Iakov Levi e Luigi Previdi

“ES” E “IO” NELLO SPECCHIO DI APOLLO E DI DIONISO
La società apollinea e il suo confronto con il dionisiaco

Pubblicato in  TEORIE  E  MODELLI. Rivista di storia e metodologia della psicologia, a cura di Giuseppe Mucciarelli, V.3.2000, Pitagora Editrice, Bologna 2001. L'articolo riassume i capitoli I, III e VIII di Occidente e Oriente nello specchio di Dioniso e di Apollo

Riassunto

In questo lavoro, ci concentriamo sull’equivalenza dei concetti di “Es” e “Io”, descritti da Freud, con quelli di “Dionisiaco” e “Apollineo”, descritti da Nietzsche. Seguendo questi pensatori, mostriamo come sia possibile giungere a una migliore comprensione delle diverse società umane, le loro evoluzioni, sentimenti e il loro modus. In particolare, la storia della società occidentale viene vista come una continua lotta tra queste due istanze: proponiamo una spiegazione dell’antisemitismo, come una deficienza caratteriale della società occidentale, quando questa sperimenta una regressione verso il modus arcaico-dionisiaco, e una critica delle opinioni di Freud sul cristianesimo come continuazione del giudaismo, che risulta piuttosto una cultura rimasta legata al modo dionisiaco, mentre il cristianesimo elaborò una sintesi tra elementi apollinei e dionisiaci della stessa civiltà greco-ellenistica, senza alcun riferimento al contesto giudaico.


Nietzsche ci ha mostrato come la società greca, la sua arte e la sua cultura siano state il risultato della tensione tra due poli opposti: il dionisiaco e l’apollineo (1).
Il grande filosofo attribuisce ad Apollo l’arte figurativa e l’ebbrezza raggiunta attraverso il medium dell’occhio e della visione, e a  Dioniso “l’arte non figurativa della musica” e l’ebbrezza raggiunta attraverso la danza e la scarica orgiastica. Queste diverse peculiarità che caratterizzano la sostanza dei due dei vengono definite da Nietzsche “impulsi contrastanti”.
I due dei greci diventano così la rappresentazione proiettata all’esterno di due istanze psichiche.
Noi cercheremo nelle seguenti pagine di fare luce sui contenuti esistenziali di queste rappresentazioni e sul loro significato, ispirandoci alle folgoranti intuizioni Nietzschiane e alle scoperte della psicoanalisi.
Apollo, come dio di tutte le capacità figurative è insieme il dio divinante; egli è anche il dio della bellezza, della luce e del sole. Egli  è il dio dell’occhio, e infatti questo organo è quello che più di tutti gli altri fa da ponte tra il mondo esterno e quello interno, la sua sapienza è quella di ciò che vede fuori per “insegnarlo” all’interno.
Apollo diventerà il simbolo stesso delle conquiste della civiltà occidentale: dell’arte, della scienza, della filosofia e dello stesso vivere civile, inteso questo come espressione di un’armonia universale suggellata dall’ecumenismo apollineo, lo strumento che sconfigge la barbarie del mondo preclassico.
Dioniso, invece, è il dio degli impulsi naturali sfrenati, “della realtà piena di ebbrezza, che a sua volta non tiene conto dell’individuo, e cerca anzi di annientare l’individuo e di liberarlo con un sentimento mistico di unità” (2).
Freud, dopo Nietzsche, nell’analizzare la psiche umana, isolerà un’istanza che ci ricorda in tutto le caratteristiche del dio: non la chiamerà Dioniso bensì Es. Questo è quello che ci dice di questa provincia psichica:

All’Es ci avviciniamo con paragoni: lo chiamiamo un caos. Un crogiolo di eccitamenti ribollenti. Ce lo rappresentiamo come aperto alle estremità verso il somatico, da cui accoglie i bisogni pulsionali, i quali trovano dunque nell’Es la loro espressione psichica, non sappiamo però in quale substrato. Attingendo alle pulsioni, l’Es si riempe di energia, ma non possiede un’organizzazione, non esprime una volontà unitaria, ma solo lo sforzo di ottenere soddisfacimento per i bisogni pulsionali nell’osservanza del principio di piacere. Le leggi del pensiero logico non valgono per i processi dell’Es, soprattutto non vale il principio di contraddizione. Impulsi contrari sussistono uno accanto all’altro, senza annullarsi o diminuirsi a vicenda; tutt’al più, sotto la dominante costrizione economica di scaricare energia, convergono in formazioni di compromesso, non conosce né giudizi di valore, né il bene e il male, né la moralità. Il fattore economico o, se volete, quantitativo, strettamente connesso al principio di piacere, domina ivi tutti i processi. Investimenti pulsionali che esigono la scarica: a parer nostro nell’Es non c’è altro (3).
Se ritorniamo alle parole di Nietzsche: “Nello stato dionisiaco per contro l’intero sistema degli affetti è eccitato e potenziato, in modo che questo scarica in una volta tutti i suoi mezzi espressivi” (4), pare proprio che entrambi stiano parlando della stessa cosa. Il “non esprime una volontà unitaria” di Freud era stato per contro: “un sentimento mistico di unità per il primo, ma la volontà unitaria di Freud, dal resto del contesto, va intesa come unitaria nel senso della psiche nel suo complesso, ovvero l’Es non tende alla coerenza con le altre istanze psichiche descritte, l’Io e il Super- Io (5). Per quello che riguarda la meta delle pulsioni provenienti da questa provincia psichica, quella della scarica, l’Es freudiano ci pare molto coerente nel suo scopo. Se riesce a prescindere dalla funzione inibitoria delle altre istanze psichiche con cui deve condividere il dominio della personalità, una volta ottenuta la scarica “il senso mistico di unità” nietzschiano è esattamente quello che viene raggiunto: questo infatti è il momento dell’orgasmo, apice del fine dell’Es.
Nella figura di Dioniso si condensano gli aspetti più arcaici e primitivi della psiche umana e della struttura stessa della società. Il dio rappresenta i primordi, il punto di partenza, dell’ organizzazione mentale e sociale umana.
Come Freud ci ha mostrato, il primo parricidio fu la fonte del senso di colpa, della moralità e dell’evoluzione sociale.
Nel mito orfico dello sbranamento del dio da parte dei Titani, possiamo ritrovare le tracce del più antico rito: il pasto totemico che fu la rappresentazione della ripetizione dell’atto stesso:
I Titani arrivarono come morti dagli Inferi, dove Zeus li aveva relegati, colsero di sorpresa il bambino che giocava, lo lacerarono, lo tagliarono in sette pezzi e li gettarono in una caldaia che stava in un tripode. Quando la carne fu cotta, essi incominciarono ad arrostirla su sette piedi. Secondo una delle versioni le membra cotte del dio furono sepolte e da esse nacque la vite. Anche i seguaci di Orfeo dicevano che l’ultimo dono di Dioniso sarebbe stato il vino e chiamavano lui stesso Eno, “vino” (6) .
Più tardi risorse, con l’aiuto di Demetra che ne raccolse i pezzi. Questo mito ricorda in tutto i riti del pasto totemico tribale (7), in cui viene ripetuta la cerimonia di uccisione del totem, la sua incorporazione, attraverso il pasto totemico, e la sua resurrezione. Nei riti della pubertà  l’iniziato condensa in sé sia la figura del padre, che viene simbolicamente ucciso, sia quella dell’uccisore che ne espia la pena. Dalla morte simbolica risusciterà purificato (8).
I Greci divinizzarono quindi sia la sfrenatezza del dio, ovvero la freudiana dominante costrizione economica di scaricare energia che l’inevitabile espiazione. Invece di rimuovere le pulsioni antisociali, (la scarica dell’Es), davano loro piena espressione nella fantasia e nel mito, accettando anche il dolore che questo implicava. Così il mito di Dioniso condensa sia le pulsioni erotiche più primarie e sfrenate, sia la passione dell’espiazione, ricalcando i contenuti mentali degli arcaici riti tribali del pasto totemico e d’iniziazione puberale. Il primo parricidio, e l’atto cannibalistico che ne era conseguito, furono infatti la prima scarica orgiastica, dopo che la presenza inibitrice del padre dell’orda era stata rimossa (9).
Nella tragedia primordiale, prima che il senso di colpa ristabilisse la presenza del Padre come Super –Io, le pulsioni dell’Es avevano trovato piena espressione.
Come ha rilevato Baudrillard (10), ricalcando suo malgrado l’intuizione di Freud (11) , gli antichi, come le tribù primitive prima di loro e dei giorni nostri, concepivano l’esistenza come un’equazione, in cui gli opposti si fondono in un’unica equivalenza, e non a modo nostro, come una dialettica di concetti che si escludono a vicenda.
Apollo non era, all’inizio, il contrario di Dioniso, bensì l’altro aspetto, e questi due dei, insieme, davano espressione alla realtà esistenziale percepita dai Greci.
Le pulsioni incontrollate, personificate da Dioniso, non rappresentavano un polo morale, o meglio, come si direbbe oggi, immorale, bensì erano accettate per quello che sono: una parte del proprio sé.
In breve: Dioniso era l’altra faccia della moneta di Apollo.
La scissione di un unico concetto, sintesi di questa realtà esistenziale in due parametri divergenti fino all’antitesi, è l’oggetto di studio del presente lavoro. Le società che si strutturarono a Polis sentirono conseguentemente il bisogno di cancellare dall’immagine della propria auto-identità l’aspetto dionisiaco-bestiale, ora rimuovendolo violentemente, ora sublimandolo nelle conquiste apollinee, ma l’aspetto rimosso, l’altra faccia della moneta, riemergerà sempre, durante tutta la storia occidentale nella figura di un alter che diventerà il poison container e il capro espiatorio dei contenuti rimossi.

