IVAN ILLICH 1 - 2 - 3
Per una storia dei bisogni / pag. 2

Alcune distinzioni riabilitanti

La menomazione che, con l'egemonia delle professioni, colpisce il cittadino è consolidata dalla potenza dell'illu­sione. Le speranze di salvezza un tempo riposte nelle credenze religiose cedono il posto a una fiduciosa attesa nei confronti dello Stato, supremo dispensatore di servizi professionali. Ognuno dei molteplici cleri accampa la propria competenza a definire le difficoltà della gente in termini di specifici problemi risolvibili attraverso una qualche prestazione di servizi. Nel momento in cui si riconosce tale pretesa, il profano è legittimato ad accettare docilmente le carenze che gli vengono imputate, e il suo mondo si trasforma in una cassa di risonanza dei bisogni. Il soddisfacimento delle scelte autonomamente definite e perseguite viene sacrificato all'appagamento di bisogni indotti.

Basta osservare il profilo delle nostre città per vedervi riflesso questo dominio dei bisogni fabbricati e amministrati: giganteschi edifici adibiti a servizi proféssionali incombono su masse di persone che fanno la spola tra l'uno e l'altro in un ininterrotto pellegrinaggio alle nuove cat­tedrali della salute, dell'istruzione e dell'esistenza. Le case “sane” in queste città, sono quegli appartamenti asettici dove uno non può né nascere né star malato né morire decentemente. Il vicino soccorrevole è una specie in via di estinzione, come il medico disposto a far visite a domicilio.

Spariscono i luoghi di lavoro propizi all'apprendistato, sostituiti da opachi dedali di corridoi dove l'accesso è consentito solo ai dipendenti che portino appuntato al bavero della giacca il proprio “documento d'identità aziendale” in plastica. La città di questa popolazione tramutata in soggetto di assistenza è un mondo dove tutto è organizzato in funzione della erogazione di servizi.

La dipendenza dai bisogni imputabili, che è ormai pre­dominante fra i popoli ricchi e che esercita un fascino paralizzante sui poveri, sarebbe sicuramente irreversibile se tra gli uomini e i “bisogni” ad essi attribuiti esistesse una reale corrispondenza. Ma non è così. Al di là d'un certo grado d'intensità, la medicina produce impotenza e malattia; l'istruzione diventa il massimo generatore di una divisione menomante del lavoro; i sistemi di trasporto veloce trasformano gli abitanti delle città in passeggeri per circa un sesto delle loro ore di veglia, e per un altro sesto in forzati che lavorano per pagare Agnelli, la Esso e la società delle autostrade. La soglia oltre la quale la medicina, l'istruzione e i trasporti diventano strumenti controproducenti è stata raggiunta in tutti i paesi del mondo che abbiano un livello di reddito pro capite almeno pari a quello di Cuba. In tutti questi paesi, contrariamente alle illusioni diffuse dalle ideologie ortodosse, vuoi d'Occidente vuoi d'Oriente, tale controproduttività specifica non ha nulla a che fare con il tipo di scuola, di veicolo o di organizzazione sanitaria attualmente in uso si sviluppa infatti ogni volta che, nel processo di produzione, l'intensità di capitale supera una certa soglia critica.

Le nostre principali istituzioni hanno acquisito il mi­sterioso potere di ribaltare le finalità per le quali erano state originariamente concepite e sono finanziate. Sotto la guida delle professioni più prestigiose, i nostri strumenti istituzionali ottengono come loro principale prodotto una paradossale controproduttività: la sistematica menomazione dei cittadini/Una città imperniata sullo scorrimento a motore diventa inadatta per le gambe, e non c'è aumento del numero delle ruote che possa rimediare alla forzata immobilità degli arti, resi paralitici. Il sovrappiù di merci e di servizi paralizza l'azione autonoma. Non ne deriva però soltanto una perdita secca delle soddisfazioni non compatibili con l'era industriale: l'incapacità di produrre valori d'uso finisce col rendere inefficaci e controindicati gli stessi prodotti che avrebbero dovuto surrogarli. L'automobile, il sistema sanitario, la scuola, il management si tramutano allora in perniciose nocività per il consumatore e non arrecano più alcun beneficio se non a chi fornisce i servizi.

Perché allora non ci si ribella a questo moto di deriva della società industriale avanzata, che la porta a compattarsi in un unico sistema di erogazione di servizi? La spiegazione principale sta nel potere, che tale sistema possiede, di generare illusioni. Oltre a compiere atti concreti sui corpi e sulle menti, le istituzioni professionalizzate funzionano anche come potenti rituali, generatori di fede nelle cose che i loro gestori promettono. Oltre a insegnare a Pierino a leggere, le scuole gli insegnano anche che im­parare dai professori è “meglio” e che, senza l'obbligo scolastico, i poveri leggerebbero meno libri. Oltre a servire come mezzo di locomozione, l'autobus, non meno dell'auto privata, rimodella l'ambiente e bandisce l'uso delle gambe. Oltre ad aiutare a evadere il fisco, i consulenti legali inculcano l'idea che le leggi risolvano i problemi. Una parte sempre crescente delle funzioni svolte dalle nostre maggiori istituzioni consiste nel coltivare e rafforzare tre specie di illusioni, per effetto delle quali il citta­dino si tramuta in un cliente che attende la propria sal­vezza unicamente dall'opera degli esperti.

La prima illusione asservitrice è l'idea che l'uomo nasca per consumare e che possa raggiungere qualunque scopo acquistando beni e servizi. Questa illusione deriva da una coltivata cecità riguardo all'importanza che hanno i valori d'uso nel quadro di una economia. In nessuno dei modelli economici oggi seguiti è prevista una variabile che tenga conto dei valori d'uso non negoziabili, e neanche una variabile che consideri il perenne apporto della natura. E tuttavia non c e sistema economico che non crollerebbe di colpo qualora la produzione dei valori d'uso si con­traesse oltre un certo limite: per esempio se le faccende domestiche fossero svolte dietro retribuzione o se si facesse l'amore soltanto a pagamento. Ciò che la gente compie o fabbrica senza alcuna intenzione o possibilità di farne commercio è altrettanto incommensurabile e inestimabile per il mantenimento di un sistema economico quanto l'ossi­geno che essa respira.

L'illusione che i modelli economici possano ignorare i valori d'uso nasce dalla convinzione che quelle attività che noi designiamo con verbi intransitivi si possono sostituire indefinitamente con dei prodotti predisposti da istituzioni e che si indicano con un sostantivo: “l'istruzione”al posto di “io apprendo”, “l'assistenza sanitaria” per “io guarisco”, “i trasporti” per “io mi muovo”, .”la televisione” per “io mi diverto”.

La confusione tra valori personali e valori standardiz­zati si è diffusa in quasi tutti i campi. Sotto l'impero delle professioni, i valori d'uso si dissolvono, diventano obsoleti e finiscono col perdere il loro carattere specifico. L'amore e l'assistenza istituzionale appaiono concetti interscambiabili. Dieci anni di concreta conduzione di un podere, gettati in un frullatore pedagogico, risultano equivalenti a un diploma d'istituto tecnico. Cose raccolte a caso e nate nella libertà della strada vengono aggiunte a titolo di “esperienza educativa” a quelle versate nella testa degli allievi. Sembra che i contabili del sapere non si rendano conto che le due cose, come l'olio e l'acqua, si mescolano solo finché le emulsiona la tipica mentalità dell'“educa­tore”. Ma se noi per primi non fossimo affascinati da questa sorta di avida credenza, le bande degli zelanti creatori di bisogni non potrebbero continuare a tartassarci e a profondere le nostre risorse nei loro esperimenti, nelle loro reti e nelle altre loro miracolose soluzioni.

L'utilità delle merci, ovvero dei beni e servizi di serie, è soggetta a due limiti intrinseci, che non vanno confusi tra loro. Un limite è che prima o poi le code bloccheran­no il funzionamento di ogni sistema che genera bisogni a ritmo più rapido dei prodotti destinati ad appagarli; l'al­tro è che prima o poi la dipendenza dalle merci condi­zionerà in tal modo i bisogni da paralizzare ogni capacità di produzione autonoma nel campo in questione. L'utilità delle merci ha cioè i suoi limiti nella congestione e nella paralisi. Entrambe sono risultati del supersviluppo in qualunque campo di produzione, ma di tipo molto diverso fra loro. La congestione, che mostra sino a che punto le merci possano diventare d'impaccio a se stesse, spiega perché l'auto privata non è più di alcuna utilità per spostarsi in Manhattan; però non spiega perché la gente si ammazzi dal lavoro per pagare le rate e i premi d'assicurazione per automobili che non servono a spostarla. E ancora meno la congestione, da sola, spiega perché la gente arrivi a dipendere dai veicoli in misura tale da finire paralizzata e non saper più usare le proprie gambe.

Se la gente diventa prigioniera di un'accelerazione che consuma tempo, di un'istruzione che inebetisce e di una medicina che rovina la salute è perché, oltre una certa soglia d'intensità, la dipendenza da una lista di beni industriali e di servizi professionali distrugge le potenzialità umane, in una maniera tutta specifica. Solo fino a un certo punto le merci possono sostituire ciò che la gente compie o fabbrica per conto proprio. Solo entro certi limiti i valori di scambio possono rimpiazzare soddisfacentemente i valori d'uso. Al di là di tale soglia, ogni ulteriore produzione di merci arreca beneficio solo al produttore professionale - che ne imputa il bisogno al consumatore - mentre lascia il consumatore stor­dito e disorientato, anche se più fornito. Il piacere che si prova non nel mero pagamento ma nella soddisfazione di un bisogno è connesso in misura significativa al ricordo di un'azione personale autonoma; esistono dei limiti oltre i quali la proliferazione delle merci altera nel consumatore proprio questa facoltà di realizzarsi agendo.

Nel ricevere unicamente prodotti bell'e fatti, che non lasciano alcun margine di azione da parte sua, il consu­matore non può che restarne paralizzato. La misura del benessere di una società non è mai pertanto un'espressione algebrica nella quale i due modi di produzione, l'autonomo e l'eteronomo, si equivalgono, bensì sempre un equilibrio che si ha quando i valori d'uso e le merci si combinano in fruttuosa sinergia. Solo fino a un certo punto la produzione eteronoma di una merce può valorizzare e integrare la realizzazione autonoma del fine personale corrispondente; superato tale punto, la sinergia tra i due mo­di di produzione si rivolge paradossalmente contro lo sco­po a cui miravano sia il valore d'uso che la merce. E un fatto, questo, che talvolta non viene percepito perché il movimento ecologico, nella sua principale espressione, tende a far perdere di vista il punto.

L'opposizione alle centrali nucleari, per esempio, è stata generalmente motivata col pericolo delle radiazioni o col rischio di una eccessiva concentrazione di potere nelle mani dei tecnocrati: ma ben di rado, finora, si è osato criticarle per il loro apporto alla già eccessiva quantità di energia disponibile. Misconoscendo il fatto che tale sovrabbondanza di energia è socialmente distruttiva in quanto paralizza l'azione dell'uomo, si continua a reclamare una produzione energetica semplicemente diversa anziché, come si dovrebbe, minore. Allo stesso modo sono ancora largamente ignorati gli inesorabili limiti alla crescita che sono insiti in qualunque ente erogatore di servizi; eppure dovrebbe essere ormai evidente che l'istituzionalizzazione della cura della salute tende a trasformare le persone in marionette malate e che l'educazione a vita non può che generare una cultura buona per gente programmata. L'ecologia potrà fornire un punto di riferimento nel cammino verso una forma di modernità vivibile solo quando ci si renderà conto che un ambiente modellato dall'uomo in funzione delle merci riduce a tal punto le reattività dell’individuo che le merci stesse perdono qualsiasi valore come mezzo di soddisfazione personale. Senza questa con­sapevolezza, può accadere che grazie a una tecnologia in­dustriale più pulita e meno aggressiva si raggiungano li­velli di opulenza frustrante oggi inconcepibili.

