizzato una sicurezza, sottraendo l'uomo alla precarietà. Fin che si crede che l'ente è assicurato, il problema dell'essere non appare, perché il suo senso è là dove l'ente vacilla, dove nessuna assicurazione assicura. Anzi, si determina l'assenza della domanda. Osserva Heidegger:

«Il nichilismo è questo occuparsi soltanto dell'essente dimenticando l'essere».73

L'uomo perde la capacità di stupirsi di fronte a ciò che è. Crede di comprendere, perché afferra e utilizza, perché riduce a strumento nelle sue mani la natura, piegandola ai suoi scopi. Ormai è esclusivamente la pura esigenza tecnica che decide non solo dell'impiego delle cose, ma anche del loro senso. La realtà stessa assume un'immagine tecnica:

«La familiarità con i prodotti della tecnica, la loro presenza costante, fa sfumare le differenze tra ciò che è naturale e ciò che è artificiale. Ovunque si ha l'impressione di avere a che fare con l'opera dell'uomo».74

Non si riconosce realtà propria, se non a ciò che è oggettivo e utile. Si vive nell'ingannevole convinzione che, attraverso la produzione, la trasformazione, l'accumulazione e il governo delle energie naturali, si possa rendere agevole la propria situazione. Pertanto, oggi a minacciare il pensiero non è l'inconcludenza che accompagna l'infinita problematica della domanda, ma la sua assenza.75

L'epoca del nichilismo è, quindi, l'epoca in cui si compie, in una finale autodissoluzione, il processo di asservimento del reale al soggetto, in cui l'essere è pensato solo ed esclusivamente nella forma delle cose presenti. Pertanto, esso non è un evento casuale, ma «il processo fondamentale della storia dell'Occidente, è l'interna logica di questa storia".76 Questa logica è la metafisica occidentale, di cui la tecnica appare come un fenomeno estremo: «La metafisica è la storia nella quale, per essenza, dell'essere stesso non ne è niente: la metafisica è in quanto tale il nichilismo autentico».77

Scrive ancora Heidegger in Sentieri interrotti:

«Se Dio come causa sovrasensibile e come fine di ogni realtà è morto, se il mondo sovrasensibile delle idee ha perso la sua forza normativa e soprattutto la sua forza di risveglio e di elevazione non resta più nulla a cui l'uomo possa attenersi e secondo cui possa regolarsi... L'espressione Dio è morto è la constatazione che questo nulla dilaga. Nulla qui significa assenza di un mondo soprasensibile e vincolante. Il nichilismo, il più inquietante degli ospiti batte alla porta».78

7. Conclusioni

Il pensiero contemporaneo pare incapace di andare al di là di un relativismo generale e generalizzato, offerto come una sorta di premessa necessaria ad ogni discorso. Non ha tanto perso la fiducia nella verità, la convinzione cioè che la verità sia attingibile per l'uomo, quanto la condizione di meraviglia di fronte all'essere. Non ha tanto lasciato cadere i valori e le risposte ai quesiti morali, quanto la stessa domanda etica, ritenuta ormai inutile ed inefficace. Ha realizzato, pertanto, un nichilismo compiuto, spingendosi fino ad un radicalismo negativo di ogni fondamento, a partire dalla filosofia, dall'etica e dalla politica, ma coinvolgendo anche il sapere scientifico. Ha realizzato ancora una sorta di antropologia negativa, un'antropologia della libertà assoluta, che ha finito per negare finanche che l'uomo abbia una qualche consistenza ontologica.

La nozione della libertà che si autodetermina, che tanta parte ha, ad esempio, nel dibattito bioetico, spinta al limite, non riconosce nessuna frontiera, nulla che sia dato. Essa è una libertà indifferente a tutto e a tutti, che si applica al singolo esclusivamente. Ma in tal modo si perde di vista che la libertà può sussistere solo in un intreccio di libertà, che si reggono reciprocamente. Se si affermano solo i diritti del singolo rispetto al tutto, viene a mancare il contesto in cui questi stessi diritti possono sussistere. «Il mondo si costituisce ormai solo intorno all'Io isolato, con le sue esigenze».79 La ragione del singolo che si stacca, quindi, dai grandi contesti vitali della tradizione; diviene un'istanza chiusa in sé. La libertà diventa paradossalmente imprigionante, una vera condanna per l'uomo.80

