Luigi Pagliarani
Psicosocioanalisi del potere e dei conflitti (Fonte)

 

Di fronte a momenti di grande sgomento, come quando si vede l’uccello tuffarsi nel petrolio,, il cadavere di un bambino ucciso dalla mafia, gli ennesimi sconfitti affollare una favela, una diga di cemento affogare la foresta, non c’è bisogno di rintracciarsi in una reazione fatta di rabbia, impotenza, cinismo o rigetto. Con la dolcezza, si può essere semplicemente tristi… La tristezza è un sentimento profondo. È una linea diretta con l’anima e con le trippe. Abbiamo troppa tendenza nella nostra cultura a pensare che essere tristi sia una cosa negativa, che bisogna esserlo il meno possibile. Ma vivere senza tristezza sarebbe una condanna ancora piú pesante. La tristezza è un appello dall’interno, un appello intimo che chiede all’uomo di fermarsi. Gli dice che ha appena vissuto una cosa molto importante, e che non bisogna rimuoverla subito, non biogna far finta che non fosse niente.

La prima vera e mozione, di fronte alla distruzione della vita che abbiamo innescato, è la tristezza. E allora culliamola un po’, stiamoci dentro, non la cacciamo via. Perché la tristezza ci aiuta a vedere piú chiaro. Ci permette di ascoltare tutte le voci del nostro essere. È un grande raccordo con le cose che contano. Ci permette di accettare la nostalgia per un mondo piú umano. Ci dice che rimpiangere è normale, che i ricordi possono anche far male, ma che sono importanti come i sogni.

La tristezza ci aiuta quindi a cercare con calma il modo di ripartire, di rilanciarsi sul viale della vita. Ci permette di affrontare le nuove difficoltà con uno sguardo piú profondo, che va all’essenza delle cose, che non si ferma all’apparenza. È importante tenere sempre un legame solido con la tristezza, che ci accompagna come un cane fedele, che ci guida nei momenti difficili.

E allora la tristezza ci regalerà la piú bella delle cose : essere finalmente capaci di godersi i momenti belli e felici in modo totale. Cristoph Baker [ da "Elogio della dolcezza" ]

 

Lungo è il percorso dall’intelletto al cuore. Leibniz

L’intelligenza è praticamente inutile a colui che possiede solo quella. Alexis Carrell

…e nessuno è mai stato salvato da un concetto. Huxley

Se è vero che l’omicidio esprime meglio di ogni altra cosa il potenziale negativo umano, è anche vero che il potenziale positivo si trova nell’’arte. Brodskij

 

Un po’ di poesia per fermare il massacro. Mahmoud Darwich

 

Il vero flagello, "la fine del mondo" è la paura di amare: si ha paura dell’amore, dall’alto al basso della scala sociale si vorrebbe essere felici, si vorrebbe godere, ma non soffrire. Che miserabili, che disgraziati e soprattutto come ammalati tutti questi poveri evirati… del sentimento. Tutto ciò che è forte li turba e li inquieta!.
Sono timido e nello stesso tempo temerario: guardo con timore e turbamento quello che nasce dal mio cervello e dal mio cuore.
Rouault

L’amore è un padrone migliore del dovere. Einstein

L’amore va inventato ora per ora. Non si dà amore senza i problemi dell’amore. Anonimo

Chi risponde a tutto, non si è fatto tutte le domande.
Il compito dell’uomo di teatro? Cercare nel buio qualcosa che non c’è. E trovarlo..
Ennio Flaiano

Mondo, sii, e buono: / esisti buonamente, / fa’ che, cerca di, tendi a, dimmi tutto, / ed ecco che io ribaltavo eludevo / e ogni inclusione era fattiva / non meno che ogni esclusione; / su bravo, esisti, / non accartocciarti in te sesso in me stesso.. […] Su, bello, su. // Su, münchausen. Andrea Zanzotto [ da "Al mondo" ]

Eterno è il male, se eterno / il mirare al bene, quasi / per reciproco coinvolgimento. Piero Bigongiari

 

Ho visto uomini e donne rischiare e sacrificare la vita per un ideale, ho visto uomini e donne resistere alle aggressioni e alle torture, dando prova di una forza d’animo e di una tenacia che sfidano l’immaginazione. Ho capito che il coraggio non è la mancanza di paura, ma la capacità di vincerla. Anch’io ho avuto paura piú spesso di quanto non riesca a ricordare… […] Sapevo che l’oppressore era schiavo quanto l’oppresso, perché chi priva gli altri della libertà è prigioniero dell’odio, è chiuso dietro le sbarre del pregiudizio e della ristrettezza mentale. L’oppressore e l'oppresso sono entrambi derubati della loro umanità. […] Per rappacificarsi col nemico è necessario cooperare con lui, fare del nemico il proprio alleato. Nelson Mandela

Nihil inimicius quami sibi ipse. Cicerone

Fare " il meglio che si può con quello che si è" Bion

Chi dice la verità presto o tardi sarà scoperto. Oscar Wilde

 

Bion, di persona, non l’ho mai incontrato. Per un equivoco. La cosa risale a molti anni fa. Resnik – mi pare fossimo a Venezia – mi preannuncia un seminario che sta promuovendo con Bion. A Parigi o a Lione? ( non ricordo bene). Mi interessa enormemente, sicché da quel momento aspetto di venire informato sulla data. Una mattina, qualche tempo dopo, mi sento chiamare dalla Francia. C’è Resnik all’apparecchio. Mi dice che il seminario con Bion sta per cominciare e mi chiede come mai non mi faccio vivo. Scopro cosí che entrambi stavamo aspettando. Nel vuoto.

Ma quel seminario – di cui potei leggere in seguito la trascrizione – non l’ho piú dimenticato. In particolare questo scambio di battute:

Bion: Secondo la mia esperienza, numerosi analisti non sanno affatto che genere d’artisti essi siano.

Resnik: Ma che fare se non sono artisti?