Sarebbe sbagliato attribuire la controproduttività essen­zialmente alle “esternalità” dello sviluppo economico, quali il depauperamento delle risorse, l'inquinamento e le varie forme di congestione. Ciò significherebbe confondere la congestione, per cui le cose si intralciano fra loro, con la paralisi della persona che non può più esercitare la propria autonomia in un ambiente fatto per le cose. La ragione fondamentale, per cui un'elevata intensità di mercato porta inesorabilmente alla controproduttività, va vista nel tipo di monopolio che le merci eserci­tano sulla formazione dei bisogni umani. Tale monopolio supera di gran lunga ciò che s'intende di solito con que­sto termine. Un monopolio commerciale si limita ad imporre al mercato una determinata marca di whisky o di automobili. Un cartello industriale può restringe re ulte­riormente la libertà, per esempio appropriandosi di tutti i mezzi di trasporto collettivo per favorire lo sviluppo della motorizzazione privata, come fece la Generai Motors com­prando i tram di Los Angeles. Al primo si può sfuggire bevendo rum, al secondo girando in bicicletta. Tutt'altra cosa è invece quello che io definisco col termine “mono­polio radicale”, e che consiste nella sostituzione di un prodotto industriale o di un servizio professionale a una attività utile cui la gente si dedica o vorrebbe dedicarsi. Un monopolio radicale paralizza l'attività autonoma, a vantaggio della prestazione professionale. Più i veicoli dislocano la gente, più diventa necessario l'intervento di regolatori del traffico e più la gente perde la facoltà di tornarsene a casa a piedi. Quand'anche i motori fossero alimentati con energia solare e i veicoli fossero fatti d'aria, questo monopolio radicale continuerebbe a sussistere es­sendo inseparabile dalla circolazione ad alta velocità. Più a lungo una persona resta sotto la cappa del sistema edu­cativo, meno avrà tempo e voglia di curiosare e di riflettere criticamente. In qualunque campo, a un certo punto l'abbondanza dei beni offerti al consumo rende l'ambiente così inadatto all'azione personale che l'eventuale sinergia tra i valori d'uso e le merci diventa negativa. Si instaura allora una controproduttività paradossale, specifica. E questo il termine col quale io definisco tutti i casi in cui l'impotenza conseguente alla sostituzione di un valore d'uso con una merce tramuta quest'ultima in un disvalore ai fini di quella soddisfazione che dovrebbe fornire.

L'uomo cessa di essere riconoscibile come tale quando non è più in grado di dar forma ai propri bisogni mediante l'uso più o meno abile degli strumenti che gli sono forniti dalla sua cultura. Per tutto il corso della storia, questi strumenti sono stati per lo più attrezzi ad alta intensità di lavoro, adoperabili per procurare soddisfazione a chi se ne serviva, e che venivano impiegati per una pro­duzione domestica; solo marginalmente le pale e i martelli venivano usati per altri scopi, quali potevano essere la costruzione di una piramide, la fabbricazione di un sovrappiù destinato allo scambio di doni, o, ancor meno di frequente, la produzione di beni da vendere. Le occasioni di ricavare profitti erano limitate; si lavorava soprattutto per creare valori d'uso non destinati allo scambio. Ma il progresso tecnologico è stato tenacemente applicato alla realizzazione di un tutt'altro tipo di strumento: uno stru­mento volto in primo luogo a produrre merci vendibili.

Si cominciò con la rivoluzione industriale, quando la nuo­va tecnologia ridusse il lavoratore al robot chapliniano di Tempi moderni. In questa prima fase, però, il modo di produzione industriale non arrivava ancora a paralizzare la gente fuori del luogo di lavoro. Gli uomini e le donne d'oggi, invece, che ormai dipendono quasi in tutto dalla distribuzione di frammenti standardizzati prodotti mediante strumenti azionati da altra gente anonima, non trovano più nell'uso degli strumenti quella soddisfazione diretta, personale, che ha stimolato l'evoluzione dell'uma­nità e delle sue culture. Mentre i loro bisogni e i loro consumi si sono moltiplicati di molte volte rispetto al passato, è diventata rara fra loro la soddisfazione nel maneggio degli strumenti, ed essi non vivono più quella vita in funzione della quale ha preso forma il loro organismo. Nel migliore dei casi sono ridotti a sopravvivere, pur se circondati di sfarzo. Il corso della loro esistenza è diventato una catena di bisogni, di volta in volta saziati al fine di suscitare nuovi bisogni e la necessità di appagarli. Con questa riduzione dell'uomo a consumatore passivo, si finisce col perdere persino il senso della differenza fra il vivere e il sopravvivere. Al gusto della vita si sostituisce la scommessa dell'assicurazione, la trepida attesa di razioni e terapie. In un simile ambiente diventa facile dimenticare che soddisfazione e gioia possono aversi solo sin quando, nel proseguimento di un fine, vitalità perso­nale e provvidenze tecniche restino in equilibrio.

L'idea che gli strumenti di cui si servono le istituzioni di mercato possono distruggere impunemente le condizioni che permettono l'uso personale di mezzi conviviali è una illusione, che riesce a soffocare ogni “vitalità” presen­tando il progresso tecnologico come un fatto che autorizza e impone un sempre maggior dominio delle professioni. Questa illusione induce a credere che gli strumenti, per acquisire efficacia nel perseguimento di un fine specifico, non possano che diventare sempre più complessi e arcani, come per esempio le cabine di guida degli aerei o le gru. Si pensa perciò che gli strumenti moderni richiedano necessariamente operatori speciali, dotati d'un elevatissimo addestramento, e che soltanto in questi operatori si possa riporre piena fiducia. In realtà, di solito è vero proprio il contrario, e per forza. Quanto più le tecniche si moltipli­cano è accrescono la loro specificità, tanto meno complessa diventa, spesso, la valutazione che presiede al loro im­piego. La fiducia del cliente, sulla quale si fondava l'au­tonomia del libero professionista come anche dell'artigiano, neppure essa è più richiesta. Per quanti passi avanti la medicina abbia fatto, rispetto al totale degli atti medici sono soltanto una minuscola frazione quelli che richiedono, a una persona di media intelligenza, una preparazione particolarmente sviluppata. Da un punto di vista sociale, il titolo di “progresso tecnico” dovrebbe essere riservato ai casi in cui nuovi strumenti accrescano la capacità e l'efficienza di una più vasta massa di persone, e in particolare permettano una più autonoma produzione di valori d'uso.

Il monopolio professionale che si estende sulla nuova tecnologia non è affatto inevitabile. Le grandi invenzioni dell'ultimo secolo, quali i nuovi metalli, i cuscinetti a sfera, certi materiali da costruzione, l'elettronica, certi pro­cedimenti di analisi e certi medicamenti, sono suscettibili di accrescere il potere di entrambi i modi di produzione, di quello eteronomo come di quello autonomo. Di fatto però la nuova tecnologia non è stata per lo più incorporata nella strumentazione conviviale, ma in confezioni e in complessi istituzionali. Messa pressoché costantemente al servizio della produzione industriale, grazie alla sua indubbia capacità di recare vantaggio a chi la gestisce la tecnologia ha consentito ai professionisti di instaurare un monopolio radicale. La controproduttività indotta dalla paralisi nella produzione di valori d'uso trova incremento in questo modo di concepire il progresso tecnologico.

Non esiste alcun “imperativo tecnologico” che, di per sé, imponga che i cuscinetti a sfera vengano impiegati nei veicoli a motore o che l'elettronica venga usata per con­trollare il funzionamento del cervello. Le istituzioni in cui si traducono il traffico ad alta velocità o la tutela della salute mentale non sono conseguenze necessarie del cusci­netto a sfere o del circuito elettronico; le loro funzioni sono determinate dai bisogni che si presume dovrebbero soddisfare: bisogni che, in grandissima misura, sono definiti, imputati e rafforzati dalle professioni menomanti. E questo un punto che sembra sfuggire ai giovani turchi radicali attivi nelle professioni allorché essi giustificano la propria fedeltà alle istituzioni presentandosi come sacer­doti investiti dal popolo della missione di addomesticare il progresso tecnologico.

La medesima soggezione a tale idea del progresso fa sì che la progettazione sia intesa soprattutto come un con­tributo all'efficienza delle istituzioni. Alla ricerca scienti­fica si destinano abbondanti finanziamenti, ma solo se può essere applicata a scopi militari o se serve a consolidare il dominio professionale. Le leghe metalliche che permet­tono di fabbricare biciclette più robuste e leggere sono un frutto indiretto di studi orientati alla produzione di aviogetti più veloci e di armi più micidiali. Ma i risultati della ricerca si riversano quasi esclusivamente sull'attrezzatura industriale, sicché macchine già enormi diventano ancora più complesse e imperscrutabili per il profano. Da questo orientamento cui si ispirano scienziati e tecnici esce rafforzata una tendenza già pesante: i bisogni che richiedono un'attività autonoma vengono misconosciuti, mentre si moltiplicano quelli che comportano l'acquisto di merci. Gli strumenti conviviali che facilitano il godimento individuale dei valori d'uso - e che richiedono poca o punta supervisione amministrativa, medica o poliziesca - non trovano più posto che ai due estremi: nella maggior parte del mondo, ormai, le due sole categorie di persone che vanno in bicicletta sono i lavoratori poveri dell'Asia e gli studenti e i professori dei paesi ricchi. Forse senza ren­dersi conto della propria fortuna, gli uni e gli altri si go­dono la libertà da questa seconda illusione.

Da qualche tempo, certi gruppi di professionisti, alcuni enti governativi e organizzazioni internazionali si sono mes­si a studiare, elaborare e caldeggiare una tecnologia intermedia, su piccola scala. Si potrebbe pensare che questi sforzi siano volti a eliminare le più smaccate sconcezze dell'imperativo tecnologico. Ma, in grandissima parte, questa nuova tecnologia intesa a consentire che la gente faccia da sé nel campo della salute, dell'istruzione, della costruzione delle case, non è che un diverso modello di offerta di merci ad alta intensità di dipendenza. Si chiede per esempio agli esperti di progettare un nuovo tipo di armadietto per medicinali che permetta alle famiglie di seguire le direttive impartite dal medico via telefono. Si insegna alle donne a esaminarsi da sole il seno al fine di dar lavoro al chirurgo. Ai cubani si danno ferie pagate perché possano montarsi in proprio le case prefabbricate prodotte in serie dall'industria. L'allettante prestigio dei prodotti professionali finisce, man mano che si abbassa il loro costo, col rendere ricchi e poveri sempre più simili tra loro. Tanto i boliviani quanto gli svedesi si sentono ugualmente arretrati, diseredati e sfruttati nella misura in cui imparano senza la supervisione di professori, stanno in buona salute senza il check-up di un medico e si muovono senza l'ausilio di una stampella motorizzata.

La terza illusione menomante consiste nell'affidare agli esperti l'incarico di fissare un limite alla crescita. Si sup­pone che intere popolazioni, socialmente condizionate a provare bisogni a comando, non attendano altro che di sentirsi dire di che cosa non hanno bisogno. Gli stessi agenti multinazionali che per una generazione hanno im­posto ai ricchi come ai poveri un modello internazionale di contabilità, di deodorante, di consumo d'energia, patrocinano ora il Club di Roma. Docilmente l'Unesco si accoda e addestra specialisti nell'imputazione di bisogni su scala regionale. Così, in nome del loro presunto bene,i ricchi vengono programmati a sobbarcarsi nei propri paesi un dominio professionale più costoso, e a ricono­scere ai poveri bisogni di tipo più economico e frugale. I più intelligenti dei nuovi professionisti sanno benissimo che la penuria crescente porterà a una sempre maggiore accentuazione dei controlli sui bisogni: non a caso l'im­piego più prestigioso, oggigiorno, è la pianificazione centralizzata del decentramento ottimale della produzione. Ma il fatto di cui ancora non ci si rénde conto è che atten­dersi la salvezza da una limitazione decretata dai profes­sionisti significa far confusione tra libertà e diritti.

In ognuna delle sette regioni in cui l'Onu ha diviso il mondo si sta, addestrando un nuovo clero destinato a predicare il particolare stile d'austerità disegnato dai nuovi progettisti di bisogni. Specialisti in “presa di coscienza”battono le comunità locali incitando la gente a raggiungere gli obiettivi di produzione decentrata che le sono stati assegnati. Mungere la capretta di famiglia era una libertà fino a quando una pianificazione più spietata non ne ha fatto un dovere, per contribuire al PNL.

La sinergia tra produzione autonoma e produzione ete­ronoma si rispecchia nell'equilibrio che una società man­tiene tra libertà e diritti. Le libertà proteggono i valori d'uso come i diritti tutelano l'accesso alle merci. E come le merci possono distruggere la possibilità di creare valori d'uso e tramutarsi in ricchezza depauperante, così la definizione professionale dei diritti può soffocare le libertà e instaurare una tirannide che seppellisce la gente sotto i suoi diritti.

La confusione appare particolarmente evidente se pen­siamo agli esperti della salute. La salute comprende due aspetti: libertà e diritti. Essa designa quella zona di au­tonomia entro la quale una persona governa i propri stati biologici e le condizioni del proprio ambiente immediato. In parole povere, la salute s'identifica con il grado di libertà vissuta. Di conseguenza, coloro che si occupano del bene pubblico dovrebbero adoperarsi a garantire un'equa distribuzione della salute come libertà, che a sua volta dipende da condizioni ambientali realizzabili soltanto con interventi politici organizzati. Oltre una certa soglia d'intensità, l'assistenza sanitaria professionale, per equamente distribuita che sia, non può che soffocare la salute in quanto libertà. In questo senso fondamentalmente la cura della salute è una questione di adeguata salva­guardia della libertà.