C'è poi da considerare che la ragione che presiede alla tecnica si pone ormai come visione deliberata e totale. Tende, quindi, ad invadere ogni ambito del sapere e, in particolare, a passare dal piano fattuale a quello etico. L'apparato funzionale della tecnica, quello che enfaticamente si indica anche con il nome di progresso, si autorizza ad andare oltre, svincolandosi da ogni norma morale e non accettando limiti davanti a sé. Ogni passo lungo la via dello sviluppo sembra prepararne uno successivo e non subentra «mai un arresto per esaurimento interno delle possibilità».81 L'automatismo del suo sviluppo appare incontrollabile ed irresistibile. La tecnica si accresce, alimentata dal suo stesso sviluppo.

Le tecnoscienze rifiutano a priori qualsiasi limitazione alle possibilità dell'agire umano. La capacità di fare una certa cosa è, di per sé, motivo sufficiente per farla, indipendentemente dalle conseguenze. L'umanità può solo andare avanti! Nell'avanzare e nel diffondersi del progresso tecnologico si dà un elemento coattivo. Si mira, quindi, a far scomparire dalla coscienza dell'uomo la distinzione tra problemi tecnici e morali, quasi che la soluzione di questi possa venire dalla tecnica, aggirando la diretta presa di responsabilità e di coscienza dell'individuo. I problemi che la società pretecnologica interpretava come morali sono dissolti in problemi tecnici. Non si dà un dovere intrascindibile, ma un volere che, se trova i mezzi adeguati allo scopo, si sente autorizzato a fare.

Questa ragione strumentale, da una parte, alimenta l'antropocentrismo, in quanto c'induce ad assumere una posizione strumentale riguardo a tutti gli aspetti della vita e dell'ambiente,82 d'altra parte, minaccia l'uomo stesso. È evidente ormai che «i frutti della multiforme dell'uomo si rivolgono contro l'uomo stesso»,83 minacciando la sopravvivenza del pianeta. Ma è evidente anche che il potere tecnologico si applica direttamente anche all'uomo, ridotto ad oggetto manipolabile. Comincia ad armeggiare con i tasti elementari che racchiudono il segreto stesso della vita. Pretende di rimaneggiarne la stessa natura. Lo scruta nei suoi misteri costitutivi, nel suo nascere e nel suo morire, nel suo agire e patire. Pretende di renderlo un che di programmato e programmabile, di modificabile e replicabile.

In tale contesto, un male oscuro sembra essersi impadronito del nostro spirito. «Una sorta di avversione contro gli interrogativi fondamentali della sua ragione» minaccia di fatto l'occidente, di modo che esso ha smarrito il coraggio «di aprirsi all'ampiezza della ragione».84 In tal caso, «la mancanza di orientamento e la dimenticanza dell'essere si rivelano essere la stessa cosa».85

Copyright © 2010 Clemente Sparaco

Clemente Sparaco. «Il Nichilismo nostro contemporaneo». Dialegesthai. Rivista telematica di filosofia [in linea], anno 12 (2010) [inserito il 20 dicembre 2010], disponibile su World Wide Web: <http://mondodomani.org/dialegesthai/>, [73 B], ISSN 1128-5478.

Note

  1. Giovanni Paolo II, Lettera enciclica Fides et ratio (14-9-1998), n.46.

  2. Giovanni PaoloII, Lettera enciclica Fides et ratio, cit., n. 5.

  3. F. Nietzsche, Frammenti postumi 1887-88, in Opere complete, trad. it. di S. Giametta, vol. VIII, tomo II, Milano 1971, 14. «Dato che non vi è più una verità o un Grund che li possa smentire o falsificare, giacché, come dirà Il crepuscolo degli idoli, il mondo vero è divenuto favola e con esso però si è dissolto anche il mondo apparente -tutti questi errori sono piuttosto delle erranze o degli erramenti, il divenire di formazioni spirituali la cui sola regola è una certa continuità storica, senza alcun rapporto a una qualche verità fondamentale» G. Vattimo, La fine della modernità. Nichilismo ed ermeneutica nella cultura postmoderna, Milano 1985, 177-78.