Nella prima metà del primo millennio a.C., presso i greci, Dioniso e Apollo si contesero il primato: la società fu fecondata, e poté arrivare agli apici della sua creatività per merito della tensione onnipresente fra queste due divinità, che già ora possiamo definire istanze psichiche, proiezioni esterne di contenuti affettivi collettivi la cui sorgente è la psiche individuale, ma la cui foce è il gruppo e la struttura sociale.
Dalla metà del quinto secolo a.C. cominciò a delinearsi una preferenza per la soluzione apollinea e si innescò un processo di repressione e rimozione delle pulsioni dionisiache che portarono al primato di Apollo come unico detentore della “verità” greca. Come culmine della grande vittoria di Apollo ci vengono presentate in arte le grandi opere di scultura e di architettura della grecità classica, nonché la “purificazione” della musica dagli elementi orgiastici, per mezzo dell’introduzione degli elementi strutturali, l’armonia e la teoria musicale. Nella vita sociale l’espressione della vittoria di Apollo fu la costituzione della Polis con le sue istituzioni urbane e democratiche.
Il fenomeno della cultura greca, che d’ora in poi chiameremo apollinea, infatti, non è limitato alle espressioni di arte plastica. Il mondo, o meglio il modus, apollineo è una struttura mentale, la cui espressione sociale è antitetica a quella tribale, e intorno alla quale viene organizzata, non solo l’espressività artistica, ma anche tutta la vita sociale e politica dei Greci. Se le pulsioni dionisiache rappresentano un mondo barbaro e titanico, dove queste pulsioni possono venire dominate solo dalla repressione e dalla rimozione, la soluzione apollinea è la canalizzazione di queste pulsioni e il loro incivilimento attraverso la sublimazione dell’arte plastica.
Abbiamo visto come alla figura di Dioniso e ai suoi contenuti nell’ambito della psicologia sociale corrisponda un’istanza psichica ben definita. Vediamo ora quali sono i contenuti che ci riflette lo specchio dell’immagine di Apollo.
Caratterizzando l’Io Freud dice:
Questo sistema è rivolto verso il mondo esterno, fa da intermediario alle percezioni che ne provengono, e in esso sorge, nel corso del funzionamento, il fenomeno della coscienza. E’ l’organo sensorio dell’intero apparato, ricettivo del resto non solo agli eccitamenti provenienti dall’esterno, ma anche a quelli che provengono dall’interno della vita psichica. La concezione secondo cui l’Io è quella parte dell’Es che è stata modificata dalla vicinanza e dall’influsso del mondo esterno, non ha quasi bisogno di essere giustificata: è questa la parte predisposta per la ricezione degli stimoli e per la protezione dagli stessi, paragonabile allo strato corticale di cui si circonda il grumo di materia vivente. Il rapporto con il mondo esterno è diventato decisivo per l’Io, il quale si è assunto il compito di rappresentarlo presso l’Es (12).
Se confrontiamo la descrizione data da Nietzsche riconosciamo facilmente i contenuti della figura del dio delfico con quelli dell’istanza psichica descritta da Freud: il dio che è un organo sensorio, l’occhio che tutto vede quello che succede al di fuori di sé e lo comunica all’interno, e che proietta i contenuti psichici interni sullo schermo delle percezioni esterne.
Nell’Io la pulsione si trasforma in rappresentazione (13), la media e sublimandola può  trasformarla in arte. Ed ecco l’ebbrezza, che lo stesso Nietzsche aveva infine concesso anche ad Apollo e non più solo a Dioniso (14).
Le stesse energie pulsionali che procuravano le“visioni e allucinazioni che si comunicavano a intere comunità, a intere adunanze cultuali” menzionate parlando del dio caprino, e invero l’allucinazione appartiene alla sfera dell’Es (15),  mediate e censurate dall’Io si tramutano in sogni e il sogno, a differenza dell’allucinazione, appartiene ad Apollo (16).
Anche nel contesto delle istanze psichiche vediamo dunque che i due dei erano stati all’inizio uno solo:
Chiamiamo Es la più antica di queste province o istanze psichiche: suo contenuto è tutto ciò che ereditato, presente fin dalla nascita, stabilito per costituzione, innanzi tutto dunque le pulsioni che traggono origine dall’organizzazione corporea e che trovano qui in forme che non conosciamo una prima espressione psichica. Sotto l’influsso del mondo esterno reale che ci circonda una parte dell’Es ha subito un’evoluzione particolare. Da quello che era in origine lo strato corticale munito degli organi per la ricezione degli stimoli, nonché dei dispositivi che fungono da scudo protettivo contro gli stimoli, si è sviluppata una particolare organizzazione che media da allora in poi fra Es e mondo esterno. Questa regione della nostra vita psichica l’abbiamo chiamata Io (17) .
 La tragedia eschilea, che era stata il prodotto sublime della fusione tra il dionisiaco e l’apollineo, è anche l’apice dell’espressione dionisiaca. L’arte, sotto l’occhio vigile di Apollo, non uscirà mai più di controllo. Le esuberanti energie dionisiache o furono rimosse e represse o furono canalizzate al servizio dell’espressione figurativa plastica e, in questa loro subordinazione all’apollineo, trovarono la propria sublimazione(18) .
Ma questa prevalenza dell’apollineo non fu limitata all’arte. Si svolse parallelamente una scelta esistenziale, il cui contenuto fu il superamento dei legami di sangue e della fedeltà tribale, in favore di un’organizzazione sociale e mentale più ampia.
La società arcaica è legata alla Legge del Padre. I capi vengono scelti sulla base dei legami di sangue e questi sono anche l’unica base degli interessi comuni. Il senso di colpa verso il padre cementa l’unione dei fratelli ed è un blocco che inibisce qualsiasi ulteriore sviluppo sociale. I Greci, riuscendo a superare questo blocco mentale, sgombrarono la strada verso una miriade di possibilità diverse che invece rimasero precluse ai loro vicini orientali. Liberi dai legami di una fedeltà “a priori”, i Greci poterono compiere delle scelte, organizzarsi in gruppi, indipendenti dal legame familiare, e formare i primi partiti politici. Così nacque la politica. La Polis prese il posto della tribù, e le lotte tra i diversi partiti politici il posto delle faide tra i clan. L'evoluzione permise la nascita della democrazia (19), mentre il superamento del rito tribale permise la nascita della filosofia, della metafisica e della scienza (20).
 L’occhio di Apollo accompagnerà d’ora in poi i Greci anche al di là della loro particolarità nazionale e il dio divenne il simbolo della cultura greca quando, in epoca ellenista, questa si trasformò in ecumenica. Vediamo quindi che, mentre Dioniso rimase il dio della tribalismo greco preapollineo, delle orge e dei lutti, della sofferenza e della resurrezione, Apollo, dio del sole, rappresenterà il comun denominatore dell’ecumene panellenica: il culto della bellezza ideale e dell’arte figurativa plastica. Inoltre, dal momento che il sole rappresenta le aspirazioni universaliste (21), in contrasto a quelle settariali e monolatriche (22), poiché illumina tutto il mondo e con il suo occhio tutto vede, sarà anche il simbolo di un dio comune a tutta l’ecumene ellenica, quando questa verrà percepita come soluzione culturale cosmica.
Parallelamente, i riti legati a Dioniso continuarono a venire festeggiati, come nelle dionisiache rurali e cittadine, e persino vi era una città sacra denominata Dionysia dove ogni sorta di svaghi e orge venivano celebrate all’insegna del dio. In epoca ellenista un teatro fu edificato in suo onore sull’Acropoli di Atene, ma quella che ai tempi di Eschilo era ancora una tragedia divenne commedia e in questo teatro si festeggiava sempre meno la sacralità e sempre di più la scurrilità del dio.
La gente non andava più a teatro per esperimentare sulle proprie membra la passione del pasto totemico nel tremore dell’identificazione e della catarsi, bensì per svagarsi: le commedie dei satiri, un cabaret parallelo ad ogni società in decadenza, e le rappresentazioni teatrali all’insegna di Dioniso prosperavano come i nigth-clubs di Parigi o della Berlino tra le due guerre.
Questi divenne un dio della fertilità, come quelli semiti celebrati in tutto l’oriente ellenizzato: Attis, Adonis, Tammuz. Diventò improvvisamente anche un dio “orientale”, come quelli che morivano alla fine della primavera per risuscitare in autunno, quando nel Medio Oriente le prime piogge riportano alla vita la natura, che era rimasta arida sotto il solleone estivo.
Dalla metà del V secolo in poi  divenne un dio con il quale l’anima greca avrà sempre più difficoltà a identificarsi. Sempre meno dio e sempre più satiro, nel senso volgare della parola.
La morte sociale di Dioniso trascinerà con se anche l’agonia di Apollo. Il dio defico senza un’equivalenza antitetica perderà esso stesso di intensità vitale. La sua massima espressione, la saggezza comunicata per enigmi, transustanziazione dell’arcaica conoscenza comunicata ai giovani attraverso il rito iniziatico puberale, diventa attraverso la razionalizzazione della filosofia, “verità ideale”(23).
Priva dell’apporto energetico delle energie provenienti dall’Es, in concomitanza con il processo di rimozione, gradualmente anche il volto di Apollo era impallidito.
L’arte occidentale, dopo essere arrivata ai suoi apici nella fusione delle energie dionisiache con il medium visivo del dio delfico, dal IV secolo in poi comincia a decadere. Il regno di Fidia e di Prassitele viene sostituito da quello di Platone e di Aristotele. La filosofia viene al posto dell’arte come strumento di rimozione e di razionalizzazione: Apollo aveva vinto, ma era molto, molto stanco. Il processo era stato lento ma letale.
Se il modus mentale apollineo aveva portato alla democrazia della polis greca come sviluppo naturale del bisogno di libertà ispirato da Apollo come conseguenza del superamento del rito tribale e della Legge del Padre, ecco che Platone vuole codificare delle regole assolute, vuole farne una repubblica ideale, e introdurre così dalla porta posteriore una censura e una regolamentazione che sono proprio l’antitesi dello spirito di libertà della polis greca. Come già per Platone, il bello era stato il parametro per costruire i suoi schemi filosofici, il passo successivo sarà per essi diventare una fede.
Quando nella Grecia arcaica il dio delfico dall’interno del suo tempio si pronunciava per enigmi, le sue sentenze oscure alludevano che solo i degni, gli iniziati alla vera essenza del dio avrebbero potuto decodificarne i significati: si era ancora ben lungi dalla filosofia platonica con le sue catene di sillogismi.
Apollo infatti era stato il dio che aveva iniziato le tribù achee sotto le mura di Troia terrorrizando l’orda fraterna con il suo arco e le sue frecce e minacciandola di morte, come nelle tribù selvagge lo stregone minaccia di morte i giovani novizi emarginati ai limiti dell’accampamento (24). Da lì, nei secoli seguenti aveva passato un processo di distillazione ed era diventato il dio degli enigmi e della sapienza: L’insegnamento e l’ammonimento venivano impartiti non più attraverso il trauma del rito iniziatico puberale bensì attraverso i responsa del dio, e la sua educazione attraverso la musica e la ginnastica, che a sua volta presero il posto della danza orgiastica come strumento di scarica energetica.
Con Platone lo schema è pronto: Apollo traduce la sua arcaica sapienza pre-socratica in razionalizzazione e in filosofia. Attraverso la bellezza e l’armonia ideale delle forme si arriva alla verità. Il filosofo, ispiratosi al bello, che come abbiamo visto è l’antitetico del brutto, il capro, filosoferà su quello che è buono o malvagio, giusto o ingiusto. Il filosofo diventa così il nuovo sacerdote di Apollo. La sua aspirazione è tradurre i suoi postulati filosofici in articoli di fede: siamo già alle soglie del dogma.
Se Platone sa di poter distinguere tra il bene e il male, teme però che non tutti riceveranno i suoi postulati, e non si accontenta di diffondere la sua scienza, vuole imporla come unico schema politico. I filosofi della sua Repubblica non sono più dunque come l’oracolo di Apollo, che viene consultato volontariamente da chi vuole essere illuminato attraverso il medium della sacralità del dio, bensì una classe politica detentrice della verità assoluta.
Platone dunque e non Pietro è la pietra su cui verrà edificata la Chiesa.
La morte sociale di Dioniso porterà con sé anche la definitiva rimozione del dionisiaco. Ma, come in ogni rimozione, il dionisiaco, ovvero lo strapotere dell’Es, rimarrà perennemente in agguato e l’Occidente vivrà la propria storia con grande ambivalenza verso tutto quanto lo rimanderà al dio degli impulsi sfrenati. L'ambivalenza sfocerà spesso in fobia e odio cieco verso tutto quello che verrà percepito come dionisiaco, e questo termine diventerà sinonimo di “diverso”.

