Luca Giuliano (tratto di questo interessante sito)

Comunità nel ciberspazio - Comunicazione elettronica e spazio sociale
(Sociologia, Rivista Quadrimestrale di Scienze Storiche e Sociali, Anno XXXIII)

In Internet si formano diverse “aggregazioni sociali” basate su interessi culturali, professionali, commerciali, oppure sul divertimento e sulla comunicazione libera senza uno scopo preciso. Moltissime di queste aggregazioni non hanno alcuna caratterizzazione territoriale. Il solo fatto di essere nella rete conferisce loro una assoluta mancanza di prossimità spaziale.
Gli interessi delle persone sono sempre molto differenziati e questo in Internet permette l’intrecciarsi di “aggregazioni multiple” in cui ciascuno entra a far parte di diversi gruppi contemporaneamente. L’immaterialità delle relazioni consente anche una certa ubiquità e una molteplicità di appartenenze che supera grandemente le molteplicità dei ruoli assunti nella “Real Life”. In questi anni l’espansione delle aggregazioni in rete è accresciuta in modo considerevole, fino a far parlare di “comunità virtuali”, cioè di vita comunitaria che avviene esclusivamente (o quasi) all’interno di ambienti digitalizzati (virtuali). In questo intervento si riesaminano i concetti di comunità e di spazio sociale in funzione delle nuove forme di socialità realizzate con la “computer-mediated communication” (CMC) e si cerca di precisare l’uso sociologico del termine “comunità virtuale”. 

La computer-mediated communication

La comunicazione elettronica in rete - d’ora in poi CMC - è nata tra la fine degli anni ‘60 e l’inizio degli anni ‘70 sulla base di alcuni esperimenti di teleconferenza condotti da Murray Turoff [Hiltz e Turoff, 1993] per conto dell’Institute for Defense Analysis [Rheingold, 1993]. Turoff cercò di utilizzare la comunicazione tramite computer per le applicazioni del metodo Delphi, una tecnica per la valutazione tramite esperti di idee e prospettive per il futuro con l’obiettivo di redigere delle previsioni collettive attendibili.

Successivamente, presso l’Office of Emergency Preparedness, non senza ostacoli burocratici e vincendo la diffidenza dei superiori, Turoff sviluppò un sistema che permetteva di raccogliere e confrontare informazioni provenienti da uffici distribuiti sul territorio. Il progetto venne ufficializzato in un sistema informativo per la gestione delle emergenze (EMISARI - Emergency Management Information and Reference System) su richiesta dell’amministrazione Nixon che, in seguito al blocco dei prezzi e dei salari del 1971, aveva la necessità di tenere sotto controllo i dati e di organizzare dei meeting con un centinaio di esperti per l’applicazione della normativa. 
Turoff continuò il suo lavoro, prima al New Jersey Institute of Technology, dove fu incaricato dalla National Science Foundation di sviluppare le comunicazioni telematiche da applicare in un contesto scientifico ed educativo; poi all’Electronic Information Exchange System (1975), che divenne il capostipite di tutte le comunità virtuali oggi esistenti. A questa si legano altre esperienze, anche indipendenti, come PLANET (PLAnning NETwork), dell’Institute for the Future (IFTF), utilizzato da industrie importanti come la Shell Oil; PLATO, Caucus, e Picospan, il sistema di teleconferenza del WELL - Whole Earth ‘Lectronic Link [Rapaport, 1991; Rheingold, 1993; Boudourides, 1995].  Nonostante il grande successo di questi ultimi cinque anni, la CMC è una forma di comunicazione ancora relativamente poco diffusa. Posta elettronica, conversazione in chat, partecipazione a newsgroup e navigazione in Worl Wide Web, riguardano solo una piccola parte della popolazione mondiale: non più del 3% secondo stime ottimistiche, ma probabilmente intorno all’1%, se ci riferiamo ad un uso regolare ed integrato con le forme più consuete di comunicazione a distanza: la lettera, il telefono, la radio e la televisione. Tuttavia la sua rapida espansione, soprattutto in questi ultimi anni, richiede un’attenta considerazione. Nei paesi più industrializzati la popolazione interessata dal fenomeno è circa il 10%, mentre negli Stati Uniti sale al 25% (Fonte: NUA- http://www.nua.ie/surveys/how_many_online/). In un primo tempo la CMC è stata utilizzata unicamente all’interno di alcuni gruppi sociali molto ristretti, costituiti da studiosi di informatica, tecnici e ricercatori collegati alle prime reti di comunicazione telematica tra università ed istituti di ricerca. Successivamente, dal 1980 in poi, si sono formati gruppi più estesi di utenti, costituiti da giovani che si dedicavano al computer per hobby, da sperimentatori o da veri e propri fanatici della cultura tecnologica. E’ su questa base che si è affermato il successo internazionale di Usenet, Fidonet, dei BBS e di tutta la prima generazione dell’Internet people. Ancora oggi, solo una minoranza dei computer è collegata in rete, ma presto questa sarà la norma e la CMC diventerà la forma di comunicazione abituale del XXI secolo, così come il telefono lo è stato per il XX. 

Una tecnologia per lo sviluppo della socialità

La CMC ha dato vita a tecnologie innovative che avranno un peso determinante sullo sviluppo della socialità. Il loro impatto culturale, sia sui singoli che sulle collettività, sarà maggiore anche rispetto ai tradizionali mezzi di comunicazione di massa, come la radio e la televisione. Il costo relativamente basso, la facilità d’uso, la possibilità di interagire attivamente, sono tutti elementi che esercitano un’attrazione molto forte, soprattutto nei paesi occidentali. La CMC è una tecnologia con una forte vocazione “comunitaria”, che non è nemmeno lontanamente paragonabile con gli altri media della comunicazione a distanza. Basta osservare la quantità sterminata di libri dedicati ai computer e al loro lessico, all’opera di divulgazione che ne viene fatta su riviste e giornali, per rendersi conto del peso enorme che ha la produzione culturale inerente al “mezzo”, più che al “contenuto”.L’attenzione prestata dagli utenti al “significante”, indipendentemente dal “significato”, testimonia il bisogno di interagire creativamente con il mezzo, di appropriarsene e di utilizzarlo come un linguaggio e non solo passivamente come veicolo di trasferimento delle informazioni. DeKerckhove, seguendo le orme del suo maestro McLuhan, ha sostenuto, d’altra parte, che le strutture mentali che caratterizzano i diversi modelli evolutivi di società, hanno sempre preso forma dal mezzo utilizzato (dal medium) per veicolare l’informazione più che dal contenuto (dal messaggio) dell’informazione stessa [Galimberti e Riva, 1997].  I partecipanti alla CMC sviluppano un modo proprio ed autonomo di interazione sociale, caratterizzato da regole di comportamento (netiquette), da status differenziati in base all’esperienza (newbies), da forme di comunicazione precedentemente sconosciute (flames). La netiquette è riferita alle regole non scritte che definiscono il comportamento educato in rete. Di solito viene appreso dai nuovi utenti con la pratica, attraverso gli errori che vengono corretti dai più esperti o dalla vera e propria repressione dei comportamenti indesiderati.  I newbies sono appunto i “novizi”, cioè coloro che non sanno ancora usare in modo appropriato i sistemi di comunicazione. I flames sono i messaggi scritti in modo aggressivo e polemico in risposta a coloro che si ritiene abbiano violato le regole della netiquette al fine di correggerne il comportamento. Tutta questa produzione di termini rivolta a descrivere e regolare il comportamento normativo in rete e a sviluppare forme di controllo della devianza indica l’importanza della relazione sociale che si viene a costituire in una comunicazione tramite computer. 

