POLITICHE SOCIALITorna a Indice

"In questa convivenza umana assai colma di errori e di sofferenze ci confortano
soltanto la fede non simulata e la solidarietà di veri amici" (S. Agostino)

4.1. TRA ETICA E NORMA

Il 14 febbraio 1904, il Parlamento Italiano approvava la legge 36, che regolamentava il problema della cura e della custodia dei folli; cinque anni dopo, il 16 agosto 1909 veniva emanato il Regio Decreto n. 615, che conteneva il regolamento di applicazione della legge.

Solo nel 1968, con l’approvazione della legge 431, che rendeva possibili i ricoveri volontari in manicomio (compiendo con ciò il primo significativo passo per accostare il manicomio a un qualunque luogo di cura ospedaliero), si sarebbe prodotto il primo e sostanziale cambiamento rispetto all’impianto della normativa di inizio secolo.

Letta oggi, la normativa di inizio secolo si caratterizza soprattutto per l’assoluta e inderogabile rigidità con cui vengono affermati pochi e lineari principi:

    • la persona alienata "pericolosa per sé o per gli altri, ovvero fonte di pubblico scandalo", doveva, con provvedimento non sanitario ma giurisdizionale, essere rinchiusa in manicomio, per esservi "custodita e curata", prima custodita e poi anche curata;

    • la follia è concepita come un evento di rilevanza più giuridica e sociale, che sanitaria e soggettiva;
    • soprattutto, la follia è pensata come sostan-zialmente inemendabile e leggibile secondo un percorso strettamente riduzionistico relativamente alle sue origini, alla sua natura e al suo trattamento.

Nella legge del 1904, la complessità della malattia è posta come uguale a zero, venendo completamente ignorata; il sistema etico di riferimento è forte, ma estremamente semplificato, linearizzato intorno al principio custodialistico (il termine "custodire" è ancipite e implica tanto il concetto di imprigionare, quanto quello di proteggere).

La normativa conseguente è portata ad un altissimo livello di minuziosità, non essendo destinata ad affermare principi generali, ma a prevedere in termini accuratamente dettagliati il massimo numero possibile di fattispecie di eventi concreti, che potessero verificarsi in dipendenza dell’incontro tra la realtà e il folle.

In termini etici, l’unico fondamento leggibile è quello di un modello basato sulla codificazione della distanza, della differenza e, quindi, della lontananza; in quanto estraneo e mostruosamente extra-ordinario, il malato era recluso e separato; era "non riconducibile a…" e "non riconoscibile come…".

La normativa attuale sembra rappresentare la testimonianza di un completo ribaltamento dei precedenti livelli di complessità. La legislazione vigente, infatti, è organizzata intorno all’espressione di pochi principi astratti e generali, rimasti - forse non per omissione - ai limiti dell’indeterminatezza, tanto da far ripetutamente invocare la redazione di un regolamento attuativo: il sistema etico di riferimento è divenuto estremamente complesso e articolato, mettendo tra l’altro in causa (per la prima volta fuori dal contesto clinico e psicodinamico) il problema della relazione tra operatore e paziente.

La complessità della malattia non solo giunge ad apparire, ma diviene il radicamento fondamentale di tutto l’edificio etico, giuridico e organizzativo, destinato a confrontarsi con il fenomeno della follia e con l’esistenza della persona folle, e non più con le conseguenze sociali di un comportamento folle.

Il fondamento etico questa volta sarà costituito dal concetto di avvicinamento/approssimazione nell’ambito dell’ambivalenza e ambiguità, elaborate attraverso una continua opera di mediazione discorsiva e operativa: un approccio dialogico e quindi dualmente coinvolgente sull’asse dell’esserci responsabil-mente e responsivamente.

Al posto della vecchia istanza giuridica c’è l’istanza del soggetto, che trova una norma con cui confrontarsi e da cui, occorrendo, essere contenuta.

Scomparso il concetto di alienazione, alla legge non tocca più separare, ma normare/regolare/indirizzare, rendendo così possibile la convivenza dell’individuo portatore di malattia con la società, secondo una dialettica complessa, essendo il primo a volte contenuto dalla seconda e a volte contrapposto ad essa.

Su questo presupposto si fonda la possibilità della nascita di luoghi di riabilitazione, radicalmente diversi dagli spazi del manicomio, e si fonda la possibilità di un’etica della presa in carico prolungata, prima e dopo la riabilitazione, pensata allora non come somma di tecniche addestrative, ma come pratica di sostegno a vivere e come capacità di fare della pazienza il principio di partenza per riaccompagnare (e/o accompagnare) e far stare il paziente – che non è più solo il malato – verso e dentro la vita di tutti i giorni.

La nuova legge fonda così uno spazio etico: non perché migliore della precedente, ma perché alla codificazione ossessiva dei comportamenti sostituisce l’attenzione alla persona, chiamando l’operatore a un continuo confronto sulla congruenza tra gli scopi definiti dalla legge, quelli definiti dal singolo e gli strumenti posti in essere per il conseguimento degli uni e degli altri.