Conquiste e rinunce

L’equilibrio apollineo è l’aspirazione dell’uomo occidentale: armonia plastica, democrazia, e liberta’ sessuale rappresentano i parametri ideali. Appena il greco raggiunse la sua meta subito cominciò a degenerare. Prima perse la libertà, poi la permissività sessuale e infine rinunciò a esprimersi plasticamente. Da allora lotta per raggiungere questi ideali, che fanno parte della sua struttura psichica. Per lunghissimi periodi sembra “dimenticarsene”, ma ogni tanto almeno uno di questi aspetti riemerge, talvolta con vitalità ed esuberanza inaspettate. All’inizio di questo millennio, dopo sette secoli di repressione si organizzarono i liberi Comuni. Il ’400 fu il secolo in cui Fidia e Prassitele non solo risorsero ma furono persino superati, e il nostro secolo ci ha riportato, almeno momentaneamente, quella libertà sessuale di cui non godevamo dal crollo del mondo antico. Ogni volta, e ci sono segni che per quello che riguarda la libertà sessuale stia già per esserci un ripensamento, l’uomo occidentale afferra con tutte due le mani la propria rinnovata conquista, solo per mollare subito la presa. È come se le onnipresenti correnti sotterranee dionisiache non possano venire represse, altro che per periodi molto brevi. Rimosse, ma sempre attive, premono perennemente per un riconoscimento: una specie di richiamo della giungla. E quando emergono, la reazione mentale della società occidentale è una stretta di vite, un nuovo controinvestimento energetico diretto verso la repressione.
In arte, queste correnti irrompono violente, non possono più essere represse,  tendono a straboccare all’aldilà dei confini contenuti del plasticismo apollineo, e cercano sfogo o in una contemplazione trascendentale, e quindi antiplastica, come nell’arte bizantina, o in un’astrazione gotica o in una sensuale esuberanza barocca.
Il ritorno al dionisiaco rappresenta per l’Occidente una regressione e, come ogni regressione, avviene in momenti di crisi. Il cemento, che tiene unita una società apollinea, non tiene durante le bufere delle crisi politiche ed economiche, quando le forze centrifugali minacciano le istituzioni, e gli equilibri raggiunti vengono messi in dubbio.
L’istantanea fotografata a Firenze nel ‘400 ebbe solo pochi e distanti echi nel resto dell’Europa.
Dopo l’ondata di plasticismo romanico e il  rigurgito di “romanità”, portati dalla fioritura comunale dell’inizio del millennio, al di là delle Alpi il modus mentale dionisiaco, e le misure repressive da esso innescate, non smetteranno più di avere la prevalenza.
Così si spiega che dal XIII secolo in poi, l’Europa rivedrà riemergere il capro, il Dioniso represso, sempre più violento, e lo schermo della psiche sarà dominato quasi esclusivamente da questa immagine, che si tradusse in quella del Diavolo, La Bestia, l’istanza psichica rimossa.
Il XIII secolo vedrà le prime accuse di omicidio rituale di un bambino, rivolte contro gli Ebrei. Il XIV secolo la fioritura delle accuse di eresia. Il XVI i roghi delle streghe [Hans Baldun Grien].
Dal XIV secolo in poi e fino alla rivoluzione industriale diavoli, capri e streghe [quadro di Goya], eccitati in un'orgia di scarica pulsionale, non smetteranno mai più di emergere violenti sullo schermo della psiche occidentale.

Oriente dionisiaco

Per l’Oriente, il dionisiaco è la condizione naturale, poiché non si sviluppò mai una soluzione apollinea alternativa.
Ma una società dionisiaca è anche una società dove l’equilibrio viene raggiunto attraverso la repressione, poiché le pulsioni, non canalizzate e non sublimate, non possono essere lasciate libere di sfogarsi a loro piacimento: incontrollate, minaccerebbero qualsiasi struttura sociale.
Dioniso, essendo un dio legato a pulsioni primarie e rappresentando quello che, nella società greca, erano rimasti i ricordi tribali repressi, con i riti totemici di cannibalismo e resurrezione a loro appartenenti, non avrebbe mai potuto essere un dio civilizzatore e svilupparsi poi in un dio ecumenico. La repressione porta all’inibizione pulsionale, e questa sfocia nella repulsione verso la rappresentazione figurativa e dall’esposizione del nudo. Una società che non abbia passato il processo di trasfigurazione apollinea non rappresenterà mai un dio nudo(25): il cristianesimo orientale, permeato di contenuti dionisiaci antiapollinei, non espone mai la figura di Cristo nella sua nudità apollinea, come fa invece il Cattolicesimo occidentale.  Il Cristo orientale è sempre completamente vestito e barbuto, versione del Dioniso - Pan peloso, piuttosto che dell’Apollo liscio e plastiforme. L’arte orientale quindi può solo essere coloristica e mai plastica.
Il caso ha voluto che gli Arabi siano venuti a contatto con l’Occidente, mentre questi passava una fase coloristica. La conquista araba del settimo secolo, in cui le truppe del Profeta dilagarono in tutto l’Oriente ellenizzato, li mise a contatto diretto con i Bizantini e, quindi, poterono ispirarsi alla loro arte che corrispondeva pienamente al loro gusto antiplastico e coloristico. Non a caso, quindi, la Moschea di Omar, a Gerusalemme, assomiglia tanto a Santa Sofia di Costantinopoli.
Sette secoli prima, invece, quando gli Arabi Nabatei erano entrati in contatto con le città elleniste della Transgiordania, cosparse di edifici dalla martellante possenza plastica, questo incontro produsse una creatura ibrida anche se affascinante: Petra, la città scolpita nella roccia, con capitelli e colonne greche scolpite, strappate in situ direttamente dalla roccia, invece che costruite, e in mezzo all’atmosfera coloristica e rarefatta da fiaba gotica del deserto. L’intenzione e i mezzi usati avrebbero dovuto produrre un effetto plastico, sull’esempio delle città greche alle quali s’ispirarono, ma il risultato fu un intenso effetto coloristico: fulgido esempio di come il modus mentale orientale, estraneo all’apollineo, possa tradurre impulsi, riflessi da questo, esclusivamente in effetti consoni alla propria esperienza esistenziale.

Monoteismo ebraico e cristianesimo

Freud ci ha mostrato come il monoteismo ebraico fosse in realtà quello di Ekhnaton. Indubbiamente fu così. Il crescente senso di colpa che gli Ebrei sentivano per l’uccisione di Mosè, che cominciò a emergere sempre più pressante ai tempi del ritorno dall’esilio babilonese, dopo un periodo di latenza di sette secoli (26), fece sì che qualsiasi forma di idolatria fu esclusa definitivamente dalle alternative possibili nell’ambito della cultura ebraica. Se prima dell’esilio (586 a.C.), insieme al culto di Jahvè venivano praticati culti di Baal e Astarti locali in ogni villaggio israelita, con il ritorno settant’anni dopo, il popolo ebraico si trincerò in un monoteismo esclusivo e intransigente (27). D’ora in poi chiunque tollererà culti estranei a Jahvé si estranierà dall’ebraismo, e questo stesso diventerà sinonimo di monoteismo.
Non così per quello che riguarda le affermazioni di Freud sul Cristianesimo:

 Nessun altro brano della storia religiosa ci è diventato così perspicuo come l’inizio del monoteismo nel giudaismo e la sua continuazione nel cristianesimo, a prescindere dall’evoluzione, ugualmente intelligibile senza soluzione di continuità, dal totem animale al dio umano col suo inmancabile compagno (ciascuno dei quattro evangelisti cristiani ha ancora il suo animale favorito)... la reintegrazione del padre primigenio nei suoi diritti storici fu un grande progresso, ma non poteva essere l’ultimo. Anche gli altri pezzi della tragedia preistorica premevano per un riconoscimento...Non è facile discernere che cosa mise in moto questo processo. Si direbbe che un crescente senso di colpa si impadronì del popolo ebraico, e forse dell’intero mondo civile di allora, precorrendo il ritorno del materiale rimosso. Da ultimo un uomo venuto da questo popolo ebraico...fornì l’occasione che provocò il distacco di una nuova religione, quella cristiana, dall’ebraismo. Paolo, un ebreo romano di Tarso, ricuperò questo senso di colpa riconducendolo correttamente alla sua fonte storica. Chiamò questa il “peccato originale”; si trattava di un delitto contro Dio, che solo con la morte poteva venire espiato. Con il peccato originale la morte venne al mondo. In effetti questo delitto meritevole di morte era stato l’uccisione del padre primigenio, successivamente deificato...Abbiamo già detto che la cerimonia cristiana della Santa Comunione, in cui il credente s’incorpora corpo e sangue del Salvatore, ripete il contenuto dell’antico pasto totemico, ma solo nel suo senso di tenerezza, esprimente la venerazione, e non in quello aggressivo. Tuttavia l’ambivalenza che domina il rapporto con il padre si mostrò chiaramente nel risultato finale dell’innovazione religiosa. Volta apparentemente alla riconciliazione col Dio Padre, finì col detronizzarlo e sopprimerlo. Il giudaismo era stata una religione del Padre, il cristianesimo diventò una religione del Figlio...Paolo, il continuatore del giudaismo, fu anche il suo distruttore...Paolo rinunciò a credere che il suo popolo fosse l’eletto e dovesse recarne il segno visibile, la circoncisione, così che la nuova religione poté diventare universale e abbracciare tutti gli uomini...veniva così ristabilito un carattere dell’antica religione di Aton...non era più strettamente monoteistica, assunse dai popoli circostanti numerosi riti simbolici, ripristinò la grande divinità materna e trovò spazio ove collocare, seppure in posizione subordinata, molte figure divine del politeismo. Soprattutto non escluse, come invece la religione di Aton e quella mosaica che venne subito dopo, la penetrazione di elementi superstiziosi magici e mistici...Il trionfo del cristianesimo fu una nuova vittoria dei sacerdoti di Ammone sul dio di Ekhnaton dopo un intervallo di millecinquecento anni(28).
Abbiamo riportato qui alcuni brani del saggio di Freud per analizzarli e discernere quello che secondo noi rappresenta un’analisi corretta, da quello che non lo è. Freud, come lui stesso aveva confessato, fu un pessimo lettore di Nietzsche (29) e, quindi, non percepì l’ovvio parallelismo tra le istanze psichiche da lui isolate e i contenuti mentali della figura dei due dei greci come erano stati analizzati dal filosofo tedesco: le correnti apollinee e dionisiache, che percorrono sommerse le diverse culture, come traduzione a livello sociale degli istinti del singolo e la loro elaborazione in un modus sociale.
Se il mondo greco era stato caratterizato da una distillazione dei contenuti dionisiaci in apollinei, con il Cristianesimo avvenne una regressione esistenziale al rito tribale dionisiaco, e la Crocifissione ripropose il sacrificio del giovane dio Dioniso e la sua resurrezione, non solo come culto della fertilità, ma come riallacciamento al rito puberale iniziatico.
La figura di Cristo rappresenta infatti la sintesi delle caratteristiche dei due dei: Dioniso, il capro, dio-padre e tenero fanciullo in un’unica sintesi, come Kerenyi rileva:
nella maggior parte dei racconti Dioniso ha la parte del tenero fanciullo, figlio di sua madre, che però scomparve subito per essere sostituita da nutrici affettuose. Si riconoscono i due volti che anche Zeus mostrava: il volto del padre e dello sposo da un lato, quello del figlio e del bambino divino dall’altro. Non soltanto Zeus e Dioniso avevano questo doppio volto nella nostra mitologia, ma nessun altro dio sembrava quanto Dioniso un secondo Zeus (30).
E Apollo, simbolo del sole, l’occhio che regna su tutta l’ecumene per mezzo della sua epifania di luce e di verità, che da Platone e attraverso il Cristianesimo, venne tradotta in fede.
I contenuti apollinei di secoli di civilizazione non andarono persi, ma furono incorporati in un’unica sintesi.
Per capire il motivo che spinse il mondo Greco-Romano a rinnegare la natura olimpica del Cristo e a preferire una “origine giudaica” per il giovane dio che muore e risorge, dobbiamo risalire alla situazione psico- sociale del primo secolo della nostra era.
La crisi esistenziale che colpì il mondo greco romano produsse un bisogno di ridifinirsi. Il sincretismo culturale tra Occidente e Oriente e la crisi sociale, l’impoverimento delle masse e il latifondo, avevano messo in dubbio l’autoidentità di questa ecumene ormai amorfa. La conquista dell’Oriente da parte delle falangi di Alessandro, aveva convertito il primo ai parametri occidentali, ma l’assorbimento della nuova cultura era rimasto epidermico:  un modello culturale che pretende di essere valido per tutti perde necessariamente di vigore e intensità: il generale infatti e’ nemico non solo del particolare, ma soprattutto dell’autentico. Gli antichi dei erano oramai solo le caricature di loro stessi. Così, il mondo greco – romano cercava la soluzione alla propria inquietudine nel sincretismo culturale e nei culti della fertilità, comuni, anche se sotto nomi diversi, a tutta l’ecumene panellenica, in cui un giovane dio moriva in primavera per risorgere alla fine dell’estate.
Solo i Giudei erano rimasti ferocemente attaccati alle loro tradizioni tribali, e per questo venivano considerati barbari e nella lingua di Tacito “gente che odia l’umanità” (31). Lasciamo che il grande storico latino dia liberamente espressione alla sua foga antisemita:
Le altre pratiche (degli Ebrei, N.d.R.) sono perverse e infami e si sono imposte per la loro depravazione. Infatti la peggior feccia di questo mondo, dopo aver rinnegato le religioni patrie(32) , portava lì tributi e denaro: in questo modo la potenza dei Giudei crebbe, anche perché tra di loro sono sempre molto leali e molto disponibili al mutuo soccorso, mentre riserbano il loro odio più aspro a tutti gli altri. Siedono a mensa separati e, ancora separati, dormono: ma sono uomini di sfrenata libidine, abituati a non avere rapporti sessuali con donne di altri popoli e a considerare invece, tutto lecito tra di loro. Hanno istituito l’usanza della circoncisione, per riconoscersi tra di loro da questo segno distintivo. Coloro che hanno accettato di condividerne le abitudini, seguono la stessa pratica e come prima conseguenza imparano a disprezzare gli dei, a rinnegare la loro patria, a non tenere in alcun conto i rapporti di paternità, di figliolanza e fraternità. I Giudei tengono comunque molto a che il loro numero si incrementi: è proibito infatti, uccidere uno qualsiasi dei figli in soprannumero (Hist.,V.5).