Bion Se non sono artisti, hanno sbagliato mestiere,

Un’altra occasione mancata fu per me il seminario romano ( luglio ’77). In quell’estate ero in Spagna. Al mio rientro ero impaziente di interpellare chi c’era stato per sapere com’era andata. "Sí, interessante – fu il giudizio di un eminente psicoanalista – ma mai che risponda alle domande che gli fai! Guai! A lungo andare una provocazione." Questo modo di dialogare di Bion gode ormai di una nutrita aneddotica. Classica è la replica di Bion – durante i seminari di Los Angeles - a chi, irritato, gli rinfaccia il suo svicolare, insistendo per avere finalmente una risposta. E Bion, che fino allora aveva parlato in inglese, se ne esce citando in francese il detto di Blanchot – "La réponse est le malheur de la question", appreso da André Green al loro primo incontro. La risposta uccide la domanda, "kills the curiosity", chiude cioè lo spazio di scoperta senza cui non c’è sviluppo mentale ed emozionale. Perché si corre un pericolo nell’essere curiosi, come ben sa l’animale col suo fiuto. Da ciò il delitto di lesa curiosità. o per lo meno perdita di cui non vanno esenti – va detto – Freud e la stessa società di psicoanalisi. Bion, per onestà intellettuale, arriva a dire del padre: "Non credo che il suo sistema abbia davvero lasciato spazio neppure al suo stesso evolvere". Nelle "Four Discussions " (Los Angeles, primavera 1976) si chiedeva addirittura : "Dato che non sappiamo niente circa la mente, perché non supporre che l’intera opera di Freud sia un elaborata paramnesia costruita perché non poteva tollerarne l’ignoranza ?*. E ancora: "… è pericoloso essere soddisfatti della psicoanalisi stessa; uno psicoanalista deve essere insoddisfatto – dis-satisfied – della psiconalisi." Il pericolo è quindi doppio: nel giustiziare la curiosità e nel praticarla.

L’ormai famosa – famosa adesso, persino ritualizzata, ma non alla sua prima enunciazione – capacità negativa altro non è che l’antidoto della viltà cerebrale insofferente dello stato d’attesa, gravido, pregno – esattamente come una donna incinta – di fertilità, di natalità. Condizione necessaria a che venga al mondo una creatura. L’impazienza, al contrario, è paradossalmente abortiva. La tolleranza del vuoto – otium e non negotium –, come paziente attesa promuove la prospettiva - sperabilmente, ma senza nessuna certezza - dalla comparsa della Musa . Esigente levatrice che pretende – per la vitalità del nascituro – il non ricorso all’anestesia, ai tranquillanti ( le risposte: una sorta di Valium psichico) per addormentare l’angoscia genetica. Una sofferenza esaltata e sperimentata da Keats cosí come da tutti i poeti veri, dagli artisti. "Il poeta si mette davanti a un vuoto e questo vuoto gli dice", afferma Franco Loi. La mancanza : frustrazione pregna, grembo della creatività, dello sviluppo, della crescita. "Il Dio che dobbiamo amare è assente", cosí Simone Weil parlando sulla stessa tonalità.

Provocazione, sí, ma secondo il significato originario del termine. Fedro del ginnasio ci raccontava che "ales vigili provocat ore diem"; il gallo col suo vigile canto chiama il giorno. Bion provocatorio chiama l’altro alle proprie parole, alle idee nuove del giorno nascente – la domanda è un’alba – affinché non ripeta quelle del giorno prima, ormai tramontato.

Del resto l’appello a rinunciare alla memoria, al desiderio, alla comprensione appartiene secondo me alla stessa sintassi strategica della capacità negativa. L’incontro col paziente sarà un vero incontro solo se il clima della seduta non è pre-occupato, e pertanto falsificato, inquinato dal già accaduto ieri o dal programmato per l’indomani. L’autenticità dell’hic et nunc chiede la coniugazione del verbo "succedere" al tempo presente. Atteggiamento difficile da adottare, stante la vischiosità di certe abitudini, anche per una mente aperta e libera come quella di Winnicott. In una lettera dell’ottobre del ’67 Winnicott esprime "per prima cosa" a Bion il suo "grazie per la serata molto interessante". Bion vi aveva letto proprio il lavoro sulla "Negative capability". Significativemente Winniccot aggiunge: "Non ho ancora chiarito dentro di me la questione della memoria e del desiderio …" Non è un rifiuto, bensí una perplessità vòlta a stimolare la riflessione di entrambi. "Caro Bion, desidero che lei sappia quanta considerazione ho del lavoro che lei sta facendo e che ci presenta nelle sue comunicazioni sul pensare. Come molte altre persone, le trovo difficili, ma estremamente importanti." ( lettera nel novembre 1961 che concludeva: " So che la sua formulazione contiene qualcosa di nuovo per me, che è di importanza vitale, ed è questo che sto cercando di elaborare. Naturalmente parto dal mio linguaggio, cosí come lei parte dal suo. Ancora grazie".

M’è capitato anni fa di partecipare ad un bel seminario di André Haynal sulla creatività ( a Lugano). Durante la discussione mi riferii alla capacità negativa di Keats-Bion. Lo psicoanalista ungherese replicò candidamente confessando che non riusciva a cogliere, e tanto meno a condividere il senso di quella proposta. La psicoanalisi è anche Erinnerung; la memoria, il passato non vanno cancellati, per meglio capire il presente e preparare il futuro. E Bion, dissi a mia volta, non nega questa funzione. Non a caso la sua trilogia porta il titolo, apparentemente paradossale, Memoria del futuro. Ma un conto è che il ricordo del passato sia pre-disposto - cataratta che impedisce la vista – e il futuro pianificato , e tutt’altra cosa è il riaccendersi del ricordo nella freschezza del dialogo, come pure l’aprirsi improvviso di uno spiraglio sull’avvenire. Haynal convenne che sí la presentificazione spontanea del passato imprime il sigillo dell’autenticità in quella riesumazione; ugualmente il futuro albeggiante dal presente ci garantisce che il progetto non sia fuga in avanti. Conquista, insomma, dello spazio di scoperta. Il che, curiosamente, fornisce ulteriore veridicità proprio all’affermazione dallo stesso Haynal, per cui in seduta ci si deve chiedere "Che cosa ci sta succedendo adesso?" Sempre hic et nunc e non illuc et tunc. Presentismo.