  4. F. Nietzsche, Crepuscolo degli idoli, ovvero come si filosofa col martello, trad. it. F. Masini, Milano 1988, 47.

  5. F. D'Agostini, Disavventure della verità, Torino 2002, 158.

  6. F. D'Agostini, Disavventure della verità, cit., 160.

  7. F. Nietzsche, Opere, a cura di G. Colli e M. Montinari, vol. V,1, Aurora e Frammenti postumi 1879-1881, trad. it. di F. Masini e M. Montinari, Milano 1964, Frammento 3, 306-307.

  8. F. D'Agostini, Disavventure della verità, cit., 164.

  9. F. Nietzsche, Al di là del bene e del male, in Opere complete, trad. it. di F. Masini, Milano 1990, 186. Dietro la verità c'è l'utilità, c'è la volontà di vita che si afferma in un processo che non ha mai fine, volto al soggiogamento dell'esistente: «La verità non è (...) qualcosa che esiste e che sia da trovare, da scoprire, - ma qualcosa che è da creare e che dà il nome a un processo, anzi a una volontà di soggiogamento, che di per sé non ha mai fine». F. Nietzsche, Frammenti postumi 1887-88, cit., 43. Vero è ciò che risulta utile per la vita: «L'istinto della verità è una potenza intesa alla conservazione della vita». F. Nietzsche, La gaia scienza, trad. it. di F. Masini, cit., 140.

  10. «...nichilismo è quella situazione in cui, come nella rivoluzione copernicana, l'uomo rotola via dal centro verso la X. Per Nietzsche, questo significa che nichilismo è la situazione in cui l'uomo riconosce esplicitamente l'assenza di fondamento come costitutiva della sua condizione (quello che, in altri termini, Nietzsche chiama la morte di Dio)» G. Vattimo, La fine della modernità. Etc., cit., 126.

  11. F. Nietzsche, La gaia scienza, trad. it. F. Masini, Milano 1977, 151-52.

  12. F. Nietzsche, Frammenti postumi 1887-88, in Opere complete, trad. it. di S. Giametta, vol. VIII, tomo II, Milano 1971, 14.

  13. F. Nietzsche, La Volontà di potenza. Saggio di una trasmutazione di tutti i valori, trad di A. Treves, Milano 1927, 197.

  14. P. A. Rovatti, Introduzione alla filosofia contemporanea, Milano 1996, 3.

  15. «Semplificando al massimo, possiamo considerare postmoderna l'incredulità nei confronti delle metanarrazioni». J. F. Lyotard, La condizione postmoderna, cit., 5.

  16. Giovanni Paolo II, Lettera enciclica Fides et ratio, cit., n.5.

  17. Vedi: G. Cantarano, Immagini del nulla. La filosofia italiana contemporanea, Milano 1998, 124.

  18. Se il vero, come accade nel pensiero moderno, non è più quello che è, ma quello che è certo e si è accertato per tale, allora non si dà una verità che sia racchiusa dentro le cose, nel mistero del loro essere. La verità non ha più a che fare, quindi, con la relazione che s'instaura fra la mente e le cose,ma è qualcosa di interno al soggetto, a prescindere dal mondo esterno.

  19. G. Vattimo, La fine della modernità, cit., 175.

  20. «Contro il positivismo, che si ferma ai fenomeni: ci sono soltanto fatti -- direi no, proprio i fatti non ci sono, bensì solo interpretazioni». F. Nietzsche, Frammenti postumi 1887-89, cit., 60.

  21. J. Derrida, Della Grammatologia, Milano 1989, pag. 182.

  22. «Ogni forma di pensiero oggettivo quello matematico e delle scienze naturali ma anche quello della filosofia e della teologia - si radica nel solipsismo dell'Io...» F. Ebner, Frammenti Pnerumatologici, trad. it. A cura di S. Zucal, Cinisello Balsamo (Mi) 1998, 355.

  23. U. Eco, L'Antiporfirio, in Il pensiero debole, Milano 1983, 79.

  24. J. F. Lyotard, La condizione etc, cit. 75.

  25. F. Nietzsche, Frammenti postumi 1887-88, cit., 12.

  26. F. Nietzsche, La Volontà di potenza. Saggio di una trasmutazione di tutti i valori, trad di A. Treves, Milano 1927, 197.