Per bocca di Tacito parla qui un’intera civiltà che, avendo superato i legami di sangue e di famiglia, rimprovera agli Ebrei di averli mantenuti, ma guarda con odio, misto a invidia, a questa “lealtà e disponibilità al mutuo soccorso”, che essa invece aveva perduto. L’uomo occidentale, che è così orgoglioso di aver superato, nella sua evoluzione il modello sociale tribale e di aver creato un habitat mentale più vasto, nei momenti di crisi esistenziale si guarda indietro, si domanda se il prezzo da pagare in estraniazione sociale e mancanza di coesione non sia stato troppo alto, e guarda a questo passato “superato” di legami affettivi tribali con nostalgia.
Come disse Gide, il destino non apre mai una porta senza chiuderne un’altra. Superando i legami del clan era andata persa quella solidarietà sociale e affettiva che caratterizza il gruppo e le strutture sociali più primitive. Era andato perso quel “riconoscersi tra di loro” di cui parla Tacito. Anche della proibizione dell’infanticidio lo storico latino parla come se fosse un segno di inciviltà, ma anche da questo passo, sotto il profondo disprezzo, trapela l’invidia e la nostalgia.
L’odio - attrazione per gli Ebrei, diventati simbolo del proprio alter ego tribale e dionisiaco rimosso,  portò l’Occidente a usurpare la loro religione. Dal momento che non riuscirono a imporre a questi i propri modelli culturali, tentarono di appropriarsi dei loro, come soluzione all’estraniazione dalla propria cultura olimpica-apollinea e come vendetta verso la rappresentazione esterna del proprio arcaico aspetto rimosso e diventato inacettabile.
 Il mondo romano - ellenista, che aveva sottomesso la Giudea, credette di poter saccheggiare, non solo il Tempio di Gerusalemme, ma anche la loro mitologia. Il rifiuto degli Ebrei a collaborare a questa mistificazione diede al mondo greco - romano - cristiano la giustificazione manifesta per dare legittimazione all’antisemitismo virulento, che covava dai primi contatti tra Elleni e Giudei e si fomentava sempre di più ad ogni incontro tra le due culture. Tutti gli stereotipi antisemiti, così noti a noi alla fine del secondo millennio, erano già formati e pronti nel primo secolo, così che il Cristianesimo dovette solo aggiungervi la propria legittimazione.
Ma i Romani - cristiani, che d’ora in poi decideranno di essere il nuovo Israele, non potevano assorbire i contenuti mentali caratteristici di una tribù compatta, che non aveva voluto, né aveva avuto motivo, di superare il proprio particolare habitat mentale arcaico. Il Cristianesimo diventò una religione ecumenica, esattamente come lo era stato il panellenismo dei primi tre secoli a.C., mentre l’Ebraismo rimase quello che era sempre stato: una tribù con il proprio passato mitico e il proprio Dio personale, proprio padre prima che padre degli altri. Gli Ebrei non avevano motivo di barattare questo Dio specifico, con cui avevano sviluppato in quasi due millenni un rapporto intimo di odio - amore, proiezione dell’ambivalenza affettiva del figlio verso il padre del clan onnipotente e tirannico,  con un Dio che fosse pronto a diluire il suo amore e a dividerlo con tutta l’umanità, sul modello dell’ecumenismo di Apollo. E da qui il concetto di popolo eletto. In cambio si sentirono dire che  questo loro Dio privato aveva nel frattempo scelto qualcun altro, e che i loro riti, ai quali erano attaccati da duemila anni, non erano più validi.
Come ha  rilevato Freud, solo dopo l’esilio babilonese la religione ebraica da monolatrica divenne monoteista. Solo nel VI sec. a.C. i Giudei, tornati dall’esilio, si trincerarono nella religione esclusivista che sarà la loro peculiarità. Sotto il trauma dell’esilio, dopo sette secoli, fecero una riattivazione dell’antico Dio universale di Mosè l’egiziano, Aton, e la loro religione diventò quella che è tuttora. Il Dio d’Israele da totem tribale passò una metamorfosi in Dio universale, re di tutto l’universo, ma conservò, ciononostante, la particolarità monolatrica di Dio particolare, che si tradusse nel concetto di padre del popolo eletto.
Poiché il mondo greco - romano, diventando cristiano, dichiarò di assorbire queste concezioni ebraiche di monoteismo, divenne luogo comune sostenere che il Cristianesimo derivi dall’Ebraismo.
Quello che, secondo noi, indusse Freud in errore fu la confusione tra il monoteismo universalista ebraico che, come lui stesso afferma, deriva dal monoteismo di Aton, e l’universalismo ecumenico cristiano, che ha le sue radici nell’ecumenismo panellenico di Apollo.
Cristiani ed Ebrei si trovarono d’accordo nel coabitare sotto lo stesso tetto di questa mistificazione: i Cristiani per celare le proprie radici nel modus mentale olimpico, gli Ebrei, che attraverso le vicissitudini degli ultimi duemila anni erano diventati un popolo disprezzato, una minoranza cronica presso gli altri popoli, come estrema, patetica rivincita. Minoranza disprezzata, si crogiolava nell’idea che il Cristianesimo dovesse a loro le proprie origini. Freud, che aveva un forte narcisismo ebraico, cadde lui stesso nel tranello, malgrado la sua forza e levatura intellettuale.

Da Tacito...

Come abbiamo visto dalle parole di Tacito, il mondo ellenista, a cui anche i Romani si ispiravano, nutriva questo radicato antisemitismo, come mezzo di autodifesa da una riattivazione di impulsi dionisiaci rimossi: Apollo, dopo aver trionfato su Dioniso, temeva la sua rivincita.
La società occidentale, che ripone nell’equilibrio apollineo il proprio equilibrio e la propria salute mentale, ha in orrore la vicinanza del dionisiaco: ha in orrore la vicinanza di una struttura mentale che si basi sulla coesione del clan, piuttosto che sulla fedeltà alle istituzioni dello Stato, e nutre una fobia verso tutto quello che le può ricordare le pulsioni apparentemente superate, ma in realtà solo rimosse.
Così il “riconoscersi tra di loro” di Tacito divenne sinonimo di tradimento, e da allora la società occidentale non si fida dei suoi Ebrei, come a dire: “se sono fedeli tra di loro saranno sempre pronti a tradire lo stato, la Polis, che li ospita”. Qualsiasi dimostrazione di patriottismo, da parte degli Ebrei, non è creduta, poiché sono considerati, non solo stranieri, il che di per sé non implicherebbe una volontà di tradimento, ma bensì dagli interessi antitetici a quelli dello stato (come nel caso Dreyfuss) (34).
Non a caso quindi l’antisemita, da Tacito in poi, rappresenta l’Ebreo come il simbolo della sfrenatezza sessuale. La barba e il caftano, che per l’occidentale rappresentano appunto le pulsioni dionisiache minacciose e uscite di controllo, poiché ricordano l’immagine rimossa del dio caprino, rappresentano invece per l’Ebreo la stessa cosa ma nel suo contrario: sono il simbolo della repressione e dell’inibizione che questi accetta su di sé in nome della disciplina del Dio-padre. Questo Dio-ariete, che nei secoli si trasfigurò in spiritualità assoluta, in nome della sua natura dionisiaca esige dai suoi figli la repressione pulsionale e la sublimazione.
Il Dioniso ebreo diventò così la personificazione del Super-Io: invece di rappresentare la permissività e lo sfogo pulsionale (l’Es), come nella psiche occidentale, per gli Ebrei diventò l’istanza inibitrice.
Il suono dello Shofar, il corno del capro, ricorda agli Ebrei il peccato primordiale e la colpa, e li invita così ad accettare l’inibizione pulsionale in nome della legge divina.
Più l’Ebreo reprime le proprie pulsioni, in nome della coercizione divina, più l’Occidentale vede in questo la conferma di una vitalità minacciosa e di una sessualità sfrenata, che fa da riattivazione alla propria sessualità repressa: un Dioniso che minaccia gli equilibri di Apollo, come un Es senza briglie minaccia la stabilità dell’Io.
Basta pensare a tutte le vignette della stampa antisemita in cui l’Ebreo viene rappresentato con il naso adunco e le forne caprine in procinto di sedurre una dolce e delicata fanciulla ariana (dal Der Sturmer)(35).
Molti Ebrei emancipati accusano gli Ebrei tradizionali, dalla lunga barba  e il caftano, di riattivare con la loro apparenza l’antisemitismo, ma la storia ha dimostrato che più questi assomigliano ai Gentili, nei loro modi e nel vestire, più l’antisemitismo aumenta, invece di diminuire.
Il motivo va ricercato nell’idea inconscia che l’uomo occidentale ha a priori dell’Ebreo.
Se l’apparenza esteriore corrisponde all’idea che si ha di questi, l’antisemita almeno non si sente tradito, poiché l’immagine esterna, naso adunco, barba e capelli lunghi, strani animaleschi vestiti e scialli rituali, corrisponde a quella interna repressa del capro, il dio-padre totemico Dioniso, ma se l’Ebreo si veste come un Gentile, non può che peggiorare la sua situazione, poiché allora più che vestirsi viene accusato di travestirsi. In questo casi viene accusato,in realtà, di essere Dioniso - Pan ma di travestirsi da Apollo.
Mascherato, viene percepito come ancora più pericoloso(36) .
Proprio come Shylock nel Mercante di Venezia di Shakespeare (37) .
Le accuse di tradimento e di slealtà, rivolte agli Ebrei, si moltiplicarono da quando l’emancipazione fece per questi da incentivo ad apparire in pubblico vestiti come gli altri.
In questa oscura percezione inconscia che l’Ebreo rappresenti il capro, il satiro Dioniso nella sua consustanziazione più arcaica e genuina, ma che tenti di travestirsi per tramare congiure ai danni delle faticosamente acquisite conquiste di Apollo e della sua civiltà di luce, va ricercata anche la vera causa per l’imposizione di un segno distintivo, dal berretto rosso o giallo dell’Europa medioevale alla stella gialla imposta dai nazisti.
Questo marchio, che tutti possono distinguere incontrando un Ebreo, fa da mezzo apotropaico contro l’emergere delle pulsioni incontrollate dell’Es: vade retrum Satana e tentazione. Un debole Io e un ancora più debole Super-Io abbisognano di questa difesa esterna per tenere lontana la proiezione della propria natura bestiale repressa.