Le caratteristiche della computer-mediated communication

La comunicazione mediante computer, basata sostanzialmente su testi scritti, ha delle caratteristiche particolari. La suaimmediatezza, anche conversazionale,manca di alcuni elementi di feedback (gesti, toni di voce, espressioni facciali) che possono creare non pochi problemi di coordinamento [Walther e Burgoon, 1992]. La comunicazione avviene in un “vuoto” sociale in cui le parole sono l’unica realtà di riferimento. Le parole non sono soltanto informazione ma anche “azione” in un mondo fatto esclusivamente di parole. La stessa identità dei soggetti è totalmente dipendente dalla descrizione verbale. La comunicazione è fondamentalmente anonima. Genere, aspetto fisico, identità etnica, status sociale e ogni altro indicatore o coordinata sociale non sono più immediatamente evidenti e possono essere adeguatamente nascosti. La comunicazione elettronica digitalizza le relazioni sociali e annulla, potenzialmente, le differenze nella gerarchia sociale e organizzativa [Kiesler e al., 1984; Sproull e Kiesler, 1991]. Secondo alcuni la conseguenza di tutto questo è una maggiore possibilità di partecipazione e una generale “democratizzazione” delle relazioni sociali [Walther e Burgoon, 1992] a favore dei gruppi minoritari [Baron, 1984]. Non tutti concordano su questo effetto di uniformazione prodotto dalla CMC; non mancano infatti le ricerche che, all’interno delle organizzazioni già strutturate, dimostrano la tendenza al mantenimento delle preesistenti barriere di status[Galimberti e Riva, 1997]. Sul versante negativo della comunicazione elettronica vengono rilevate le difficoltà e le lentezze nel prendere le decisioni, nel raggiungere gli obiettivi previsti e nella formazione del consenso; mentre l’anonimato tende a favorire la rottura delle convenzioni sociali e la devianza [Kiesler e al., 1984; Rice, 1984, 1989; Sproull e Kiesler, 1991], con l’abuso di un linguaggio aggressivo tale da scatenare reazioni emotive e verbalmente violente. Non sono poche tuttavia le testimonianze favorevoli alla comunicazione elettronica, in cui emergono relazioni personali positive, a sostegno di rapporti amorosi, di amicizia o di collaborazione [Reid, 1992; We, 1993; Rice e Love, 1987]. All’interno della stessa comunicazione mediante computer si sono sviluppati adattamenti linguistici e nuovi segni, in grado di esprimere e veicolare l’informazione emotiva, come le emoticons, l’uso di frequenti interiezioni come INMHO (In My Humble Opinion) e di accentuazioni e forme linguistiche che vorrebbero esprimere in forma di testo tutto quanto rimane inespresso nel paralinguaggio dei gesti. Nella comunicazione elettronica più che l’anonimato viene utilizzato lo pseudonimo e l’identità alternativa. Lo pseudonimo è un nome identificativo che tende a sostituirsi a quello reale, ma non rappresenta, di per sé, un’altra identità. Il cambiamento di identità è invece una scelta che può avere diverse motivazioni, delle quali la più comune è il gioco e il divertimento [Giuliano, 1997]. L’uso di pseudonimi o di nomignoli (nicknames) hanno la funzione di segnalare all’interno della fiction favorita dal gioco la presenza di un altro-da-sé o di un aspetto di sé che normalmente non viene espresso [Danet & Ruedenberg, 1994]. E’ evidente, tuttavia, che nascondere la propria identità può servire a coprire attività considerate socialmente riprovevoli o addirittura devianti, come accade in alcuni casi di pornografia e pedofilia. In molti casi le donne tendono a mascherare la loro identità per ridurre lo schematismo della comunicazione all’interno di modelli stereotipati [Jaffe e al., 1995] dovuti anche alla prevalenza, nella Rete, di utenti di genere maschile. Secondo Leslie Regan Shade [1993] troppo spesso le donne vengono molestate durante la partecipazione a conferenze telematiche o via e-mail, e alcune, come Gladys We [1993], hanno denunciato episodi di vera e propria violenza, sebbene solo verbale o simulata. Amy Bruckman [1993] ha condotto una ricerca sulle interazioni sociali e sul cambiamento di genere all’interno degli ambienti virtuali di tipo testuale, dalla quale emerge non solo la tendenza dei maschi ad avanzare proposte sessuali, ma anche di assumere ruoli femminili per incoraggiare esplicitamente le proposte sessuali di altri maschi. Anche Pavel Curtis [1992] ha rilevato che i comportamenti sessualmente più aggressivi vengono interpretati dagli uomini quando assumono ruoli femminili.  La creazione di pseudonimi e di identità alternative si accompagna ad un uso molto sofisticato di firme in calce ai messaggi (signature), di nomi evocativi o “unici”, assunti come dei marchi, e dei quali gli utilizzatori sono estremamente gelosi. La sensibilità al nome all’interno della comunicazione elettronica è molto più alta che nella comunicazione verbale, proprio perché il nome finisce per essere l’unico elemento identificativo certo della persona [Baym, 1995]. La comunicazione mediante computer è dunque fortemente caratterizzata dalla invenzione di personaggi che si muovono in uno spazio sociale virtuale e obbedisce sostanzialmente alle stesse regole della comunicazione e della interazione sociale nello spazio reale. Il fatto che tutto ciò avvenga sulla base di comunicazioni testuali rende solo più manifesta la funzione “posizionale” di molti atti linguistici, che servono a collocare socialmente se stessi rispetto agli altri e che vengono letti e interpretati come rafforzativi della propria immagine e della propria identità [Poster, 1997]. L’interazione comunicativa comporta una “co-presenza enunciativa”, uno scambio di comunicazioni che non richiede la co-presenza fisica degli interlocutori, ma solo la possibilità di esercitare una influenza reciproca sulle rispettive azioni sociali [Galimberti, 1992]. La CMC si è presentata, già dai suoi esordi, come una comunicazione non gerarchizzata, reticolare, frammentata. La distanza, anche formale, tra individui, gruppi ed istituzioni, si riduce a favore di una comunicazione orizzontale. Caratteristiche come classe, razza, genere, età, modo di vestire possono avere un effetto determinante sulla durata e sulla qualità di una interazione faccia a faccia. Nella CMC tutto ciò è assente o ininfluente. L’interazione avviene solo sulla base di ciò che gli utenti scrivono. La mancanza di barriere sociali rende potenzialmente più facile lo sviluppo di relazioni personalizzate che vanno anche oltre la sfera dell’intimità [Mihalo, 1985].

Qualche precisazione sul concetto di comunità

In un linguaggio approssimativo ormai ampiamente affermato anche tra gli esperti, queste relazioni sociali vengono definite come relazioni “comunitarie”.E’ così che si parla di “comunità virtuali”, di virtual commnunities e di electric communities Oggi appare difficile scardinare una consuetudine linguistica che si è consolidata in brevissimo tempo a livello internazionale. Però, in sede di chiarificazione concettuale, sarebbe bene prestare maggiore attenzione al significato psico-sociale di “comunità”, che è un termine ambiguo dotato di molteplici significati e anche di connotazioni valoriali.  Fondamentalmente i legami sociali tra i membri di una comunità sono basati sui valori condivisi e su un senso di responsabilità reciproca. I valori e i rapporti di reciprocità vengono interiorizzati soprattutto all’interno di interazioni face-to-face in famiglia, nella scuola, nei rapporti di vicinato. Il processo di maturazione dell’individuo procede poi attraverso l’identificazione di comunità più estese: gruppi professionali, associazioni politiche, organizzazioni religiose, identità etniche. Ciascuna di queste comunità deve incorporare il senso di identità dell’altra, per fare in modo che l’appartenenza all’una non sfoci nell’intolleranza della diversità. Dall’equilibrio che si stabilisce tra il rafforzamento dell’unità interna e la distinzione verso l’esterno, dipende la sopravvivenza stessa della comunità, la sua durata nel tempo e le sue caratteristiche. Sono queste le forme di relazione comunitaria, esemplificate soprattutto nei sentimenti di comunione familiare (la solidarietà, l’affetto, l’identità) che stanno al centro della definizione di Gemeinschaft così come la intendeva un po’ romanticamente Ferdinand Tönnies [1887]. Probabilmente lo studioso tedesco sarebbe inorridito dal sapere che la sua nozione di comunità, ancorata ad un’idea della volontà umana che si unisce, anche emozionalmente, in una volontà collettiva, viene applicata ad una aggregazione astratta e spersonalizzata (almeno apparentemente) come la comunicazione tramite computer. Sicuramente egli avrebbe definito questo tipo di aggregazioni sociali digitalizzate come un prodotto della Gesellschaft, e cioè di quell’interesse tipicamente borghese verso la riduzione del mondo a “quantità” e “scambi” rappresentati esemplarmente dal denaro. Il cosiddetto “villaggio globale” post-moderno non ha nulla a che vedere con il villaggio rurale centro-europeo che era nel cuore e nella mente di Tönnies mentre descriveva le relazioni comunitarie. La sua avversione verso la “società dell’interesse”, razionalista, individualista, eterogenea, fluida e pluralistica lo avrebbe portato ad individuare queste stesse caratteristiche anche nelle comunità virtuali nate sulla rete. Non sarebbero di maggiore utilità gli analoghi concetti sviluppati da Max Weber (comunità emozionale o “comunizzazione”) o da Georges Gurvitch (la formazione di un “senso del noi”), basati entrambi sulla elaborazione più o meno complessa della coesione sociale [Weber, 1922; Gurvitch, 1957]. In effetti il concetto di comunità che emerge dall’uso attuale del termine community è piuttosto quello che si è affermatonell’ambito della sociologia empirica e destinato a designare una unità sociale più o meno estesa su base locale. René König, nel suo piccolo ma esemplare dizionario di sociologia, definisce il “gruppo locale” facendo riferimento alle ricerche compiute dai coniugi Lynd, da W. Lloyd Warner e, in generale, dalla sociologia urbana della scuola di Chicago [König, 1958]. La comunità locale, secondo König, benché possa identificare collettività molto diverse tra di loro, è caratterizzata da un territorio comune, dal senso di appartenenza al gruppo intorno ad unità anche minime di organizzazione, dalla tendenza a perdurare nel tempo, dalle definizione di confini che distinguono un gruppo dall’altro, e dalla preferenza per relazioni sociali dirette, rivolte alla persona piuttosto che al ruolo svolto o allo status occupato.