Con la sua minuziosità, la legge del 1904 definiva rigorosamente i comportamenti tipici del ruolo di paziente, del ruolo di infermiere e del ruolo di medico; la legge 180 enfatizza lo stile come elemento inalienabile e personalissimo, in riferimento al ruolo.

La rigidità della vecchia legge non lasciava spazio al singolo, fuori dalla burocratizzazione e dalla lettura della regola. La nuova legge si fonda, invece, sull’esistenza e sulla problematizzazione di relazioni interindividuali, chiamando per la prima volta in causa esplicitamente la soggettività, l’intenzionalità e la responsabilità dell’operatore, nonché la ricomparsa di un ambito di scelta, che diverrà poi la sostanza fondante del lavoro della cura, riportando sulla scena la dimensione di un’etica professionale e di una disponibilità al confronto sociale con cui ogni operatore della salute mentale è chiamato a confrontarsi.

Ed è a questa fase storica che va ricondotta l’origine di rilevanti questioni etiche: tra queste la relazione come fondamento della cura, la questione della partnership tra paziente e curante, la questione della responsabilità individuale e non delegabile di ciascun operatore.

La complessità etica sembra scaturire dalla possibilità di autodeterminazione flessibile all’interno del ruolo - di operatore o di paziente - così come dalla valorizzazione di una soggettività inalienabile.

4.2. LE NORME PRINCIPALI

In questa parte ho cercato di riconoscere i soggetti istituzionali e gli atti normativi, individuando attraverso quali strumenti sono indicate le linee guida che regolano e hanno regolato l’insieme della materia.

Ho considerato gli atti normativi nel loro succedersi cronologico, per mettere in risalto l’evoluzione che ha accompagnato la definizione delle aree concettuali e dei servizi nella loro articolazione, rispetto all’ambito delle politiche sociali. Mi sono concentrato maggiormente sulla normativa regionale, perché definisce nel merito la materia. C’è poi tutta una parte dedicata, nello specifico, alla legge 180/1978, per l’importanza che tale norma ha ricoperto nel processo di deistituzionaliz-zazione e di profondo cambiamento all’interno del sapere psichiatrico.

Un’attenzione particolare è stata rivolta alla delicata separazione tra Azienda Ospedaliera e Azienda Sanitaria Locale e alla conseguente ridefinizione dei compiti, in termini di contenuti, tra sfera sanitaria e sfera sociale.

Ho tentato di analizzare e riflettere su questi cambiamenti, ponendo l’attenzione sulle conseguenze possibili rispetto al modo di intendere l’assistenza e la cura del soggetto ammalato e sui significati per l’agire dell’educatore professionale.

Enti Pubblici e loro competenze

Intervengono nella definizione dell’area di utenza psichiatrica attraverso modalità e compiti differenti. Si tratta di:

    • Stato,
    • Regione,
    • Azienda Ospedaliera.

Lo Stato emana le leggi nazionali, che forniscono gli indirizzi politici e le linee guida di attuazione per le politiche sociali rispetto alla psichiatria.

La Regione, successivamente al decreto legislativo 502 del 1992, assume un ruolo fondamentale rispetto alle Aziende Sanitarie Locali e alle Aziende Ospedaliere. Le sue competenze, infatti, riguardano: la legislazione, la programmazione, l’indirizzo, il coordinamento, il controllo e il finanziamento rispetto alle aziende sanitarie. L’applicazione del modello aziendale ha trasferito il livello politico alla Regione, esaltando il ruolo tecnico delle ex USL e degli Enti ospedalieri.

L’Azienda Ospedaliera si definisce come un ente strumentale della Regione, dotato di personalità giuridica; che agisce le proprie funzioni godendo di autonomia organizzativa, amministrativa, patrimoniale, contabile, gestionale e tecnica, nel rispetto delle linee indicate dalla Regione stessa.

Di seguito vengono elencati alcuni tra gli atti normativi rilevanti per la psichiatria, successivi alla legge 833 del 1978, sono:

Legge Regionale n. 67/1984 "Provvedimenti per la tutela socio-sanitaria dei malati di mente".

Questa legge Regionale disciplina l’istituzione dei servizi territoriali a struttura dipartimentale che svolgono funzioni preventive, curative e riabilitative relative alla salute mentale dei cittadini, anche al fine del graduale superamento degli ospedali psichiatrici e neuropsichiatrici e della diversa utilizzazione delle loro strutture.

Ribadisce, inoltre, obiettivi e organizzazione dei servizi psichiatrici contenuti nel P.O.R. (Progetto Obiettivo Regionale) e indica negli "Adempimenti Regionali" i tempi entro cui la Giunta Regionale deve presentare la proposta di aggregazione funzionale delle USSL, ai fini della costituzione delle unità operative e dell’individuazione dei relativi presidi.

Indica inoltre i tempi entro cui gli Enti responsabili dei Servizi di Zona devono presentare un programma di interventi ed il preventivo di spesa rispetto a tutte le strutture indicate nel P.O.R. necessarie, specificando modifiche strutturali per adeguarle alle linee indicate, caratteristiche del personale, ecc..