Spontaneità tipica dei bambini, se non sono stati stampati dai timbri, dalle pre-occupazioni degli adulti. Teresa ha cinque anni. Nel congedarsi da Viviana, l’educatrice cui è affezionata, le sfiora il viso con le labbra e dice: "Questo è un bacio appena nato". Non ha letto Bion, ovviamente, ma la sua naturalezza le ha appreso che "possiamo avere consapevolezza e coscienza solo dei sentimenti del presente". Queste parole difficili Teresa non le sa, ma ne pratica schiettamente il senso. E di fronte al suo bacio "appena nato", prezioso, sfigura la pletora dei tanti baci fotocopia che spendiamo a spreco. Per quel niente che costano, svalutati come sono dall’inflazione. Ripetizione e non invenzione. Anteros, non Eros.

Chiamiamo "pazienti" le persone che frequentano i nostri studi. Per convenzione fallace. In realtà entrano in analisi da "impazienti". Usciranno semmai – se tutto va bene – a fine percorso da pazienti. Se, beninteso, terminare l’analisi – come dice Meltzer - comporta ammalarsi d’amore. Per l’universo coppia si può ipotizzare una quinta dimensione – il TEMPAMORE - le cui pulsazioni, i suoi ritmi ci dispongono anche a vivere e a soffrire la simultaneità di solitudine e di dipendenza. Donde i conflitti intrapsichici e interpersonali. La relazione è luogo di tutti i disturbi ed insieme risorsa per sanarli. Di qui la peculiarità e la legittimità della psicoanalisi. Oltre il divano nel nome di Freud se – come sosteneva da fondatore – la psicologia non può non essere psicologia sociale. O con Bion che - rifacendosi ad Aristotele fin dal primo lavoro sui gruppi – s’impossessava a suo modo della definizione dell’uomo come animale politico. Cittadino della polis mira secondo ragione – se non delira o non si annulla nella protocultura degli assunti di base – alla buona legge, partorita dalla democrazia. Che cos’è la democrazia? Fiumi d’inchiostro ce l’hanno descritta nei secoli e continuano ogni giorno, si può dire, ad allagarla. Per perfezionarla o per affogarla? Dilemma odierno. Autorizza il sospetto l’interminabile , fiacca polemica sulla Bicamerale.. Per me l’essenza della democrazia, il suo identikit sta in un unico connotato, tanto facile a dirsi quanto difficile a riscontrare nella realtà. Semplicemente: per sussistere la democrazia esige l’opposizione. Ergo: è conflittualità di poteri.

Ci informa Eric Trist che l’ultimo Bion , con la perspicacia di sempre della binocularità , era approdato al convincimento di coniugare la prospettiva psico- con la prospettiva socio- . Si profila cosí la psico-socio-analisi, che spazia oltre la socioanalisi di Jaques ( del resto ripudiata recentemente dal suo autore). Con la scoperta di nuovi elementi di conoscenza sul potere, utilissimi a spandere un po’ di luce sull’enigma della Sfinge. L’ultimo Bion ci propone la coesistenza – non pacifica, penso - di una buona e di una cattiva forma di gestione del potere. La buona è caratterizzata da globalizzazione, integrazione, coerenza. La forma cattiva da monopolio ed esclusione. Un’intuizione magistrale. Applicabile subito e con efficacia euristica alla politica.

La tirannia, il totalitarismo, il fascismo in sostanza di che cosa son fatti? Di monopolio, appunto, e di esclusione. "Il Duce ha sempre ragione", "Chi non è con noi è contro di noi", "Duce sei tutti noi": ritornelli echeggianti nella mia adolescenza, parole d’ordine del ventennio. Già, durò vent’anni. Lo stalinismo un po’ di piú, il nazismo un po’ di meno del ventennio. Ecco una domanda: perché il dispotismo del tiranno tende a durare? C’è una collusione tra la piazza e il balcone. Con il conseguente corollario: perché le masse riempiono le piazze per osannare il Capo, prima, come Uomo della Provvidenza, e per esecrarlo dopo come responsabile del disastro? Al canto della "Marsigliese" è stata conquistata la Bastiglia; ma ha anche risuonato nel Terrore, con Napoleone imperatore e alla cacciata dei nazisti. Idem si può dire per l’"Internazionale", con Stalin e con Gorbaciov. Il gruppo macro e micro – ce l’ha insegnato Bion penetrando l’antro della psicosi – corre questo rischio, a differenza dell’individuo che rischia la nevrosi.

Come mai? A me vien da dire che l’essere umano, considerato singolarmente, è piú portato alla capacità negativa; invece al plurale l’uomo, disfacendosi come cera nella fiamma della massa, soffre l’horror vacui, il vuoto – da occasione di scoperta per l’individuo - è vissuto dal collettivo in preda al panico come un abisso terrificante. Ma, allora, quando e come la massa delirante si trasforma in popolo responsabile? Capace cioè del coraggio e dell’intelligenza di cercare e di trovare le risposte ai problemi? Quando e come nel teatro della storia agisce una fratellanza cooperante a che il libero sviluppo di ognuno sia condizione del libero sviluppo di tutti? Ci soccorre nell’indagine Bion. I due esiti contrapposti si spiegano col fatto che il conflitto ha bisogno di conoscere e di negare. Un’antinomia che riguarda l’endo-cosmo di ognuno, l’eso-cosmo, la società. gli stati, la famiglia. Si ha un clima familiare tirannico o bellicoso – dove c’è schiavitú (monopolio ed esclusione) o dove scorre addirittura il sangue – e si ha invece un clima familiare armonico, cioè democratico, se è accesa la luce realistica del principio esigente l’opposizione. Un clima per cui – come recita l’Anonimo – "L’amore va inventato ora per ora. Non si dà amore senza i problemi dell’amore."

Una domanda che mi pongo fin dai tempi de "Il coraggio di Venere", rimasta allora senza risposta, suona: perché Venere fa l’amore con Marte? Come mai la dea della bellezza e dell’amore abbraccia il dio della guerra?

