IL SALE DELL’ANIMA, LO ZOLFO DELLO SPIRITO * (J.Hillman) -3
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SOLUZIONI ALCHEMICHE

 

Il sale è la sostanza minerale o fondamento oggettivo dell’esperienza personale che rende possibile l’esperienza. Niente sale, niente esperienza, ma solo uno scorrere e un dissiparsi di eventi senza corpo psichico. Il sale, dunque, è ciò che fa sì che gli eventi siano vissuti con i sensi e con il sentimento, dando a ciascuno di noi il senso del personale: le mie lacrime, il mio sudore e sangue, il mio gusto, il mio valore. L’intero opus alchemico dipende dalla capacità di esperire soggettivamente. Perciò nel Tractatus aureus è detto: «Colui che opera senza sale non farà mai levare i corpi morti». Se non si opera con il sale, le materie sono solo macrocosmiche e chimiche, poste là fuori, cose morte. Queste esperienze intensamente personali, che danno gusto e sapore agli eventi, sono nondimeno comuni a tutti: sono mie eppure di tutti, come il sangue, come l’urina, come, appunto, il sale. In altre parole, il sale agisce da terreno su cui poggia la soggettività («Ciò che rimane sul fondo della storta è il nostro sale, vale a dire la nostra terra »), rende possibile ciò che la psicologia chiama il vissuto di un’esperienza. È lì dunque, a quel fondo, che dobbiamo rivolgerci per estrarre il nostro sale.

Dalla prospettiva del sale alchemico, il vissuto soggettivo assume un significato radicalmente diverso da prima. Possiamo immaginare le nostre profonde ferite non più soltanto come lacerazioni da rimarginare, ma come cave di sale dalle quali trarre un’essenza preziosa e senza le quali l’anima non può vivere. Il fatto che si ritorni sempre di nuovo a queste profonde ferite, pieni di rimorso e rimpianto, di pentimento e desiderio di vendetta, è indicativo di un bisogno psichico che trascende una mera, meccanica coazione a ripetere. Vuol dire che l’anima possiede un impulso a ricordare; è come un animale selvatico che torna a leccare gli stessi terreni salati; l’anima si lecca le ferite per trarre di lì sostentamento. Noi produciamo sale quando soffriamo e, elaborando le nostre sofferenze, aggiungiamo sale, guarendo così l’anima della sua malattia da carenza di sale...

Sale, un pizzico di sale: bisogna sentire il pizzicore dell’evento che brucia; laddove il piombo sembra richiedere tempo, il tempo dell’attesa. L’effetto della cura a base di sale è un nuovo senso di ciò che è accaduto, un nuovo apprezzamento della sua virtù per l’anima...

Si può estrarre sale, inoltre, da qualunque cosa sia stabile. In quanto principio di stabilità, il cui segno alchemico era il quadrato, il sale può essere estratto dalle rocce dell’esperienza concreta, da quegli elementi fissi che contrassegnano la nostra vita con punti fermi. E questi punti, questi luoghi non sono soltanto fatti concreti (la mia laurea, la mia proprietà, il mio incidente automobilistico, il mio stato di servizio in guerra, il mio divorzio); sono anche i luoghi dove il corpo psichico è messo sotto sale per conservarlo. Quelle rocce, se riconosciute e vissute come mie, fanno parte della storia della mia anima, là dove essa è stata messa sotto sale dagli aspetti fissi dell’esperienza, cristallizzando un poco la mia natura e proteggendomi da infiammazioni e volatilizzazionì...

Il sale non viene prodotto con il fuoco, ma con successive dissoluzioni. Il sale è solubile. Il piangere, il sanguinare, il sudare, l’orinare fanno affiorare il sale dalle sue miniere interiori, sotterranee. Il sale si manifesta nei nostri umori, che sono il fluido attraverso il quale esso affiora alla superficie. «Nel corso dell’opera esso [il sale] diviene simile al sangue» (CW, vol. XIV, par. 337; trad. it., vol. XIV, p. 152, nota 478).

I momenti di dissoluzione non sono momenti di mero collasso; essi fanno scaturire dalle incrostazioni dell’abitudine un senso di valore umano personale: «Sono anch’io un essere umano, degno del sale che mangio»; di lì il mio sangue, sudore e lacrime...