Un siffatto concetto della salute implica, è evidente, un rispetto di principio delle libertà inalienabili. Per ben comprendere questo punto, occorre distinguere chiaramente tra libertà civile e diritti civili. La libertà di agire senza che l'autorità frapponga ostacoli ha una portata più vasta dei diritti civili che lo Stato può promulgare per garantire a ognuno uguali possibilità di ottenere certi beni e servizi.

Di regola le libertà civili non costringono gli altri ad agire secondo i desideri di terzi. Io sono libero di parlare e di rendere pubbliche le mie opinioni, ma nessun gior­nale è obbligato a stamparle e nessuno dei miei concitta­dini è tenuto a leggerle. Io sono libero di dipingere la bellezza così come pare a me, ma nessun museo ha l'obbligo di comprare i miei quadri. Contemporaneamente però lo Stato, quale garante della libertà, può emanare ed emana leggi che proteggano quell'uguaglianza dei diritti senza la quale i suoi membri non potrebbero godere delle proprie libertà. Tali diritti danno un senso e una realtà all'uguaglianza, mentre le libertà danno possibilità e forme alla libertà. Un modo sicuro per sopprimere le libertà di parlare, d'imparare, di guarire, di curare, è quello di delimi­tarle trasformando i diritti civili in doveri civili. La terza illusione consiste appunto nel credere che la rivendicazione pubblica dei diritti porti senz'altro a salvaguardare le libertà. Di fatto, quanto più una società affida ai pro­fessionisti l'autorità legale di definire i diritti, tanto più le libertà dei cittadini si dissolvono.

Il diritto alla disoccupazione utile

Attualmente ogni nuovo bisogno convalidato dalle pro­fessioni si traduce prima o poi in un diritto. Tale diritto,una volta che sotto la pressione politica trova riconoscimento nella legge, dà luogo a nuove occupazioni e nuovi prodotti. Ogni nuovo prodotto degrada un'attività con la quale la gente era stata fin allora capace di cavarsela da sola; ogni nuovo impiego rende illegittimo un lavoro sin lì svolto da non-occupati. Il potere delle professioni di stabilire che cosa sia bene, giusto e da fare distorce nell’uomo “comune” il desiderio, la voglia e la capacità di vivere secondo le proprie possibilità.

Quando tutti gli studenti attualmente iscritti nelle fa­coltà di giurisprudenza degli Stati Uniti si saranno lau­reati, il numero degli esperti di diritto statunitensi aumenterà del 50 per cento circa. Al servizio nazionale di assistenza sanitaria si affiancherà un analogo servizio di assistenza legale, man mano che l'assicurazione contro i procedimenti giudiziari diventerà indispensabile quanto lo è ora quella contro le malattie. E una volta stabilito il diritto del cittadino a un avvocato, comporre un litigio all'osteria sarà considerato retrogrado e antisociale come lo è adesso partorire in casa. Già ora il diritto riconosciuto a ogni cittadino di Detroit di vivere in un appartamento dove l'impianto elettrico sia stato installato da professio­nisti trasforma in trasgressore della legge chiunque si per­metta di montare da sé una presa. La perdita progressiva di tutta una serie di libertà d'essere utili altrove che in un “posto di lavoro”, o al di fuori del controllo profes­sionale, anche se non ha un nome è una delle esperienze più penose che s'accompagnano alla povertà modernizzata.

Il privilegio più significativo d'una condizione sociale ele­vata potrebbe ormai identificarsi in qualche resto della libertà, sempre più negata alla maggioranza, di essere utili senza avere un impiego. A furia di insistervi, il diritto del cittadino a essere assistito e approvvigionato si è quasi tramutato in diritto delle industrie e delle professioni a prendere la gente sotto la propria tutela, a rifornirla del loro prodotto e a eliminare, con le loro prestazioni, quelle condizioni ambientali che rendono utili le attività non inquadrabili in una “occupazione”. Si è così riusciti a paralizzare, per il momento, ogni lotta per un'equa distribuzione del tempo e della possibilità di essere utili a sé e agli altri al di fuori di un impiego o del servizio militare. Il lavoro che si svolge al di fuori del «posto» retribuito è malvisto quando non ignorato. L'attività autonoma minaccia il livello dell'occupazione, genera devianza e falsa il PNL: è quindi improprio chiamarla “lavoro”. La­voro non vuol più dire sforzo o fatica, ma è quell'arcano fattore che, congiungendosi col capitale investito in un impianto, lo rende produttivo. Non significa più la creazione di un valore percepito come tale dal lavoratore, ma più che altro un impiego, cioè un rapporto sociale. Non avere un impiego significa passare il tempo in un triste ozio, e non essere liberi di fare cose utili a sé o al proprio vicino. La donna attiva che manda avanti la casa, alleva i propri figli ed eventualmente ha cura di quelli degli altri è distinta dalla donna che lavora, ancorché il prodotto di tale lavoro possa essere inutile o dannoso. L'attività, gli sforzi, le realizzazioni, i servizi che si esplicano al di fuori di un lavoro gerarchico e che non sono misurabili secondo standard professionali costituiscono una minaccia per una società ad alta intensità di merci: la creazione di valori d'uso sottratti a un calcolo preciso pone infatti un limite non soltanto al bisogno di ulteriori merci, ma anche ai posti di lavoro che producono tali merci e alle buste-paga occorrenti per acquistarle.

Ciò che conta in una società ad alta intensità di mercato non è lo sforzo rivolto a produrre qualcosa che piaccia, o il piacere che deriva da tale sforzo, ma l'accoppiamento della forza lavoro col capitale. Ciò che conta non è il conseguimento della soddisfazione che procura l'agire, ma la collocazione nel rapporto sociale che presiede alla produzione, cioè l'impiego, il posto, la carica, l'ufficio. Nel Medioevo, quando non c'era salvezza al di fuori della Chiesa, riusciva arduo ai teologi spiegare come si regolasse Iddio con i pagani di costumi manifestamente vir­tuosi o santi; allo stesso modo nella società odierna nes­suno sforzo è produttivo se non è fatto su ordine di un. capo, e gli economisti non riescono a dar conto della palese utilità della gente che non agisce sotto il controllo di un'azienda, di un'organizzazione di volontari o di un campo di lavoro. Il lavoro non è produttivo, rispettabile, degno di un cittadino se non quando è programmato, di­retto e controllato da un rappresentante delle professioni, il quale garantisca che risponde in forma standardizzata a un bisogno riconosciuto. In una società industriale avan­zata diventa quasi impossibile cercare o anche soltanto immaginare di fare a meno di un impiego per dedicarsi a un lavoro autonomo e utile. L'infrastruttura della società è combinata in maniera tale che solo l'impiego dà accesso agli strumenti di produzione, e questo monopolio della produzione di merci sulla creazione di valori d'uso non fa che consolidarsi quando la gestione passa allo Stato. Solo. con un certificato di abilitazione puoi insegnare a un bambino; solo in una clinica puoi rimettere a posto una gamba rotta. Il lavoro domestico, l'artigianato, l'agri­coltura di sussistenza, la tecnologia radicale, il mutuo in­segnamento ecc. sono degradati ad attività per gli oziosi, per gli improduttivi, per i più. diseredati o per i più ricchi. La società che promuove un intensa dipendenza dalle merci tramuta così i suoi disoccupati in poveri o in assistiti. Nel 1945 per ogni americano mantenuto dalla previdenza sociale c'erano 35 lavoratori attivi; nel 1977, erano 3,2 i lavoratori occupati cui toccava mantenere uno di questi pensionati, dipendente a sua volta da una quantità di enti assistenziali che sarebbe stata inimmaginabile ai tempi di suo nonno.

Ormai il carattere di una società e della sua cultura dipenderà dalla condizione dei suoi non-occupati: saranno essi i cittadini produttivi più rappresentativi o saranno degli assistiti? Ancora una volta la scelta (la crisi) appare chiara: la società industriale avanzata può proseguire sulla scia del sogno integralista degli anni '60: sempre più simile a una holding, può degenerare in un sistema di di­stribuzione che assegna parsimoniosamente un volume di beni e di posti in costante diminuzione e che addestra i suoi membri a consumi più standardizzati e a lavori più inutili. E l'orientamento cui si ispirano le linee politiche della maggior parte dei governi, dalla Germania alla Cina, sia pure con una differenza di fondo nella gradazione:quanto più infatti il paese è ricco, tanto più sembra urgente contingentare l'accesso agli impieghi e impedire l'atti­vità utile dei non-occupati suscettibile di recare pregiudizio all'occupazione. Ovviamente è altrettanto possibile il contrario: cioè una società moderna nella quale i lavoratori frustrati si organizzino per proteggere la libertà di essere utili senza partecipare alle attività che danno luogo alla produzione di merci. Ma, ancora una volta, questa alternativa sociale presuppone, da parte dell'uomo comune, una competenza nuova, razionale e cinica nei riguardi dell'imputazione professionale dei bisogni.

Nuove strategie delle professioni

Il potere delle professioni è oggi messo in indubbio peri­colo dalla crescente evidenza della loro controprodutti­vità. La gente incomincia ad accorgersi che la loro ege­monia la spoglia del proprio diritto d'intervento nella cosa pubblica. Il potere simbolico degli esperti che, col defi­nire i bisogni, isteriliscono le capacità personali, è oggi considerato più pericoloso della loro potenza tecnica, che si limita a provvedere ai bisogni ch'essi creano. Contem­poraneamente, da più parti si sente invocare una legisla­zione che ci porti in una nuova era non più dominata dall'ethos professionale: si chiede che il sistema delle abi­litazioni, oggi rilasciate dagli ordini professionali o dall’amministrazione, venga sostituito con una investitura civica elettiva, più che essere semplicemente ritoccato con l'inclusione di rappresentanti dei consumatori negli organi che concedono le abilitazioni; si chiede un ammorbidimento delle prescrizioni vigenti nelle farmacie, nelle scuole e in altri pretenziosi supermercati; si chiede che vengano tutelate le libertà produttive; si chiede che sia riconosciuto il diritto di esercitare senza licenza; si chiedono strutture di servizio pubbliche che aiutino il cliente a valutare le prestazioni a pagamento dei professionisti privati. Di fronte a queste minacce le principali istituzioni professionali ricorrono, ciascuna a suo modo, a tre fondamentali stra­tegie per arginare l'erosione della loro legittimità e del loro potere.

Il primo indirizzo strategico è rappresentato dal Club di Roma. La Fiat, la Ford, la Volkswagen pagano economisti, ecologi e sociologi perché stabiliscano da quali produzioni le industrie dovrebbero astenersi affinché il sistema indu­striale funzioni meglio e si rafforzi. Analogamente i medici del Club di Coo suggeriscono di rinunciare alla chirurgia, alle radiazioni e alla chemioterapia nella cura della mag­gior parte dei tumori, dato che di solito questi interventi non fanno che acuire e prolungare le sofferenze senza tut­tavia accrescere la speranza di vita del malato. Avvocati e dentisti promettono di vigilare come non mai sulla com­petenza, sulla correttezza e sulle parcelle dei propri colleghi.

Una variante di questo indirizzo si osserva in certi sin­goli professionisti o gruppi organizzati che, in America, contestano l'ordine degli avvocati, quello dei medici e talaltre potenze intermediarie del sistema. Costoro si. pro­clamano radicali perché 1) danno ai consumatori consigli che contrastano con gli interessi della maggioranza dei colleghi, 2) istruiscono i profani sul modo di comportarsi nei consigli d'amministrazione degli ospedali, delle uni­versità, degli enti di vigilanza, 3) hanno talvolta occasione di testimoniare, davanti a commissioni parlamentari, sull’inutilità di questa o quella misura proposta dalle pro­fessioni e richiesta dal pubblico. Per esempio, in una provincia del Canada occidentale un (gruppo di medici ha presentato una relazione su una ventina di interventi sa­nitari per i quali l'assemblea legislativa era orientata a stanziare maggiori fondi; si trattava di interventi costosi, e i medici hanno fatto rilevare che per di più erano anche assai dolorosi, che molti presentavano pericoli e che di nessuno di essi era provata l'efficacia. Nell'occasione l'as­semblea non ha voluto seguire il parere di questi medici “illuminati”, col risultato che il loro insuccesso, provvisoriamente, avvalora la credenza nella necessità di una tutela professionale dalla hubris professionale.