Un indizio che ci può guidare verso una risposta persuasiva è il fatto che da quegli amplessi nasce Armonia. Evento possibile se Marte si spoglia dell’elmo e della corazza, lasciando asta e scudo sul prato per il gioco gioioso dei putti, gemelli di Cupido. Avete presente la tavola "Venere e Marte" di Botticelli (che è alla National Gallery) ? Il mito ci avverte però che Armonia ha dei fratelli; si chiamano Terrore e Spavento. Uscendo dal simbolismo, il conflitto approda alla soluzione bella e buona – all’armonia - se è stato elaborato con intelligenza ( con "saggezza" preferisce dire Bion, consapevole che noi uomini possiamo essere insofferenti del carico di intelligenza che saremmo chiamati a sopportare). Ma se il conflitto viene negato? All’eventualità della pace si sovrappone la dichiarazione di guerra. "Guerra, parola paurosa e fascinatrice": cosí esordiva un articolo di Lui su Il popolo d’Italia che al ginnasio ci facevano imparare a memoria. Perché la guerra ha un suo fascino? Interrogativo che può essere rovesciato con le parole di Wim Wenders, il regista di "Un angelo a Berlino":

 

Io mi considero un propagandista di Bion, da molti anni. Mi si capirà se racconto come lo sono diventato. Vedo ancora adesso quella strana automobile con la stella bianca sul cofano – imparai dopo che si chiamava jeep – con cui apparvero i soldati americani sul limitare del lager. Era l’aprile del 1945. Tra varie vicissitudini rientrai in una Rimini distrutta soltanto dopo Ferragosto. In quei mesi, esaurita l’euforia della vittoria degli alleati, fiutai da vicino il vento della guerra fredda. È vero, il nazismo e il fascismo uscivano sbaragliati dalla grande alleanza. Ma lo schieramento si era rovesciato. In un patto non scritto, ma visibilissimo (prima ancora del discorso di Chrchill a Fulton, quello della "cortina di ferro") : l’ovest aveva scelto i tedeschi come nuovi alleati; il nemico temibile ora era l’Unione Sovietica. Lo capimmo sulle nostre nuche, colpite dai manganelli di un’improvvisata polizia germanica. Alla timorosa, sorridente acquiescenza con cui, fraternizzando un comune ideale ("Krieg nicht gut") era subentrata sul volto di quegli uomini la grinta della rivincita. Un’arroganza che congelava il sogno di badare ai fatti miei – ora che non aveva piú senso la lotta antifascista - di riprendere gli studi, gli svaghi, il quieto vivere. S’imponeva la priorità per me e per chi la pensava come me di fare di tutto, nei nostri limiti, di riprendere la lotta per impedire lo scoppio della terza guerra mondiale. Cosí rientrai nella milizia politica. Sia pure tra le macerie si ballava il boogie-woogie, ma io in quel residuo di estate non conobbi il "tremolar della marina". Non sto recriminando. Anche senza i bagni fu una meravigliosa stagione d’impegno, di solidarietà, di fraternità. E anche di agapi, per definire con retorica eleganza le gran magnanze di quelle sere. La ricostruzione era agli inizi, le strade asfaltate non c’erano ancora, ma sulle nostre tavolate garrivano le tagliatelle, le arrostite, il Sangiovese. Cosí diventai "partigiano della pace", come ci chiamava il partito comunista ( ma già Manzoni aveva escogitato quell’ap-pellativo). Uscii poi dal partito, senza abbandonare però la campagna per la pace. Anzi l’interesse per la psicologia – vivo fin dall’università ma in forma intellettuale – divenne piú sostanziale. Sotto la direzione di Kanizsa abbordai la Gestalt , ma di quella scuola m’attirò la lezione di Kurt Lewin sulle dinamiche di gruppo, sulla teoria del campo ( ripresa oggi da alcuni psicoanalisti, tra cui primeggia in Italia Antonino Ferro sulla scia dei due Beranger). "Resolving social conflicts" di Lewin fu la mia bibbia di quei giorni. Poi l’immersione nella psicoanalisi con Fornari. Erano anche gli anni del pericolo nucleare, che induceva Einstein ad auspicare una nuova mentalità, e con diverso accento lo stesso Bion il quale, richiamando la scomparsa dei dinosauri, avvertiva che lo stesso destino poteva toccare alla specie umana. Fornari veniva affacciandosi alla platea internazionale con la teoria della guerra come elaborazione paranoica del lutto. Fondammo insieme il Gruppo Anti-H e quindi l’Istituto di polemologia, nella convinzione molto sentita di pensare ed applicare la scienza dei conflitti col fine di organizzare la speranza (cfr. "Dissacrazione della guerra. Dal pacifismo alla scienza dei conflitti", 1969).

Qui alla mia attenzione s’affaccia il nome e il lavoro di Bion. Attraente e difficile. Spero una chiarificazione da " Elements of psycho-analysis". Elementi – mi dico – cioè elementare. Mi butto sul libro. Piú oscuro ancora, quasi criptico. Ma non demordo. La fortuna (ma anche la curiosità) mi fanno trovare "Psychiatry in a Time of Crisis". Pubblicato nel 1948, la conferenza alla Società Britannica di Psicologia risale però al 1947. Perciò qui ricorre anche il cinquantenario di questa sfida, attuale oggi piú di ieri.

Degli innumerevoli atti da agit-prop di Bion voglio qui ricordare la relazione svolta nel marzo 1988 al convegno promosso dalla sezione clinica della SIPs. Sotto il titolo IL NECESSARIO APPRENDIMENTO DELL’AMBIGUITÀ vi figurava in ex-ergo questa riflessione di Kandinskij:

 

In effetti il titolo completo suonava: Dal cuore che allatta la mente [espressione rubata a Keats] la possibile salvezza – ovvero: Il necessario apprendimento dell’ambiguità. Per la verità il titolo che m’era venuto di getto ( poi auto-censurato perché poteva apparire indecente in un consesso scientifico) diceva: " "Il cuore ha piú stanze di un casino" ( da L’amore ai tempi del colera di Gabriel García Màrquez) – E la mente?". Premessa indispensabile: la netta distinzione tra ambivalenza ed ambiguità. Il primo sentimento indica uno stato dell’essere – individuale, di coppia, sociale – in cui la conflittualità, la dissonanza, le contraddizioni risultano insostenibili; invece nel secondo – rispecchiabile alla binocularità di Bion - la sofferta – non, cioè, insofferente – coesistenza dei contrasti e delle simultanee molteplicità è tollerata, donde possibili scoperte grazie alla visione piú realistica del mondo, interno ed esterno.