Spazio e territorio nella comunicazione elettronica

Può sembrare paradossale che si parli di “localismo” e di “territorio” in un contesto apparentemente così immateriale come quello di Internet. Nel senso comune la rete si presenta come uno strumento di comunicazione globale, che supera le distanze fisiche e le barriere nazionali e linguistiche. Evidentemente il senso comune non ci aiuta a capire un fenomeno nuovo come questo e pertanto dobbiamo seguire con la massima attenzione questa fase pionieristica in cui si formano le aggregazioni sociali in rete. I concetti di “spazio” e di “territorio” non sono affatto estranei all’idea di comunità virtuale, anzi ne sono una caratteristica distintiva. Non è necessario affrontare un argomento spinoso come la definizione dello spazio per poterne parlare come “oggetto sociale”. Per la maggior parte delle persone lo spazio è un luogo fisico in cui agire: muoversi, parlare, afferrare oggetti, spostarli da una parte all’altra, utilizzarli per costruire altri oggetti. Lo spazio è un ambiente. Il territorio è un ambiente fisico, una superficie abbastanza delimita con dei confini. Noi siamo disposti a concedere allo spazio una maggiore astrattezza rispetto al territorio. Alcuni di noi riescono a concepire lo spazio anche a più dimensioni, ma non è un’esperienza comune. Se parliamo di uno spazio in cui vive un gruppo di persone parliamo di un territorio. Ecco perché, ai fini di questa analisi, possiamo considerare spazio e territorio come sinonimi. Nella CMC lo spazio apparentemente non è una nozione essenziale. Non lo è per la comunicazione telefonica, non si vede perché dovrebbe esserlo per la comunicazione tramite computer. Due persone si scambiano informazioni rimanendo ciascuna a casa propria. Si spediscono una E-mail esattamente come si spediscono una lettera. La distanza non rappresenta un limite per la comunicazione. Eppure con la CMC è nata e si è sviluppata una nuova nozione di spazio: il ciberspazio o cyberspazio. Ha ragione Thomas Maldonado ad attribuire a William Gibson, scrittore di fantascienza, il merito di aver coniato nel romanzo Neuromante [1984] il termine cyberspace, collegando l’idea di spazio elettronico con quella di cibernetica, la scienza dei sistemi artificiali dotati di autoregolazione. Però sbaglia nel ritenere che dall’uso di questo termine siano derivati tutti gli altri ibridi del “cyb” , da cyborg a cyberworlds [Maldonado, 1992]. Almeno per quanto riguarda il cyborg, l’androide, l’unione di macchina e organismo, il termine risale al 1960, ed è nato nei laboratori scientifici del Rockland State Hospital di New York, ad opera di Manfred Clynes e Nathan Kline, due medici impegnati in ricerche finalizzate all’astronautica [Caronia, 1985]. La cosa non è senza importanza e non deve apparire semplicemente una questione filologica. Lo spazio elettronico implica l’esistenza dell’uomo elettronico che lo abita. William Gibson attribuisce al suo personaggio, John Case,delle qualità da avventuriero cyborg, in grado di connettere il proprio sistema nervoso alla Matrice, alle banche dati controllate dalle multinazionali e da immense forze economiche e criminali. Case scorrazza come un cowboy nelle praterie informatiche, il suo organismo elettronico si muove nello spazio della rete, anticipando di una decina d’anni circa l’immaginario collettivo delle esperienze di navigazione in Internet. Il ciberspazio dal punto di vista fisico è generato da componenti materiali (chip, circuiti elettronici, cavi, memorie magnetiche) che non hanno nulla a che fare con lo spazio e non hanno alcuna contiguità. E’ la sua rappresentazione che è strutturata intorno a metafore spaziali e dipende strettamente dalla sua qualità di immaginario condiviso.  E’ stato Pitirim Sorokin a usare il termine “spazio socioculturale” come un luogo in cui i gruppi sociali si riuniscono, anche facendo uso di manufatti che permettono la comunicazione e l’interazione sociale, con lo scopo di creare dei sistemi di significato condivisi: linguaggio, scienza, tecnica, religione, diritto [Sorokin, 1947]. L’universo della relazione sociale non può essere pensato senza un riferimento allo spazio. Secondo Henry Lefebvre vi sono tre nozioni di spazio che si intrecciano e si sovrappongono: lo spazio fisico della natura, lo spazio mentale della logica formale e dell’astrazione matematica, e lo spazio sociale dell’interazione tra gli esseri umani [Lefebvre, 1974]. Erving Goffman, tra tutti, è stato il più categorico e il più preciso nel definire la necessità per gli esseri umani di poter controllare lo spazio delle realtà molteplici in cui si svolge la vita quotidiana. Gli oggetti fisici e il mondo naturale dei corpi (compreso il proprio corpo) rappresentano il sostrato materiale di una complessa rete di relazioni sociali. Questi sono frameworks primari che gli esseri umani nelle loro attività trasformano incessantemente costruendovi intorno delle cornici (frames) che delimitano il loro spazio interpretativo: finzioni teatrali o ludiche; comportamenti cerimoniali e riti religiosi; attività di simulazione e prove tecniche, come gli allenamenti e le fasi di addestramento; ma anche vere e proprie falsificazioni della realtà, e cioè tentativi più o meno riusciti di nascondere il vero o di esibire il falso, il che significa spesso nascondere i confini (i frames) che delimitano il vero e il falso, come le attività spionistiche e le truffe [Goffman, 1974].