Il fatto che una professione eserciti una vigilanza di polizia sui propri membri è senz'altro utile per smascherare l'incompetenza smaccata, il macellaio o il puro ciarlatano. Ma come è stato ampiamente dimostrato, la cosiddetta autodisciplina protegge gli inetti e cementa i vincoli di dipendenza del pubblico dalle loro prestazioni. Il medico “critico”, l'avvocato “radicale”, l'architetto dedito alla creazione di quartieri autogestiti, sono professionisti che attirano clienti soffiandoli ai colleghi meno attenti di loro all'andamento della moda. All'inizio le professioni liberali convinsero il pubblico della necessità delle loro prestazioni promettendo di aver cura della scolarizzazione, della formazione morale o dell'addestramento sul lavoro dei profani più poveri. In seguito, divenute dominanti, le professioni si sono arrogate il pieno diritto di guidare il pubblico, e di menomarlo ancora di più, organizzandosi in clubs che ostentano la più acuta consapevolezza dei vincoli ecologici, economici e sociali. Questo atteggiamento, se frena l'espansione del settore professionale, rafforza la soggezione del pubblico all'interno di esso. L'idea che i professionisti abbiano un diritto di servire il pubblico è dunque d'origine recentissima. La loro lotta per affermare e legittimare tale diritto corporativo è una delle minacce più pesanti che gravino sulla nostra società.

La seconda strategia mira a organizzare e coordinare l'insieme delle prestazioni professionali in una maniera, si afferma, più aderente alla natura poliedrica dei problemi umani. Questa tendenza cerca altresì di applicare nozioni mutuate dall'analisi dei sistemi e dalla ricerca operazionale allo scopo di fornire soluzioni globali valide per in­teri paesi. Che cosa ciò significhi nella pratica lo si è potuto vedere in Canada. Quattro anni fa il ministro ca­nadese della sanità promosse una campagna diretta a con­vincere l'opinione pubblica che un aumento della spesa per i medici non avrebbe assolutamente inciso sui tassi nazionali di malattia e di mortalità. Mise in rilievo che i decessi prematuri erano per la stragrande maggioranza dovuti a tre fattori: incidenti, soprattutto automobilistici; affezioni cardiache e cancro polmonare, che i medici notoriamente non sono in grado di guarire; e suicidi e omi­cidi, fenomeni che esulano dall'ambito medico. Il ministro auspicava perciò un ridimensionamento delle prestazioni mediche e la ricerca di nuovi metodi per affrontare il pro­blema della salute. Il compito di proteggere, ristabilire o consolare coloro che sono resi infermi dalle deleterie con­dizioni ambientali e di vita tipiche del Canada odierno venne allora assunto da tutta una serie di professioni vecchie e nuove. Gli architetti scoprirono la missione di migliorare la salute dei canadesi; la sorveglianza sui cani randagi risultò essere un problema interdipartimentale, che richiedeva nuovi specialisti. Una nuova articolata biocrazia sottopose ad ancor più intenso controllo gli organismi dei canadesi, con una sistematicità che la vecchia iatro­crazia sarebbe stata incapace d'immaginare. Lo slogan “Meglio spender soldi per star bene che per pagare il medico quando si sta male” si può ormai riconoscere per quello che è: il richiamo di nuove meretrici che vogliono attirare su di sé il denaro dei clienti.

Di una dinamica dello stesso tipo offre un esempio la pratica della medicina negli Stati Uniti. Qui l'attuazione di un sistema coordinato per la cura della salute divora somme sempre più gigantesche senza peraltro dimostrarsi particolarmente efficace. Nel 1950 un lavoratore medio destinava annualmente all'assistenza sanitaria professionale meno di due settimane del proprio salario; nel 1976 il rapporto era salito aggirandosi tra le cinque e le sette settimane di retribuzione: quando si compra una nuova Ford si spende di più per l'igiene dei lavoratori che per il metallo incorporato nell'auto. Tuttavia, malgrado tanti provvedimenti e tante spese, la speranza di vita della popolazione maschile adulta non è aumentata in misura apprezzabile nel corso degli ultimi cento anni. Essa è inferiore a quella di molti paesi poveri e negli ultimi venti anni non ha fatto che diminuire, lentamente ma costantemente.

Là dove il tasso di malattia è cambiato in meglio, il miglioramento è dovuto soprattutto all'adozione di un mo­do di vivere più sano, specie sotto l'aspetto dell'alimen­tazione. In piccola misura, anche le vaccinazioni e il ricorso automatico a rimedi semplici come gli antibiotici, i contraccettivi e gli aspiratori Carman hanno contribuito alla diminuzione di certi stati morbosi. Ma questi inter­venti non comportano la necessità di prestazioni profes­sionali. Non è attaccandosi ancora di più alla professione medica che la gente può star meglio in salute, e tuttavia molti medici cosiddetti “radicali” invocano proprio una più estesa biocrazia. Non si rendono conto, evidentemente, che pretendere di “risolvere i problemi” della gente in maniera più “razionale” significa agire al suo posto, spo­gliarla della decisione, sia pure nell'intento di assicurare una presunta maggiore uguaglianza.

La terza strategia intesa a far sopravvivere le professioni dominanti è la più recente delle mode radicali. Mentre i profeti degli anni '60 sul limitare dell'Abbondanza vaticinavano un mirabile Sviluppo, questi fabbricanti di miti predicano l'autoassistenza del cliente professionalizzato.

Soltanto negli Stati Uniti, tra il 1965 e il 1976 sono usciti circa 2700 libri che insegnano come essere pazienti di se stessi in modo da aver bisogno del medico solo quando per lui ne valga la pena. Alcuni testi consigliano un vero e proprio corso di addestramento all'automedica­zione e vorrebbero che solo chi avesse superato il relativo esame finale fosse autorizzato a comprare aspirina e a som­ministrarla ai propri bambini. Altri testi propongono che i pazienti professionalizzati beneficino di tariffe preferenziali negli ospedali e di sconti sui premi d'assicurazione. Sol­tanto alle donne fornite di abilitazione a partorire in casa dovrebbe essere concesso di mettere al mondo i loro figli fuori d'un ospedale (anche perché, al caso, queste madri professioniste potrebbero rispondere esse stesse, di fronte alla legge, di eventuali incidenti dovuti a negligenza). Se­condo una proposta “radicale” che mi è capitato di ve­dere, questa abilitazione al parto dovrebbe essere rilasciata da una commissione composta non da medici bensì da femministe.

Sotto l'insegna dell'autoassistenza c'è il sogno profes­sionale di radicare in profondità qualunque gerarchia di bisogni. Chi attualmente lo promuove è la nuova tribù degli esperti in autoassistenza, che hanno preso il posto degli esperti in sviluppo degli anni '60. Il loro obiettivo è la professionalizzazione universale del cliente. Gli esperti americani dell'edilizia che lo scorso autunno hanno invaso Città del Messico sono un buon esempio di questa nuova crociata. Un paio d'anni fa un professore d'architettura di Boston venne a passare le vacanze in Messico, e un mio amico messicano lo portò a vedere la nuova città che, in poco più d'un decennio, è cresciuta dietro l'aeroporto del­la capitale. Questa comunità, che prima era un piccolo agglomerato di capanne, si è improvvisamente sviluppata fino a contare tre volte più abitanti di Cambridge del Massachusetts. Il mio amico, pure lui architetto, voleva mostrare al collega i mille esempi dell'ingegnosità contadina in fatto di disegni, strutture, e utilizzazione dei ri­fiuti, tutti esempi non contemplati nei manuali e quindi non derivati da essi. Naturalmente, alla vista di quelle brillanti invenzioni con cui dei dilettanti sono riusciti a far funzionare una borgata di due milioni di abitanti, il collega bostoniano scattò centinaia di rullini di pellicola. Le fotografie furono debitamente studiate a Cambridge; e l'anno non era ancora finito che già specialisti statunitensi appena sfornati dai corsi di architettura comunitaria si affaccendavano a insegnare alla gente di Ciudad Netzahual­coyotl quali fossero i suoi problemi, i suoi bisogni e le relative soluzioni.

L'ethos post-professionale

L'opposto della carenza, del bisogno e della povertà defi­niti col metro delle professioni è la sussistenza di tipo mo­derno. Il termine “economia di sussistenza” è oggi gene­ralmente usato per indicare una forma di sopravvivenza di gruppo che è marginale quanto alla dipendenza dal mercato, e nella quale la gente produce ciò che utilizza per mezzo di strumenti tradizionali e nel quadro di un'organizzazione sociale ereditata che spesso, tramandandosi, non subisce alcuna revisione. Io propongo di recuperare questo termine in un senso moderno, chiamando “sussi­stenza moderna” il modo di vita predominante in un'eco­nomia post-industriale in cui la gente sia riuscita a ridur­re la propria dipendenza dal mercato, e ci sia arrivata proteggendo - con mezzi politici - una infrastruttura dove le tecniche e gli strumenti servano in primo luogo a creare valori d'uso non quantificati né quantificabili dai fabbri­canti professionali di bisogni. Ho sviluppato altrove (nel libro La convivialità) una teoria di questi strumenti, pro­ponendo di chiamare “strumento conviviale” ogni attrez­zatura orientata verso la produzione di valori d'uso. E ho anche mostrato come l'inverso della progressiva povertà modernizzata sia un'austerità conviviale risultante da una scelta politica che salvaguardi la libertà e l'equità nell'uso ditali strumenti.

Riattrezzare la società contemporanea con strumenti con­viviali e non più industriali comporta uno spostamento d'ac­cento nella nostra lotta per la giustizia sociale; comporta una subordinazione, in forme da trovare, della giustizia distributiva alla giustizia partecipativa. In una società industriale, gli individui sono educati alla massima specializzazione. Diventano impotenti a formulare o a soddisfare i propri bisogni. Dipendono, quanto ai beni di consumo, da gestori che firmano la prescrizione per loro. Il diritto alla diagnosi del bisogno, alla prescrizione della terapia e, in genere, alla distribuzione dei beni predomina nell’etica come nella politica e nella legislazione. Questo pri­mato riconosciuto al diritto di vedersi attribuire delle ne­cessità riduce a un fragile lusso la liberà di imparare, di guarire, di muoversi autonomamente. In una società conviviale avverrebbe il contrario. La tutela dell'equità nell’esercizio delle libertà personali sarebbe la preoccupazione dominante di una società fondata su una tecnologia radicale, dove la scienza e la tecnica fossero poste al servizio di una più efficace creazione di valore d'uso. Ovviamente una simile libertà non avrebbe alcun senso se non fosse basata su un uguale diritto di accesso alle materie prime, agli strumenti e ai servizi comuni. Come il cibo, il com­bustibile, l'aria pura o lo spazio vitale, così gli attrezzi o i posti di lavoro non possono essere distribuiti equamente se non razionandoli senza riguardo per i bisogni attribuiti, cioè stabilendo un uguale limite massimo per giovani e vecchi, per l'handicappato come per il presidente. Una società improntata alla tutela di una uguale disponi­bilità di strumenti moderni ed efficaci per l'esercizio delle libertà produttive non può esistere se i beni e le risorse su cui poggia l'esercizio ditali libertà non sono ugualmente ripartite fra tutti

Superare i paesi sviluppati

E’ il testo di una conferenza tenuta nell'estate del 1968 al convegno di Kuchiching della Canadian Foreign Policy Association. Non l'ho ritoccato neanche là dove oggi use­rei un linguaggio diverso o porrei un diverso accento. Sta a ricordare da quali posizioni di partenza si è venuto evolvendo il mio pensiero.

E’ comune oggi la richiesta che i paesi ricchi convertano la loro macchina bellica in un programma per lo sviluppo del Terzo Mondo. Nella parte più povera della terra, che comprende i quattro quinti dell'umanità, si registra un incremento demografico incontrollato mentre il consumo pro capite segna un netto declino. Questo duplice fenomeno, crescita della popolazione e calo del consumo, costituisce una minaccia per i paesi industrializzati, i quali sono però ancora in tempo a reagire destinando alla pa­cificazione economica dei paesi poveri le somme che oggi stanziano per la difesa militare. Il che potrebbe nondi­meno produrre una desolazione irreversibile, perché gli aratri dei ricchi possono fare tanto male quanto le loro spade. I camion degli Stati Uniti possono provocare danni più duraturi dei loro carri armati. E’ più facile creare una domanda di massa dei primi che dei secondi. Soltanto una minoranza ha bisogno di armi pesanti, mentre sono maggioranza coloro che possono trovarsi a dipendere da irrealistici livelli di offerta di certi tipi di macchine pro­duttive quali gli autocarri moderni. Una volta che il Terzo Mondo sia divenuto un mercato di massa per i beni, i prodotti e i processi che i ricchi progettano in funzione di se stessi, lo scarto fra la domanda di queste produzioni occidentali e la loro effettiva offerta non potrà che accrescersi indefinitamente. L'auto di famiglia non può condurre i poveri nell'età del jet, come non è il sistema scolastico che possa fornire loro l'istruzione, né il frigorifero do­mestico che possa assicurare loro una sana alimentazione.