  27. F. Nietzsche, Frammenti postumi 1888-89, Milano 1974, 241.

  28. F. Nietzsche, Così parlò Zaratustra, trad. it. M. Montanari, in Opere complete,vol. VI, tomo I, Milano 1986, 5.

  29. F. Nietzsche, Crepuscolo degli idoli, cit., 47.

  30. P. Orlando, Filosofia dell'essere finito, Napoli 1995, 32.

  31. F. Nietzsche, Frammenti postumi 1887-1888, in Opere complete, cit., 12-14.

  32. J. Ratzinger, La via della fede, Milano 2005, 15.

  33. Ch. Taylor, Il disagio della modernità, Bari 2002, 4.

  34. «Di conseguenza la libertà non è più vista come tensione verso il bene, così come la scopre la ragione aiutata dalla comunità e dalla tradizione, ma si definisce piuttosto come un'emancipazione da tutti i condizionamenti che impediscono a ciascuno di seguire la sua propria ragione. Essa si qualifica come libertà di indifferenza». J. Ratzinger, La via della fede, cit., 111.

  35. Giovanni Paolo II, Lettera enciclica Evangelium vitae (25-3-1995), n. 96.

  36. Si veda Giovanni Paolo II, Lettera enciclica Veritatis Splendor (6-8-1993), n. 31.

  37. Giovanni Paolo II, Lettera enciclica Evangelium vitae, cit., n. 19.

  38. K. Wojtyla, Memoria e identità, Milano 2005, 57.

  39. J. Ratzinger, La via della fede, cit., 32.

  40. «L'autonomia della volontà è l'unico principio di tutte le leggi morali e dei doveri che loro corrispondono...(...) Dunque la legge morale non esprime nient'altro che l'autonomia della ragion pura pratica, cioè della libertà...» I. Kant, Critica della ragion pratica (trad. it. A cura di Francesco Capra) , Bari 1974, 42.

  41. I. Kant, Fondazione della metafisica dei costumi, in Scritti morali, a cura di P. Chiodi, Torino 1986, 70-71.

  42. J. Ratzinger, La via della fede, cit., 110.

  43. Ch. Taylor, Il disagio della modernità, cit., 76-77.

  44. R. Lucas Lucas, Orizzonte verticale, Cinisello Balsamo (Mi) 2007, 36.

  45. Ch. Taylor, Il disagio della modernità, cit., 75-76.

  46. Vedi V. Possenti, Filosofia e Rivelazione, Roma 2000, 82 (nota 15).

  47. Giovanni Paolo II, Lettera enciclica Evangelium vitae, cit., n. 19.

  48. «...la questione del giusto uso della libertà si collega strettamente con la riflessione sul tema del bene e del male. E' una questione appassionante non soltanto dal punto di vista pratico, ma anche teorico. Se l'etica è la scienza filosofica che tratta del bene e del male morale, allora essa dovrà trarre il proprio fondamentale criterio di valutazione dall'essenziale proprietà della volontà umana, la libertà. L'uomo può fare il bene o il male perché la sua volontà è libera, ma anche fallibile. Quando sceglie, lo fa sempre alla luce di un criterio e questo può essere la bontà oggettiva o invece il vantaggio in senso utilitaristico. Con l'etica dell'imperativo categorico Kant ha messo giustamente in rilievo il carattere obbligato delle scelte morali dell'uomo; si è però nello stesso tempo staccato da ciò che costituisce il criterio veramente oggettivo di quelle scelte: ha sottolineato l'obbligo soggettivo, ma ha trascurato ciò che è il fondamento della morale, cioè il bonum honestum». K. Wojtyla, Memoria e identità, cit., 51-52.

  49. R. Lucas Lucas, Orizzonte verticale, cit., 37.

  50. J. P. Sartre, Immagine e coscienza, Torino 1964, 286.

  51. J. Ratzinger, La via della fede, cit., pag. 24.

  52. «Io non sono altro che il progetto di me stesso al di là di una situazione determinata» J. P. Sartre, L'essere e il nulla, (tr. it. di G. Del Bo), Milano 1970, 664.

  53. J. Ratzinger, La via della fede, cit., 24.

  54. J. P. Sartre, L'essere e il nulla, Milano, 1991, 58.

  55. La libertà trova, quindi, davanti a se stessa il nulla, un nulla totale che costituisce tanto la sua condizione di possibilità, quanto il suo limite: "La libertà s'angoscia di fronte a se stessa in quanto non è mai sollecitata né impedita da niente..." Ivi, 74.

