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Atlante occidentale Intrusioni
 

 

Elvira Giannattasio

 

All'alba l'ultima immagine era perfettamente identica alle prime che Brahe aveva osservato all'inizio della notte: dal buio si formava sul monitor prima una cornice col numero della serie, il tempo, la sigla dell'esperimento; poi da destra e da sinistra entravano linee rapidissime, alcune collidenti al centro dove l'impatto generava altre linee continue o tratteggiate, curve e parabole e ellissi e piccoli vortici attorcigliati su se stessi. Tutto restava così per qualche istante, bloccato, accaduto; poi tutto spariva di nuovo. Ogni dieci secondi le note di diapason si fermavano su un tono calante, i numeri delle quantità toccavano il limite massimo, e sullo schermo c'era questa specie di paf visivo. Di ogni linea Brahe conosceva il destino e la natura, e anzi l'ideale sarebbe stata una linea nuova, inspiegabile e dunque probabile, lì dove avrebbe potuto esserci e non c'era; però la visualizzazione nel complesso poteva sembrare tutto: una metropoli illuminata dall'alto, la fotografia notturna di una via con striature rosse e bianche di fari d'auto in movimento, il pannello degli scambi di una stazione, perline colorate sul velluto nero di un inanellatore. Erano immagini molto preliminari, selezionate, artificiali, non tutto l'evento ma soltanto quella parte che avrebbe potuto rivelare novità; gli eventi completi, migliaia di eventi di una notte, andavano in memoria.

Rüdiger, il tedesco in pantaloni rosa salmone e camicia a righe ha detto dal suo tavolo: "Non c'è più fascio".

Brahe stava già guardando il monitor delle comunicazioni appeso al soffitto; ha detto: "Chiama il centro, per favore, senti se è un'interruzione momentanea".

Rüdiger aspettava in linea; canticchiava a filo di labbra la rappresentazione sonora degli eventi, in forma di diapason, che avevano avuto tutta la notte negli orecchi: "blin blin blin — blap". Poi ha ascoltato le comunicazioni all'altro capo, ha rimesso giù, ha detto: "È una cosa lunga, riprenderanno stamattina alle undici".

"Allora abbiamo finito", ha risposto Brahe, e ha immaginato le poche persone nelle altre hall sotterranee lungo l'anello di una trentina di chilometri, invisibile alla superficie, che unificava i loro gesti e le loro intenzioni; probabilmente anche gli altri, adesso, si appoggiavano alle spalliere delle sedie, passavano le braccia dietro lo schienale, stiravano le spalle, si stropicciavano gli occhi o la faccia con le mani.

Al suo tavolo Brahe annotava su una specie di giornale di bordo i dati generici della notte, e nessuna novità. Rüdiger gli ha appoggiato una mano sulla spalla; ha aspettato che firmasse e poi con un sorriso gli ha sussurrato nell'orecchio: "Ma come nessuna novità? Con tutto quello che abbiamo visto e scoperto questa notte?".

"Certo — ha risposto Brahe con lo stesso sorriso, — ma mica glielo diciamo. Ce lo teniamo per noi, poi faremo un annuncio sensazionale".

"Ah, il perfido dottor Brahe!" ha detto Rüdiger andando verso le colonnine degli chassis.

Brahe ha richiuso il quaderno, lasciando la penna nella cucitura. Ha intrecciato le mani dietro la nuca; guardava Rüdiger alle prese con la cablatura di alcune schede: il tedesco biondo sfilava le schede degli chassis, le girava da un verso e dall'altro, poi le rinfilava nelle guide. Spostandosi da uno chassis all'altro accennava un passo doppio, slittato all'indietro e un po' buffo, in uno di quegli spettacolini laterali che ogni tanto faceva per lui. Brahe ha sorriso, si è ricordato il primo che gli aveva visto fare, al Polo Nord: si conoscevano appena, si erano trovati in due cupole di plexiglas per l'osservazione, separate di pochi metri, che spuntavano in superficie dal terreno; potevano comunicare attraverso l'interfono, ma Rüdiger aveva cominciato a parlargli dalla sua bolla con l'alfabeto muto, toccandosi le orecchie e gli occhi; il tedesco formava lettere con le dita, dentro la bolla, sullo sfondo del cielo azzurro.

 

Daniele Del Giudice, Atlante occidentale, Einaudi, Torino 1985, pp. 19-21

 

 

 
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