E' evidente che in America Latina soltanto un individuo su diecimila può permettersi di avere una Cadillac, di farsi un'operazione al cuore o di arrivare al dottorato. Questa angustia degli obiettivi di sviluppo non ci fa però disperare della sorte del Terzo Mondo, per una ragione che è semplice: non siamo ancora arrivati a credere che una Cadillac sia necessaria per un buon trasporto, che l'operazione al cuore sia una cura sanitaria normale, o che il dottorato sia un requisito indispensabile di un'istruzione accettabile. Siamo anzi fermamente convinti che in Perù l'importazione delle Cadillac dovrebbe essere pesantemente tassata; che a Bogotà una clinica per il trapianto degli organi sarebbe uno scandaloso giocattolo che servirebbe solo a giustificare una maggiore concentrazione di medici nella città, e che il betatrone esorbita dalle attrezzature didattiche dell'università di San Paolo.

Purtroppo non è invece evidente per tutti che la mag­gioranza dei latino-americani - non solo della nostra generazione ma anche della prossima e di quella successiva - non può permettersi nessuna specie di automobile, nessun genere di ospedalizzazione, e neanche un sistema di scuole elementari. Noi reprimiamo la nostra consapevolezza di questa palese realtà perché non sopportiamo di ammettere che la nostra immaginazione si trova stretta in un angolo.

La potenza delle istituzioni da noi create è così persua­siva da plasmare non soltanto le nostre scelte ma persino il nostro senso del possibile. Abbiamo dimenticato come si possa parlare di un trasporto moderno che non si basi sull'automobile e sull'aeroplano. Il nostro modo di concepire una cura moderna della salute pone l'accento sulla capacità di prolungare la vita dei malati senza scampo. Non siamo più in grado di pensare a un'istruzione mi­gliore se non in termini di scuole più complesse e di inse­gnanti addestrati con tirocini sempre più lunghi. Gli oriz­zonti della nostra inventività sono dominati da enormi istituzioni che producono servizi costosi.

Abbiamo incarnato nelle istituzioni la nostra visione del mondo, e ora ne siamo prigionieri. Fabbriche, mezzi d'in­formazione, ospedali, governi, scuole approntano beni e servizi confezionati in modo da contenere la nostra visione del mondo. Noi - i ricchi - intendiamo per progresso l'espansione di questi enti. Intendiamo per accrescimento della mobilità il lusso e la sicurezza ammanniti dalla General Motors o dalla Boeing. Intendiamo per miglioramento dello stato di salute generale una maggiore disponibilità di medici e di ospedali, che somministrano insieme salute e sofferenza protratta. Siamo arrivati a identificare il no­stro bisogno d'imparare di più con la richiesta di una relegazione sempre più lunga nelle aule scolastiche. In altre parole, abbiamo messo in un unico pacco l'istruzione, il servizio di custodia, l'acquisto d'un titolo valido per l'impiego, il diritto elettorale, e abbiamo avvolto tutte queste cose con l'educazione alle virtù cristiane, liberali oppure comuniste.

In meno di un secolo la società industriale ha modellato soluzioni brevettate per i bisogni umani fondamentali e ci ha portato a credere che il Creatore abbia dato ai bisogni dell'uomo la forma di domande dei prodotti da noi inventati. Questo vale per la Russia come per il Giappone la comunità atlantica. Il consumatore viene abituato all'obsolescenza, cioè a restar fedele ai medesimi produttori che continueranno a dargli sostanzialmente gli stessi pacchi di merci con qualche differenza di qualità o in nuovi involucri.

Le società industrializzate possono ben fornire siffatte confezioni alla maggioranza dei propri membri, ma ciò non dimostra che siano società sane o economicamente equilibrate o che promuovano la vita. E vero il contrario. Quanto più il cittadino è ammaestrato a consumare beni e servizi confezionati, tanto meno sembra capace di pla­smare il proprio ambiente. Esaurisce le sue energie e le sue disponibilità finanziarie nel procurarsi modelli sempre più aggiornati delle medesime merci, e l'ambiente diventa un derivato delle sue abitudini consumistiche.

La composizione dei “pacchi” di cui sto parlando è la causa principale degli alti costi che comporta l'appa­gamento dei bisogni fondamentali. Finché ognuno avrà “bisogno” d'una propria auto, le nostre città dovranno sopportare ingorghi di traffico sempre più lunghi e adottare rimedi assurdamente costosi per alleviarli. Finché salute vorrà dire massimo prolungamento della sopravvivenza, i nostri malati riceveranno interventi chirurgici sempre più straordinari più le droghe necessarie per lenire le sofferenze che ne conseguono. Finché vorremo usare le scuole per togliere i bambini dai piedi dei loro genitori o per tenerli lontani dalla strada e fuori dalla forza lavoro, la nostra gioventù sarà trattenuta in uno stato di scolarizzazione interminabile e avrà bisogno di crescenti incentivi per sopportare la prova.

Ora i paesi ricchi impongono a quelli poveri una camicia di forza di ingorghi stradali, di degenze ospedaliere e di aule scolastiche che, per convenzione internazionale, chiamano “sviluppo”. La parte del mondo ricca, scolariz­zata e vecchia cerca di mettere in comune i suoi discutibili privilegi appioppando al Terzo Mondo le proprie soluzioni precostituite. Si creano ingorghi del traffico a San Paolo mentre un milione di brasiliani del Nord-Est fuggono la siccità facendo ottocento chilometri a piedi. Presso là Clinica di chirurgia speciale di New York i medici latino-americani fanno una pratica che poi applicheranno a pochis­sime persone, mentre la dissenteria amebica rimane en­demica nei tuguri dove vive il novanta per cento della popolazione. Una minuscola minoranza riceve nell'America del Nord un'istruzione scientifica avanzata, non di rado a spese dei rispettivi governi. Quelli che poi even­tualmente tornano in Bolivia, diventano scadenti professori di materie pretenziose a La Paz o a Cochabamba. I ricchi esportano solo versioni sorpassate dei loro modelli standard.

Un buon esempio di ben intenzionato impegno in favore del sottosviluppo è l'Alleanza per il Progresso. Contrariamente alle sue parole d'ordine, ha avuto successo... come alleanza per il progresso delle classi consumatrici e per l'addomesticamento delle masse latino-americane. Ha segnato un grande passo avanti nel processo che ha modernizzato i modelli di consumo della borghesia sudamericana integrandola nella cultura egemonica della metropoli settentrionale. Al tempo stesso ha modernizzato le aspirazioni della maggioranza dei cittadini e concentrato la loro domanda su prodotti non disponibili.

Ogni automobile che il Brasile mette su strada nega a cinquanta persone la possibilità di un buon trasporto in autobus. Ogni frigo messo sul mercato riduce le possibilità di dotare di un impianto di refrigerazione la comunità. Ogni dollaro speso in America Latina per medici e ospedali costa - per dirla con Jorge de Ahumada, il brillante economista cileno - cento vite umane: tante infatti se ne sarebbero potute salvare se fosse stato speso per un buon impianto di potabilizzazione dell'acqua. Ogni dollaro destinato alle scuole significa ulteriori privilegi per i pochi a scapito dei più; al massimo, accresce il numero di coloro che, prima di smettere di frequentare, hanno imparato che chi resiste più a lungo si guadagna il diritto a un potere, un reddito e un prestigio maggiori. Questo tipo di scuola non fa che insegnare allo scolarizzato la superiorità di chi è scolarizzato ancora di più.

Tutti i paesi dell'America Latina sono freneticamente intenti a sviluppare i propri sistemi scolastici. Non c'è paese che oggi destini all'istruzione - cioè alla scolarizzazione - meno dell'equivalente del 18 per cento del gettito tributario, e parecchi paesi arrivano a spendere quasi il doppio, Ma nonostante questi enormi investimenti, nessun paese è sinora riuscito ad assicurare cinque anni completi di istruzione a più d'un terzo della popolazione; il divario tra la domanda e l'offerta di scolarizzazione cresce in proporzione geometrica. E ciò che vale per le scuole, vale anche per i prodotti di quasi tutte le istituzioni coin­volte in questo processo di modernizzazione del Terzo Mondo.

I continui perfezionamenti tecnologici che vengono apportati a certi prodotti già affermati sul mercato si traducono spesso in un vantaggio per il produttore assai più che per il consumatore. La complessità crescente dei pro­cedimenti produttivi fa sì che solo i grandi produttori siano in grado di sostituire in continuazione i modelli superati, mentre la domanda del consumatore tende a concentrarsi sui miglioramenti marginali del prodotto senza alcun riguardo per gli effetti collaterali concomitanti, cioè prezzi più alti, minore durata, utilità più limitata, maggiore onerosità delle riparazioni. Si pensi alla molteplicità d'uso di un apriscatole normale in confronto all'aprisca­tole elettrico che, quando funziona, apre soltanto certi tipi di scatole, e costa cento volte di più.

Lo stesso discorso vale per una macchina agricola come per i titoli di studio. L'agricoltore del Texas può anche convincersi d'aver bisogno di un veicolo a quattro ruote indipendenti che possa fare i centodieci all'ora in autostrada, sia munito di un tergicristallo elettrico e possa essere sostituito con un nuovo modello nel giro di un anno o due. Ma la maggior parte degli agricoltori del mondo non sa che farsene di simili velocità, non ha mai aspirato a comodità del genere e non ha l'assillo dell'obsolescenza; ha invece bisogno di un mezzo di trasporto a basso prezzo, in un mondo dove il tempo non si misura in denaro, dove basta un tergicristallo manuale e dove un attrezzo pesante dovrebbe durare oltre una generazione. Questo asino mec­canico richiede una progettazione e una struttura comple­tamente diverse rispetto a quello che viene prodotto per il mercato statunitense. Ma un veicolo del genere non è in produzione.

In quasi tutto il Sud America c'è bisogno di personale paramedico che possa agire per periodi indefiniti senza la supervisione di un dottore in medicina. Ma invece di mettere in piedi un sistema atto a preparare ostetriche e guaritori ambulanti in grado di usare un arsenale medico limitatissimo lavorando autonomamente, le università latino-americane aprono ogni anno una nuova scuola di specializzazione infermieristica da cui escono professionisti idonei a funzionare soltanto in un ospedale e farmacisti che sanno solo come incrementare lo smercio di medicinali sempre più pericolosi.

Il mondo sta arrivando a un vicolo cieco in cui convergono due processi diversi: un numero sempre maggiore di uomini ha sempre minori possibilità di fare scelte fondamentali. L'aumento della popolazione, largamente reclamizzato, suscita il panico; la diminuzione delle possibilità di scelta provoca angoscia ma viene costantemente trascurata. Mentre l'esplosione demografica opprime l'immagi­nazione, il progressivo atrofizzarsi della fantasia sociale viene razionalizzato considerandolo effetto d'una maggiore possibilità di scelta tra marche differenti. I due processi convergono verso un punto morto: l'esplosione demografica fornisce un maggior numero di consumatori per tutto quanto, dai cibi ai contraccettivi, mentre la nostra immaginazione rattrappita non riesce a concepire altri modi di soddisfare le loro richieste che non siano le confezioni attualmente in vendita nelle società modello.

Mi soffermerò prima sull'uno e poi sull'altro di questi due fattori che, a mio avviso, sono le due coordinate che ci permettono di definire il sottosviluppo.

In quasi tutti i paesi del Terzo Mondo come cresce la popolazione così cresce la borghesia. I redditi, i consumi e il benessere della classe media sono in ascesa mentre si allarga il divario tra questo ceto e la massa della popolazione. Anche dove il consumo pro capite è in aumento, la maggioranza della gente ha meno cibo oggi che nel 1945, meno cure effettive in caso di malattia, meno lavoro significante e meno protezione. Ciò deriva in parte dalla polarizzazione dei consumi e in parte dal collasso della cultura e della famiglia tradizionali. Nel 1969 c e più gente affamata, sofferente e abbandonata di quanta non ce ne fosse alla fine della seconda guerra mondiale, non solo in cifra assoluta ma anche in percentuale della po­polazione terrestre.

Queste conseguenze concrete del sottosviluppo sono diffuse; ma il sottosviluppo è anche uno stato d'animo, e capire che è uno stato d'animo, una forma di coscienza, è il problema cruciale. Abbiamo sottosviluppo come stato d'animo quando i bisogni di massa si convertono in richiesta di nuove marche di soluzioni confezionate, perennemente inaccessibili alla maggioranza. Il sottosviluppo inteso in questo senso si sta rapidamente estendendo anche nei paesi dove pure è in aumento la disponibilità di aule scolastiche, calorie, automobili e cliniche. I gruppi diri­genti di questi paesi allestiscono servizi che sono stati concepiti per una cultura opulenta: una volta monopolizzata in questa maniera la domanda, essi non potranno mai soddisfare i bisogni della maggioranza.