  56. «Il nulla è costitutivo del «per-sé», lo abita dal di dentro e si affaccia alla coscienza come l'esperienza del non-essere radicale, che essa fa continuamente nel suo stesso essere e agire, concretamente vissuti come esercizio di libertà» B. Forte, L'eternità nel tempo, Cinisello Balsamo (Mi) 1993, 21.

  57. Per Sartre, il rapporto con l'altro è impossibile, perché sotto la violenza dello sguardo l'altro appare al soggetto come sua negazione, come limite della propria libertà, minaccia del proprio possesso. L'altro è in grado di circoscrivere la mobilità della mia coscienza, di dirmi tu sei così, di bloccarmi in un'immobile oggettività, di fissarmi in un ruolo: «Con lo sguardo d'altri, la situazione mi sfugge, o, per usare un'espressione banale, ma che rende bene il concetto: io non sono più padrone della situazione» L'essere e il nulla, cit., 336.

  58. Vedi V. Possenti, Filosofia e Rivelazione, cit., 114.

  59. La dottrina che fa da base alla scoperte scientifiche è quella realistica della verità come corrispondenza fra l'intelletto e la realtà: «...il realismo del secolo XVI è l'effetto di un orientamento già iniziato tre secoli prima (...): il realismo da Tommaso si fa presente nei filosofi del '500, si fa presente in Bacone e Cartesio nel 1600 e fa da base alle scoperte scientifiche del medesimo secolo». P. Orlando, Filosofia dell'essere finito, cit., 64.

  60. Vedi E. Agazzi, Il bene, il male e la scienza, milano 1992, 81.

  61. H. Jonas, Tecnica, medicina ed etica. Prassi del principio di responsabilità, Torino, 1997, 69.

  62. Ivi, 70-71.

  63. E. Agazzi, Il bene, il male e la scienza, milano 1992, pag. 154-55.

  64. M. Heidegger, Che cos'è la metafisica?, trad. it. A. Carlini, Firenze 1953, 99.

  65. Vedi U. Galimberti, Heidegger Jaspers e il tramonto dell'occidente, Torino 1975, 132.

  66. «Il disvelamento che vige nella tecnica moderna invece è una pro-vocazione la quale pretende dalla natura che essa fornisca energia che possa come tale essere estratta e accumulata»." M. Heidegger, Saggi e discorsi, Milano 1991, 11.

  67. Ch. Taylor, Il disagio della modernità, cit., 112.

  68. H. Jonas, Tecnica, medicina ed etica. Etc., cit., 31.

  69. M. Heidegger, Sentieri interrotti, trad. it. a cura di P. Chiodi, Firenze 1997, pag. 91-93. Si veda pure: Saggi e discorsi, Milano 1991, pag. 160.

  70. Vedi U. Galimberti, Heidegger Jaspers etc., cit., pag. 74.

  71. M. Heidegger, Introduzione alla metafisica, Milano 1990, 155.

  72. G. Vattimo, La fine della modernità, cit., 48. Il termine usato da Heidegger è Ge-stell, che «rappresenta per Heidegger la totalità del «porre» tecnico, dell'interpellare, provocare, ordinare, che costituisce l'essenza storico-destinale del mondo della tecnica. Questa essenza non è altro dalla metafisica, ma ne è il compimento».

  73. M. Heidegger, Introduzione alla Metafisica, cit., 207.

  74. A. Pessina, Bioetica. L'uomo sperimentale, Milano 1999, 43.

  75. U. Galimberti, Heidegger, Jaspers e il tramonto dell'Occidente, cit., 23.

  76. M. Heidegger, Sentieri interrotti, cit., 244.

  77. M. Heidegger, Nietzsche, Milano 1994, 822.

  78. M. Heidegger, Sentieri interrotti, cit., 198-99.

  79. J. Ratzinger, La via della fede, cit., 110.

  80. «La libertà è limite a se stessa. Essere libero significa essere condannato ad essere libero». J. P. Sartre, L'essere e il nulla, cit., 179.

  81. H. Jonas, Tecnica, medicina ed etica. Etc., cit., pag. 11.

  82. Ch. Taylor, Il disagio della modernità, cit., 69.

  83. D. Tettamanzi, Bioetica, Casale Monferrato 1996, 84-85.

  84. Benedetto XVI, Discorso di Ratisbona del 18-9-06.

  85. B. Casper, Il pensiero dialogico, Brescia 2009, 91.

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