Visti dalla prospettiva del sale, i traumi infantili sono momenti di iniziazione al senso di essere un «me», con un’interiorità personale, soggettiva. Noi tendiamo a fissarci sulla cosa che ci è stata fatta e sulla persona che ce l’ha fatta: risentimento, desiderio di vendetta. Ma ciò che conta psicologicamente è che qualcosa sia stato fatto: il colpo, il sangue, il tradimento. Come la cenere che viene strofinata sulle ferite nei riti di iniziazione per purificarle e farle spurgare, l’anima è segnata dal suo trauma. Nel battesimo cristiano si usa ancora toccare il corpo con il sale e nella Pasqua ebraica il sale viene mangiato a commemorazione del trauma. Il trauma è una cava di sale; è un luogo fisso per riflettere sulla natura e sul valore del mio essere personale, di dove ha origine la memoria e ha inizio la storia personale. Quegli eventi traumatici fanno nascere nell’anima il senso di essersi incarnata come soggetto esperiente sempre vulnerabile.

Paradigma del «guardare indietro» – del ricordare – è la storia della moglie di Lot. («Lot» e «moglie di Lot» erano espressioni usate in alchimia per indicare il sale: vedi il Dizionario di Johnson). Poiché non seppe trattenersi dal guardare indietro alle rovine di Sodoma, dalla cui distruzione erano stati salvati, la moglie di Lot fu trasformata in una statua di sale. I commentatori ebraici dicono che fu l’amore materno a indurla a guardare indietro per accertarsi che le figlie sposate li seguissero; e anche i commentari cristiani al passo di Luca (Lc, 17,32) vedono l’origine del suo gesto nel riaffacciarsi alla mente di familiari e parenti, in un personalismo degli affetti. Evidentemente, le fissazioni familiari sono a loro volta miniere di sale. Le delusioni, gli affanni, i bruciori dell’amore che costellano il complesso materno (le serate a sfogliare l’album delle fotografie, i pegni sentimentali) sono modi in cui la psiche produce sale, rivolgendosi nuovamente agli eventi per volgerli in esperienze.

Il pericolo in questi casi è sempre la fissazione, fissazione al ricordo, al trauma infantile, o a una nozione letteralizzata e personalizzata dell’esperienza stessa: «Io sono la mia esperienza». Paracelso infatti definì il sale il principio di fissazione (Il, 366).

(Salt, pp. 117-20)

 

La freddezza dell’immagine, per esempio della luna o del mondo infero, e il freddo distacco grazie al quale vediamo in trasparenza fino a scorgere l’immagine, possono finire afferrati, come dall’esterno, dal calor inclusus, l’innato calore dell’amore che nell’immagine si annida. Sicché, entro ogni circostanza sotto il segno dell’argento (fantasia creativa, pensiero intellettuale, riflessione speculare) esisterà una propensione a bruciare con il fuoco dello zolfo. Forse, quanto meno è attivato il calore innato dell’amore dentro l’immaginare (vale a dire quanto meno è manifesto il rame o quanto più è timido e viscoso lo zolfo), tanto più l’argento della psiche è suscettibile di ustioni repentine al suo involucro esterno con il che io intendo l’esteriorizzazione e la letteralizzazione dello zolfo nativo in desideri non più capaci di vedersi come immagini (annerimento dell’argento). Di qui l’importanza di riconoscere, come stiamo cercando di fare in questo capitolo, tutte le implicazioni e i sottintesi dell’argento. Vogliamo attivarlo in modo che non annerisca, in modo che le nostre immagini non rimangano bruciate dalla loro innata vitalità.

(Silver.I, p. 28)

 

La psicologia alchemica condensa in modo ammirevole i due tratti del cuore leonino (la conformità del suo pensiero e la sua oggettivazione) in quella sostanza alchemica, il Sulphur, lo zolfo, che è il principio di «combustibilità», la magna fiamma.«Dove si può trovare questo sulphur?» – domanda Sendivogius, benedettino inglese del quattordicesimo secolo – «In tutte le sostanze, in tutte le cose del mondo: metalli, erbe, alberi, animali, pietre sono il suo giacimento».

Tutto ciò che d’improvviso si illumina, attira la nostra gioia, si accende di bellezza, ciascun roveto è un dio che arde: questo è lo zolfo alchemico, la faccia infiammabile del mondo, il suo flogisto, la sua aureola di desiderio, enthymesis diffusa. Quella succulenza verso cui tendiamo come consumatori è l’immagine attiva che è in ogni cosa, l’immaginazione attiva dell’anima mundi, che infiamma il cuore e lo provoca a uscire.