Il sottosviluppo come forma di coscienza è un risultato estremo di quella che possiamo chiamare, nel linguaggio sia marxiano sia freudiano, Verdinglichung, o reificazione. Intendo per reificazione il coagularsi della percezione dei bisogni reali nella domanda di prodotti fabbricati in serie. Intendo la traduzione della sete in bisogno di una Coca­Cola. Si arriva a questo tipo di reificazione con la mani­polazione dei bisogni umani primari da parte delle gigantesche organizzazioni burocratiche che sono riuscite a do­minare l'immaginazione dei potenziali consumatori.

Mi si consenta di ritornare sull'esempio preso dal campo dell'istruzione. L'intenso sviluppo della scolarizzazione por­ta a una identificazione tra frequenza scolastica e istru­zione, talmente stretta che nel linguaggio quotidiano i due termini diventano interscambiabili. Una volta che l'im­maginazione di tutto un popolo sia stata “scolarizzata”, vale a dire ammaestrata a credere che l'istruzione sia monopolio della scuola, allora si può anche tassare l'analfabeta per permettere ai figli dei ricchi di frequentare gra­tuitamente la scuola media superiore e l'università.

Il sottosviluppo è frutto dei crescenti livelli in aspira­zione che si raggiungono con il marketing intensivo dei prodotti “brevettati”. In questo senso il sottosviluppo dinamico ora in atto è esattamente l'opposto di ciò che per me è l'educazione: ossia la capacità di percepire nuovi livelli del potenziale umano, e l'uso delle proprie facoltà creative a vantaggio della vita. Il sottosviluppo, ad ogni modo, implica la resa della coscienza sociale a soluzioni preconfezionate.

Spesso il processo attraverso cui la promozione dei pro­dotti “stranieri” accentua il sottosviluppo viene inteso nei modi più superficiali. La stessa persona che s'indigna vedendo uno stabilimento della Coca-Cola in una bidonville dell'America Latina, spesso è orgogliosa della nuova scuola normale che sta sorgendo lì accanto. Non sopporta quel segno tangibile di una “licenza” esclusiva straniera attribuita a una bibita, al posto della quale preferirebbe vedere qualche “Cola-Mex”; ma non ha dubbi sulla ne­cessità di imporre - a qualunque costo - la scolarizzazione ai propri connazionali, senza rendersi conto dell'in­visibile licenza in forza della quale questo istituto è pro­fondamente incastrato nel mercato mondiale.

Alcuni anni fa ho visto degli operai che alzavano un cartello di venti metri della Coca-Cola in una pianura deserta del Mexquital; una grave siccità accompagnata da carestia aveva da poco devastato l'altopiano messicano; colui che mi dava alloggio, un indiano povero di Ixmi­quilpan, stava terminando di offrire ai suoi ospiti un bicchierino da tequila della costosa acqua zuccherata nera. Rivedendo la scena mi viene ancora rabbia; ma mi sento ribollire il sangue molto di più quando ricordo le riunioni dell'Unesco nelle quali burocrati ben intenzionati e ben pagati discutevano seriamente sui programmi scolastici dell'America Latina, o quando penso ai discorsi di certi fervidi progressisti impegnati a dimostrare la necessità di un mag­gior numero di scuole.

La frode perpetrata dai piazzisti delle scuole è meno evidente ma assai più sostanziale dell'affare concluso dal compiaciuto rappresentante della Coca-Cola o della Ford, perché l'uomo di scuola avvezza la gente a una droga molto più impegnativa. Frequentare la scuola elementare non è un lusso innocuo, ma assomiglia piuttosto all'abi­tudine dell'indio delle Ande di masticare coca, che aggioga il lavoratore al padrone.

Quanto più elevata è la dose di scolarizzazione che un individuo ha ricevuto, tanto più lo staccarsene ha su di lui un effetto depressivo. Chi abbandona la scuola al settimo anno sente la propria inferiorità molto più acutamente di colui che l'abbandona al terzo. Le scuole del Terzo Mondo somministrano il loro oppio con assai maggiore efficacia delle chiese di altre epoche. Man mano che la mentalità di una società si scolarizza, gli individui non riescono più a credere nella possibilità di vivere senza essere inferiori ad altri. Man mano che la maggioranza si sposta dalla campagna alla città, all'inferiorità ereditaria del peon subentra l'inferiorità di chi ha abbandonato pre­maturamente la scuola ed è considerato personalmente responsabile del proprio fallimento. Le scuole razionaliz­zano l'origine divina della stratificazione sociale assai più rigorosamente di quanto abbiano mai fatto le chiese.

Sino a oggi nessun paese dell'America Latina ha dichiarato trasgressori della legge i giovani che consumano meno d'una certa quantità di Coca-Cola o di automobili, mentre tutti i paesi dell'America Latina hanno approvato leggi le quali stabiliscono che chi smette anzitempo di andare a scuola è un cittadino che non adempie ai propri obblighi giuridici. Recentemente il governo brasiliano ha quasi raddoppiato il numero degli anni durante i quali la frequenza scolastica è obbligatoria e gratuita per legge. D'ora in avanti ogni ragazzo brasiliano che abbandona la scuola a meno di sedici anni si sentirà rimproverare per tutta la vita di non aver approfittato d'un privilegio imposto dalla legge. Questo provvedimento è stato preso in un paese dove neanche i più ottimisti riuscivano a prevedere quando sarebbe stato possibile assicurare un simile livello di scolarizzazione anche soltanto al 25 per cento dei giovani. L'adozione dei modelli di scolarizzazione internazionali condanna per sempre la stragrande maggioranza dei lati­no-americani alla marginalità o all'esclusione dalla vita so­ciale: in una parola, al sottosviluppo.

La traduzione degli obiettivi sociali in livelli di consu­mo non è un fenomeno limitato a qualche paese soltanto, bensì attraversa tutte le frontiere culturali, ideologiche e geografiche. Non c'è nazione che oggi non miri a impiantare proprie fabbriche d'auto, proprie scuole normali e proprie facoltà di medicina - che per lo più, quando va bene, sono mediocri imitazioni di modelli stranieri, so­prattutto americani.

Il Terzo Mondo ha bisogno di rivoluzionare profonda mente le proprie istituzioni. Le rivoluzioni avvenute nel corso dell'ultima generazione sono state soprattutto poli­tiche. Un nuovo gruppo di uomini con un nuovo arsenale di giustificazioni ideologiche ha preso il potere per amministrare sostanzialmente le stesse istituzioni scolastiche, sanitarie, commerciali, nell'interesse di una nuova massa di clienti. Poiché le istituzioni non hanno subito alcun muta­mento radicale, la nuova massa di clienti ha pressappoco le stesse dimensioni di quella precedentemente servita. Lo si vede chiaramente nel caso dell'istruzione. I costi della scolarizzazione per allievo sono oggi confrontabili dappertutto, poiché i criteri usati per valutare la qualità delle scuole tendono a essere internazionalmente i medesimi. L'accesso all'istruzione sostenuta dal denaro pubblico, identificato con l'accesso alla scuola, dipende ovunque dal reddito pro capite. (Paesi come la Cina e il Vietnam del Nord potrebbero costituire eccezioni significative.)

In tutto il Terzo Mondo le istituzioni moderne sono clamorosamente inefficaci rispetto ai fini egualitari per i quali vengono copiate e riprodotte. Ma fin quando l'immaginazione sociale della maggioranza non verrà distrutta dal fatto di fissarsi su queste istituzioni, c’è più speranza di impostare una rivoluzione istituzionale nel Terzo Mondo che nei paesi ricchi. Di qui l'urgenza di elaborare funzionanti alternative alle soluzioni “moderne”.

Il sottosviluppo sta per diventare cronico in molti paesi. La rivoluzione di cui parlo deve quindi iniziare prima che ciò accada. Ancora una volta è l'istruzione a offrirci un esempio adatto: si ha sottosviluppo cronico dell'istruzione quando la domanda di scolarizzazione diventa così diffusa da tradursi, in sede politica, in una richiesta unanime di concentrare tutte le risorse educative sul sistema scolastico. A questo punto non è più possibile scindere l'istruzione dalla scolarizzazione.

La sola alternativa praticabile a un crescente aggravamento del sottosviluppo sta in una risposta ai bisogni fondamentali che sia pianificata come obiettivo a lungo termine in funzione di aree che avranno sempre una strut­tura di capitale differente. E’ più facile parlare di alter­native alle istituzioni, ai servizi e ai prodotti esistenti che definirle con precisione. Non mi propongo né di descrivere un'utopia né di elaborare scenari di un futuro diverso. Dobbiamo accontentarci di portare esempi che sug­geriscano alcuni degli indirizzi che la ricerca dovrebbe prendere.

Qualche esempio lo abbiamo già dato. Gli autobus sono una alternativa alla moltitudine delle automobili private. I veicoli progettati per trasporto lento su terreni acciden­tati sono un'alternativa ai camion di serie. La potabilizzazione dell'acqua è un'alternativa ai costosi interventi chirurgici. I lavoratori sanitari sono un'alternativa ai me­dici e alle infermiere. Un impianto per la conservazione dei generi alimentari della comunità è un'alternativa ai dispendiosi elettrodomestici da cucina. E si potrebbero citare decine di altri esempi. Perché, mettiamo, non considerare il camminare un'alternativa a lungo termine alla locomozione motorizzata e non studiare le esigenze che l'urbanista sarebbe chiamato a soddisfare? E perché non si potrebbe standardizzare la costruzione delle case, pre­fabbricarne gli elementi e obbligare ogni cittadino a im­parare in un anno di servizio pubblico come costruirsi un'abitazione conforme ai requisiti igienici? Nel campo dell'istruzione è più difficile suggerire alter­native, anche perché negli ultimi tempi le scuole si sono praticamente accaparrate tutte le risorse disponibili in fatto di impegno ideale, immaginazione e denaro. Ma anche qui si può indicare in quale direzione dovrebbe muo­versi la ricerca.

Attualmente si concepisce la scolarizzazione come una graduata e programmata presenza in aula di bambini, per un migliaio di ore annue e per una serie ininterrotta di anni. I paesi dell'America Latina, in media, possono for­nire a ogni cittadino da otto a trenta mesi di siffatto ser­vizio. Perché invece non rendere obbligatori un mese o due all'anno per tutti i cittadini al di sotto dei trent'anni? Oggi i soldi si spendono in gran parte per i bambini, ma a un adulto si può insegnare a leggere in un decimo del tempo e a un costo dieci volte inferiore. Nel caso dell'adulto, inoltre, l'investimento rende un profitto immediato, sia che il risultato più importante della sua alfabetizzazione venga visto in una nuova capacità di discer­nimento, una maggior coscienza politica e un atteggiamento più responsabile riguardo alla crescita e al futuro della propria famiglia, sia che si miri a ottenere una maggiore produttività. Il profitto anzi è doppio, perché l'adulto può contribuire non solo all'istruzione dei propri figli, ma an­che a quella di altri adulti. Eppure, nonostante questi vantaggi, i programmi per la lotta contro l'analfabetismo ottengono poco o punto sostegno in America Latina, poiché le scuole hanno diritto di prelazione su tutte le risorse pubbliche. Non solo, ma questi programmi sono stati spietatamente soppressi nei paesi in cui l'appoggio dei mi­litari ha permesso all'oligarchia feudale o industriale di fare a meno della precedente maschera di benevolenza.

Un'altra possibilità è più difficile da definire perché non esiste ancora alcun esempio che si possa addurre al ri­guardo. Non possiamo perciò che immaginare quest'altra alternativa, consistente nel distribuire l'uso delle risorse pubbliche destinate all'istruzione in modo da dare un minimo di possibilità a ogni cittadino. L'istruzione diventerà una preoccupazione politica della maggioranza degli elettori solo quando ognuno di essi avrà una precisa consa­pevolezza delle risorse didattiche che gli sono dovute, nonché qualche idea su come rivendicarle. Si potrebbe immaginare una sorta di “Dichiarazione universale dei diritti sulle assegnazioni dello Stato”, che divida le risorse pubbliche destinate all'istruzione per il numero dei bambini in età scolare e garantisca che chi a sette, otto o nove anni non abbia approfittato di questo credito, all'età di dieci anni trovi sempre a propria disposizione gli assegni accumulati.

Cosa assicurerebbe l'esiguo credito d'istruzione che una repubblica dell'America Latina sarebbe in grado di offrire ai propri ragazzi? Quasi tutta quell'attrezzatura base di libri, immagini, cubi, giochi e giocattoli, totalmente as­sente dalle case degli autentici poveri, che permette al bambino borghese di apprendere l'alfabeto, i colori, le forme e altre categorie di cose e di esperienze che condizionano il suo sviluppo educativo. La scelta tra questi og­getti e la scuola è ovvia; ma purtroppo il povero, il solo per il quale essa realmente si ponga, non è mai messo in condizione di esercitarla.