Il ciberspazio: il territorio delle comunità virtuali

Come si pone lo spazio elettronico, il ciberspazio, rispetto a queste definizioni? Il ciberspazio è un “flusso elettronico di informazioni “ che ne incrementa la velocità di trasmissione, l’accesso e la manipolazione;pertanto è “una costruzione linguistica” [Cicognani, 1996], un “testo” che viene costruito da coloro che partecipano alla conversazione a vari livelli, dai programmatori agli utenti. Gli eventi nel ciberspazio sono “atti linguistici”. Il ciberspazio nasce come metafora dello spazio, già ancor prima di diventare un spazio condiviso. Si pensi alla prima interfaccia grafica sviluppata dalla Apple e dal Mac. Le icone sono disposte sul desktop come oggetti su una scrivania. Le finestre si aprono cliccando sugli oggetti come cassetti. Le directory si presentano come dei classificatori in uno scaffale. Il bisogno di concepire in qualche modo la nostra presenza corporea nello spazio è diventato ancora più evidente con la diffusione di termini come “navigazione”, “immersione”, “interattività”. La “manina” che compare a rappresentare il cursore quando viene posizionato su una parte sensibile e attiva del testo o di una immagine è una proiezione del nostro corpo nel ciberspazio [Cutler, 1995]. Le comunità che si formano nel ciberspazio non sfuggono a questa regola. Nel descrivere se stesse devono far uso di una qualche proprietà che determini una similitudine con le aggregazioni sociali già note. Con la CMC lo spazio elettronico si trasforma da metafora dello spazio in spazio della metafora. La metafora è uno strumento di conoscenza e genera dunque una distinzione. La similitudine è territoriale e la distinzione è il confine. Tutte le comunità presenti nel ciberspazio sono delimitate da un confine. Il territorio e la localizzazione non hanno, di per sé, nulla a che vedere con le consuete differenze nazionali, etniche o linguistiche. Il territorio è una struttura simbolica che è altrettanto identificabile quanto lo è un territorio fisico.  Il territorio delle comunità elettroniche è identificato dalle pagine web, dalle loro immagini, dai paesaggi, dalle città, dagli ambienti rappresentati in forma grafica o dai testi scritti che li descrivono.  Il territorio comune è spesso (ma non sempre) esplorabile dai visitatori, ma non è modificabile se non attraverso una password che delimita il confine tra chi fa parte della comunità e chi la frequenta solo come ospite.  Il senso di appartenenza è rafforzato da unità organizzative che all’interno della comunità definiscono compiti e responsabilità.  L’aggregazione sociale non è occasionale, maè costituita al fine di perdurare nel tempo e, idealmente, non è legata a persone specifiche puntando piuttosto a trascendere i limiti individuali. Non tutte le aggregazioni sociali in rete sono comunità virtuali. Non tutte le comunità virtuali sono identiche per la natura e il tipo delle comunicazioni. Da un punto di vista sociologico si è abusato del termine rendendolo così euristicamente inutilizzabile. In tutte queste forme di socialità, non diversamente da quelle che avvengono nell’ambiente fisico, vi sono dei problemi comuni: la definizione e il mantenimento degli obiettivi, il monitoraggio dei comportamenti indesiderabili e la eventuali sanzioni, la mobilitazione delle risorse e la loro organizzazione. Lo spazio elettronico è essenzialmente costituito da informazioni e il problema del potere si risolve, in gran parte, in un potere di controllo sull’informazione. L’interazione sociale che avviene in CMC è una interazione “reale”. Il termine “virtuale” non deve indurre in errore. Ciò che gli utenti della rete fanno ogni giorno nel ciberspazio non è diverso da quello che gli stessi utenti fanno nella interazione face-to-face:discutono, anche animatamente, litigano a volte, si insultano, cercano e trovano unaccordo. La conversazione è la loro attività principale. Nella rete si scambiano solo parole, ma gran parte dell’interazione sociale è conversazione e costruzione di testi. La nostra stessa identità viene costruita attraverso la narrazione e per mezzo di testi [Turkle, 1995]. In base a queste riflessioni sul concetto di comunità e di spazio tentiamo di costruire una prima classificazione delle aggregazioni sociali che hanno un fondamento nella CMC. Ovviamente escludiamo a priori quelle forme associative che utilizzano in modo strumentale la CMC, nello stesso modo in cui utilizzano il fax o il telefono, ma non la assumono come forma esclusiva o prioritaria di comunicazione.

Gruppi e forum di discussione

Nella rete i gruppi di discussione sono migliaia e sono dedicati agli argomenti più disparati, dal sesso al mercato dei videogame, dal razzismo allo scambio di coppie, dal volontariato sociale alla politica.  Utilizzano i canali di Interner Relay Chat (IRC), che permettono agli utenti di “chiacchierare” scambiando dei brevi messaggi di testo, e i Newsgroup di Usenet, le conferenze o bacheche elettroniche che raccolgono i messaggi E-mail sulla base di una classificazione per temi e nazionalità.Di per sé questi sono solo dei sistemi di comunicazione multiutente. Il primo, IRC, funziona in tempo reale; il secondo, Usenet, funziona in modo “asincrono” tramite messaggi distribuiti dai news server. Come molti altri sistemi di comunicazione multiutente sviluppati in questi ultimi anni (PowWow, The Palace, ICQ, sistemi chat in Java, ecc.) essi non generano automaticamente delle aggregazioni sociali, ma possono costituiren il fondamento qualora vengano incardinati all’interno di una preesistente volontà degli utenti di associarsi.  Va tenuto presente, inoltre, il grado alto di “rumore” che si presenta all’interno di queste conversazioni. Nonostante la classificazione per argomenti, appaiono spesso messaggi OT (off topic) oppure messaggi ripetitivi o privi di qualsiasi contenuto informativo. Nei newsgroup è più facile orientarsi, anche perché i messaggi non vengono scritti e letti in tempo reale, ma inviati come lettere da affiggere su un muro (bacheca elettronica). In un canale IRC la conversazione è molto più difficile. L’utente di trova spesso in un gruppo di 25-30 persone che parlano tutte insieme. Un osservatore si trova a seguire diversi dialoghi intrecciati e ci vuole un po’ di pratica per imparare a distinguere gli interlocutori. La conversazione su un canale affollato è più o meno impossibile al di sotto di un livello superficiale; alcuni programmi permettono di stabilire delle conversazioni private, ma richiedono una conoscenza tecnica che rimane la di là di una soglia “normale” di utilizzo della rete. Vi sono naturalmente canali più strutturati, dedicati ad argomenti particolari, in cui la presenza di gruppi più piccoli di utenti (da 4 a 10) permette una conversazione più focalizzata e coerente.  Tutti questi sistemi di CMC danno vita a semplici aggregati, paragonabili agli incontri occasionali in una piazza o agli appuntamenti al bar per fare due chiacchiere, ma in nessun caso permettono di individuare una finalità di gruppo. Gli stessi Newsgroup, quelli che più spesso vengono confusi con le comunità virtuali, nella maggior parte dei casi, non sono niente di più che dei “capannelli telematici” di persone che discutono e danno vita ad interessanti scambi di informazioni. In alcuni casi, in funzione degli argomenti politici o sociali trattati, diventano dei forum di discussione, anche molto vivaci, fino a formare una vera e propria opinione pubblica. Diverso è il caso di alcuni Newsgroup basati sulla partecipazione di gruppi professionali o costituiti su argomenti tecnici molto specifici (sistemi operativi, volontariato, prevenzione dell’AIDS,ecc.). La loro funzione informativa è prevalente ed equivale a quella di un bollettino che si aggiorna continuamente e viene inviato a coloro che ne fanno richiesta. La differenza, sostanziale rispetto a un bollettino cartaceo, è che chiunque, tra i lettori, senza alcuna mediazione, può intervenire con suggerimenti, proposte, osservazioni e aggiunte.

Gruppi di distribuzione della posta elettronica

Anche questi sono migliaia. Probabilmente sono molti di più dei Newsgroup e hanno una maggiore rilevanza organizzativa e sociale. Le Mailing List (ML), questa è la loro denominazione, sono semplicemente degli archivi di indirizzi di posta elettronica gestiti automaticamente da un computer e raccolti in un unico indirizzo collettivo, che identifica il gruppo degli iscritti. Ogni messaggio inviato all’indirizzo collettivo viene distribuito automaticamente a tutti. Oggi alcune ML sono gestite da utenti commerciali che le utilizzano per tenere informata la clientela sull’aggiornamento dei propri prodotti. Però, di norma, la ML richiede da parte dell’utente un atto volontario di iscrizione relativo evidentemente all’interesse verso l’argomento della ML. Questo atto di iscrizione delimita lo spazio sociale, ne stabilisce i confini (in alcuni la lista è “chiusa” e non accetta nemmeno messaggi dall’esterno) e pertanto rappresenta uno stato di aggregazione sociale molto più definito rispetto a quello sostanzialmente “aperto” dei Newgroup. Le liste di distribuzione della posta sono una consuetudine all’interno delle comunità virtuali. Non sono sufficienti a definirne le proprietà, ma ne rappresentano una condizione di sviluppo. 

Comunità telematiche interattive o comunità elettroniche 

Possiamo riservare questo nome, che identifica una vera e propria realtà comunitaria, alle aggregazioni sociali che si sono formate utilizzando il Board Bulletin System (BBS) sviluppato nel 1983 da Tom Jennings, programmatore a Boston, ideatore del software “Fido” e della rete Fidonet.Il programma permetteva di costituire una rete amatoriale di utenti che, attraverso lo scambio periodico di file, anticipava quello che alcuni anni dopo sarebbe divenuto Internet. Già nel 1991 Fidonet contava 10.000 nodi e 100.000 utenti sparsi in tutto il mondo. L’interesse di Fidonet, ancora attivo ma in gran parte superato da rete Internet, è soprattutto legato ai costi molto bassi di gestione e al fatto di funzionare su base volontaristica. E’ intorno a questa esperienza che si sono formate le prime “comunità”. La più importane di esse è sicuramente il WELL ( Whole Earth ‘Lectronic Link), nata nel 1986 nella baia di San Francisco e descritta in modo brillante e dettagliato da Howard Rheingold [1993].  The WELL http://www.well.com/ è una comunità che, nei primi tempi, era radicata nella controcultura hippie degli ani Sessanta, ed è paragonabile ai numerosi tentativi di vita comunitaria alternativa di cui è stata protagonista la generazione della “primavera studentesca”. Per molti di loro, dopo venticinque anni, la CMC era un modo per coltivare quegli spazi di vita libertaria che, per la maggior parte, erano rimasti un sogno irrealizzabile.WELL, come poche altre comunità nate nella rete, ha dato vita effettivamente a una comunicazione emozionalmente ricca, basata sull’aiuto reciproco e su una identità collettiva riconosciuta [Rheingold 1993]. Più recente (è nata il 9 dicembre del 1996), ma con le stesse caratteristiche, appare anche Electric Minds http://www.webb.net/.
In Italia leesperienze più interessanti sono:

-        PeaceLink http://www.peacelink.it/;

-        Rete Civica Milanese http://www.retecivica.milano.it/;

-        Agorà http://www.agora.stm.it/;

-        MC-Link http://www.mclink.it;

-        Galactica http://galctica.it/.
Alcune di queste BBS si sono trasformate in reti commerciali, come CompuServe, America ON Line (AOL), Prodigy, negli Stati Uniti, o Mclink e Galactica, in Italia, che hanno costituito la prima ossatura degli Internet Service Provider e che continuano, ancora oggi, a fornire servizi riservati ai propri utenti oltre al consueto accesso alla rete.  Con qualche difficoltà potremmo inserire in questa categoria anche i siti che forniscono pagine web gratuite, tra i quali il più famoso è Geocities http://geocities.yahoo.com/. La difficoltà è relativa al fatto che difficilmente, nonstante gli sforzi compiuti dagli organizzatori con l’invio di un bollettino periodico, con iniziative culturali e ludiche, con l’attribuzione di compiti di coordinamento agli stessi utenti, questi si sentono parte di una collettività. Il loro rapporto è puramente strumentale: il sito offre la gestione di uno spazio gratutito e l’utente si impegna ad occuparlo e a dare ospitalità ad un banner pubblicitario.

Comunità virtuali

Le vere e proprie comunità virtuali, fondate essenzialmente sulla CMC, sono quelle che dall’inizio hanno compiuto una precisa scelta “comunitaria”, impostando l’interazione sociale sulla definizione degli spazi, degli ambienti, delle modalità organizzative dell’interazione e del modo in cui sono possibili le influenze reciproche tra tutti questi elementi. Non sarebbero comunità virtuali se esse non aprissero una finestra in un’altra realtà. Una realtà non meno densa di conseguenze, a volte, ma pur sempre diversa da quella in cui viviamo la nostra vita quotidiana.  Una comunità virtuale non può essere legata a un dominio fisico di esistenza, pur avendo in sé il dinamismo che le permette di esistere. Una comunità virtuale deve prendere sostanza, prima di tutto, dall’interazione tra gli utenti in una CMC e deve dar vita ad eventi che accadono e si esauriscono nella comunità stessa. Il contatto personale tra gli utenti o l’aiuto a risolvere un problema che non riguarda la realtà condivisa nello spazio virtuale è potenzialmente possibile ma non può essere essenziale. In una comunità virtuale, diversamente dalla comunità telematica, la prova dell’esistenza di relazioni reciproche non può venire dall’aiuto che viene generosamente fornito da un medico per guarire la malattia di un utente [Rheingold, 1993], ma dall’invito di un utente a sedersi in un salotto immaginario per accettare l’offerta di una tazza di caffè inesistente. La comunità virtuale deve dare origine ad eventi che hanno un senso all’interno del dominio di esistenza della comunità stessa.  Paradossalmente le comunità virtuali sono un incontro di maschere, luoghi dell’Altrove in cui le anime entrano in comunicazione tra di loro, in cui le identità molteplici che vivono in un unico corpo trovano la loro possibilità di esprimersi. 

Habitat: un progetto pilota

Habitat, sviluppato dalla Lucasfilm Games in associazione con Quantum Computer Services, e sotto la direzione di Chip Morningstar e F. Randall Farmer, è stato sicuramente il primo tentativo di creare un ambiente virtuale multi-utente su vasta scala accessibile all’utenza privata e non specializzata. Habitat, nella sua prima versione (giugno 1986-maggio 1988], era un servizio ideato per gli acquirenti di Commodore 64 e 128. La scelta aveva delle motivazioni commerciali: il Commodore era, allora, l’home computer più venduto per l’intrattenimento e per il gioco. L’obiettivo di Habitat era quello di offrire un ambiente interattivo a basso costo che permettesse ai giocatori di collegarsi da casa con il loro computer, via modem, ad un computer principale gestito da Quantum Link, potendo così ricevere e trasmettere dati in comunicazione con altri giocatori collegati in tempo reale. Un’idea di questo genere aveva trovato delle anticipazioni nella fantascienza, in particolare nel romanzo del matematico ed esperto di computer Vernor Vinge, True Names [1981], nella “Matrice” telematica evocata nel romanzo di William Gibson, Neuromancer [1984] e nei giochi di ruolo (role playing games), all’apice del loro successo [Giuliano, 1991].  L’interfaccia di Habitat, nonostante la semplicità della sua architettura e la bassa velocità di trasmissione dei dati, era di concezione molto elevata. La maggior parte dello schermo era dedicata alla grafica con immagini semplici ma efficaci di ambienti esterni o interni. I giocatori apparivano sullo schermo tramite piccole figure animate, dette “avatar”. Gli ambienti in parte erano costituiti da elementi strutturali, come il cielo, o semplicemente scenografici, come gli alberi. In parte avevano invece una funzione rilevante nelle decisioni del giocatore, come le porte e i passaggi che permettevano all’avatar, muovendosi sullo schermo, di transitare da una locazione all’altra (fino a 20.000 locazioni nella prima versione). Nelle locazioni gli avatar trovavano degli oggetti virtuali - giocattoli, armi, libri e giornali - che potevano essere afferrati, manipolati, messi in una “tasca”, scambiati, venduti e comprati. Infatti Habitat prevedeva anche l’utilizzo di una moneta di scambio, detta “token” in omaggio alla civiltà dei videogame. In questo ciberspazio condiviso gli utenti avevano la possibilità, tramite i loro avatar, di comunicare, scrivendo nell’apposita sezione dedicata ai comandi, di vivere delle avventure, risolvere enigmi, innamorarsi, sposarsi, fare affari, inscenare manifestazioni di protesta. La prima fase del progetto Habitat, che arrivò alla costituzione di una piccola città, Populopolis, abitata da 500 cittadini virtuali, si concluse nel maggio 1988. La versione successiva, Club Caribe, è giunta ad avere 15.000 utenti ed ha funzionato fino al 1994, poco prima che Quantun Link diventasse il maggior provider americano per l’accesso a Internet: America On Line.  Nel 1990, il progetto Habitat continuò in Giappone ad opera della Fujitzu. Dal 21 novembre 1996, Fujitzu Habitat II è accessibile anche via Internet, ma solo in giapponese, e vanta, attualmente, 10.000 utenti. L’esperimento di Habitat, tecnologicamente “povero” rispetto ai mezzi oggi disponibili, ha permesso ai suoi ideatori di fare delle considerazioni importanti sulla costruzione e gestione dello spazio sociale in un ambiente virtuale.  In un ambiente “multi-utente” quello che conta non è la simulazione dell’individuo, della persona che agisce in modo verosimile nell’ambiente, ma il sistema di comunicazione che permette agli utenti di interagire. L’ambiente è definito dall’interazione sociale e non viceversa. Il sistema non può essere determinato a priori e programmato secondo un piano prevedibile in ogni sua parte. Non ci sono scopi prefissati, quindi non è possibile pianificare le decisioni e le azioni dei giocatori. Anche qualora vengano indicati degli scopi occasionali non possibile prevedere il comportamento del sistema. Gli autori citano il caso esemplare di un’avventura ad enigmi, D’nalsi Island Adventure, che aveva richiesto un periodo lunghissimo di preparazione e che, nelle aspettative dei suoi ideatori, avrebbe dovuto impegnare i giocatori per molto tempo, diventando una sorta di sfida in grado di sollecitare interesse e curiosità. Con grande sorpresa, l’avventura è stata portata a termine da un giocatore in sole 8 ore. Questi, nei primi 15 minuti, aveva già risolto l’enigma principale. La maggior parte degli altri utenti non sono nemmeno riusciti ad iniziare la loro avventura. Il problema allora non è di indicare “dall’alto” degli obiettivi e di spingere gli utenti a realizzarli, ma di creare le condizioni per far nascere gli obiettivi dagli utenti stessi e dare loro la possibilità di conseguirli.  L’ambiente interattivo, per quanto fittizio, crea uno spazio sociale condiviso che riproduce, non nella “rappresentazione” - che è del tutto secondaria - ma nei “significati”, le stesse problematiche della vita reale. In tema di violenza, ad esempio, sono emersi dei comportamenti molto interessanti dal punto di vista sociale. All’interno di Habitat venne consentito, a un certo punto, di introdurre tra gli oggetti delle armi, e quindi divenne necessario rappresentare la morte dell’avatar che, una volta ucciso, veniva teleportato istantaneamente nella sua “casa virtuale”, in cui appariva con la “testa in mano” e con le tasche vuote, mentre ogni oggetto che aveva in suo possesso in quel momento rimaneva sulla scena del crimine. Questa “metafora della morte” suscitò un dibattito sul potenziale di violenza esprimibile tramite un’estensione dell’essere umano come l’avatar e sulla possibilità di proibire l’uso della armi. Le opinioni erano discordanti, ma senza una netta prevalenza dei favorevoli e dei contrari. Allora le armi vennero permesse solo nelle locazioni “fuori città”, creando le premesse per un controllo sociale e per una normativa giuridica. Gli abitanti di Populopolis decisero di nominare uno sceriffo, mentre uno degli utenti, un sacerdote greco-ortodosso nella vita reale, decise di fondare un movimento contro la violenza che divenne la prima Chiesa di Habitat (Order of the Holy Walnut).  La realtà fittizia condivisa da più persone che interagiscono tra di loro mediante conversazioni a distanza crea e sollecita il bisogno di conferire una coerenza e una stabilità a questa realtà, dotandola di senso, esattamente nello stesso modo in cui si creano le regole della convivenza sociale. Una delle esperienze più significative a questo proposito è costituita dall’episodio di Death and The Shadow. Sul giornale di Habitat, The Rat, da diverse settimane veniva pubblicato un annuncio in cui due operatori di sistema, denominati Duo of Dread, sfidavano gli utenti ad entrare nella loro tana fuori città (per la proibizione di portare le armi di cui si è parlato precedentemente), una sorta di labirinto in cui essi sparavano agli intrusi con un’arma speciale che uccideva l’avatar in un colpo solo, anziché nei 12 colpi regolamentari. Inoltre essi disponevano di cure particolari per sopravvivere ai colpi inferti dagli altri avatar. In pratica era quasi impossibile ucciderli.  Accadde inaspettatamente che, nel cambiamento del turno di lavoro, l’operatore che stava interpretando il ruolo di Death si dimenticò di guarire le ferite che il personaggio aveva ricevuto e accumulato fino a quel momento. L’operatore successivo non si accorse dell’errore, cosicché quando Death si trovò costretto in un angolo da quattro avatar venne ucciso. Secondo la normale procedura il personaggio venne teleportato a “casa” e gli oggetti che aveva in mano caddero a terra nella locazione in cui si trovava in quel momento. Tra questi oggetti vi era l’arma speciale appositamente costruita per lui. Uno dei giocatori la raccolse con il suo avatar e la fece propria. Era evidente, a questo punto, che l’arma non era regolare in mano a un giocatore-utente perché era stata concepita ad uso esclusivo di un giocatore-operatore. Tuttavia l’interessato riteneva di averla conquistata regolarmente e quindi sosteneva ostinatamente di avere il diritto di tenerla per sé. Per risolvere la questione fu necessario intavolare una trattativa, rimanendo rigorosamente all’interno della realtà fittizia costruita per non violare le regole di “verosimiglianza” del mondo. La trattativa fu lunga e si concluse con uno scambio che avvenne nella piazza al centro della città, con avatar che agivano da intermediari, e con il pagamento da parte di Death di 10.000 tokens (le monete di Habitat). Da queste esperienze appare evidente che l’elemento caratterizzante degli ambienti virtuali multi-utente è rappresentato dalle possibilità di interazione e comunicazione e non dalla tecnologia con cui è costruito. 