Il momento della conflagrazione è anche, contemporaneamente, quello della coagulazione: zolfo è ciò che aderisce, la mucillagine, la «gomma», ciò che congiunge, l’appiccicosità dell’attaccamento. Lo zolfo letteralizza il desiderio del cuore nell’istante stesso in cui il thymos fa ardere di entusiasmo. Conflagrazione e coagulazione avvengono insieme. Desiderio e oggetto del desiderio diventano indistinguibili. Ciò di cui brucio mi attacca a sé; sono consacrato dall’olio del mio stesso desiderio, prigioniero del mio stesso entusiasmo e dunque in esilio dal mio cuore nel momento in cui più mi sembra mio. Noi perdiamo l’anima nell’istante in cui la scopriamo: «Dolce Elena,» – dice il Faust di Marlowe – «rendimi immortale con un bacio. / Le sue labbra mi suggono l’anima: vedi, essa s’invola!». Perciò Eraclito dovette contrapporre thymos e psyche: «Contro la brama della passione è arduo combattere: qualsiasi cosa voglia, difatti, essa è disposta a pagarla con l’anima».

Questo amore nel cuore del leone la psicologia oggi lo chiama proiezione coatta. Ma la base alchemica di questo tipo di proiezione è in realtà lo zolfo del cuore che non riconosce di stare immaginando. La himma, il proietto oggettivo, viene letteralizzata negli oggetti del suo desiderio. L’immaginazione è scagliata verso l’esterno, in avanti; quindi non sì tratta tanto di ritirare questi tipi di proiezione (chi li ritira e per metterli dove?), quanto di fare il salto per raggiungere il proietto, reclamandolo come immaginazione, con ciò stesso riconoscendo la pretesa della himma che le immagini siano sempre esperite come corpi sensuosi dotati di autonomia. La proiezione non è un meccanismo uniforme: ne esistono molti stili. Quella del cuore richiede una modalità di coscienza a sua volta leonina: orgoglio, magnanimità, coraggio. Desiderare e vedere in trasparenza il desiderio: è questo il coraggio richiesto dal cuore.

Come dice Jung: «... lo zolfo indica la sostanza attiva del sole ... il fattore che muove la coscienza, ossia da un lato la volontà ... e dall’altro l’impulso che si riceve dall’interno» (CW, voI. XIV, par. 151; trad. it., vol. XIV, p. 124). La coazione diventa volizione attraverso il coraggio; è nel cuore che vengono eseguite le operazioni sullo zolfo. Torneremo su queste operazioni nella seconda parte. Adesso basti riconoscere come la proiezione coatta sia un’attività necessaria dello zolfo, il modo in cui questo cuore formula pensieri, dove pensiero e desiderio sono una cosa sola.

Il nostro leone infuria e il nostro zolfo brucia. Il nostro santo è divorato dai leoni. Non possiamo lasciar scatenare il nostro furore estetico nella sua forma elementare. La psicologia alchemica riconosceva questo bisogno di lavorare sul leone.

Per la psicologia alchemica, gli zolfi nero e rosso e il leone verde hanno un disperato bisogno di essere sublimati. Un metodo molto conosciuto consiste nel tagliar via le zampe del leone verde, privandolo così della possibilità di fare ingresso nel mondo. Il leone tuttavia sopravvive come succus vitae del cuore, giacché, come apprendiamo da Corbin: «Il verde è il colore del cuore e della vitalità del cuore». Il colore della himma deve essere il verde, come il propulsivo zolfo naturale, che è anche la verde-rossa, cuprea dea Venere. Questo verde ardente va illuminato, lo zolfo va purificato: un imbiancamento del cuore.

Il rendere bianco il cuore è un opus contra naturam. Ci aspettiamo che il cuore sia rosso come il suo sangue naturale, verde come la speranza del suo desiderio. Questa operazione sul cuore trae origine dal dilemma, proposto dallo zolfo, di un’immaginazione prigioniera nel suo zolfo, che divampa e si coagula nel medesimo istante, di un’immaginazione fusa nel suo desiderio e il suo desiderio fuso con il suo oggetto; e di una himma accecata, incapace di distinguere tra sentimento e immagine, tra immagine e oggetto, tra oggetto e soggetto, tra vero immaginare e illusione.

L’alchimia parla sovente di sublimare fino a ottenere uno zolfo bianco come neve. L’operazione non consiste soltanto nel calmare e raffreddare, le «colombe di Diana». In realtà la sublimazione comporta di assecondare il fuoco – il simile che cura il simile – di alzare la temperatura fino a calore bianco, in modo da distruggere tutti i coaguli nell’intensità del desiderio, sicché ciò che desideriamo non conta più, nel momento stesso in cui conta di più, l’urgenza stessa del desiderio essendo ora sublimata, traslucida, tutta fiamma.

(Thought of the Heart, pp. 7-9, 45-46)

  

  

J. Hillman

 

L’articolo è tratto dal testo “Fuochi blu” di J. Hillman. Si rimandano i lettori all’opera completa, pubblicata dalla Casa Editrice Adelphi Edizioni – via S. Giovanni sul Muro, 14 – 20121 Milano – Tel. 02 72 00 09 75 – Fax 02 890 10 337 – info@adelphi.it