Definire delle alternative ai prodotti e alle istituzioni che ora occupano il campo è difficile, non solo, come ho cercato di dimostrare, perché tali prodotti e istituzioni improntano il nostro modo di vedere la realtà stessa, ma anche perché la progettazione di possibilità nuove esige una concentrazione di volontà e di intelligenza superiore a quella che si ha di solito per caso. Questa concentra­zione di volontà e d'intelligenza intesa a risolvere parti­colari problemi, quale che sia la loro natura, ci siamo abituati nel corso dell'ultimo secolo a chiamarla ricerca.

Devo però precisare quale è il tipo di ricerca di cui sto parlando. Non mi riferisco alla ricerca pura nei campi della fisica, dell'ingegneria, della genetica, della medicina o dell'apprendimento. L'opera di uomini come F.H.C. Crick, Jean Piaget, Murray Gell-Mann si ripercuoterà su altri campi della scienza ampliando i nostri orizzonti. Il bisogno che questi uomini hanno di laboratori, biblioteche e collaboratori specializzati fa sì che essi si radunino nelle poche capitali mondiali della ricerca. La loro ricerca può fornire una base per lavorare in modo nuovo su qualun­que prodotto o quasi.

Non sto neanche parlando dei miliardi di dollari che s'investono ogni anno nella ricerca applicata, perché que­sto denaro viene in gran parte destinato dalle istituzioni esistenti al perfezionamento e alla promozione dei rispet­tivi prodotti. Ricerca applicata significa denaro speso per rendere gli aerei più veloci e gli aeroporti più sicuri; per­ché i medicinali diventino più specifici e potenti e i medici più capaci di controllarne i micidiali effetti secondari; per ammannire più grossi “pacchi” di sapere nelle aule scolastiche; per amministrare con metodi nuovi le grandi burocrazie. E il tipo di ricerca che in qualche modo dob­biamo riuscire a controbattere se vogliamo avere la possi­bilità di trovare alternative di fondo all'automobile, all'ospedale, alla scuola e alle tante altre cosiddette “attrez­zature evidentemente necessarie alla vita moderna”.

Ho in mente un tipo di ricerca differente, e particolarmente difficile, che sinora è stato generalmente trascurato, per ragioni ovvie. Chiedo una ricerca sulle alternative ai prodotti che oggi dominano il mercato: agli ospedali e alle professioni dedite non a guarire ma a tenere in vita il malato; alle scuole e a quel processo di confezionamento che rifiuta l'istruzione a chi non ha l'età giusta, a chi non ha seguito il ciclo prescritto, a chi non ha trascorso in aula un numero sufficiente di ore consecutive, a chi non intende pagare il proprio sapere con la sottomissione a sorveglianza, esami e diplomi o con l'addottrinamento nei valori dell'élite dominante.

Questa controricerca sulle alternative sostanziali alle attuali soluzioni preconfezionate è assolutamente necessa­ria se si vuole che i paesi poveri abbiano un futuro degno d'essere vissuto. Essa si distingue da quasi tutto il lavoro che si è fatto in nome dell'“anno 2000”, perché in gran parte tale lavoro si propone di ottenere radicali mutamenti nelle strutture sociali mediante semplici aggiusta­menti organizzativi di una tecnologia già avanzata. La controricerca di cui io parlo deve invece avere tra i suoi presupposti la persistente carenza di capitali del Terzo Mondo.

Le difficoltà di una simile ricerca sono evidenti. Il ricercatore deve per prima cosa dubitare di ciò che appare a tutti ovvio. Deve in secondo luogo convincere i detentori del potere decisionale ad agire contro i propri interessi a breve, o forzarli a farlo. Deve infine sopravvivere come individuo in un mondo ch'egli cerca di cambiare radical­mente, tanto che i suoi simili appartenenti alla minoranza privilegiata 16 considerano un distruttore delle basi stesse sulle quali tutti poggiamo. Egli sa che se avrà successo nella sua ricerca a beneficio dei poveri, potrà persino accadere che le società tecnicamente avanzate invidino quelle “povere” che sposeranno la sua visione.

Coloro che elaborano piani di sviluppo, vivano essi nel Nord o nel Sud America, in Russia o in Israele, seguono tutti una stessa regola: definiscono lo sviluppo e ne fissano gli obiettivi secondo modalità a loro familiari, che sono abituati a usare per soddisfare i propri bisogni, e che permettono loro di agire attraverso le istituzioni su cui hanno potere o controllo. Questa formula è fallita, non può che fallire. Non esiste al mondo abbastanza denaro perché una politica di sviluppo condotta su questa falsa­riga possa essere Coronata da successo, neanche se si met­tessero assieme i bilanci per gli armamenti e per le ricer­che spaziali delle superpotenze.

Una regola analoga seguono coloro che cercano di fare rivoluzioni politiche, specie nel Terzo Mondo. Solitamente costoro promettono di rendere accessibili a tutti i citta­dini i privilegi consueti degli attuali gruppi dominanti, come le scuole e l'assistenza ospedaliera; e basano questa vana promessa sulla convinzione che un cambiamento del regime politico permetterà di espandere a sufficienza le istituzioni che producono tali privilegi. Le promesse e le parole d'ordine dei rivoluzionari sono perciò altrettanto minacciate dalla controricerca che io auspico quanto il mercato dei produttori ora dominanti.

In Vietnam un popolo in bicicletta e armato di canne di bambù appuntite ha bloccato il più progredito apparato di ricerca e di produzione che sia mai stato concepito. Noi dobbiamo cercare la via della sopravvivenza in un Terzo Mondo nel quale l'ingegnosità umana possa battere in modo pacifico la potenza meccanizzata. L'unica maniera per invertire la disastrosa tendenza a un crescente sotto­sviluppo, per difficile che sia, è di imparare a ridere delle soluzioni comunemente accettate così da modificare le domande che le rendono necessarie. Soltanto gli uomini liberi possono cambiare idea e avere sorprese; e se non esistono uomini completamente liberi, alcuni sono certo più libertà di altri.

Invece dell'istruzione

Verso la fine degli anni '60 tenni al Centro intercultural de documentaciòn (CIDOC) di Cuernavaca, Messico, una serie di seminari sul monopolio del modo di produzione industriale e sulle alternative concettuali adatte a un'epo­ca post-industriale. Il primo settore industriale che analiz­zai fu il sistema scolastico e il suo presunto prodotto, l'istru­zione. Sette saggi che scrissi in quel periodo furono riu­niti in volume nel 1971 col titolo Descolarizzare la società (trad. it. Mondadori 1972). Dal modo in cui il libro fu accolto mi accorsi che la mia descrizione delle funzioni latenti involontarie della scuola obbligatoria (il “program­ma occulto” della scolarizzazione) veniva usata impro­priamente non soltanto dai fautori delle cosiddette “scuo­le libere” ma, ancor più, da maestri di scuola anelanti a trasformarsi in educatori degli adulti.

Il saggio che segue è stato scritto a metà del 1971. Vi ribadisco che l'alternativa alla dipendenza di una società dalle proprie scuole non sta nell'escogitazione di nuovi espedienti per far imparare alla gente ciò che secondo gli esperti essa ha bisogno di sa pere; bensì nella creazione di un rapporto radicalmente nuovo tra gli esseri umani e il loro ambiente. Una società tesa al raggiungimento di alti livelli di sapere diffuso e di rapporti personali, libera e insieme critica, non può esistere se non si pone dei limiti pedagogicamente motivati alla propria crescita istituzionale e industriale.

Abbiamo cercato per generazioni di migliorare il mondo fornendo una quantità sempre maggiore di scolarizzazione, ma sinora lo sforzo non è andato a buon fine. Abbiamo invece scoperto che obbligare tutti i bambini ad arram­picarsi per una scala scolastica senza fine non serve a promuovere l'uguaglianza ma favorisce fatalmente colui che parte per primo, in migliori condizioni di salute o più preparato; che l'istruzione forzosa spegne nella mag­gioranza delle persone la voglia di imparare per proprio conto; e che il sapere trattato come merce, elargito in confezioni e considerato come proprietà privata, una volta acquisito, non può che essere sempre scarso.

Ci si è improvvisamente resi conto che l'istruzione pub­blica attuata mediante la scolarizzazione obbligatoria ha perso ogni legittimità sociale, pedagogica ed economica. Pertanto, i critici del sistema scolastico propongono ora rimedi energici ed eterodossi che vanno dal progetto dei “buoni-studio”, che permetterebbe a ognuno di procurarsi l'istruzione che preferisce sul mercato libero, al pas­saggio della responsabilità dell'istruzione dalla scuola ai media e all'addestramento sul lavoro. Alcuni sostengono che la scuola dovrà perdere il suo carattere di istituzione ufficiale dello Stato come l’ha perso la Chiesa nel corso degli ultimi due secoli. Altri riformatori propongono di sostituire la scuola universale con vari altri sistemi che, a loro parere, assicurerebbero a tutti una migliore preparazione alla vita propria di una società moderna. Queste proposte di nuove istituzioni educative si possono grosso modo raggruppare in tre categorie: la riforma dell'aula scolastica all'interno del sistema scolastico; la disseminazione di libere aule scolastiche in tutta la società; la trasformazione di tutta la società in un'unica immensa aula scolastica. Ma queste tre prospettive - l'aula riformata, l'aula libera e l'aula universale - rappresentano in realtà tre momenti di un progetto di escalation educativa nel quale ogni fase minaccia un controllo sociale più sottile e più penetrante della precedente.

Io credo che l'abolizione dell'istituzione scolastica sia divenuta inevitabile e che tale fine di un'illusione do­vrebbe colmarci di speranza. Ma credo anche che alla fine dell'“era della scolarizzazione” potrebbe seguire l'era di una scuola globale che solo per il nome si differenzierebbe da un manicomio globale o da un carcere globale, e dove istruzione, correzione e adattamento diverrebbero sinonimi. Credo quindi che lo sfacelo della scuola ci debba far guardare al di là della sua fine imminente per valutare quelle che sono le alternative fondamentali in questo campo. Esistono due possibilità: si possono realizzare nuo­vi tremendi congegni educativi volti a inculcare l'accettazione di un mondo che si viene facendo sempre più opaco e proibitivo per l'uomo, oppure si possono porre le condizioni per un'era nella quale la tecnologia venga usata per rendere la società più semplice e trasparente, si che tutti gli uomini possano tornare a conoscere i fatti e ad adoperare gli strumenti che plasmano la loro vita. Pos­siamo, in altri termini, disistituzionalizzare la scuola op­pure descolarizzare la cultura.

Il programma occulto

Per vedere con chiarezza le alternative che abbiamo di fronte, dobbiamo anzitutto distinguere l'apprendimento dalla scolarizzazione, ossia discernere quello che è il fine umanistico dell'insegnante dall'effetto che esercita l'invariante struttura della scuola. Tale struttura invisibile consiste in un sistematico insegnamento che sfugge a qualunque controllo del docente come dell'autorità scolastica. Trasmette ineluttabilmente un messaggio: che solo grazie alla scolarizzazione un individuo può prepararsi a vivere da adulto nella società, che ciò che non si insegna a scuola vale poco e che ciò che si apprende fuori della scuola non merita d'essere conosciuto. Io lo chiamo programma occulto perché, nel sistema scolastico, esso costituisce la cor­nice immutabile entro la quale avvengono tutti i mutamenti dei programmi visibili.

Il programma occulto è sempre il medesimo in qualun­que scuola e luogo. Esige che tutti i bambini di una certa età si riuniscano in gruppi di una trentina, sottoposti all'autorità di un insegnante ufficialmente abilitato, per 500, 1000 o più ore l'anno. Che il programma esplicito sia rivolto a inculcare i principi del fascismo, del liberalismo, del cattolicesimo, del socialismo o della liberazione non ha importanza, purché all'istituzione sia riconosciuto il potere di stabilire quali attività siano da considerare “istruzione” legittima. Non importa che scopo della scuola sia quello di produrre cittadini sovietici oppure statunitensi, dei meccanici oppure dei medici, purché non si possa es­sere a pieno titolo cittadino o medico senza aver preso un diploma. Non fa differenza dove avvengano le riunioni - in un'autofficina, in un'assemblea legislativa o in un ospe­dale - purché valga il principio della frequenza.

La cosa essenziale nel programma occulto è che gli studenti imparino che l'istruzione ha valore se acquisita a scuola attraverso un processo di consumo graduato; che la misura del successo che l'individuo avrà nel mondo di­pende dalla quantità di sapere che avrà acquistato; e che imparare cose sul mondo è più importante che impararle dal mondo. L'imposizione di questo programma occulto nell'ambito di un piano scolastico distingue la scolarizza­zione da qualsiasi altra forma di istruzione pianificata. Tutti i sistemi scolastici del mondo hanno caratteristiche comuni distinte da quello che è il loro prodotto istituzionale, e tali caratteristiche sono frutto del loro comune programma occulto.