La situazione attuale

Colonycity http://www.colonycity,com/, che si presenta come uno degli esperimenti più avanzati di costruzione di una comunità elettronica in rete, ha un’interfaccia grafica che suggerisce l’idea di una colonia avveniristica, con un corpo centrale rappresentato da una piazza in cui avvengono più frequentemente gli incontri tra i “coloni” che chiacchierano tra di loro tramite un programma in chat, e diversi servizi collegati (cinema, bar, teatro, centro commerciale, biblioteca, piscina, ecc.). L’utente nel momento dell’iscrizione sceglie un nome, una password personale e una zona in cui collocare la sua abitazione. In essa potrà ricevere gli amici, chiacchierare con loro in modo riservato e anche offrire delle feste e dei party, più o meno riservati, dei quali viene data notizia sull’albo degli appuntamenti cittadini. Colonycity permette agli utenti più assidui e più esperti di costruire la propria abitazione in 3D, con un vero e proprio arredamento degli interni e di dare visibilità al proprio personaggio con un avatar grafico che si muove all’interno in questi ambienti. Sono una decina in tutto le comunità virtuali che presentano modalità analoghe a Colonycity. Alcune sono ancora in una fase sperimentale ed è prematuro scommettere sul loro effettivo sviluppo e sulla loro durata. In Italia è nato recentemente Utopia <http://www.cittavirtuale.org/>, un progetto complesso che prevede un accesso a pagamento con delle procedure molto simili a quelle di una tradizionale comunità municipale o addirittura nazionale, con una vera a propria carta d’identità e che permette di accedere a servizi riservati ai cittadini. 

MUD e MU*: comunità ludiche

La forma più ambiziosa e avanzata di comunità virtuale è rappresentata dai MUD (un acronimo che sta per Multi-User Dimension o Multi-User Dungeon) o MU* , con i quali si identificano genericamente, nella letteratura specialistica, i programmi di comunicazione multi-utente che che creano degli ambienti testuali o grafici. Sono un circa mille e sono frequentati da centinaia di migliaia di utenti. Alcuni MU* sono presenti costantemente dalla loro nascita (come il famoso DragonMUD, nato nel 1989), altri chiudono dopo qualche mese, altri ancora evolvono verso nuovi modelli sempre più avanzati che includono la grafica, il suono e la navigazione tridimensionale. Tutte queste varianti rispondono a diverse necessità di interazione e di hardware, pertanto convivono modelli ad uno stato diverso di evoluzione: i più vecchi non vengono necessariamente sostituiti dai più avanzati. Un esperimento interessante, in lingua italiana, è rappresentato da Little Italy http://kame.usr.dsi.unimi.it:4444/, un MOO residente sulle macchine dell'Università di Milano e diretto daGianni Degli Antoni. Little Italy è attivo dal 1991 e ha superato i 2000 utenti, con punte di connessione, specialmente nella fascia oraria pomeridiana, che arrivano a 80-90 utenti presenti contemporaneamente in rete.  Un MU* èun programma che crea un ambiente virtuale, basato su messaggi di testo, reso accessibile in Internet tramite un collegamento Telnet, cioè tramite un protocollo di comunicazione con il quale un utente entra in collegamento con un computer ospitante remoto. In pratica il computer dell’utente diventa temporaneamente un terminale del computer remoto principale. Il MU* permette una esplorazione dello spazio virtuale. Diversamente dai canali IRC, i canali del MU* sono collegati tra loro con “porte” attraverso le quali è possibile entrare e uscire. La metafora della stanza dell’IRC (diverse persone che conversano in un ambiente comune) diventa facilmente la metafora spaziale della casa, del castello o del sotterraneo (da cui Multi-User Dungeon). Non è difficile immaginare che vi sia un collegamento tra una stanza e l’altra in modo che il tutto si configuri come una planimetria, con quattro punti cardinali (nord, sud, est, ovest) che aiutano il visitatore ad orientarsi, e magari anche un sopra e un sotto (up, down) che conferiscono alla struttura una sua tridimensionalità. Il complesso delle “stanze” costituisce così un universo chiuso nel quale l’utente può immaginare di “camminare”, soffermandosi di quando in quando a chiacchierare con gli altri utenti che incontra nelle stanze da lui attraversate. Di fatto le stesse stanze diventano un vero e proprio spazio, in cui non vi sono pareti ma orizzonti descrittivi, “locazioni” isolate in un paesaggio immaginario. In questo ambiente i visitatori possono chiacchierare come in un IRC, ma, data la sua struttura spaziale, possono anche interagire con l’ambiente virtuale e con gli altri utenti collegati. Per farlo è sufficiente che le “locazioni” siano descritte in un certo modo, una diversa dall’altra, e che il programma permetta agli utenti di manovrare degli“oggetti” (anelli, spade, pergamene), per poter immaginare che l’universo virtuale del MUD possa diventare uno spazio condiviso nel quale poter compiere delle avventure fantastiche, collaborare alla soluzione di problemi o interagire in un corso di apprendimento.  In un MU* l’utente-giocatore dispone di un personaggio, che rappresenta il “corpo” che si muove nello spazio fisico simulato utilizzando dei comandi del tipo: ‘go north’, per dire vai a nord; oppure ‘w’, per dire ‘go west’, vai a ovest. Ogni MU* ha i suoi comandi specifici, ma tutti devono avere almeno i comandi di movimento e alcuni comandi fondamentali come: ‘get’ (prendi), ‘drop’ (lascia), ‘say’ (parla), ‘inventory’ (inventario), ‘score’ (punteggio), ‘help’ (istruzioni d’aiuto) e ‘quit’ (esci dal MU*). Molti pensano che il MU* sia soltanto un gioco. Guidati da un pregiudizio diffuso che tende a screditare le attività ludiche dei giovani e degli adulti quando non sono strettamente legate alle attività sportive, non si rendono conto che questi strumenti sono la punta più avanzata della sperimentazione multimediale. In effetti la maggior parte dei MU* sono utilizzati come giochi, ma sempre più numerose sono le applicazioni in campo educativo, di ricerca o di socializzazione in generale. Tra queste applicazioni vi sono i colleges e i campus virtuali, quelli dedicati a discussioni ed esperimenti tra specialisti, oppure quelli dedicati alla educazione e formazione degli studenti disabili. La prova di questo interesse e dell’enorme impegno di capitali che esso comporta è evidente nei soggetti che hanno deciso di investire in questa sperimentazione, tra i quali: British Telecom, Black Sun Interactive, Sony, Mitsubischi, IBM, Microsoft, Time Warner, Sierra On-Line e America On-line. 