Legge Regionale n. 47/1988: organizzazione e funzionamento dei Dipartimenti di Salute Mentale.

Decreti Legislativi n. 502/1992 e n. 517/1993: sono decreti attuativi della Legge Finanziaria n. 412 del 1991. Attribuiscono alle Regioni il compito di riorganizzare i presidi ospedalieri in forma dipartimentale, attraverso l’accorpamento di aree funzionali omogenee; in questo modo viene riconosciuta piena autonomia all’ospedale rispetto all’Azienda USL.

Questi due decreti legislativi, che tra i punti significativi hanno regolamentato la separazione e la ridefinizione di tipo manageriale dei gestori dei servizi sociali e ospedalieri, hanno portato sostanziali differenze rispetto a tutto il quadro normativo precedente.

La separazione e la ridefinizione di ruoli e competenze tra "sanitario" e "sociale", se da un lato ha potuto contribuire ad una maggiore chiarezza organizzativa e gestionale, dall’altro non ha assicurato una presa in carico del problema psichiatrico coerente e unitaria.

Inoltre, lo stile manageriale - che deve contraddistinguere l’Azienda Sanitaria Locale e l’Azienda Ospedaliera - preme in una direzione di riordino e inquadramento del bilancio; ciò mi sembra un ulteriore elemento che ha allontanato e separato i due settori.

Legge Regionale n. 31/1997 "Norme per il riordino del Servizio Sanitario Regionale e sua integrazione con l’attività dei servizi sociali".

A livello istituzionale questa legge Regionale ribadisce il ruolo e le competenze della Regione, delle Province e dei Comuni rispetto alle Aziende Sanitarie. Sono definite le funzioni e i compiti dell’Azien-da Sanitaria Locale (A.S.L.).

Rispetto ad essa, l’Azienda Ospedaliera è definita come "soggetto erogatore" assieme alle istituzioni sanitarie pubbliche e agli enti privati. Per erogare i propri servizi questi soggetti devono essere accreditati: l’accreditamento è compiuto dalla Giunta Regionale, che definisce gli indicatori organizzativi e gli standard funzionali che devono essere posseduti dalle strutture.

La Legge Regionale definisce l’organizzazione delle Aziende Ospedaliere in: aree omogenee, presidi, dipartimenti, servizi, unità operative e uffici.

L’ultima parte riguarda le funzioni di controllo operate dalla Giunta Regionale sulla corretta ed economica gestione delle risorse, l’imparzialità e il buon andamento delle attività aziendali, i finanziamenti e le fonti di finanziamento.

4.3. LA LEGGE 180

La legge 180 del 1978, successivamente inclusa nella legge 833/1978 che istituiva il Servizio Sanitario Nazionale, ha inserito la psichiatria nell’ospedale generale, rivoluzionando completamente l’assistenza psichiatrica in Italia e spostando l’asse dell’intervento terapeutico dalla custodia alla cura, dall’assistenza-reclusione in grandi ospedali psichiatrici al reinserimento nell’ambiente sociale.

La legge 180 rappresenta un punto di rottura con le norme legislative precedenti (1904, 1968) che, esprimendo una visione della malattia mentale che sottolineava la pericolosità e l’incurabilità, si occupavano unicamente della sua custodia e del controllo sociale.

Il malato doveva essere allontanato dalla comunità, perdeva i diritti giuridici (fare testamento, votare, firmare contratti, ecc.) e il suo internamento veniva segnalato sul casellario giudiziario, quasi fosse un delinquente.

La legge 180 nasce da istanze culturali di rinnovamento, che mettono in primo piano l’individualità del paziente e, quindi, il suo diritto di essere tutelato e curato, di essere assistito per i propri bisogni intrapsichici-relazionali e ambientali (avere una casa, un lavoro, ecc.) e di essere aiutato ad affrontare le disabilità secondarie alla malattia.

Pone quindi le premesse per un intervento psichiatrico che, nella cura e nella riabilitazione, crea i propri fondamenti e allo stesso tempo i propri obiettivi e nell’ambiente sociale il proprio punto di osservazione e campo di azione.

La riforma psichiatrica ha le proprie radici nell’ambito di un vasto movimento anti-istituzionale sorto alla fine degli anni ’60, con tendenze profondamente sociologiche (la struttura manicomiale era vista influenzare il manifestarsi, il decorso, l’esito della patologia mentale), che trova in Basaglia (direttore dal 1962 del Manicomio di Gorizia) il suo più autorevole e combattivo esponente e nei rivolgimenti politici di quegli anni (il ‘68) terreno fertile per svilupparsi.

In realtà un processo di deistituzionalizzazione era già in atto da tempo, ma solo in alcune zone circoscritte, come quella di Trieste, Gorizia, Perugia e Arezzo.

La legge 180 cercò di uniformare il livello nazionale di assistenza psichiatrica, trasferendo responsabilità organizzative e amministrative dalle Province alle Regioni.

