INVIDIA E IMPRENDITORIALITÀ
ALCUNE NOTE SUL RUOLO DELLE EMOZIONI NELLO SVILUPPO ECONOMICO (Sergio Lodde*)

1. Introduzione
Può esistere qualche connessione, sia pure indiretta, fra un’emozione come l’invidia e la capacità di una società di superare l’arretratezza e avviare un processo di sviluppo economico e sociale? La domanda può apparire temeraria, soprattutto se formulata da un economista la cui cassetta è assai povera di attrezzi sul fronte delle emozioni. La questione si complica ulteriormente se si considera che la connessione fra invidia e sviluppo, se esiste, si manifesta probabilmente attraverso gli effetti disincentivanti prodotti dalla prima sulla formazione dell’imprenditorialità. A questo punto all’economista sembra rimanere ben poco da dire poiché entrambi i corni del problema appaiono inafferrabili all’interno del paradigma metodologico più diffuso. L’invidia, in quanto emozione, è difficilmente quantificabile e mal si presta ad essere inserita all’interno di un approccio che valuta essenzialmente costi e benefici. L’imprenditore paradossalmente è un attore privo di parte, accuratamente relegato dietro le quinte nella letteratura economica di ispirazione neoclassica. Il motivo di questa incongruenza non differisce sostanzialmente da quello poc’anzi addotto a proposito dell’invidia. Quella dell’imprenditore è, in definitiva, una figura irrazionale e sfuggente che difficilmente si integra nel modello esplicativo della scelta razionale.
Non sarebbe corretto peraltro affermare che fattori sociali e psicologici siano del tutto estranei alla letteratura economica. Le ricerche di Akerlof hanno attinto spesso a concetti sviluppati dalla letteratura sociologica e antropologica per spiegare la disoccupazione o la determinazione del salario (Akerlof 1980, 1982a) e dalla psicologia cognitiva (Akerlof 1982b). Variabili come la reputazione e lo status derivanti dal rispetto di norme sociali influenzano in modo rilevante i comportamenti di agenti razionali nell’analisi di Akerlof.
Negli anni recenti variabili non economiche che misurano il grado di coesione sociale, la presenza di fiducia e la diffusione fra la popolazione di atteggiamenti cooperativi o, più in generale, quell’insieme di fattori che rientrano nella denominazione di “capitale sociale” hanno assunto maggiore rilievo nella letteratura economica, in particolare nell’analisi dei problemi dello sviluppo. Numerose analisi empiriche hanno posto in evidenza le connessioni fra queste variabili e la crescita economica (Putnam, 1993; Knack e Keefer, 1997; Temple e Johnson, 1998). Un ambiente cooperativo accresce l’efficienza produttiva e stimola l’innovazione tecnologica ma rappresenta anche una condizione favorevole all’iniziativa imprenditoriale (l’assenza di queste condizioni costituisce ovviamente un ostacolo).
Un altro filone di ricerca (Baumol, 1990; Murphy, Vishny e Shleifer, 1991) pone in evidenza come l’allocazione del talento individuale fra attività imprenditoriali e innovative da un lato e rent seeking dall’altro sia influenzata dai payoffs relativi e quindi anche dalla struttura istituzionale che li determina. In questa letteratura i payoffs hanno generalmente una connotazione esclusivamente pecuniaria ma è possibile estendere il concetto fino ad includere aspetti relativi al prestigio e allo status attribuiti a diverse attività economiche (Fershtman, Murphy e Weiss, 1996).
Solo molto raramente, comunque, l’attenzione degli economisti per le variabili sociali e psicologiche si è spinta fino a prendere in considerazione l’influenza delle emozioni sulle decisioni degli agenti economici. Questo disinteresse quasi ostentato è stato oggetto di critica da parte di Elster (1998). Egli sostiene che emozioni come il senso di colpa, l’invidia, l’indignazione o la vergogna, combinandosi con altre motivazioni quali l’interesse individuale, svolgono un ruolo non
trascurabile nella determinazione del comportamento sociale ed economico. Ritengo che il suggerimento di Elster sia denso di implicazioni interessanti per la teoria economica e che meriti qualche approfondimento sia pure molto ingenuo ed elementare come quello avviato in questa sede. L’ipotesi che si cercherà di sviluppare nei successivi paragrafi può essere enunciata semplicemente nel modo seguente: l’invidia può rappresentare un ostacolo alla formazione di un tessuto imprenditoriale diffuso e quindi allo sviluppo economico in quanto sanziona e inibisce l’arricchimento e il successo che costituiscono le principali motivazioni della attività imprenditoriale e i comportamenti innovativi e non convenzionali che ne sono all’origine. Proverò a dar corpo a questa idea analizzando prima separatamente i due termini del problema: il concetto di invidia (molto parzialmente e grossolanamente) e quello di imprenditorialità (un pò più vicino alle competenze di un economista).
Successivamente analizzerò le possibili connessioni fra i due concetti al fine di individuare alcune caratteristiche del tessuto sociale edeconomico che possono rafforzarle.

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*Sergio Lodde / Università di Cagliari e CRENoS /