E subito traevo spunto dall’articolo – poco noto, dicevo allora – PSYCHIATRY AT A TIME OF CRISIS del 1948. Osservando il crescente, allarmante jato tra il progresso tecnologico e la nostra insufficiente capacità di gestire e governare sanamente le emozioni – un gap che ci può trascinare alla rovina – Bion coglie in questo stato di fatto una sfida che proprio la psicologia e gli psicantropi sono chiamati ad affrontare. Considerando anche che, per logica interna, la gerarchia di una certa tecnologia produce e promuove capi insensibili, quando al contrario si rende necessaria – a tutti i livelli - la civiltà di stili di leadership che sappiano affrontare le emozioni, a fare i conti specie con quelle angoscianti. Crescita spuria quella dell’imperio tecnologico di cui ci rendiamo ubbidienti seguaci nel segno sterile della mimesi, dell’imitazione anestetica. "La scienza fa che i cuori durino piú a lungo, ma li ha avviliti" (Ceronetti).

Inserivo qui il contributo di Meltzer, per il quale il gruppo patisce insopportabilmente il rapportarsi con l’oggetto estetico, piú disposto com’è all’aut aut che all’e ; donde la predilezione del gruppo – caradiopatico, si direbbe – per un ordine dispotico che fugge dal caos, invece di sapervi abitare nella speranza – ed anche per fede e carità laicamente intese – che dal caos si origini il cosmos, l’inedita, originale forma buona di un nuovo ordine.

" L’uomo regredisce provvisoriamente allo stato amorfo, notturno, del caos per poter rinascere, con piú vigore, nella sua forma diurna. L’orgia […] annulla la creazione, ma la rigenera nello stesso tempo."(Mircea Eliade). Come se il gruppo – quanto piú estese sono le sue dimensioni – fosse ambivalentemente combattuto tra un abortivo caos notturno, col rischio della follia ( di cui la guerra è la manifestazione agita) ed un caos diurno natalizio. Come allora renderci autori della metamorfosi grazie alla quale l’intolleranza dell’ambiguità ( da cui si sprigionano gli sbocchi schizo-paranoidi) diventa attenzione sistematica fino a coltivare – nella molteplicità, nella simultaneità copulativa delle differenze – un valore o se non altro l’officina di nuove forme, nuovi ordini, nuove leggi, proprio perché all’ossessione (totalitaria) di una verità si sostituisce – per esperienza vissuta psicosomaticamente, di mente e di corpo – la scoperta di piú verità: dalla monotonia alla polifonia?

Approdo difficile, tremendo a quel polisindeto – vario e intrigante – che è la realtà, riempita di tanti e copula, da non rifiutare perciò aut-aut-isticamente. Dalla responsabile consapevolezza della gruppalità germogliano le scelte sociali e lo scegliersi di ognuno. Scelte e scegliersi diversi, molto diversi a questo punto dal tagliare, dallo scindere, dal negare. Generare non è sgravarsi. In questa clinica civica si attua l’educazione sentimentale piú necessaria – perché est-etica – del galateo, della cosmetica e del porto d’armi. Qui si svolge e cresce quel "pensiero esperiente" (Franz Rosenzweig, "Il nuovo pensiero") che porta alla decisione e all’azione auspicabili: e degli individui e della polis. Sicché il gruppo – da prigione senza scelta ( guscio duro) – sviluppa un inventario di possibilità, tempo e spazio emendatori del peccato ( "originale" secondo Kierkegaard) di non mettere a frutto le occasioni, del farsi torto tradendo le vocazioni del genio, del puer albergante in ognuno. Un’alfabetizzazione che ci educherebbe a dire "Io" in quanto siamo in un "Noi" non omogeneizzato. Solidarietà di e tra individui, autonomi e cooperanti , e non caserma di ubbidienti gregari in uniforme. Saremmo cosí al superamento dell’opposizione tra "narcisismo" e "socialismo". Superamento, e non negazione, sottolineava Bion. Ecco perché mi sembra legittimo sostenere che la modalità clinica della psicologia si ponga anche come una disciplina della complessità. Un’indicazione, questa, quasi un teorema che non solo designa "la specificità della psicologia clinica, ma ne evidenzia e ne proclama una responsabilità politica. Resta a vedere però - e questo è lo scolio, ed anche lo scoglio, del teorema – se gli psicologi sapranno co-rrispondere, saranno all’altezza di questo compito. Cosí nell’88.

L’impressione oggi emergente è tutt’altro che edificante se, a 40 anni di distanza dall’allarme lanciato da Bion, le cose non sono un granché cambiate, anzi – per certi versi .

si sono persino involute, sotto il dominio imperversante della tecnologia anestetica. Oggi, a 50 anni di distanza, il quadro è peggiorato. Il progresso tecnologico non ha soste. L’informatica sforna incessantemente programmi freschi sempre piú sofisticati, che invecchiano quelli appena comperati. Windows ’95, Microsoft97, E-mai, il cellulare. Oddio, sono regali di cui non crucciarsi. Anch’io – lo confesso – sono allacciato ad Internet. La scienza trionfa con giusto orgoglio: ha persino sbarcato un prodigioso robot tuttofare su Marte. E la qualità della vita? Ruanda, Sarajevo, Cecenia, Albania, immigrazione, globalizzazione, disoccupazione, inquinamento, mafia, corruzione, azzeramento delle nascite, bomba demografica ( si calcola già che nel 2030 saremo otto miliardi e mezzo), AIDS. ) : è solo un breve elenco dei titoli, i primi che mi vengono in mente, che compaiono sui giornali.

Lascio a parte la kermesse sulla pedofilia, per me un socio-indicatore su cui vorrei tornare se ci sarà tempo. Per la psicoanalisi c’è motivo per tornare a riflettere sul fatto che Edipo sconta quel destino per via del padre Laio, pedofilo. Ma la pedofilia – parola degenerata dal significato originario di "amore per i bambini" – per me non consiste soltanto nell’abuso sessuale dei fanciulli, sta in ogni abuso dell’infanzia, tra cui lo sfruttamento del lavoro minorile a diffusione planetaria. L’80% dei palloni da calcio sarebbe fabbricato in Asia dalle mani di piccoli, sottopagati con qualche rupia e denutriti. Mentre calciatori dalle gambe d’oro vengono venduti ed acquistati a suon di miliardi. Con Ronaldo, che ce lo goderemo nel nostro campionato, sono stati battuti tutti i primati. 70, 80 miliardi si legge. È un gioco, si dice. Non demonizziamolo. Certo. Non è dal vertice del moralismo che possono generarsi le domande e le risposte risolutive. Ma al di là dei campi di calcio, molto al di là, in ogni campo dobbiamo interrogarci – al tavolo multicolore e non solo verde della vita – su quale sia la posta in gioco. E chiederci anche se scienza e tecnica possono guarire i mali che scienza e tecnica, o almeno un certo uso di esse, produce.