Comunità virtuali che creano comunità immaginarie

E’ difficile definire in modo univoco in che cosa consiste il “gioco” all’interno di un MU*. Ciascuno di essi ha le proprie modalità, soprattutto in riferimento agli scopi che i giocatori possono perseguire. Quando le regole del gioco stabiliscono una gerarchia tra i giocatori e un sistema di avanzamento da una gerarchia all’altra, questo significa che il programma prevede una regolamentazione delle interazioni tra i giocatori e il mondo, e tra i giocatori stessi. In alcuni casi viene premiata la capacità di risolvere problemi, in altri di combattere, in altri ancora di attivare la socializzazione reciproca e di contribuire alla costruzione del mondo. Un MU* è una collettività sociale e come tutte le altre collettività è dotato di norme che stabiliscono in che modo è possibile acquisire i mezzi per controllare l’ambiente (si tratti di abilità, incantesimi, denaro o armi) ottenere gratificazioni e ricompense.  Ogni MU* ha una sua “atmosfera”, qualcosa nella gestione delle regole, nella descrizione delle stanze, nell’ambientazione suggerita e nei giocatori che lo frequentano che gli conferisce un certo tono inconfondibile. Più l’ambientazione è circoscritta e prende i suoi riferimenti nella letteratura e nel cinema, e più i giocatori devono essere controllati nei loro contributi alla creazione del mondo. Un cavaliere medievale con il cappello da cowboy può essere divertente da immaginare e da descrivere, ma non tutti i giocatori di un’ambientazione fantasy potrebbero gradire questa mancanza di coerenza nell’abbigliamento. Le regole e le restrizioni imposte ai giocatori hanno l’unico scopo di rendere più realistico l’ambiente di gioco, di differenziare i personaggi (per esempio utilizzando le “classi” e le “razze”) e qualificare i ruoli da essi svolti.  Non bisogna credere però che l’ambientazione sia sempre condizionante rispetto ai ruoli interpretati e che i ruoli stessi siano strettamente rilevanti nella comunicazione tra gli utenti del MU*. Questo accade soltanto nei MU* che hanno un preciso riferimento al gioco di ruolo. Pavel Curtis, per esempio, sostiene che nella maggior parte dei MU* la descrizione di personaggi, ambienti e oggetti sono soltanto un pretesto per creare occasioni di incontro e conversazione tra le persone “reali” che comunicano tramite il computer [Curtis 1992]. Secondo Curtis, una buona parte degli utenti si stanca rapidamente di interpretare un personaggio coerente con una personalità distinta dalla propria. Ciò che gli utenti desiderano, semplicemente, è di interagire e conversare con altre persone in una situazione protetta in cui tutto ciò che viene scritto appare come “reale”. Il fatto che una persona decida di chiamarsi “Gandalf” (il mago protagonista de Il signore degli anelli, di J.R.R. Tolkien), non significa necessariamente che all’interno del MU* egli debba comportarsi come un mago. Il nome viene estrapolato da un contesto immaginario e viene utilizzato come una icona.E’ molto più significativo invece il carattere anonimo della conversazione, la garanzia che l’utente ha di essere identificato solo dall’icona che egli ha scelto a rappresentarlo e di essere conosciuto dagli interlocutori solo in base a quello che egli ha progettato di essere.  Questo è vero, ma solo limitatamente ad alcuni MU* che non si propongono di costruire ambientazioni coerenti e tracce narrative in cui inserire i personaggi. Le tendenze più recenti, specialmente se sostenute dalla grafica, mostrano invece che molti giocatori cercano nel MU* proprio questa coerenza di interpretazione, sebbene poi venga assunta liberamente da ciascuno secondo il proprio gusto e stile. Nei MU* orientati all’avventura e al gioco di ruolo, la presenza di gilde e gruppi organizzati che offrono ai propri membri prerogative e vantaggi inerenti al ruolo svolto sono una dimostrazione di questo interesse. Quando un utente entra in un MU* può utilizzare un comando che gli permette di sapere chi sono gli altri utenti collegati e anche di individuare l’area o la stanza in cui si trovano. Questo crea una sorta di addensamento degli utenti nei luoghi più frequentati, in cui è più facile incontrare persone con cui parlare. Vi possono essere utenti che non si sono mai incontrati, dal momento che i loro collegamenti avvengono sempre in orari diversi, ma questo non significa che non si sentano parte di una collettività. L’identità collettiva è costruita attraverso lo stile comune di conversazione,attraverso gli argomenti ricorrenti, la frequentazioni di luoghi conosciuti da tutti, la presenza di wizards o amministratori che appaiono come i detentori delle “cariche pubbliche” all’interno del mondo virtuale. Senza contare la continuità narrativa che per alcuni MU*, come si è visto, è caratterizzante fino a coincidere in gran parte con le modalità di gioco tipiche del gioco di ruolo vero e proprio.

Gli utenti del MU*: una ricerca

Gli utenti di un MU* non sono un campione rappresentativo della popolazione che frequenta Internet. La maggior parte dei MU* è in lingua inglese e quindi richiede da parte degli utenti una buona capacità di esprimersi in quella lingua in forma scritta. Inoltre si sviluppano rapidamente delle forme gergali che sono particolarmente difficili per coloro che non hanno una padronanza linguistica. Il 90% è dotato di un account presso colleges e università. In un primo tempo erano quasi tutti studenti dei corsi di informatica, ma ultimamente lo sviluppo della Rete, specialmente negli USA, si è esteso in tutti gli altri settori scientifici e ora la partecipazione è sicuramente più ampia.  Una ricerca svolta personalmente da ottobre a dicembre 1997, attraversoun questionario in rete al quale hanno risposto 409 giocatori, ha permesso di ricavare le seguenti informazioni:

Tab. 1 - Giocatori dei MU* (Base = 409 - val. %)

SESSO MASCHI FEMMINE IN COMPLESSO
(ness. risposta: 8) 85,6 12,4 100,0
GRUPPI DI ETA'      
< 16 anni 8,0 5,9 7,6
16-20 anni 33,2 29,4 32,5
21-25 anni 33,7 39,2 34,2
26-30 anni 10,6 17,6 11,7
31-40 anni 11,4 3,9 10,3
> 40 anni 1,1 2,0 1,2
n.r. 2,0 2,0 2,5
Totale 100,0 100,0 100,0
POZIZ. PROFESSIONALE      
Studente 66,3 47,1 63,8
Occupato 30,0 43,1 31,6
Altro 3,7 9,8 4,6
Totale 100,0 100,0 100,0
NAZIONALITA'      
USA e Canada 45,4 64,7 47,4
Italia 35,4 17,6 33,3
Europa 13,1 9,8 13,0
Altri Paesi 6,1 5,9 5,8
n.r. -- 2,0 0,5
Totale 100,0 100,0 100,0
  Tenuto conto della ovvia non rappresentatività campionaria dei rispondenti e della presenza consistente degli italiani, dovuta alla collocazione dei questionari (in lingua inglese e in lingua italiana) sul sito www.mclink.it, nel loro complesso i dati confermano le osservazioni di operatori ed esperti. Gli utenti sono in forte prevalenza maschi, per il 74,3% sono giovani sotto i 25 anni, e per il 63,8% sono studenti.  Quello che è più interessante, ai fini della valutazione dell’attività come interazione sufficientemente continuativa da creare una aggregazione sociale comunitaria, è la frequenza di accesso al MU*.