...A Sartre…

Nella storia dell’Occidente, particolarmente dall’Illuminismo in poi, non mancarono uomini di buona volontà, che cercarono di porre resistenza ai bisogni oscuri della stessa propria psiche, e che cercarono di trovare una soluzione a quello che sempre di più, negli ultimi due secoli, viene percepito come un “problema ebraico”.
Come i Giudei erano un problema per l’ecumene ellenista, e poi per quella romana, sparpagliati in tutto l’Occidente, rimasero una spina nel fianco di una cultura che per il proprio equilibrio precario, non poteva convivere con il modus di una diversa struttura mentale che ricordasse loro il proprio alter ego represso, la soluzione scartata.
Come conseguenza, anche coloro che consideravano ingiusto discriminare gli Ebrei erano pronti ad accettarli, ma non la loro particolarità: pari, come uguali, ma non pari, come diversi.
Da Kant a Hegel, agli ideologi delle teorie socialiste, l’Occidente imparò a considerare gli uomini tutti uguali, invece di accettarli per la loro diversità. Sotto la spinta degli eventi tragici di questo secolo, anche gli uomini di coscienza e gli intellettuali che erano pronti ad una estremo mea culpa non smisero mai di lasciar trapelare tra le righe la convinzione che, se gli Ebrei non si fossero intestarditi a conservare la propria diversità, le persecuzioni non ci sarebbero mai state.
L’esempio più rivelante è quello di Sartre.
Nel suo saggio “L’Antisemitismo” (38), il filosofo marxista si avventura nell’analisi dell’identità ebraica.
Secondo la sua analisi, il motivo principale della sopravvivenza di un’identità ebraica va ricercato nel rifiuto degli altri popoli di assimilare a loro i propri Ebrei.
Quando dice che “i legami religiosi si rafforzarono fino ad assumere il senso e il valore d’un legame nazionale”(39), non capisce che nella struttura mentale arcaica, i legami religiosi sono il legame nazionale, e il processo era avvenuto al contrario, ovvero i legami nazionali, perduta l’indipendenza e il territorio, si erano trasfigurati in legami religiosi. L’arcaica fedeltà al clan, la cui unica religiosità trovava espressione nel rito, era stata riattivata con l’esilio e trasfigurata in fede.
L’anima primitiva non separa la religione dallo stato o dalle altre espressioni di vita sociale. La religione non è un concetto astratto, un “optional”, come nella vita moderna, e non è neppure una fede come il cristianesimo, pronta ad essere condivisa con altri, bensì è l’espressione collettiva degli affetti, dei terrori e dei terribili legami di sangue e di colpa che legano tra di loro i membri del clan.
La religione, in questo caso, è l’insieme dei riti che sono il risultato del passato, cosi’ come la memoria collettiva lo ha elaborato.
Essere Ebrei significa condividere la stessa preistoria, lo stesso passato rimosso. Questi si sentono una nazione in quanto si considerano tutti fratelli, figli di uno stesso padre e complici dello stesso misfatto primordiale e, quindi, condividono lo stesso senso di colpa e la sensazione di un unico destino.
Il Cristianesimo, ovvero la religione di Apollo, dio figlio che aveva soppiantato Zeus-Dioniso nel firmamento occidentale dell’ecumene greco - romana, non poteva convivere con il giudaismo, la religione di Dioniso, l’arcaico dio – padre e capro.
Tutti i riti ebraici sono i riti del Padre(40) : la Madre e il Figlio sono repressi e subordinati dove, invece, nel culto occidentale trovano la preminenza.
Sartre dice: “...ma questo transfer (dei legami religiosi ai legami nazionali) manifestò una spiritualizzazione dei legami collettivi e spiritualizzazione significa nonostante tutto indebolimento...”(41)
È vero esattamente il contrario: proprio dei legami nazionali, che si “spiritualizzano”, cioè si sublimano al massimo, e’ che si rinforzino poiché non dipendono più da fattori contingenti, come, per esempio, l’unità territoriale, la concentrazione in questa, l’uso della stessa lingua, ecc.
Gli emigrati Italiani in America conservano l’identità nazionale, al massimo per altre due o tre generazioni, e poi si assimilano. Staccati dal loro territorio originale e perso l’uso quotidiano della stessa lingua madre, perdono anche l’autoidentificazione come Italiani, mentre gli Ebrei, proprio a causa di questa “spiritualizzazione” dei legami nazionali, cioè dei legami del clan, non dipendono più da fattori contingenti per mantenere la propria identità.
Sartre, come Hegel, Kant e Tacito prima di lui, è un occidentale, e può concepire l’idea di nazione solo nel contesto del territorio, racchiuso dalle mura di cinta della Polis, a difesa ed espressione dell’identita’ apollinea.
Staccandosi dalla fedeltà tribale, l’Occidente ha scambiato dei contenuti emotivi concreti con dei simboli astratti: la patria, la bandiera, i confini, l’integrità del territorio: gli affetti sono diventati prinćpi.
“Legame nazionale” è per Sartre un’astrazione, quindi, fare la “spiritualizzazione di un’astrazione”, secondo lui, conduce inevitabilmente a un indebolimento.
Ma gli Ebrei non hanno fatto la spiritualizzazione di un’astrazione, bensì di qualcosa di molto concreto, come la coesione del clan, la vitalità della quale, cementata ancora di più dal senso di colpa per il parricidio primordiale, è alla base della conservazione del popolo ebraico.
Sartre scrive:

Gli Ebrei che ci circondano hanno con la loro religione appena un rapporto di cerimonia e di cortesia. Domandai ad uno di loro perché aveva fatto circoncidere suo figlio. Mi rispose: ‘Perché faceva piacere a mia madre, e poi perché è più igienico'. ‘E vostra madre, perché ci teneva?’. ‘Per via dei suoi amici e dei suoi vicini’. Comprendo che queste spiegazioni troppo razionali nascondono un segreto e profondo bisogno di riattaccarsi alle tradizioni e di abbarbicarsi, in mancanza di un passato nazionale, a un passato di riti e consuetudini.(42).
Non potrebbe esserci equivoco più stridente.
Un Ebreo laico, emancipato, e persino ateo, ha tutt’altro che un rapporto di cerimonia e di cortesia con la propria religione. Ha un rapporto di pudore, verso se stesso e i Gentili che lo circondano, poiché ripete, malgrado la propria irreligiosità, dei riti che conservano una vitalità razionalmente inspiegabile.
Un Israeliano moderno, laico e ateo, non contemplerebbe, neppure lontanamente,l’idea di non circoncidere suo figlio, poiché non vede nella circoncisione un’espressione di fede religiosa, bensì un segno di identificazione nazionale.
“Il passato di riti e consuetudini” è il passato nazionale, e non viene al posto di esso. I riti e le consuetudini sono il motore e l’essenza dell’esistenza ebraica, più simile a un sintomo nevrotico coercitivo, cioè a qualcosa che abbia una sua indomabile energia propria, che a una “consuetudine” dalle sembianze passive.
Le risposte che Sartre riceve alle domande sulla circoncisione sono simili alle razionalizzazioni che danno i selvaggi africani o gli aborigeni australiani, quando sono interrogati dagli antropologi occidentali sui propri riti: sono le razionalizzazioni, che sono addotte a spiegare qualsiasi rito primitivo, il vero senso del quale è stato rimosso. I motivi veri sono relegati al subconscio comune del gruppo, ma proprio per questo conservano un’energia indomabile che li rende indistruttibili.
Questi riti, e quello che veramente rappresentano, sono il passato nazionale che distingue la peculiarità del gruppo. I miti e le razionalizzazioni vengono creati e le risposte qualunquiste date, per nascondere i motivi veri e rimossi a chi cerchi di carpirne il significato, per difendere i segreti, i tabù del clan, talmente irrivelabili ad orecchie non iniziate che sono stati relegati al subconscio. La risposta qualunquista “è più igienico” o “per via degli amici”, mascherandosi dietro una parvenza di innocuità, depista interrogante e interrogato, dalla immensa vitalità del rito, essenza vitale e magica della vita della nazione.
Lo stress esistenziale, che ha portato l’Occidente ad adottare determinate soluzioni, lo ha anche condannato a rimanere prigioniero di queste.
La soluzione apollinea, messa alle strette dai limiti del proprio stesso equilibrio, esclude, così, violentemente e con determinazione, le soluzioni alternative rimosse.
Ma l’esistenza stessa non ha bisogno di una giustificazione metafisica per essere.
Sartre, che è considerato l’ideologo dell’esistenzialismo, ha abbandonato qualsiasi pensiero trascendentale solo per  inciampare nella metafisica.
Quando dice che in una società senza classi non esisterebbe l’antisemitismo(43), non capisce che la divisione in classi sociali è il risultato inevitabile dell’abbandono dei legami del clan e della coesione del gruppo, poiché una società che abbia abbandonato questi legami e abbia costituito un ordine sociale in cui questi  sono stati superati, si è auto-condannata a uno stato di cose in cui si formano gruppi di uomini, accomunati da un altro genere di interessi e fedeltà.
Gli uomini, la cui appartenenza a una tribù viene proibita o diventa irrilevante, si riuniscono per tutelare i propri interessi sotto l’ombrello dell’appartenenza a una stessa classe.
Nella società occidentale la lotta di classe diventa così inevitabile.
Nei paesi socialisti le classi erano state eliminate solo in apparenza, poiché una classe di burocrati di partito aveva in realtà sostituito la classe dirigente delle società capitaliste, creando un nuovo tipo di divergenza dall’interesse comune e introducendo, così, il seme dell’inevitabile contro - rivoluzione.
Alla stessa maniera, l’unica cementazione che tiene unite tutte le diverse classi, sotto il tetto di una passione comune, è l’odio per quel gruppo che ha conservato la struttura mentale pre-apollinea, con i suoi affetti e la sua coesione interna, e che viene, quindi, considerato una minaccia all’incolumità delle soluzioni e degli equilibri, faticosamente raggiunti in migliaia di anni di elaborazione.
Non a caso l’antisemitismo esplode virulento in periodi di crisi sociali, di depressione economica  e di lotte di classe. Quando l’equilibrio sociale di una società è in pericolo e si affaccia la prospettiva di regredire alle soluzioni abbandonate, quando la fame, la disuguaglianza tra ricchi e poveri, l’estraniazione reciproca e le crisi sociali mettono in dubbio la validità dello stato come alternativa alle vecchie fedeltà arcaiche rimosse, l’uomo occidentale si trova periodicamente davanti a una mangiatoia rotta: la tazza che usava per bere si è rotta, e non ne ha un’altra che funga da alternativa.
Gli Ebrei vengono, allora, accusati di essere la causa di questa rottura, poiché rappresentano una tentazione a tornare a quella che viene considerata, in Occidente, una regressione mentale e sociale. Quindi l’antisemitismo,nella società occidentale, è inevitabile: è il prezzo che il Greco prima, il Romano poi e, ora, l’Europeo, hanno dovuto pagare per essere riusciti a superare gli arcaici legami affettivi.
A livello di società l’Occidente non potrà mai rinunciare a questa forma di difesa dal proprio richiamo della giungla, quando questo si fa sentire impellente, in momenti di crisi d’identità.
L’antisemitismo non è altro, quindi, che un meccanismo di auto - difesa dalle proprie tentazioni.
Soprattutto a questo livello, il tanto descritto “problema ebraico”, non è altro che una deficienza caratteriale occidentale.