Tornai sull’argomento nel marzo del ’90 a Saint-Vincent dove si tenne l’International Congress East-West: psychiatry and psychotherapy between conservation and change. Il titolo preannunciato del mio contributo suonava :" Attualità della sfida lanciata da Bion nel 1948 agli psicologi". Nell’intervento orale lo mutai in "Questo congresso Est-Ovest avrà un significato?" Seppure mancasse il nome di Bion, in effetti era piú rispondente al suo pensiero, come i fatti avrebbero dimostrato. La mia relazione cosí concludeva: "… questo congresso avrà un significato se, e solo se, partorirà la decisione e il persistente comportamento pretesi dal nostro presente". Va detto che il congresso fu di grande interesse, soprattutto per gli incontri con gli psicologi dell’Est, portatori di calda umanità e di un’enorme curiosità, di un sentito desiderio di formazione. Particolarmente singolare la seduta conclusiva con l’acceso dibattito – tra fautori e oppositori – per dar vita ad un comitato permanente affinché si consolidasse nella prassi l’iniziativa appena avviata di un’alleanza Est-Ovest. Si respirava – con l’intento di far bene, nella mescolanza di determinazione e diffidenza ( succede sempre cosí quando l’istituzione deve tradurre le decisioni in piano esecutivo) – l’angoscia dell’allevare la fragile creatura neonata. Perciò accettai di far parte del comitato per almeno due ragioni: la prima perché, dopo essermi battuto affinché lo si creasse, per coerenza non potevo tirarmi indietro; la seconda – consapevole di come ogni istituzione possa tradire , nella pratica, la missione per cui è stata messa al mondo, tradendola – prevedevo che la vigilanza metodica fornita dalla psicosocioanalisi avrebbe potuto dare un apporto a che il progetto non si arenasse nelle sabbie mobili dell’esecutività.

Ebbene: quel comitato non si riuní mai. Non basta. Parte della delegazione italiana aveva provocato una riunione con quella jugoslava, assicurando un’attiva partecipazione al congresso di Zagabria sul conflitto previsto per settembre. Anche quel congresso non ebbe mai luogo. Sulle nostre dissertazioni psicologiche si era sovrapposta il grido fascinoso della guerra. Era cominciato lo strazio di Sarajevo.

Si ripresenta la domanda di Wenders, e piú inquietante l’ipotesi di Bion che – con la possibile, ma emozionalmente costosa prospettiva di salvezza – si profili al contrario la scelta che, per non affrontare il "nemico interno", l’umanità finisca col cedere alla tentazione del disastro planetario. "Mi perdonerete se ricordo che nel 1943 richiamavo l’attenzione sulla necessità che la comunità riuscisse a capire l’origine psicologica di almeno una parte, secondo me addirittura la maggior parte, dei suoi guai"(Bion). E ancora: "Queste poche osservazioni servono per poter definire il campo di indagine, il che mi sembra una necessità. L’idea che una ricerca fosse necessaria si fece largo nella mia mente durante la guerra…".

Necessità attualissima. Secondo me, se questo convegno non vuol essere ammirata ma mera celebrazione del genio di Bion, se cioè intende davvero rispondere all’intenzione per cui Parthenope l’ha pensato, c’è da augurarsi che qui si affermi la determinazione a varare decisioni concrete di ricerca, a dare il via ad un processo creativo con quello spirito "pentecostale" tale da generare le domande buone e non le risposte difensive - "i tappi" li chiamo io - delle teorie trionfalmente acquisite. E chiuse nel guscio.

Per contribuire a un tale risultato – e sto finendo – riporto succintamente alcune idee che vengo coltivando e soffrendo da anni, come propagandista di Bion ma col mio linguaggio.

La base della mia ricerca, il "fatto scelto", è la condizione di figlio – condizione, e non ruolo - , onnipresente vita natural durante , anche in chi ha assunto il ruolo di bisnonno in famiglia o di canuto presidente della repubblica. In quanto figli siamo tutti uguali e tutti unici. È la mia – lo dico con autoironia - "epistemologia genetica". Non nell’accezione di Piaget, bensí nel senso piú semplice e ovvio che col nascere comincia tutto, nel bene e nel male. Bene e male derivanti non solo da come l’ambiente, il mondo trattano il bambino, ma anche come il soggetto tratta, ama, ascolta, odia, disprezza il proprio puer interno. Ecco il nucleo della puer-cultura. Un postulato, desunto dalla congiunzione di mondo interno e mondo esterno, mi porta ad ipotizzare che soltanto chi ascolta con attenzione "il fanciullino"- secondo la voce di Pascoli - può capire ed amare i figli propri e altrui. Pedofilo nel senso originario del termine; potenziale pedofilo perverso se nel profondo si disprezza, personificazione a mio modo del narcisismo di morte descritto da Green. Azzardo di conseguenza anche l’ipotesi che la diffusione della pedofilia e del narcisismo di massa vadano guardati come indicatori sociali di ciò che sta succedendo ed anche di come orientare le indagini. Al plurale, perché la causa di un fenomeno cosí complesso non può essere ricerca in un solo campo disciplinare. Anzi, ci si dovrebbe emancipare dalla nozione di causa. Il latino aveva due parole per significare "perché": quia e cur. Corrispondenti ai because e why. Distinzione importante. Occorre infatti interrogarsi non solo donde venga un certo comportamento, ma anche a che cosa miri. Sguardo doveroso soprattutto quando entrano in gioco le difese e piú ancora le resistenze.