La legge entrò in vigore in una situazione di quasi totale mancanza di strutture psichiatriche assistenziali, di scarsa progettualità, di meccanismi e procedure burocratiche lente, di mancata integrazione tra servizi e bisogni del paziente e dei suoi familiari.

I punti nodali della legge 180 potrebbero essere così riassunti:

    1. la psichiatria fa parte, come le altre discipline mediche, del Sistema Sanitario Nazionale e quindi entra nelle U.S.L.;
    2. le funzioni organizzative per l’assistenza psichiatrica sono attribuite alle Regioni;
    3. l’assistenza psichiatrica viene erogata da servizi a struttura dipartimentale (saranno poi le Regioni a specificarli meglio), ai quali sono assegnati compiti preventivi, terapeutici, riabilitativi;
    4. gli ospedali psichiatrici non possono accogliere nuovi pazienti e sono tenuti a dimettere quelli ricoverati. Il reparto di degenza entra nell’ospedale generale, ha capienza limitata (15 posti letto) e il compito di gestire le acuzie;
    5. la regolamentazione dei trattamenti sanitari obbligatori (TSO) si preoccupa più della tutela del malato che di quella della società;
    6. viene istituita l’assistenza psichiatrica territo-riale.

In questi ultimi anni sono state avanzate da più parti istanze di revisione della legislazione sulla salute mentale. In particolare, vi sono state richieste di snellimento delle procedure che permettono il trattamento sanitario obbligatorio (TSO) e richieste di controllo sull’attuazione delle norme legislative.

È del febbraio 1993 l’approvazione, da parte del Consiglio dei Ministri, di un decreto-legge governativo, che si può riassumere nei seguenti punti:

    1. si sottolinea come gli interventi di prevenzione, cura e riabilitazione debbano essere di norma attuati da servizi territoriali extra ospedalieri;
    2. si propone di modificare l’art. 34 della legge 180 sul TSO e in particolare:
    3. - snellire la procedura burocratica di proposta di TSO;

      - affidare la convalida del TSO al responsabile del Dipartimento di Salute Mentale e la sua esecuzione al medico del servizio psichiatrico, che in casi eccezionali può intervenire tempo-raneamente anche senza l’autorizzazione del sindaco;

    4. si precisa l’organizzazione del Dipartimento di Salute Mentale nel seguente modo:
    5. provvedere alla prevenzione, cura, riabilita-zione della malattia mentale; istituire attività di ricerca scientifica di aggiornamento; controllare le strutture psichiatriche private; dotare il DSM di un organico unico e pluriprofessionale con a capo un medico psichiatra; prevedere centri di salute mentale per attività ambulatoriali, domiciliari e di consulenza, un servizio di emergenza psichiatrica, un centro crisi e pronto soccorso psichiatrico, strutture per accogliere gli ex pazienti degli ospedali psichiatrici, day hospital per interventi terapeutici e riabilitativi; inoltre, un reparto ospedaliero (SPDC), strutture residenziali per pazienti che necessitano di interventi riabilitativi da effettuarsi in regime di residenzialità;

    6. si prevede che le Regioni possano sostituirsi alle U.S.L. inadempienti e viene istituita una Consulta permanente per la psichiatria.

Con la Legge 180 l’assistenza si sposta dal manicomio al territorio.

 

4.4. LA LEGISLAZIONE POST L. 180/78

Decreti Legislativi n. 502/ 1992 e n. 517/1993: sono decreti attuativi della legge Finanziaria n. .412 dell1991. Attribuiscono alle Regioni il compito di riorganizzare i presidi ospedalieri in forma dipartimentale, attraverso l’accorpamento di aree funzionali omogenee; in questo modo viene riconosciuta piena autonomia all’ospedale rispetto all’Azienda USL.

Questo cambiamento riguarda anche le ex USL e consiste in una svolta manageriale dell’intero settore sanitario. Si passa dal concetto universalistico di diritto alla salute (la salute per tutti) ad un insieme di servizi selettivi che dipendono dalle disponibilità economiche del sistema.

Questi due decreti legislativi, che tra i punti significativi hanno regolamentato la separazione e la ridefinizione di tipo manageriale dei gestori dei servizi sociali e ospedalieri, hanno ridefinito il quadro normativo precedente.

La separazione e la ridefinizione dei ruoli e competenze tra "sanitario" e "sociale", se da un lato ha potuto contribuire ad una maggiore chiarezza organizzativa e gestionale, dall’altro non ha assicurato una presa in carico del problema psichiatrico coerente e unitaria.

Inoltre, lo stile manageriale – che deve contraddistinguere l’ASL e l’Azienda Ospedaliera – preme in una direzione di riordino e inquadramento del bilancio; ciò mi sembra un ulteriore elemento che ha allontanato e separato i due settori.

 

Progetto Obiettivo Nazionale "Tutela della salute mentale" 1994 -1996, aggiornato dal Progetto Obiettivo 1998 – 2000

Il Progetto Obiettivo Nazionale individua le questioni principali da affrontare per dare basi più solide al settore dell’assistenza psichiatrica, al fine di migliorarne la qualità complessiva.

