Divagazioni sul futuro: ci sta dietro o ci sta davanti?
Andrea Sgarro, DMI, Università di Trieste, www.dmi.units.it/~sgarro/ (Fonte)
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Si è discusso molto delle cause dei balcanismi: influenza culturale bizantina, nomadismo diffuso sullo stesso
territorio e conseguente plurilinguismo, oppure influenze del sostrato di lingue estinte come il dacio o il getico?
Due dei tratti balcanici sono l’esplicitazione delle subordinate (del tipo di io voglio ch’io canti, invece di io
voglio cantare, o io posso ch’io canti invece di io posso cantare), e la formazione del futuro perifrastico con una
forma compressa del verbo volere seguita dall’infinito, un po’ come succede in inglese: in rumeno si dice eu voi
canta, [io] canterò, contro eu vreau sa cant, io voglio cantare (letteralmente io voglio ch’[io] canti, con un
congiuntivo neo-latino nella subordinata), in serbo ja eu pevati, io canterò, contro ja ho eu, da pevam, voglio cantare (letteralmente voglio ch’io canto, eu è la forma compressa di ho eu, voglio. Anche il greco moderno si serve di una forma del verbo volere compressa al punto di essere ormai invariabile, tha al posto di thélo, voglio; il verbo principale non sta all’infinito, bensì all’aoristo (5), e dunque è coniugato: tha páo, andrò, ossia grossomodo: vo’ vado. Il passato serbo è “solo” perifrastico come nello sloveno e nel russo, ma il romeno si ricorda delle sue origini latine, e ha un’articolazione del passato simile a quella dell’italiano. Ben articolato è anche il passato del greco moderno. Le tendenze che si confermano sono dunque: al futuro c’è minor ricchezza di tempi e uso frequente di forme perifrastiche, il futuro viene spesso sostituito e confuso con il presente.
Continuiamo.
Prima di ritornare a una lingua indoeuropea geograficamente distante, il persiano, vediamo qualche esempio non-indoeuropeo. In ungherese il futuro è di nuovo perifrastico e si serve del verbo fog, pigliare (o anche accingersi), menni fog, andrà, [ad] andare si accinge, ma le grammatiche si affrettano a consigliarvi di usare il presente tutte le volte che ciò non provochi ambiguità: insomma in ungherese il futuro (6) c’è e non c’è.
Senza provocar sorprese, in ungherese esiste invece un passato “serio”, non perifrastico e va da sé non
sostituibile dal presente.
Veniamo a una lingua semita, l’ebraico, o meglio l’ivrit che si parla oggi nello stato di Israele. Il sistema verbale dell’ivrit semplifica e “razionalizza” quello dell’ebraico biblico: non dimentichiamo che l’ebraico è una lingua morta fatta resuscitare dopo un millennio e mezzo almeno. Già la pronuncia dell’ivrit è un bel problema: la radio israeliana, Kol Israel (la Voce d’Israele), si è servita metodicamente di ebrei yemeniti che padroneggiavano il consonantismo gutturale semita in maniera da renderlo familiare a chi fosse appena “salito” in Eretz Israel dall’Europa Centrale, dove ci si può accontentare delle approssimazioni fonetiche del rabbino, sempre che si frequenti la sinagoga … Non stupirà che in una lingua che in una certa misura è stata creata a tavolino in epoca moderna la tripartizione passato – presente – futuro sia inappuntabilmente razionale: ani kaniti, io comprai, ani koné, io compro, (ma alla lettera io [sono] comprante), ani eknè, io comprerò.(7) Come nelle lingue slave, anche in ebraico ci sono pochi tempi, ma stavolta manca anche la dicotomia perfettivo / imperfettivo: prima di scandalizzarvi riflettete al fatto che le lingue semite sono state più che sufficienti a Dio per parlarci, ed è dunque del tutto inverosimile che esse siano difettose! Evidentemente i congegni logici delle lingue naturali da una parte tendono a essere ridondanti e irrazionali, e dall’altra c’è sempre qualche sistema ingegnoso a compensare le carenze apparenti.
Passo a una lingua uralo-altaica, il turco, che è o dovrebbe essere la lingua preferita dai logici: perfino i linguisti puri, come Edward Sapir, ne hanno sottolineato esplicitamente la bellezza formale e la “semplice” logicità. In turco la subordinazione viene sostituita dalla parentesizzazione: come in matematica, dove parantesizziamo una formula e la inseriamo in una formula più complessa, che poi può venir a sua volta parentesizzata e inserita in una maxi-formula, o come nei linguaggi di programmazione, che hanno i cicli, i cicli inseriti nei cicli … ma torniamo al futuro. Il verbo turco (ovviamente in turco non esistono verbi irregolari: esistono forse istruzioni irregolari in Prolog?), grazie alla struttura agglutinante della lingua, ha un numero di tempi che sembra sfuggire al conto: il significato, o meglio la sfumatura del significato, vengono ottenuti aggiungendo via via postfissi al tema: così al tema di venire, gel, potete incollare postfissi del passato come mi o di, il primo fa capire che non avete sperimentato di persona ciò di cui parlate, gelmi , a quanto mi dicono è venuto, contro geldi, è venuto e lo so di certo perché l’ho visto venire. Ma poi ci sono anche gelmi ti e perfino geldiydi con due postfissi del passato uno dietro l’altro (uno “agglutinato” all’altro; la d di di si desonorizza in t dopo mi , la y è un “tampone” eufonico fra le due di), e poi … mi limiterò a raccontarvi un episodio personale: quando ho cominciato a studiare turco prendevo lezioni da uno studente della SISSA proveniente da Istanbul.
Un giorno gli scrissi una mail perché avevo un problema di sciatica: non camminerò per una settimana, gli scrissi in turco. Rispose subito con le sue correzioni: il futuro che avevo usato era stato agglutinato in maniera tale che avevo finito col dire: non camminerò, ma potrei farlo se mi ci impegnassi seriamente. Mi suggerì una più felice ed apodittica agglutinazione: a prescindere dalle mie intenzioni, dai miei sforzi e dalla mia buona volontà non ci sarà modo per me di camminare. Sarò breve: con una lingua simile (8) cercare che cosa sia carente o debole è un’impresa vana: in turco c’è tutto quel che serve al passato, al presente, al futuro, a Platone, a Sant’Agostino, a Nazým Hikmet e ai cybernauti più esigenti.