Il panorama si fa piú chiaro se al binomio pace-guerra si sostituisce il binomio pace-guerra-conflitto, che evidenzia come

  1. come "guerra" sia sinonimo di "conflitto" e la sua negazione,
  2. come lo stato di pace non sia pacifico, bensí altamente conflittuale.

Basti pensare, per farla breve, al "libero mercato" dove – dicono gli economisti – nel gioco della concorrenza vince e vive il migliore, mentre il peggiore sparisce ("Mors tua vita mea"). Nella sua complessità – crescente oggi con la globalizzazione – vige la competizione piú sfrenata, contro la cui micidialità i soggetti piú potenti talora si alleano facendo fuori i piú deboli ( o i piú onesti, se la legge anti-trust condanna i cartelli). Del resto, se esaminate il vocabolario del marketing scoprirete è intriso di termini bellicosi. Competizione: viene dal latino cumpetere, che vale "mirare insieme allo stesso obiettivo". Donde anche competenza. Giocando con le parole si potrebbe dire che la scommessa del Terzo Millennio sta nel renderci competenti di fronte al dilemma: pace o guerra? sapendo però che lo stato di pace non è idilliaco, ma competitivo. Come l’amore, del resto. Spostandoci dal mercato all’arte, anzi alla sola opera lirica: Verdi fa cantare a Violetta che l’amore è "croce e delizia". Di cui tutte le sue opere sono commovente rispecchiamento (ed anche comico, con Falstaff).

Con la pretesa di ritoccare la formulazione di Fornari – che teorizza la guerra come elaborazione paranoica del lutto – mi azzardo a sostenere che la guerra possa essere vista come l’elaborazione paranoica del conflitto. E ció nelle situazioni in cui lo stato di crisi, invece di essere affrontato come occasione di scoperta - difficile, dolorosa ma redditizia – desta panico, terrore, spavento ( i fratelli di Armonia). Quando l’horror vacui ha la forza di annullare capacità negativa, senza cui non può sbocciare lo spazio di scoperta, utero del mai pensato. Confondiamo il vuoto col nulla. Proclamiamo che "la pace è sacra", ma abbiamo gridato spesso nei secoli (50.000 guerre sono state combattute fino a qualche tempo fa, cui vanno aggiunte quelle odierne) con entusiasmo che la " guerra è santa" ("Dio lo vuole", "Got mit uns"). Donde ogni sorta di sacrifici, imposti e accettati. Sacrifici verso cui siamo invece piuttosto renitenti se ce li chiedono in istato di pace. A ben guardare una scelta stupida, se non altro economicamente, nel trasferire l’intelligenza sulle bombe. I conflitti di pace hanno si portano dietro dolori d’ogni genere e virulenza, ma a saperli sopportare possono risultare redditizi, risolutori. I dolori della guerra il piú delle volte non risolvono. Un esempio soltanto dalla Germania: è uscita sconfitta nel 1918, covando un desiderio di rivalsa da cui l’irresistibile ascesa del Führer, che la guidò nella seconda guerra mondiale ( con il folle miraggio di un Reich millenario) ; ne uscí sconfitta ancora nel 1945, anzi totalmente distrutta, ma questa volta ha scelto la via della ricostruzione non senza patire i dolori della pace che l’affliggono tuttora, col risultato però che la sua economia è piú florida di quella dei vincitori, e avendo assunto addirittura il ruolo di stato-guida dell’Europa. Esiste, come si vede, il vaccino contro la stupidità della guerra.

Il ripetuto riferirmi alla stupidità della guerra non è affatto, intendiamoci, irrisione. La stupidità è una cosa seria. Qual è la sua radice profonda? Qual è il vantaggio – psichico, intendo – che persegue l’imbecille, per dirla con Valéry, "che è in me", in ognuno che non sia un mercante di cannoni? L’opzione belligena, all’opposto dell’elaborazione sana e responsabile del conflitto, ci esenta dalla depressione.

"Al di là della posizione paranoicale che dice " devo ucciderti perché tu mi vuoi uccidere" […] si tratta ora di raggiungere la posizione depressiva che può essere cosí enunciata: Ho capito che non sei tu a volermi uccidere, anzi ho capito che sono io a volerti uccidere perché ho messo dentro di te il mio impulso a distruggere ciò che amo, ma ora ho capito anche che facendolo, uccido anche me stesso. Però sono io stesso che mi proibisco di ucciderti perché ho capito che distruggendo ciò che tu ami io non riesco piú a far prosperare ciò che amo, ma anzi lo distruggo." Parola di Franco Fornari, che basta da sola a significare quanto sia difficile, duro, da infarto, per non dire impossibile - almeno in certe circostanze – ragionare ed agire con fermezza dall’altezza vertiginosa di un simile vertice .

Alexander Langer, il tenace assertore della non-violenza, "osservando con sgomento che nulla riusciva a impedire lo strazio degli innocenti in Bosnia, era giunto a formulare, con personale disagio ma con forte convinzione, la proposta di un intervento armato della comunità internazionale. […] Provocò uno scandalo tra i pacifisti…". Cosí ne parla il sociologo Gianfranco Bettin, suo amico fraterno ne "La fatica della speranza". Come Primo Levi, Alexander si è suicidato, aprendo una domanda proprio nella mente stupita dei suoi compagni piú intimi. Ma forse la risposta convincente ce la fornisce lui stesso nello scrivere: "Forse è troppo arduo essere individualmente degli "Hoffnungträger", dei portatori di speranza…".

Constatiamo che i capi paranoici hanno piú seguito. Nella pagina conclusiva del saggio del ’47 Bion svolge ripetuti riferimenti ai leader ed agli stili di leadership. Alla prospettiva fausta , derivante dall’impresa di leader validi, il cui possibile successo – sia pure tra i flutti di Scilla e Cariddi - "dipende dalla selezione e dalla preparazione che si impartisce ai seguaci", oppone un’alternativa: "Oppure il genere umano può semplicemente rimandare ancora una volta, per mancanza di leader creativi o per incompetenza, la soluzione del problema alle generazioni future. Se cosi è, la prospettiva, è davvero nera. E questo, Signori e Signori, è ciò che intendo per Psichiatria in Tempo di Crisi."