Esso si pone come obiettivi:

    • La promozione della salute mentale in tutte le fasi del ciclo di vita;
    • La prevenzione dei disturbi psichici;
    • L’attuazione di strategie di riabilitazione.

Le strategie operative mirano:

    • alla costruzione di una rete di servizi capaci di fornire un intervento integrato, con particolare riguardo alla riabilitazione e alla gestione degli stati di crisi;
    • allo sviluppo dell’organizzazione dipartimen-tale;
    • all’aumento delle competenze professionali di tutti gli operatori per far fronte a tutte le patologie psichiatriche attraverso interventi diversificati;
    • al definitivo superamento degli ospedali psichiatrici.

Particolarmente rilevante è l’istituzione del Dipartimento di Salute Mentale (DSM) quale organo di coordinamento dei servizi psichiatrici. Il DSM viene istituito da ogni Azienda Sanitaria e opera sul bacino di utenza che afferisce a tale Azienda in relazione alla densità di popolazione di tale bacino.Il DSM può articolarsi in sottounità operative ed opera tramite Unità Ospedaliere (Servizio Psichiatrico di Diagnosi e Cura) e Unità Territoriali (Comunità Terapeutiche, Centri Riabilitativi Terapeutici, Centri Psico - Sociali, Centri Diurni).

Tramite i suoi servizi ed i suoi operatori (psichiatri, infermieri, educatori professionali, terapisti della riabilitazione, psicologi) il DSM si occupa di:

    • promuovere la prevenzione e l’informazione sul territorio;
    • prendere in carico i pazienti psichiatrici e effettuare diagnosi;
    • individuare strutture riabilitative idonee;
    • definire e verificare i progetti terapeutici dei pazienti;
    • gestire i rapporti con le famiglie;
    • coordinare i diversi servizi che ruotano attorno al paziente.

Il DSM, inoltre, redige la Carta dei Servizi, documento all’interno del quale esplicita quali sono le strutture attraverso cui opera, fornendo descrizione e requisiti. Sintetizza il CPS come:

  • sede organizzativa dell’équipe degli operatori e del coordinamento degli interventi di prevenzione, cura, riabilitazione e reinseri-mento sociale;
  • titolare del progetto terapeutico riabilitativo personalizzato;
  • ente che svolge la propria attività in un preciso territorio di competenza;
  • luogo dove i cittadini con problemi più o meno gravi devono trovare operatori che accolgono e valutano la loro domanda, un luogo di accoglienza e di scambio, un’occasione di rapporto, la possibilità di stare almeno temporaneamente fuori da una difficile situazione familiare.

Progetto Obiettivo Regionale "Tutela socio-sanitaria dei malati di mente", triennio 1995/1997

In accordo con le direttive nazionali, tale Progetto Obiettivo Regionale si propone di concorrere a salvaguardare la salute mentale nell’età adulta individuando come obiettivi:

  • la prevenzione primaria dei disturbi mentali, con interventi volti ad eliminare le cause che generano condizioni di rischio;
  • la prevenzione secondaria attraverso l’individualizzazione della patologia e dei trattamenti terapeutici riabilitativi;
  • la riduzione del ricorso al ricovero tramite il potenziamento delle attività ambulatoriali, domiciliari, di Centri Diurni e residenziali;
  • la tutela e risocializzazione dei pazienti, con reinserimento nella vita familiare, lavorativa e sociale.

Legge Regionale n. 31/1997 "Norme per il riordino del Servizio Sanitario Regionale e sua integrazione con l’attività dei servizi sociali"

A livello istituzionale questa legge Regionale ribadisce il ruolo e le competenze della Regione, delle Province e dei Comuni rispetto alle Aziende Sanitarie. Sono definite le funzioni e i compiti dell’Azienda Sanitaria Locale (ASL).

Rispetto ad esse, l’Azienda Ospedaliera è definita come "soggetto erogatore" assieme alle istituzioni sanitarie pubbliche e agli enti privati. Per erogare i propri servizi questi soggetti devono essere accreditati: l’accreditamento è compito della Giunta Regionale, che definisce gli indicatori organizzativi e gli standard funzionali che devono essere posseduti dalle strutture.

I soggetti devono, inoltre, possedere i requisiti specifici (es. Servizi diagnostici, dotazioni tecnologiche, personale sanitario, professionale e tecnico adeguato, un servizio di pronto soccorso), la cui perdita determina la decadenza dell’accreditamento. Quest’ultimo viene definito con l’avvenuta iscrizione al Registro Regionale delle strutture accreditate.

La Legge Regionale definisce l’organizzazione delle Aziende Ospedaliere in: aree omogenee, presidi, dipartimenti, servizi, unità operative e uffici.

L’ultima parte riguarda le funzioni di controllo operante dalla Giunta Regionale sulla corretta ed economica gestione delle risorse, l’imparzialità e il buon andamento delle attività aziendali, i finanziamenti e le fonti di finanziamento.