…E Shakespeare

Mentre i filosofi si sono sempre preoccupati di trovare “soluzioni” al “problema ebraico”, nel Mercante di Venezia, Shakespeare denuncia sulla scena l’antisemitismo come un problema caratteriale della evoluta società occidentale.
Il succo di quest’opera, infatti, risiede nel contrasto tra il mondo decadente della Venezia di Antonio e la fiabesca Belmonte di Porzia, da una parte, e la tribù di Shylock, dall’altra (44). Inizialmente, ci vengono presentate le prime due situazioni, con Antonio e Porzia accomunati da una misteriosa quanto incomprensibile “tristezza”(45), che fa riscontro all’odio di Shylock per Antonio. Ma mentre il disagio di Antonio e Porzia rimane misterioso e non trova nessuna giustificazione plausibile nel corso del dramma, ecco che Shakespeare ci fa intravvedere, dapprima da lontano, poi sempre più da vicino, come in un inesorabile crescendo, le ragioni dei sentimenti di Shylock: egli, ci spiega, è il prodotto dell’odio esercitato su di lui dalla società di Venezia, che qui funge da simbolo di un Occidente in crisi di identità, che, come un organismo privo di forze, incapace di vivere la propria situazione esistenziale (e qui è la spiegazione della “stanchezza esistenziale” dei due protagonisti cristiani), vede nell’Ebreo un simbolo del pericolo (46) di retrocedere a una organizzazione sociale e mentale precedente, e lo identifica come l’antitesi di quella soluzione apollinea che nei momenti di crisi è continuamente in pericolo (47) .
Chi, ascoltando l’atto di accusa di Shylock contro l’antisemitismo di Antonio ,  e la sua appassionata e orgogliosa difesa di appartenere a quella tribù di cui Tacito invidiava l’intima coesione affettiva, che trova il suo culmine nella frase: “…For sufferance is the badge of all our tribe…”(48)  non si sente commosso e spinto a prendere le parti di Shylock? La risposta di Shakespeare arriva con la replica di Antonio: l’antisemita non è disposto a commuoversi di fronte a Shylock, proprio perché è antisemita,e commuoversi significherebbe empatizzare e identificarsi con l’ebreo, che è ciò che teme maggiormente, poichéequivarrebbe a rimettere in gioco le proprie rimozioni (tribe). L’obiettivo di Antonio (e con lui, di tutta la società di cui egli èespressione) è invece ben altro: quello di espropriare l’ebreo Shylock dei suoi beni, e della sua stessa identità: esattamente come il mondo greco – romano – cristiano sentì il bisogno di appropriarsi dell’identità stessa dei Giudei, e di coercizzarli in tutti i modi nell’ambito della società apollinea. Questa è infatti la conclusione tragica, dell’opera di Shakespeare: privato dalla legge di Venezia dei suoi beni,della figlia e della sua identità di ebreo, Shylock verràbattezzato fuori scena, a indicare che la sua esperienza esistenziale finisce nel momento preciso in cui il tribunale cristiano lo elimina come ebreo,e si appropria di ciò che è suo (49).

Antisemitismo apollineo e antisemitismo dionisiaco

Come abbiamo visto nei capitoli precedenti, l’antisemitismo, di cui è permeato l’Occidente dai tempi dell’ecumene ellenista e fino ai nostri giorni, è una fobia, verso quella soluzione alternativa rimossa che rischia di riemergere e di mettere in dubbio le soluzioni mentali faticosamente conquistate.
La precarietà di questo equilibrio non permette, quindi, una coabitazione con un gruppo di uomini, organizzati in una soluzione mentale incompatibile con quella occidentale.
Il monismo diventa, così, in Occidente, l’unica forma di sopravvivenza contemplabile.
Come l’ecumene ellenica doveva convertire i “barbari” a un’unica cultura, affinché il proprio equilibrio precario non venga minacciato, così anche oggi, la società apollinea europea non riesce a contemplare una società nella quale diverse soluzioni coabitino sotto lo stesso tetto.
L’antisemitismo apollineo è, dunque, l’incapacità di contemplare una soluzione pluralista e si traduce, così, in intolleranza e odio per il diverso.
Ma, come ci ha insegnato l’esperienza di questo secolo, esiste un antisemitismo ben più feroce di questo: quello messo in atto dalle tribù germaniche, che nulla sanno di apollineo, di Polis e di soluzioni plastiche.
L’antisemitismo, per le tribù teutoniche, si tradusse, in bisogno di cancellarne persino le tracce fisiche.
Vediamo cosa dice Freud dell’antisemitismo:

non dimentichiamoci che tutti questi popoli che oggi eccellono nell’odio contro gli Ebrei sono diventati cristiani solo in epoca tarda, spesso spinti da sanguinosa coercizione. Si potrebbe dire che sono tutti “battezzati male” e che sotto una sottile verniciatura di cristianesimo sono rimasti quello che erano i loro antenati, i quali professavano il barbaro politeismo. Non avendo superato il rancore contro la nuova religione che è stata loro imposta, l’hanno però spostato sulla fonte donde viene il cristianesimo loro pervenuto. Il fatto che i Vangeli narrano una storia che si svolge tra Ebrei e tratta propriamente solo di Ebrei ha facilitato questo spostamento. Il loro odio per gli Ebrei è in fondo odio per i cristiani, e non vi è di che meravigliarsi se nella rivoluzione nazionalsocialista tedesca questa intima relazione tra le due religioni monoteistiche trova così chiara espressione nel trattamento ostile riservato a entrambi (50).
È vero, che i popoli al di là delle Alpi sono “battezzati male”, ma questo non significa che sono stati battezzati male al Cristianesimo, come continuazione dell’Ebraismo, ma bensì significa coercizzati entro il mondo apollineo greco - romano e le sue soluzioni.
Quindi l’odio è verso il mondo romano - ellenista che li ha coercizzati a lasciare il loro  modus tradizionale tribale, colorato da un politeismo della foresta, come descritto nelle fiabe dei fratelli Grimm, con i suoi folletti e i suoi spiriti, per presentare loro un mondo di statue e di espressione plastica che non risponde alle loro esigenze esistenziali.
Il modus tribale è antiplastico, e tende all’inibizione pulsionale,piuttosto che al suo sfogo.
Presso le tribù, il totem si evolve a Grande Spirito(51), senza passare per lo sfogo pulsionale che è nell’espressione plastica, come era successo alla cultura apollinea.
Gli Indiani d’America adorano Manitù, il Grande Spirito invisibile, e così tutti i popoli, che sono rimasti attaccati ad una struttura mentale simile.
Quindi, più che di “barbaro politeismo”, Freud avrebbe dovuto parlate di “barbara monolatria” che è certo più vicina,come direzione generale, alle radici della religione ebraica, ed è incompatibile con il sofisticato e civilissimo politeismo proposto dal mondo greco - romano, nella sua continuazione che è il cristianesimo.
La prova è che con la Riforma, mille anni dopo essere stati convertiti al cristianesimo, i barbari d’oltralpe hanno rigettato il mondo panellenico-cattolico, con le sue statue e suoi santi, ma hanno conservato la figura del Cristo crocifisso, trasfigurazione di un Dioniso, ucciso e poi risorto, poiché questo li riallaccia al proprio passato tribale e al pasto totemico. I greci avevano superato questo passato attraverso l’elaborazione apollinea ma, con la crisi del mondo antico e la rottura, vi erano ritornati. Gli dei olimpici avevano trovato la loro trasfigurazione nei Santi, e questi furono rigettati da quei cristiani che nulla volevano più sapere del mondo olimpico a loro imposto.
Le “Indulgenze” e la corruzione della Chiesa furono l’occasione, che aspettavano da mille anni, ma la rottura non avvenne solo con l’autorità papale, bensì con tutto un modus mentale che non erano riusciti ad assorbire. Nella stessa occasione ripristinarono il divorzio, simbolo di una poligamia che meglio si accordava al loro passato tribale, e rifiutarono la mediazione, simbolo di un vicariato, incompatibile con il rapporto diretto, che ha il primitivo con il suo Dio. Il padre cattolico fu cacciato, e si scelsero un pastore che pascolasse le loro greggi, riattivazione di arcaiche reminiscenze, di quando vagavano come pastori seminomadi che sono sempre strutturati sul modello del modus mentale e sociale tribale.
Le tribù germaniche rifiutarono poi le imposizioni della chiesa cattolica, e tornarono a essere fratelli sotto la guida di un pastore, primo ma uguale tra pari. Sulle orme dell’arcaica orda primitiva che si poneva sotto la guida del prescelto tra i fratelli.
La Chiesa si era arrogata l’autorità sulle anime, come l’ecumenismo apollineo pan-ellenico si era arrogato l’autorità culturale di quello che è civile e quello che è barbaro. Il mistero, il dogma, i Sacramenti e soprattutto l’autorità sul libro e alle sue vie d’interpretazione. Questo era il :non plus ultra dell’incompatibile con la percezione tribale di parità tra tutti i membri sotto la guida di uno tra i pari.
L’affinità, che lega tedeschi ed Ebrei, è molto maggiore, in un certo verso, della diversità. Si dice che la filosofia sia tedesca, come l’elaborazione mentale e il rimuginamento talmudico sono ebraici. Entrambi condividono l’avversione iconoclastica per le immagini, il plasticismo e le arti figurative, al punto che Calvino si scagliò veementemente contro l’uso cattolico di adorare le immagini. Entrambi eccellono nella musica, che è la forma di espressione non-mediata, che risucchia direttamente dagli strati dionisiaci della psiche. La differenza consiste nel fatto che i tedeschi non sperimentarono millenni di sublimazione e di trasfigurazione, come gli Ebrei. Inoltre la cultura tedesca, con la sua filosofia e la sua musica rimase il retaggio di pochi, e non fece mai da comun denominatore per la sublimazione di un’intera nazione .
Questo li ha lasciati privi della capacità di riempire di contenuti spirituali sublimati il vas del modus mentale tribale, in cui si trovano. A contatto con la cultura greco - romana si trovarono sopraffatti e nell’impossibilitàdi contrapporre una cultura alternativa soddisfacente, che succhiasse dalle radici del proprio modus mentale.
Il risultato fu l’odio e l’invidia per la cultura classica, diversa, irraggiungibile ed inassorbibile, da una parte, e una fobia per gli Ebrei che ricordavano loro, con la loro stessa presenza, il proprio modus mentale arcaico.
La sublimazione e la spiritualizzazione che gli Ebrei avevano fatto delle proprie radici tribali, non poteva che aumentare l’odio e l’invidia per questi.
Se l’Occidente aveva trovato la sua espressione nell’arte plastica e nell’edificazione di grandiose cattedrali, e il proprio sfogo pulsionale in quello che si tocca, si vede e si costruisce con le proprie mani, gli Ebrei avevano trovato la sublimazione dei propri contenuti mentali nello studio delle Scritture e nell’edificazione di elaborazione mentali super sofisticate. Il Talmud è per questi quello che le cattedrali sono per i cattolici.
Le tribù germaniche, nell’impossibilità di sublimare il proprio, cercarono di copiare quello degli altri, in questo caso le forme di espressione della cultura classica, di cui cercano, inutilmente di fare parte.
Ma l’idea platonica del bello non poteva coabitare nella psiche teutonica insieme a contenuti ben diversi: quale differenza tra le Vergini dipinte dagli artisti fiorentini e quelle raffigurate nelle chiese d’oltralpe, tra il Cristo nudo del Brunelleschi o di Michelangelo e quello che si contorce sulle croci tedesche!
Per questo motivo il Rinascimento non riuscì mai a valicare le Alpi.
Solo in periodi di rigurgiti dionisiaci in Italia, con la loro espressione coloristica, come durante il periodo gotico e quello barocco, le tribù europee poterono trovare un’espressione artistica comune a quella del mondo apollineo, forse proprio perché era quest’ultimo che, in periodi di crisi, si lasciava ispirare dal contatto con le tribù d’Oltralpe.
Al di là delle Alpi non tentarono mai di costruire un palazzo Strozzi e nemmeno un S. Lorenzo fiorentino. Quattro secoli prima un’Europa ancora reminiscente della romanità aveva potuto assorbire e interpretare le volte a botte e i possenti muri delle cattedrali romaniche, ma la seconda più articolata ondata di fusione tra ellenismo e romanità, condita di un pizzico di dionisismo “autentico” etrusco, rappresentata dal Rinascimento, era abortita in Val Padana: le cattedrali spagnole, francesi e tedesche continuarono a riprodurre in pietra le foreste in cui scorrazzavano gli antichi Goti, Galli e Germani.
Quindi vediamo che, se l’odio del mondo cattolico occidentale per gli Ebrei è l’odio per il diverso, l’odio di questi “battezzati male” è, dunque, l’odio per il simile.
Come abbiamo potuto, purtroppo, constatare, quest’odio si è rivelato molto più immediato e feroce.
Quindi, contrariamente a quello che dice Freud, l’odio dei tedeschi per il cattolicesimo (e non per il cristianesimo) e per l’ebraismo, anche se concomitante, è di natura completamente diversa.
Come abbiamo visto, in entrambi i casi si tratta di fobia verso un proprio aspetto rimosso, ma la differenza consiste nel livello della repressione e nella canalizzazione delle energie verso una soluzione alternativa.
La società apollinea rimosse il proprio aspetto dionisiaco, ma le energie di quest’ultimo, che abbiamo paragonato a quelle dell’Es freudiano, trovarono una sublimazione attraverso la mediazione dell’Io, rappresentato da Apollo. Scartata l’esplosione orgiastica del rito tribale, la canalizzazione avvenne attraverso l’occhio di Apollo: l’arte e la filosofia, le istituzioni sociali e il convivere civile. Più Apollo arriva all’ebrezza attraverso la canalizzazione e la sublimazione delle energie dionisiache, meno la soluzione alternativa scartata ha bisogno di essere compressa. Come più le energie dell’Es vengono canalizzate dall’Io verso la sublimazione, meno  vengono percepite come minacciose e più è possibile la tolleranza verso la soluzione alternativa, rappresentata dalla figura dell’Ebreo.
Come abbiamo visto sopra, per i Tedeschi l’immagine del proprio passato tribale e il richiamo della giungla erano ancora a fior di pelle. L’immagine del capro non era stata mediata da una lunga canalizazione apollinea. Il Luteranesimo stesso aveva rifiutato la mediazione di Apollo ed era ritornato al Cristo dionisiaco. I Tedeschi, dal tempo della Riforma, avevano depurato dalla propria religione quelli elementi del Cristianesimo che erano estranei al proprio modus mentale, esacerbando i contenuti del rito della pubertà tribale che trovano espressione nella Crocifissione.
Il luteranismo aveva rotto i ponti con il mondo greco-romano, l’ecumene apollinea e il cattolicesimo, che era stato il compromesso tra la religione del padre e quella del figlio.
Dioniso ed Apollo erano arrivati a un compromesso nella figura del Cristo cattolico crocifisso. La religione del figlio aveva trionfato nella consustanziazione Cristo-Apollo, ma questo dio figlio rappresentava anche il trionfo della sublimazione e del regno dell’Io.
I Tedeschi, rifiutato il compromesso proposto da Apollo, si trovarono davanti la figura minacciosa di Dioniso, come trasfigurazione di tutte le energie prorompenti dall’Es, senza nessuna mediazione che ne mitighi la violenza.
A questo punto tutto era pronto per l’esplosione.