Tab. 2a - Quanto spesso entri in un MUD?
Risposte secondo il sesso e la nazionalità (Val. % - n.r. = 8).

  STRANIERI     ITALIANI    
FREQUENZA MASCHI FEMMINE IN COMPLESSO MASCHI FEMMINE IN COMPLESSO
< 2 volte al mese  8,8 7,1 8,6 8,1 22,2 9,6
1-3 volte la settimana 17,3 19,0 17,3 24,2 55,6 25,7
Ogni giorno 73,5 71,4 73,4 62,9 22,2 60,3
n.r. 0,4 2,5 0,7 4,8 -- 4,4
Totale 100,0 100,0 100,0 100,0 100,0 100,0
Base 226 42 271 124 9 136

Tab.2b - Quanto spesso entri in un MUD?
Risposte secondo il gruppo di età (Val. % - n.r. = 10)

FREQUENZA <16 ANNI 16-20 ANNI  21-25 ANNI  26-30 ANNI  31-40 ANNI >40 ANNI
< di 2 volte al mese 12,9 9,8 7,1 8,3 7,1 ---
1-3 volte la settimana 22,6 19,5 18,6 29,1 16,7 40,0
Ogni giorno 64,5 70,7 72,1 56,3 71,4 60,0
n.r. -- -- 2,2 6,3 4,8 --
Totale 100,0 100,0 100,0 100,0 100,0 100,0
Base 31 133 140 48 42 5
  Il 73,4% del gruppo “internazionale” fa un uso continuativo del MU* (ogni giorno), senza alcuna differenza significativa rispetto al genere: evidentemente una volta superate accettate le difficoltà di accesso e manifestato l’interesse per questo tipo di interazione mediata tecnologicamente, maschi e femmine si equivalgono nelle modalità d’uso. Il gruppo degli italiani è un po’ meno maturo, da questo punto di vista, e conferma le attese differenze tra maschi e femmine. Partecipare alla vita di un MU* è divertente. Molti giocatori trovano eccitante e coinvolgente provare le sensazioni legate al rischio del combattimento: uccidere o essere uccisi. Un po’ come accade, simbolicamente, in un gioco d’azzardo. Altri, soprattutto i giocatori ruolo, trovano il loro interesse nel fingere di essere qualcun altro e nel far credere di essere qualcun altro. Però la maggior parte del tempo in un MU* è dedicata alla conversazione, specialmente nei MU* a carattere “sociale”. L’attività di costruzione del mondo è riservata a pochi e, in termini di tempo, non è certo la più importante. Il MU* soddisfa un bisogno di comunicazione, non diversamente da una linea chat. In più offre un mondo condiviso che rafforza il legame con gli altri giocatori creando uno spazio sociale di interazione in cui potenziare la propria identità. Questo è quello che fa la differenza ed è ciò che in misura maggiore o minore caratterizza tutti i MU*. Un buon MU* è un mondo verosimile. Funziona nello stesso modo di un mondo reale e offre ai giocatori-utenti delle emozioni identiche a quelle vissute nel mondo reale. In un chat line non accade nulla. Gli utenti in un canale chat discutono, comunicano tra di loro ma non interagiscono in senso proprio. E’ questo tipo di interazione in cui l’altro è effettivamente presente nel “mondo” come soggetto e oggetto che rende il MU* così simile alla realtà da costituirsi come esperienza condivisa. Il MU* è un vero e proprio mondo virtuale creato attraverso l’interazione dei giocatori e viene vissuto da essi come un “mondo parallelo” in cui è sempre possibile, in qualsiasi momento della giornata, varcare la soglia e immergersi come in una seconda vita [Turkle 1995:14].

Conclusione: comunità emergenti nello spazio del sapere 

La creazione di un ambiente condiviso dagli abitanti del ciberspazio è uno degli obiettivi fondamentali che lo sviluppo di Internet pone per il futuro. Da un punto di vista sociologico il ciberspazio è uno dei luoghi del paesaggio mediatico e fa parte ormai del modo di vita di moltissime persone nei paesi industrializzati [Shields, 1996]. Secondo Randy Stoecker la sfida più interessante di Internet sta proprio nell’aggiungere alle “tecnologie della scelta”, rappresentate dalla videoregistrazione, i concetti del tutto nuovi di “interattività” e di “diversità” [Stoecker, 1998]. Gli utenti della CMC diventano essi stessi produttori di informazione in un ambiente multiculturale, in grado di spezzare le barriere linguistiche. Il predominio della lingua inglese non impedisce la diffusione delle altre lingue. I motori di ricerca, per esempio, sono sensibili a tutte le lingue presenti nella rete, si diffondono i programmi automatici di traduzione, e i siti più importanti che organizzano l’informazione (portal) e che si offrono come guida alla navigazione degli utenti hanno pagine dedicate alle diverse identitàlinguistiche. Questa qualità dell’utente come produttore di informazioni è, secondo DeKerckhove, quanto distingue la struttura mentale cibernetica (inter-brainframe) dalla struttura mentale televisiva (video-frame) che ha generato la cultura di massa[DeKerckhove, 1991]. In tutte le aggregazioni sociali di tipo comunitario di cui abbiamo cercato di delineare le caratteristiche comuni, abbiamo identificato la presenza di uno spazio, di un “territorio digitalizzato”. I membri di queste comunità tendono a rappresentare metaforicamente il “luogo” delle loro interazioni e conversazioni attraverso uno spazio condiviso che rimanda ai luoghi dell’esperienza: la stanza, la casa, la piazza, la città, il paesaggio. In moltissimi casi,e in tutti quelli che hanno dato vita a gruppi di interazione stabile e continuata nel tempo, vi è la necessità di sottolineare la demarcazione di un confine, operare una distinzione, attribuire un’appartenenza. Pierre Lévy denomina questa nuova forma di spazio antropologico come “Spazio del sapere”, in una sorta di cammino evolutivo che ha portato alla coesistenza attuale dello “Spazio della Terra”, il luogo del nomadismo e della formazione delle identità forti, il clan, il totem, il mito; dello “Spazio del territorio”, il luogo di formazione degli Stati, della scrittura, delle religioni, della densità morale; e dello “Spazio delle merci”, il luogo di formazione dei rapporti di produzione e consumo, della moneta, del mercato [Lévy, 1996].  Lo Spazio del sapere è un non-luogo; è una tendenza, è una potenzialità. Secondo Lévy è una opportunità diliberazione delle conoscenze, l’alba di una nuova dimensione esistenziale. Lo Spazio del sapere non si sovrappone agli altri spazi, ma ne è condizionato. Si pensi all’intervento già significativo del commercio elettronico (E-commerce) e delle transazioni finanziarie che operano nello Spazio delle merci. Si pensi al peso normativo che hanno sulla Rete le burocrazie statali e le identità nazionali che operano nello Spazio del territorio. E infine si pensi all’influenza esercitata dall’immaginario collettivo, dalle nuove forme di misticismo, dal fascino dei fondamentalismi religiosi ed etnici che trovano sulla Rete un forte potenziale di visibilità e che appartengono inequivocabilmente allo Spazio della Terra.  Lo spazio del Sapere, che non è soltanto competenza tecnica e scientifica, ma è un complesso spazio semiotico fatto di emozioni, apprendimento, condivisione di esperienze, conoscenze e affetti, è lo spazio in cui si formano e vivono le comunità virtuali, comunità che sono, parafrasando Shakespeare, “della stessa sostanza di cui sono fatti i segni”. Una forma di socialità a tutto campo, dunque, che ci può svelare qualcosa di più sulle regole di funzionamento della società e ci può aprire qualche finestra sul futuro della comunicazione.