Piano Socio Sanitario Regionale 2002-2004

Sancisce le seguenti linee guida innovative rispetto al passato:

    • garantire la libertà di scelta della cura da parte degli utenti e assicurare la presa in carico globale dei loro bisogni;

    • diversificare l’offerta di assistenza psichiatrica attraverso l’accreditamento di erogatori pubblici e privati che garantiscano la presa in carico globale dell’utente.

Il Piano, inoltre, individua nella riabilitazione, in particolar modo nell’ambito residenziale, un’area di criticità e si pone come obiettivo l’introduzione di elementi di regolazione e di qualità nell’attività del settore; ipotizza, quindi, una differenziazione delle strutture in base al livello di intervento terapeutico e al grado di intensità assistenziale offerto. A tal fine occorrerà:

  • ripensare la classificazione delle strutture in base all’impegno riabilitativo assolto;
  • promuovere percorsi che permettano il passaggio dei pazienti a strutture con più bassa intensità riabilitativa;
  • definire per le strutture in cui l’impegno riabilitativo prevale su quello assistenziale i tempi massimi di durata del trattamento, al fine di evitare che le strutture diventino sostitutive di altre risorse.

Piano Regionale Salute Mentale 2003/2004

Il Piano sostituisce le direttive del Progetto Obiettivo 1995/1997 in accordo con quando stabilito dal nuovo Piano Socio Sanitario Regionale.

Tale documento rappresenta una nuova svolta nel mondo della psichiatria per quanto riguarda la Regione Lombardia e nello specifico introduce:

  • il percorso di presa in carico territoriale (o trattamento integrato) coordinato dai Centri Psico Sociali (CPS), erogatori dei percorsi terapeutici previsti per gli utenti dei DSM; la presa in carico, che deve basarsi su una negoziazione tra medico e paziente riguardo al trattamento terapeutico, necessita di una collaborazione attiva dell’utente, con il quale si deve instaurare un rapporto di alleanza e fiducia;
  • il Piano di Trattamento Individuale (PTI) come strumento operativo della presa in carico; esso contiene le motivazioni della presa in carico e gli elementi principali del programma di cura;
  • la figura del Case Manager, istituita con la funzione prevalente di garantire la continuità nel percorso terapeutico dell'utente in tutte le fasi ed in tutti i suoi passaggi.

Sempre in accordo con il Piano Socio Sanitario Regionale questo documento, inoltre, introduce numerosi cambiamenti per quanto riguarda l’area della residenzialità.

Innanzitutto stabilisce che per ogni utente venga pensato e realizzato un Progetto Terapeutico Riabilitativo (PTR), elaborato in modo da essere coerente e funzionale al PTI.

In secondo luogo predispone una revisione della classificazione delle strutture. La "funzione residenzialità" integra esigenze di tipo riabilitativo e di tipo socio - assistenziale; pur considerandoli entrambi importanti, i due fattori vanno differenziati; allo stato attuale vi è un progressivo allungamento dei tempi di degenza, con un sempre più ridotto turn over dei pazienti, tanto che la residenzialità sta assumendo sempre più la funzione di "soluzione abitativa" piuttosto che essere funzionale al progetto riabilitativo terapeutico, col rischio di essere usata per forme di nuova istituzionalizzazione.

Detto questo, diventa necessaria una differenziazione delle strutture residenziali in base a tre diverse aree:

  • gli attuali CRT diventeranno Comunità Riabilitative Alta assistenza (CRA), con durata massima di degenza di 18 mesi; area RIABILITATIVA;
  • le attuali Comunità Protette (CP) diventeranno Comunità Protette ad Alta assistenza (CPA), con durata massima di degenza di 36 mesi; area ASSISTENZIALE;
  • le attuali CP a bassa protezione diventeranno Case Alloggio, Case Famiglia e Appartamenti Autonomi; area SOCIALE.

Infine stabilisce dei criteri di ammissione per i nuovi accoglimenti relativi alla diagnosi e all’età.

Il Piano Regionale Salute Mentale è stato reso operativo dalla circolare n. 49 /SAN elaborata dalla Giunta Regionale nel 2005; attualmente, però, la maggior parte delle modifiche introdotte dal documento è stata "congelata" per le strutture preesistenti poiché alcuni dei nuovi parametri indicati per le dotazioni organiche e tariffarie sono stati ritenuti inidonei o comunque problematici da raggiungere; per le strutture di nuova costruzione, invece, i parametri vengono rispettati.

CONCLUSIONI

La ricerca bibliografica, la lettura di molti testi e i suggerimenti fornitimi da colleghi arte terapeuti ed educatori, chiudono un intenso e piacevole periodo di studio.

Ho usato l’arte terapia come linguaggio espressivo, con l’obiettivo di stimolare l’integrazione psicologica, emozionale e relazionale dell’individuo per promuovere la salute, per favorire la guarigione o "semplicemente" per migliorare la qualità della vita. Rispetto agli obiettivi iniziali non so se il mio accompagnamento educativo sia stato importante nel processo di "guarigione" (e per alcuni di restituito ad integrum) dei pazienti che ho incontrato ma sono certo di aver aperto spazi di comunicazione in un luogo dove spesso la parola è assente o troppo urlata. Arte terapia, quindi, intesa come processo creativo e come opportunità per il paziente di conoscere meglio se stesso.