I nazisti e il capro


Per un'analisi particolareggiata del giudaismo come religione del Padre, in contrasto al cristianesimo come religione del Figlio, vedi Pinocchio. Il rito iniziatico di un burattino

 


NOTE

(1)  Nietzsche (1873), pp.21 – 2  (par.1).

(2)  Ibidem, p.26. Abbiamo delle riserve ad associare anche a Dioniso il concetto di “ebbrezza”, che a nostro parere è un attributo apollineo, in quanto è la traduzione della sublimazione delle pulsioni dell’Es, che sono l’oggetto propriamente dionisiaco, attraverso un medium che inibisce la scarica pulsionale attraverso l’orgasmo. Torneremo più avanti su questo punto.

(3)  Freud (1938a), pp 185-6.

(4) Nietzsche (1889), par.10.

(5) Per il Super –Io vedi il riassunto finale di Freud in Freud (1938b). Per una descrizione particolareggiata delle tre istanze psichiche vedi: Freud (1923)

(6)  Kerenyi (1962), p. 210.

(7)  Freud spiega il dilaniamento di Dioniso bambino e il suo divoramento come la condensazione del pasto totemico sul corpo del padre primigenio e della sua espiazione attraverso il corpo del figlio (Dioniso sbranato infatti è un bambino). (Freud (1912), p.157). Questo spiega il motivo per cui gli Ebrei nel rito pasquale e il quello delle Pentecoste sacrificavano un agnello e  non un ariete. Anche qui l’agnello era la condensazione del corpo del padre e quello del figlio. Il totem ebraico infatti era un ariete, ma il rito viene consumato sul corpo del figlio. Il fatto che sia gli antichi Ebrei, sia i greci abbiano avuto lo stesso Totem va derivato dal fatto che entrambi, all’inizio erano tribu’ di pastori. Secondo noi non bisogna leggere di più in questa somiglianza. Anche il Cristianesimo torna  sul motivo dell’agnello, ma, secondo noi, su ispirazione ellenista e non ebraica.  Solo per fare un esempio, infatti, fin dalla nascita di Gesù sono condensati nella sua figura elementi esplicitamente dionisiaci: il Natale, come è rappresentato dal Presepe, è una autentica fiaba pastorale ellenistica. In questo quadro, inoltre, Gesù viene fatto nascere in una mangiatoia, trasparente allusione al divoramento di Dioniso bambino.

(8) Per come i riti iniziatici della puberta’ ricalchino anche il pasto totemico vedi Reik  (1949), pp.123-6.

(9) Freud (1912), pp.154-7. Freud descrive il parricidio e l’atto cannibalistico come l’esplosione di tutti gli istinti sadico-orali, omosessuali ed eterosessuali, che erano stati repressi dalla tirannia paterna.

(10) A proposito dell’idea dell’equivalenza e del simbolo, come espressione di questa, cfr. Baudrillard (1973) pp.137 - 154. “ Il simbolico è ciò che mette fine al codice della disgiunzione e ai suoi termini separati... Nell’operazione simbolica, i due termini perdono il loro principio di realtà. Ma questo principio di realtà non è mai che l’immaginario dell’altro termine” (p.146).

(11) Per il doppio significato delle parole nelle lingue antiche vedi Freud (1905) pp. 185-191

(12)  Ibidem, pp.186-7.

(13) Ibidem, p. 186.

(14) Nietzsche (1889), par. 10.

(15) Per l’allucinazione come recessione dal principio di realta’ al servizio dei bisogni dell’Es, vedi: Freud (1924), p. 39; e Freud (1938b), pp. 588-9.

(16) L’allucinazione e’ simile al sogno ( Freud (1923b), p. 613), ma la differenza e’ che la prima avviene in stato di veglia, ovvero la persona si libera cosi’ dalla funzione inibitoria che fa parte dell’Io per scaricarsi rimanendo indifferente al principio di realta’, mentre il sogno avviene in stato di sonno, mentre l’Io ha allentato le sue difese, ma e’ attraverso la funzione della censura onirica. Se la pulsione si fa troppo minacciosa e rischia di uscire di controllo, l’Io puo’ sempre reagire provocando il risveglio. L’allucinazione e’ quindi sempre il risultato dello strapotere dell’Es (lo chiameremo Dioniso?), che in stato di veglia riesce a liberarsi dalla sovranita’ dell’Io.

(17) Freud (1938b), pp. 572-3.

(18) L’esempio più felice di arte figurativa apollinea, che succhia le sue energie dagli strati della vitalità dionisiaca, sono le opere di Donatello e in particolare il pulpito al Museo dell’Opera del Duomo a Firenze, il pulpito esterno del duomo di Prato, e le porte nella Sagrestia Vecchia a Firenze. I putti dei pulpiti sembrano invasati dionisiaci e i santi delle porte della Sagrestia Vecchia sembrano, per dirla col Vasari, lottatori. Cfr. pp. 6 - 7.

(19) Per capire fino a che punto la democrazia sia una peculiarità occidentale basta pensare con quale disprezzo viene considerata da tutti i leaders dei paesi asiatici e africani. Pochi anni fa, in un’intervista televisiva, re Hussein di Giordania, incalzato dall’intervistatrice di una rete televisiva occidentale su questo argomento disse: “Che senso avrebbero le elezioni?! In ogni caso io sono il capo della tribù più numerosa, ovviamente verrò eletto io!” Per i capi arabi la democrazia è una bizzarria occidentale, come si espresse a suo tempo anche un principe saudita. Gli Inglesi lasciarono in tutti I loro paesi ex - coloniali delle democrazie sul loro modello, che diventarono subito farse, e crollarono sotto le lotte fra le varie fazioni tribali.

(20) Gli antichi egizi, e molti altri popoli mediterranei che avevano raggiunto un alto livello empirico di conoscenze scientifiche e tecnologiche, non conoscevano il metodo dimostrativo. Il criterio di validità scientifica, codificato per esempio nel Papiro di Rhind, è quello di attenersi scrupolosamente a una procedura collaudata per condurre le costruzioni geometriche, e in ultima analisi, di affidarsi all’autorità del redattore. Un atteggiamento mentale perfettamente calzante per un popolo ancora legato alla legge del padre. Solo i Greci, che avevano superato la legge del padre, poterono istituire un criterio di verità scientifica basato sull’uso di dimostrazioni matematiche.

(21) Anche Freud ha accentuato il legame tra il culto del sole e l’universalismo religioso: Freud (1938c), pp.349 - 351. Secondo Freud il culto del sole, che era considerato dagli antichi un astro onnipotente e onnipresente, che tutto vede, portò al monoteismo. Noi ci accontentiamo, per ora, di accentuare l’aspetto universalistico del sole, che rappresentando l’onnipresenza,  divenne il dio che illumina tutta l’ecumene greca.