Pessimista? Bion non accoglie il dilemma ottimismo-pessimismo. Gli preferisce quello di Amleto, perché "Solo l’individuo può decidere se essere o non essere". Dipende da noi individui se e come decidere. Ma decisioni sagge richiedono in via prioritaria che si guardi la realtà – interna ed esterna – e guai a confonderla con la verità. Veritas: una parola di cui diffidare. Viene dalla radice proto-slava var o ver che significa "fede, dogma" ( una traccia la si può vedere nell’anello nuziale, che chiamiamo anche "fede"). Il corrispondente greco è aletheia, derivante da un verbo che significa "scoprire ciò che è nascosto". A Bion vanno riconosciuti alquanti talenti, che gli derivano secondo me dall’acutezza e dall’accuratezza dello sguardo. Lo sguardo di un innamorato di Aletheia. "Il giorno è abbagliante, e la notte è dei sogni, i crepuscoli sono chiaroveggenti", diceva Pirandello. Per essere chiaroveggenti si deve guardare il mondo, la realtà strizzando le palpebre nella luce del crepuscolo. È noto l’amore che Bion portava a Pirandello. Mi vien da dire che Bion torna sui fatti del giorno e sui sogni della notte con occhiate crepuscolari per meglio scoprire ciò che si cela. Senza derivarne boria. Da renderlo vicino alla modestia dei crepuscolari. Il suo augurarsi di essere superato "il piú presto possibile.

Non siamo Bion, però sistemandoci sulle sue spalle possiamo anche noi cimentarci nel cercare di scoprire quel che è nascosto, indagando in primis l’universo della paranoia, intesa come difesa socializzata dalla depressione. Guardando, magari con rattristato entusiasmo, alla sfida come un privilegio della psicologia. Penso di nuovo a Fornari – che non a caso fu il primo a farci conoscere Bion - quando in un’intervista del 1970 illustrò un’intuizione anticipatrice: " L’onnipotenza il disprezzo e il trionfo costituiscono la triade maniacale, il cui scopo è quello di negare il lutto e la depressione, anziché elaborarli. È quindi dall’area "maniacale" che vengono le maggiori difese." Onnipotente, sprezzante, trionfale: non sembra anche a voi l’identikit di qualcuno che vediamo ogni giorno in televisione?

"Ci sono avversari da considerare preziosi" (Canetti). Da qualche anno lavoro in Svizzera con un gruppo di ricercazione – dico io – che si è battezzato "La nave". Troviamo che il ritornello "siamo tutti nella stessa barca" è bugiardo. Siamo tutti nella stessa nave, con le sue classi, i ricchi, i narcisi, i sazi, gli affamati, i sani, i perversi, persino i profughi, esattamente come ne "E la nave va" di Fellini, un film profetico, ambientato nell’imminenza della prima guerra mondiale ma che ci raffigura il nostro oggi (tra i molti personaggi c’è pure il pedofilo). Penetrare nel territorio della maniacalità e della paranoia si viene rivelando davvero prezioso. Ne veniamo derivando ipotesi e indicazioni d’azione sociale di indubbio interesse, relativamente all’Io molto fragile della personalità paranoide e maniaca. Non ne parlo qui, e perché non c’è tempo e perché la comunicazione potrebbe influenzare la creatività d’altri (la cui fertilità non va disturbata da influenze che ne comprometterebbero l’autenticità). Mi limito a dire – a mo’ di stimolo – che nei leader psicotici parrebbe decisiva la carenza da "amore primario" (Balint), al punto da generare il fantasma di matricidio o di parricidio; donde un’angoscia letale se non intervenisse la difesa di trasferire la distruttività su un nemico esterno issando la bandiera di una vera e propria crociata. Ne nasce il problema di escogitare i modi efficaci – con tutta la prudenza indispensabile - per convertire la paranoia ( cattiva comprensione) in metànoia

( riconoscimento); si tratta cioè di alimentare socialmente l’adozione della depressione vitale, riparatrice ( vita tua, vita mea ).

Socialmente e politicamente, da cittadini della polis. Sperare? Con le città domicilio di ogni degrado? Disperare? Dalla copula, dall’impasto di disperazione e di speranza nasce la dis-speranza, sentimento del Terzo Millennio. Ce la faremo? Ce la faranno i figli, i nipoti ? La biografia di Nelson Mandela, l’uomo del "miracolo africano" contro l’apartheid, acquista per noi il tenore di una promessa. Fallita la lotta non-violenta ingaggiata dall’African National Congress, da vent’anni e piú in galera, prede in segreto l’iniziativa – rischiando l’accusa di tradimento dai suoi stessi seguaci – di proporre un incontro al governo razzista, per scongiurare l’incombere di una lotta feroce. A muoverlo a questo passo fu il dolore per i bambini neri e bianchi, vittime innocenti trucidate nel bagno di sangue. Depressione riparatrice. Puer-cultura vivente.

Segni di questa cultura, meglio: di questa civiltà , albergano anche nelle nostre contrade. Ho sondato le motivazioni dei nostri volontari nell’ex Jugoslavia. Portare aiuti umanitari, certo. In effetti – di fronte alla spietatezza inficiante la fiducia nell’umanità – nel profondo li animava il bisogno, il desiderio di dimostrare a se stessi e agli altri che l’amore è. E dagli assistiti – che hanno beneficiato degli alimenti, delle coperte, dei medicinali - -impariamo che il conforto maggiore è loro derivato da quella testimonianza. Una fortuna: sí, l’amore riesce a sopravvivere.

Ultimissima la prova dalla cronaca di questi giorni: il maestro Muti che - "meditazione sul comune destino del destino dell’uomo" - dirige il concerto di Sarajevo , con "Va pensiero" cantato dal coro della Bosnia. "Largo e sottovoce", come indicava Verdi.

Vacallo mercoledí 16 luglio 1997

 

Poscritto - Tralascio l’aspetto economico del problema. Sempre piú frequenti si alzano le voci richiedenti una nuova economia; come piú intenso si fa il contrasto tra i fautori del liberismo ("teologi del mercato" li chiama Galbraith) e chi insiste per un’economia sociale.

Se si vogliono ottenere dei progressi nella lotta della povertà non si può pensare tradizionalmente. Bisogna essere rivoluzionari e pensare l’impensabile. Parola di banchiere, di Muhammad Yunus, inventore della "Banca dei poveri". Parola che ha il suono argentino della parola dei poeti.