Attraverso l’espressione artistica è possibile fornire al paziente una risposta ai suoi bisogni, riconoscere le sue resistenze, comprendere le sue paure e valutare, ove possibile, una richiesta di eman-cipazione o anche solo di accoglimento, così com’è.

La forza dell’arte terapia risiede nel fatto che, muovendosi come il paziente nel mondo del non-verbale, non corre il rischio – come le terapie verbali – di essere aggirata, usata impropriamente e resa impotente.

È ormai opinione condivisa che l’espressione di se stessi attraverso l’arte sia benefica per tutti, specie in ambito psichiatrico. Il fine dell’arte terapia e le capacità che essa richiede vanno oltre i semplici obiettivi dell’attività ricreativa o dell’educazione artistica.

L’arte terapeuta opera come un artista ed educatore capace di modificare i suoi metodi di lavoro secondo la patologia e le necessità del paziente.

Spero di essere riuscito a dimostrare, in questo, che l’arte adempie alla funzione di creare una zona di vita simbolica, che permette di sperimentare idee e sentimenti, di portare alla luce le complessità e le contraddizioni della vita, di dimostrare la capacità dell’uomo di trascendere il conflitto e di creare "ordine" nel caos e, infine, dare piacere.

Un atelier di arte terapia, quindi, centrato sul paziente, ma attento a non richiedergli prestazioni egoiche piene, quali, per esempio, la decisionalità; un atelier coerente nel suo impianto ma abbastanza flessibile da sopportare, anzi da prevedere, interruzioni, strappi, intromissioni di persone e di mediatori di vario tipo.

Attuare tutto ciò non è stato, onestamente, facile, anche perché la letteratura in merito risente ancora di approcci, modalità d’intervento e punti di vista teorici che difficilmente trovano delle possibili interconnessioni.

Qui di seguito proverò a tracciare alcuni elementi che avvicinano e che distanziano le figure dell’arte terapeuta e dell’educatore, contaminandole anche con i vissuti e le pratiche messe in atto durante l’effettuazione dell’atelier.

Pur riconoscendo ad ambedue le figure professionali una funzione pedagogico-educativa, l’arte terapeuta nell’approccio con il paziente usa tecniche artistiche, fornendogli la possibilità di rappresentare il proprio mondo interno attraverso la forma, la densità, la scelta di colori diversi.

L’educatore ha come focus la relazione d’aiuto, intesa come un processo di riappropriazione del sé o di alcune parti di sé.

La personalità dell’educatore ne è coinvolta totalmente, sia a livello cosciente che inconscio.

Ciò richiama i desideri di onnipotenza dell’educatore e la sua capacità di avvicinarsi e allontanarsi all’interno di una relazione che è asimmetrica.

In SPDC sono stato continuamente sottoposto alla "fatica" di ricalibrare e ridefinire i miei confini e quelli dell’altro, per l’impossibilità di costruire una relazione duratura o misurabile (i pazienti tendenzialmente restano in reparto 8-10 giorni).

Non è un caso che l’educatore, a differenza dell’arte terapeuta, sia più soggetto alla sindrome del burn out, il corto circuito che fa "saltare" non solo l’educatore, ma la relazione stessa con il paziente.

In SPDC il dr. Riva (Responsabile delle attività terapeutico-riabilitative) aveva creato la definizione di riabilitazione leggera, dove il "peso" del lavoro sociale e la "presa in carico" avvenivano in minima parte, lasciando invece molto più spazio ad una relazione che definirei di (ri)accompagnamento e di ricostruzione delle esistenze dei pazienti.

A volte mi è anche capitato di sentire alcuni degenti dispiaciuti di lasciare il reparto e l’atelier di arte terapia e questo mi creava sempre molte perplessità circa il mio ruolo.

Li avevo (in)"trattenuti" invece di riaccompagnarli nel mondo esterno.

Se è stato relativamente più facile preparare lo spazio per l’atelier, è stato sicuramente più difficile governare la relazione singola con il paziente.

I disegni, le forme e i colori possono essere anche lasciati sedimentare in altri luoghi, fisici o mentali, ma i gesti, i volti e le azioni apparentemente senza senso dei pazienti che ho visto "passare" in SPDC hanno cercato di trovare riferimenti continui di quella ricerca di senso che, in modo faticoso e inesauribile, spero sempre possa attraversare le relazioni tra le persone, malate e non.

Spesso io mi sono sentito (e in realtà lo ero) lo strumento attraverso il quale il paziente interagiva con il SPDC, dove tutto è scandito da una dimensione sanitaria e operativa e dove gli spazi mentali e fisici sono ridotti e chiusi (le porte vengono aperte con le chiavi e vengono subito richiuse, lasciando un amaro senso di stordimento).

L’arte terapeuta ha bisogno di un setting preciso, di materiali specifici, di un gruppo composto da almeno 5 pazienti. L’educatore si posiziona all’interno della relazione; è quello il luogo dove le emozioni, le competenze, la professionalità si muovono.