(22) Monolatria, o henoteismo, è la credenza in un solo dio, che è il dio particolare e protettore della  tribù. Da non confondersi con monoteismo, che è la credenza che vi sia un unico dio. La religione degli Israeliti primitivi, per esempio era monolatrica, ma non monoteista. Questa concezione ha lasciato le sue tracce, tra l’altro, nel racconto di Mosè e Aronne, che si presentano davanti al Faraone e fanno i primi miracoli. Mosè e Aronne tramutano il bastone in serpente e tramutano le acque del Nilo in sangue, ma gli stregoni del Faraone riescono a fare lo stesso, come a significare che esistono altri dei oltre a Jahve’, solo che questi è più forte degli altri e i figli d’Israele adoreranno solo lui. Il concetto che il dio dei padri, Abramo, Isacco e Giacobbe, fosse stato l’unico dio è un concetto anacronistico, che appare nelle storie della Genesi e fu inserito solo con la redazione finale del testo non prima del ritorno dall’esilio babilonese (sesto secolo a.C.). Residui di monolatria esistono anche nel Cristianesimo dove il santo patrono della città o della corporazione rappresenta il dio di un particolare gruppo, malgrado l’esistenza di Cristo come Dio di tutti. Evidentemente l’esistenza di un dio comune a tutta l’umanità non soddisfa il bisogno di avere da parte del dio un’attenzione particolare. L’amore di Dio verso tutti diluisce, nella percezione popolare, l’efficacia di questo amore e crea il bisogno di un dio meno universalista e più particolare.

(23) E’ illuminante il caso di Eraclito, il filosofo greco più legato alla sostanza del discorso apollineo più arcaico, quando Dioniso e Apollo erano un’unità. L’ultimo sapiente che si espresse per enigmi, divenne presto il filosofo “oscuro”, (cioè dionisiaco, in quanto Dioniso è il dio notturno par excellance incomprensibile e inquietante, contrapposto alla solarità apollinea dei filsofi classici Platone e Aristotele).

(24)  Reik (1949).

(25)  Un’osservazione superficiale di tutte le culture che non hanno passato nella loro evoluzione uno stadio apollineo, e sono queste quasi la totalità delle società umane, ci porta alla conclusione che tutte abbiano la stessa repulsione naturale per l’esposizione pubblica del nudo. Quello che sembra confutare questa tesi, come per esempio i lottatori Sumo giapponesi, che lottano quasi completamente nudi, non fa che confermarla: quelle masse di carne umana sono all’inizio dei giovani come tutti gli altri, e come parte del loro allenamento viene imposto loro un regime dietetico tale da farli ingrassare fino a perdere ogni armonia delle forme. In altre parole, prima di esporre il loro corpo alla visione del pubblico, I lottatore giapponesi deformano intenzionalmente il proprio corpo, di modo da non esporre quella che definiremmo ”La versione apollinea del corpo umano”. Quello che espongono alla vista del pubblico diventa così l’antitesi  del nudo, l’idea del brutto al posto dell’idea greca del bello e dell’armonia delle forme.

(26)  Freud (1938c), pp. 390 - 406

(27) Sul cambiamento che avvenne nella religione ebraica dopo l’esilio babilonese vedi: Robertson Smith (1889) pp.215 - 6.

(28)   Freud (1938c), pp. 407 - 413.

(29)   Con le sue stesse parole: “Mi sono interdetto l’alto godimento delle opere di Nietzsche con il deliberato obbiettivo di non essere ostacolato da nessun tipo di rappresentazione anticipatoria nella mia elaborazione delle impressioni psicoanalitiche” (Freud (1914), p. 389.).
 Per la complessità dell’attitudine di Freud verso Nietzsche, vedi: Assoun (1980), in particolare, pp. 8; 12; 17.

(30)  Kerenyi (1962), pp. 207 - 8

(31) Tacito, Storie, V, 5. Riportiamo alcune righe da questo scrittore che avrebbero fatto onore a Goebbels, il ministro della propaganda di Hitler.

(32)  Lo storico latino ci conferma, con le sue parole, che a cavallo del primo secolo, c’era un forte movimento di conversione al giudaismo da parte delle popolazioni semitiche del Medio Oriente, che erano state convertite alla cultura panellenica con la penetrazione dell’ellenismo dal terzo secolo A.C. in poi, ma che si sentivano estraniate dai contenuti decadenti di questa cultura e cercavano una nuova identità nel clima culturale compatto dell’ebraismo. In queste masse estraniate  il cristianesimo troverà i primi adepti.

(33) Tacito, Ibidem.

(34)  Alla fine del secolo scorso un capitano ebreo dell’esercito francese, Dreyfuss, fu pubblicamente accusato di tradimento, condannato e degradato. Alla fine fu assolto da qualsiasi colpa, ma nel frattempo la folla parigina era irrotta per le strade gridando : “Morte agli Ebrei!”, e si era verificata una violenta esplosione di antisemitismo, di cui la condanna di Dreyfuss era stata, ovviamente, il pretesto, non la causa.

(35) Il motivo della sessualita’ sfrenata degli ebrei e il pericolo che essi rappresentano per la purezza = l’innocenza delle fanciulle ariane, era uno dei cavalli principali della propaganda nazista, e rappresentava un messaggio inconscio che si riallaccia all’idea dello sfogo sfrenato delle pulsioni dell’Es, rappresentato dal capro.

(36) In un pamphlet antisemita apparso anonimo a Berlino nel 1803 si legge: “Possono mangiar lardo di Sabato per distinguersi dagli altri (Ebrei), ma restano indistinguibili, peggio di quelli che indossano il caffettano nero”. (Citato da Caliman (1996), p.353).

(37) Cfr. Shakespeare, Il mercante di Venezia, I, iii. La battuta di Antonio: “…il diavolo sa citare le scritture ai suoi fini. Un’anima malvagia che adduce sacre prove è come una canaglia dal volto sorridente, una bella mela marcia dentro. Oh, che bell’aspetto ha la falsità!” L’antisemita Antonio fa esplicitamente sua l’equazione ebreo=Dioniso (attraverso l’immagine del diavolo) e non riesce a trattenere il suo disgusto, nel sentire Shylock citare un episodio “scandaloso” della Bibbia. L’ironia shakesepariana si rivela qui tagliente nei confronti del cristiano Antonio, perché, contrariamente a quello che crede, Shylock non pretende affatto di appropriarsi di una tradizione altrui, visto che, ovviamente, attinge dalla propria cultura. In questa battuta del Mercante è quindi condensata, da un lato, la percezione di Antonio  della minaccia che rappresenta l’ebreo “travestito”, ma dall’altro, l’ottusità e la violenza della società cristiana di sentire il bisogno di espropriare gli Ebrei della loro stessa identità, come poi effettivamente accadrà alla fine del dramma

(38)  Sartre (1954).

(39)  Sartre (1954), p. 61

(40) Per il rito del suono dello Shofar come rappresentazione del muggito del capro ucciso e imitazione della voce del totem delle tribu’ ebraiche vedi: T. Reik, “Lo Shofar”in Reik (1949), pp. 230-359. Per il Kippur, come penitenza per l’arcaico atto cannibalistico vedi “Kol Nidre’ ” sempre in Reik (1949). Per la Benedizione dei Sacerdoti (birkat hacohanim), in cui il popolo viene benedetto da un rappresentante dei figli di Aronne nelle sinagoghe nelle festivita più importanti, vedi Reik (1964), pp. 137-151. In questa benedizione il Sacerdote si copre completamente con lo scialle rituale che rappresenta la pelle del capro, dio-padre. Il sacerdote mima la voce e i movimenti del totem in quella che e’ la rappresentazione teatrale del pasto totemico. Per la festa della Capanne (Sukkot), vedi sempre Reik (1964), pp. 19-26 e  per i fatti del Sinai, Reik (1959).

(41) Sartre (1954), p.61

(42) Sartre (1954), p.60.

(43)  Sartre (1954), pp. 120 - 1

(44)  La parola “tribù” torna con molta insistenza nelle battute di Shylock, per esempio: “Sia maledetta la mia tribù, se gli perdono!” (I, iii); “Perché la sofferenza è l’insegna della nostra tribù” (I, iii); “Tubal, un ricco ebreo della mia tribù” (I, iii). Anche i veneziani si riferiscono alla tribalità ebraica di Shylock: “…ecco che arriva un altro della tribù” (III, i). Il conflitto Ebrei – cristiani viene posto immediatamente da Shakespeare nell’ottica, esatta, dello scontro tra Polis e società tribale

(45)  Atto I, i, Antonio: “In verità non so perché sono così triste…” e Porzia, I,ii.: “Parola mia, Nerissa, il mio piccolo corpo è stanco di questo grande mondo…”

(46)  Non è forse senza ragioni che Shakespeare abbia ambientato l’opera a Venezia, non solo per la presenza di un importante ghetto ebraico, ma anche perché Venezia, ancora florida all’inizio del ‘500, perse, nel corso di questo secolo, buona parte del suo enorme peso politico, e si avviò a una inarrestabile decadenza, magnificamente espressa nell’arte di Tintoretto e Tiziano. Più in generale, Venezia, che aveva da sempre intrattenuto rapporti più stretti con l’Oriente che non con il resto dell’Occidente, era esposta all’influsso delle correnti dionisiache in maniera certo più rilevante di qualsiasi altra città italiana, cosa che si riflette in tutta l’arte veneziana, molto più vicina, per spirito e gusto all’arte coloristica bizantina e orientale, che al plasticismo lombardo - emiliano e di tutto il resto dell’entroterra lombardo – veneto. La stessa musica veneziana risente di queste influenze: il magnifico Vespro della Beata Vergine di Monteverdi (1643) risente in più parti di influenze musicali orientali.

(47)  Shylock, in I, iii, 104/127.

(48)  Shylock, in I, iii, 108.

(49) Al termine di una recente rappresentazione teatrale del Mercante di Venezia, capitò di ascoltare i commenti del pubblico, sui personaggi del dramma. Il commento ascoltato fu di unanime condanna nei confronti della crudeltà del “cattivo” Shylock, e di partecipazione per il “buono” Antonio, sebbene molti consideravano il finale, in cui Shylock viene umiliato e travolto, come una nota stonata, che non corrisponde all’idea che ci si fa del “buono”. In realtà molte persone, anche di grande cultura,  che considerano il Mercante di Venezia un’opera antisemita,  hanno nei confronti di questo lavoro un atteggiamento simile, in quanto pensano che rappresentare un ebreo come “crudele”, “tribale” necessariamente un’espressione di antisemitismo. Invece, nel quadro che abbiamo delineato, appare chiaro che questi spettatori trovano solo una conferma dell’idea a priori che essi hanno dell’ebreo, e, come per Antonio, gli risulta completamente irrilevante la giustificazione shakespeariana di questa crudeltà, e non possono comprendere la presa di posizione di Shakespeare, piena di empatia nei confronti dell’Ebreo Shylock. Evidentemente, qui non si tratta di mancanza di cultura o intelligenza, ma di una mancanza che nasce dalla rimozione delle pulsioni dionisiache, qui rappresentate dall’ebreo “crudele” e “tribale”.

(50) Freud (1938c), pp. 412 - 3

(51) Su come le tribù selvagge e i primitivi abbiano la tendenza a forme di monoteismo primitivo cfr.: Schmidt (1912-1955), (1931), (1933), come pure Reik (1959), p.53.
 

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