Un modo di dire turco recita: un gentiluomo parla in turco con la famiglia, in arabo con Dio e in persiano con l’amante. E con quest’ultima lingua - paradigma di tutto ciò che è raffinato nella cultura islamica, a prescinder dalla miseria dei tempi - che vorrei concludere il mio bestiario. Il verbo persiano ha due temi, il tema del presente e quello del passato: man mikonam, io faccio, contro man kardam, io feci, dai temi kon e kard, rispettivamente (mi è un prefisso che indica progressività e che è obbligatorio al presente solo nel persiano moderno: Omar Khayym potrebbe ben dire man konam; avrete già capito che in persiano io facevo, progressivo, si dice man mikardam). Non solo non c’è nessun tema del futuro, ma le grammatiche persiane, come quelle ungheresi, vi raccomandano di evitare il futuro e di sostituirlo con il presente, fard mikonam, domani farò, ma alla lettera domani faccio. Esiste comunque un futuro perifrastico formato con l’ausiliare volere e con una forma breve dell’infinito, man khoham kard, ossia I will do, pari pari.
A Bolzano, sulla scorta delle indicazioni del grecista padovano, scoprimmo un fatto che per me allora era
nuovo: le strutture logiche delle nostre lingue sono “fossili” e riflettono una visione del mondo che è molto più
vicina a quella greca che a quella attuale. In generale le strutture che servono a gestire il passato sono più ricche, e c’è una tendenza a “riassorbire” il futuro nel passato: solo il passato ormai fuggito e il presente già fuggente
sono reali, il futuro non ci appartiene, è nelle mani degli dei, o di Dio. Ciò è confermato dalle metafore spazio-temporali che noi usiamo – intendo proprio noi, badate, e non solo gli aymara. E’ l’inglese a essere particolarmente chiaro: before vuol dire prima nel tempo e davanti (ai nostri occhi), after vuol dire sia dopo (let’s agree we meet after the concert, ossia nel futuro) sia dietro (he ran after me, but I couldn’t see him because I was looking straight ahead). Pensate alla coppia francese avant, prima, o en avant, devant, davanti, o alla frase italiana lievemente scorretta l’orto sta dopo la casa, mentre il giardino sta prima della casa, che chiunque di noi corregge automaticamente in l’orto sta dietro la casa, mentre il giardino le sta davanti. Si potrebbe continuare, ma mi accontenterò di listare opposizioni del tipo before, avant nel tempo e before, devant, en avant nello spazio, riferendomi ad alcune delle lingue del mio bestiario:

tedesco: vor, bevor
sloveno: pred, pred
rumeno: înainte, înainte
serbo: prije, pred
ebraico: la radice triconsonantica qdm serve in entrambi i casi, qodem, prima, qidmì, anteriore
turco: il tema ön serve in entrambi i casi, önce, prima, önde, davanti
persiano: pish, pish

Insomma, nella nostra visione del mondo è il futuro che ci sta davanti pieno di promesse, ma le lingue di cui ci serviamo per comunicare non si sono ancora rassegnate e ci costringono a incongrui arcaismi. Come studioso di soft computing dovrei essere esasperato per l’irragionevolezza delle lingue naturali che sono il nostro modello: sono ridondanti, ambigue e, quasi non bastasse, sono restie all’updating, quando si è fatta strada una nuova “versione” della nostra visione del mondo non hanno nessuna fretta di aggiornare i loro tools ormai fuori corso. E invece ne sono ammirato, e sono profondamente convinto che anche le loro pecche spieghino perché, con la nostra intelligenza naturale, noi siamo così bravi a svolgere compiti che ai robot dotati di intelligenza artificiale sembrano difficilissimi; né mi stupisce, o tantomeno mi rattrista, che incompletezza, incertezza, ambiguità, vaghezza siano concetti che ormai pervadono la scienza moderna, a partire proprio dalla logica e dalla matematica.

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5 O al presente, se l’aspetto del verbo è durativo, imperfettivo.
6 Il futuro non esiste in finlandese, altra lingua ugrofinnica; relata refero, ma leggo testualmente in una grammatica di finlandese: the future has no separate tense in Finnish, and the present tense does duty for it.
7 Un po’ meno razionale l’arabo, che pure dell’ebraico è parente stretto: il futuro arabo è perifrastico, la forma che corrisponde al futuro ebraico è il presente arabo (di nuovo confusione fra presente e futuro!), mentre il presente perifrastico ebraico del tipo ani koné, io sono comprante, è usato solo quando si vuole sottolineare la progressività dell’azione.
8 Vi assicuro che vale la pena di studiarla solo per capire “come funziona”, tanto più che Atatürk ci ha fatto il regalo dell’alfabeto latino al posto di quello arabo. Una lingua dalle mille e una sfumatura - da matematico arriverei a dire che di sfumature il turco, a forza di infilar postfissi, ne ha (potenzialmente) 0, che è la numerosità infinita di “tutti” i numeri naturali …