Ho ascoltato i silenzi, le grida, i deliri e le angosce presso i letti dei pazienti, in soggiorno (che diventava atelier il giovedì e il venerdì), in corsia, nella stanza del capo sala. Lo spazio fisico diventava secondario rispetto all’ascolto del paziente.

L’arte terapeuta, pur affezionandosi ai pazienti, pur condividendo con loro momenti cruciali delle loro esistenze, necessita comunque di strumenti operativi per svolgere la sua funzione.

L’educatore, invece, dovrebbe essere dotato sì di competenze, ma anche di quelle invisibili qualità umane che consentono di cogliere la dignità degli altri, il loro valore, i loro diritti. Per tutto questo non sono fondamentali particolari doti di erudizione, ma contano le interne attitudini alla spontaneità e alla delicatezza dell’animo.

Tali risorse sono spesso innate, sebbene possano essere raffinate, educate e rese plasmabili.

Pur con fatica, perché per inclinazione personale tendo a condividere troppo le parti "malate" del paziente, ho cercato di mantenere una sana curiosità e una sufficiente vicinanza con i pazienti che ho incontrato. Ho sempre fatto fatica ad accettare la definizione di una diagnosi, pur comprendendo che a volte l’applicazione delle griglie del DSM fornisce utili strumenti per l’individuazione di una terapia farmacologica, ecc., perché avevo la sensazione di essere complice del processo di disintegrazione psicotica e dell’unità della persona.

L’arte terapeuta è meno coinvolto da queste riflessioni intime, perché ripone la gran parte dell’attenzione sulle modalità espressive del paziente. Il suo percorso è in qualche modo già deciso e programmato e ha più riferimenti teorici precisi.

L’educatore attraversa molteplici prassi e teorie, si confronta continuamente con il senso, il significato delle relazioni con ogni singolo paziente.

Deve saper restare in una terra di mezzo, pronto a cogliere richieste d’aiuto, a promuovere emancipazione, a stimolare capacità compromesse, a raccogliere il dolore e il disagio, restituendo al paziente fiducia, ascolto, spazio e complicità.

La stessa storia dell’arte terapeuta e dell’educatore ne segna alcune differenze significative: di arte terapia si parla ormai da circa cinquant’anni, mentre l’affermarsi dell’educatore nei servizi è storia relativamente più recente.

Infatti nei Day Hospital dei SPDC e nei SPDC stessi è molto più presente la figura dell’arte terapeuta, che non quella dell’educatore: non solo per motivi terapeutici riabilitativi, ma anche perché, io credo, la presenza di un educatore in reparto richiede una mobilità operativa e professionale in continuo mutamento e riadeguamento, perché ogni singolo paziente è diverso e ogni storia richiede un intervento diversificato.

L’arte terapeuta ha bisogno di un luogo dove poter svolgere le sue attività, l’educatore deve avere la capacità di stare all’interno della relazione.

L’atelier di arteterapia ha sicuramente rappresentato l’incontro con una fragilità poco vista e poco visibile all’esterno.

Mi ha sollecitato a riscrivere itinerari , quali il dare nome a bisogni e desideri, riconoscendone l’esistenza senza dissimu-lazioni o falsi pietismi, attribuendo ad essi dignità umana e relazionale.

Il bisogno più grande risiede nell’essere ascoltati e riconosciuti.

Sono sufficientemente convinto di essere stato dentro un possibile cambiamento con coraggio e con pienezza accogliendo il dolore, la fatica e la stanchezza, scrutando i difficili confini tra bisogni assistenziali ed esistenziali.

Mi sono sforzato di andare oltre la figura del bisogno e della risposta immediata, passando dalla logica dell’appagamento allo sguardo del riconoscimento, dalla prestazione alla relazione, dal confine all’orizzonte.

La sfida per la costruzione di nuove opportunità, anche all’interno di un SPDC, troppo spesso vissuto dagli educatori come il luogo del dolore e dell’impossibile, continua.

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Sitografia

Grazie a …

Grazie a mia madre e ai miei fratelli per avermi sostenuto in questo anno di duro lavoro.

Grazie ai miei colleghi, in particolare Ines e Antonella.

Grazie a tutti i pazienti che ho incontrato e che mi hanno permesso di "entrare" nella loro umanissima follia.

Grazie a Max, Carla, Vanessa e Maria Grazia per avermi sostenuto in questo "viaggio".

Grazie alla D.ssa Carla Vignati per avermi dato la possibilità di riappropriarmi di altri e nuovi saperi.

Grazie a Ivana che ancora una volta è stata celere e puntuale nella correzione stilistica.

Grazie alla Prof.ssa Elisabetta Zambruno per avermi ascoltato e per aver avuto fiducia in me.

Sono grato alla D.ssa Margherita Sberna, al Dott. Guido Contessa e alla D.ssa Maria Vittoria Sardella per tutto ciò che mi hanno insegnato sin da quando ho compreso, anche grazie a loro, quale era il mio progetto di vita professionale.