Bisogna rendersi conto chiaramente che il programma occulto trasforma l'apprendimento da attività in merce, il cui mercato è monopolizzato dalla scuola. Il nome che noi diamo a questa merce è “istruzione”, un prodotto quan­tificabile e cumulativo di una istituzione progettata da pro­fessionisti e chiamata scuola, e il cui valore può essere misurato in base alla durata e al costo dell'applicazione allo studente di un procedimento (il programma occulto). L'insegnante provvisto di laurea ha diritto a uno stipendio superiore a quello di chi ha meno ore di credito universitario, indipendentemente dall'attinenza del suo titolo con il compito d'insegnare.

In tutti i paesi “scolarizzati” il sapere è considerato la dote più necessaria per sopravvivere, ma anche una for­ma di valuta più liquida del rublo o del dollaro. Gli scritti di Karl Marx ci hanno reso familiare l'alienazione dell’operaio dal proprio lavoro nella società divisa in classi; è ormai tempo di riconoscere quello che è lo straniamento dell'uomo dal proprio sapere, quando quest'ultimo diventa il prodotto di un servizio professionale e l'uomo il suo consumatore.

Quanta più istruzione un individuo consuma, tanto mag­giore è il “patrimonio di sapere” che acquista e tanto più in alto egli sale nella gerarchia dei capitalisti di sa­pere. L'istruzione determina così una nuova struttura classista in una società dove ai grandi consumatori di sapere - cioè a quelli che hanno acquisito più grossi patrimoni di sapere - si riconosce un più alto valore per la società stessa. Nel portafoglio del capitale umano di una società essi rappresentano titoli di tutto riposo, ed è a loro che si riserva l'accesso agli strumenti di produzione più potenti o più rari.

Il programma occulto, dunque, definisce e misura qual è l'istruzione e a quale livello di produttività il suo consumatore ha diritto. E l'elemento che serve a razionalizzare la crescente correlazione tra posti di lavoro e privilegi connessi, che presso certe società si traducono in reddito personale e presso altre in diritto a servizi che fanno risparmiare tempo, a un'ulteriore istruzione o a prestigio. (Un aspetto, questo, di particolare importanza ove si consideri che, come ha dimostrato fra gli altri lo studio di Ivar Berg, non esiste alcuna corrispondenza tra scolarizzazione e competenza professionale). L'idea di far passare ogni individuo per una serie di fasi di “illuminazione” affonda le sue radici nell'alchi­mia, la Grande Arte del tardo Medioevo. Jan Amos Co­menio (1592-1670), il vescovo moravo pedagogista e so­stenitore dell'ideale della “pansofia”, è a ragione consi­derato uno dei padri della scuola moderna. Fu tra i primi a proporre da sette a dodici classi di istruzione obbliga­toria. Nella sua Didactica magna definiva le scuole mecca­nismi “per insegnare qualunque cosa a chiunque” e ab­bozzò il progetto di una catena di montaggio per la pro­duzione di sapere, che a suo avviso avrebbe consentito di ottenere un'istruzione migliore e più a buon mercato e reso possibile a tutti l'accesso alla piena umanità. Ma Comenio non fu solo un precursore degli specialisti in efficienza; era anche alchimista, e si servì del linguaggio tecnico della sua arte per spiegare i principi dell'educa­zione dei fanciulli. Gli alchimisti pretendevano di raffinare i metalli vili facendone passare le essenze distillate per sette successivi stadi di sublimazione, nell'intento di tra­mutarli in oro a beneficio proprio e del mondo intero.

Naturalmente, per quanti tentativi facessero, non ci riu­scirono mai; ma ogni volta la loro “scienza” trovava nuove spiegazioni dell'insuccesso, e così ci riprovavano ancora.

La pedagogia apri un capitolo nuovo nella storia dell’Ars Magna. L'educazione divenne la ricerca di un processo alchimistico atto a produrre un nuovo tipo d'uomo che fosse capace di integrarsi con l'ambiente creato dalla magia della scienza. Ma per quanto tempo una generazione trascorresse nelle scuole, la maggioranza risultava sempre refrattaria a “illuminarsi” in virtù di questo processo e bisognava scartarla in quanto inidonea a vivere in un mon­do fatto dall'uomo.

I riformatori dell'istruzione i quali ammettono il falli­mento delle scuole si dividono in tre gruppi. I più rispet­tabili sono sicuramente i grandi maestri dell'alchimia, che promettono scuole migliori. I più seducenti sono i maghi popolari, che promettono di fare di ogni cucina un laboratorio alchimistico. I più sinistri sono i nuovi architetti, dell'universo, che vogliono trasformare il mondo intero in un enorme tempio del sapere.

Spiccano, tra i maestri dell'alchimia odierni, certi di­rettori di ricerca stipendiati o sponsorizzati dalle grandi fondazioni, i quali ritengono che le scuole, solo che si riuscisse a migliorarle in qualche modo, anche sul piano economico diverrebbero più funzionanti delle dissestate scuole attuali, e nello stesso tempo potrebbero vendere un più ampio assortimenti di servizi. Quelli che si occupano soprattutto dei programmi li giudicano sorpassati o incon­grui: ed ecco allora che li si arricchisce con nuovi corsi preconfezionati sulla cultura africana, sull'imperialismo sta­tunitense, sul movimento di liberazione della donna, sull'inquinamento, sulla società dei consumi. L'apprendimen­to passivo è sbagliato - e non c'è dubbio che lo sia -: ed ecco che si concede graziosamente agli studenti di decidere che cosa e in che modo vogliono che gli si insegni. Le scuole sono prigioni: dunque si autorizzano i presidi a consentire lezioni all'aperto, spostando i banchi in qualche strada di Harlem all'uopo recintata. Viene di moda l'edu­cazione all'autocoscienza, e subito si introduce in classe la terapia di gruppo. La scuola che avrebbe dovuto insegnare qualunque cosa a chiunque diventa così dispensatrice di tutte le cose a tutti i bambini.

Altri critici sono convinti che le scuole non sanno mettere a frutto la scienza moderna. Alcuni rilevano infatti che con un'adeguata somministrazione di farmaci divente­rebbe molto più semplice per l'istruttore il compito di normalizzare la condotta del bambino. Altri vorrebbero trasformare la scuola in una palestra di giochi educativi. Altri ancora elettrificherebbero le aule. Se sono discepoli alla buona di McLuhan, si limitano a voler sostituire lavagne e libri di testo con happenings multimediali; se invece seguono Skinner, garantiscono di saper modificare i comportamenti molto più efficacemente degli insegnanti vecchio stile.

La maggior parte di queste innovazioni non manca, certo, di avere qualche buon effetto. Nelle scuole speri­mentali l'assenteismo è diminuito. Col decentramento delle responsabilità di gestione i genitori hanno maggiormente la sensazione di partecipare. I ragazzi che dall'insegnante vengono assegnati a un'attività di tirocinio esterno si rivelano spesso più bravi di quelli che rimangono in classe. Certi bambini newyorkesi grazie al laboratorio linguistico fanno indubbi progressi nella conoscenza dello spagnolo, preferendo di gran lunga giocare con i tasti di un registra­tore che conversare con i loro coetanei portoricani. Tutti questi miglioramenti non possono però che restare entro limiti ristretti, dato che non toccano in alcun modo il programma occulto.

Certi riformatori vorrebbero slegarsi dal programma occulto delle scuole pubbliche, ma ben di rado ci riescono. Le scuole libere che generano altre scuole libere creano solo un miraggio di libertà, anche se la catena della frequenza è spesso interrotta da lunghi periodi di ozio. La frequenza ottenuta con mezzi di seduzione inculca il bisogno di cura scolastica in modo più persuasivo della frequenza riluttante imposta dalle autorità. L'insegnante permissivo che trasforma l'aula in un ambiente ovattato è facile che tenda i propri allievi incapaci di sopravvivere una volta lasciata la scuola.

L'apprendimento, in queste scuole, continua spesso a essere la solita acquisizione di abilità socialmente apprezzate, ancorché definite in questo caso dal consenso di una comunità invece che dai decreti di un'autorità scolastica centrale. Il nuovo presbitero non è che un ingrandimento del vecchio prete.

Le scuole libere, per essere veramente tali, devono sod­disfare due condizioni. Primo, devono essere condotte in modo da impedire che si reintroduca il programma occulto costituito dalla frequenza graduata e da “studenti” che studiano ai piedi di “insegnanti”. Cosa ancor più impor­tante, devono offrire una struttura entro la quale tutti i partecipanti, personale della scuola e allievi, possano li­berarsi dai postulati reconditi di una società scolarizzata. La prima condizione figura spesso tra gli obiettivi di una scuola libera; quanto alla seconda, solo raramente se ne ha coscienza ed è difficile che venga posta come obiettivo di una scuola libera.

I fondamenti reconditi dell'educazione

E utile distinguere tra il programma occulto, di cui ho già parlato, e i fondamenti reconditi della scolarizzazione. Il programma occulto è un rituale che può essere considerato l'iniziazione ufficiale al mondo moderno, istituzionalizzata attraverso la scuola. Scopo di questo rituale è nascondere a chi vi partecipa le contraddizioni tra il mito di una società egualitaria e la realtà divisa in classi che esso sancisce. Una volta riconosciuti come tali, i rituali perdono il loro potere, ed è questo che ora comincia ad accadere alla scuola. Nel cerimoniale della scolarizzazione trovano però espressione anche certi postulati fondamentali riguar­do al crescere - i fondamenti reconditi - che facilmente potrebbero uscire rafforzati da quanto fanno le scuole libere.

A prima vista ogni generalizzazione nei riguardi delle scuole libere parrebbe avventata. Specialmente negli Stati Uniti, nel Canada e nella Germania del 1971, esse sono i mille fiori di una nuova primavera. Qualche considerazione generale si può invece fare su quelle iniziative sperimentali che si presentano come istituzioni educative. Ma prima conviene esaminare un poco più a fondo il rapporto tra scolarizzazione e educazione.

Spesso si dimentica che il termine “educazione” è di conio recente. Fino alla vigilia della Riforma non lo si conosceva. Di educazione dei fanciulli si parla per la prima volta in lingua francese in un documento del 1498. Era l'anno in cui Erasmo si stabilì a Oxford, Savonarola venne bruciato sul rogo a Firenze e Dùrer incise l'Apocalisse, che con tanta potenza ci comunica il senso di sfa­celo incombente sulla fine del Medioevo. In inglese il termine comparve per la prima volta nel 1530, l'anno in cui Enrico VIII ripudiò Caterina d'Aragona e la Chiesa luterana si separò da Roma alla Dieta di Augusta. Nei paesi di lingua spagnola dovette trascorrere ancora un secolo prima che la parola e il concetto divenissero noti:nel 1632 Lope de Vega parla della “educazione” come di una novità. Quell'anno l'Università di San Marcos di Lima celebrava il suo sessantesimo anniversario. Centri d'istruzione esistevano gia prima che il termine “educazione” entrasse nell'uso; ma vi si “leggevano” i classici o il diritto, non si veniva educati alla vita.

Nel XVI secolo, al centro delle dispute teologiche c'era il bisogno universale di “giustificazione”. Questo concetto forniva un fondamento razionale alla politica e offriva la scusa per massacri su vasta scala. Spaccatasi la Chiesa, fu possibile sostenere opinioni largamente divergenti riguardo alla misura in cui gli uomini nascevano peccatori, corrotti e predestinati. Ma all'inizio del secolo XVII cominciò ad affermarsi un nuovo consenso, questa volta intorno all'idea che l'uomo nascesse inidoneo alla società e tale rimanesse se non gli si forniva una “educazione”. L'educazione venne così a indicare l'opposto dell’attitudine vitale. Venne a indicare un processo, anziché la semplice conoscenza dei fatti e la capacità di adope­rare gli strumenti che danno forma alla vita concreta dell’uomo. L'educazione si identificò con una merce immateriale che andava prodotta a beneficio di tutti, e a tutti dispensata nella stessa maniera in cui prima la Chiesa vi­sibile dispensava la grazia invisibile. La giustificazione al cospetto della società divenne la prima esigenza dell'uomo, che viene al mondo in una condizione di stupidità analoga al peccato originale.

La scolarizzazione e l'educazione sono correlate tra loro come la Chiesa e la religione o, in termini più generali, come il rito e il mito. Il rito ha creato e sorregge il mito; è mitopoietico, e il mito genera il programma mediante il quale si perpetua. Come concetto che designa tutta quanta una categoria di giustificazione sociale, l'“educazione” è un'idea di cui (al di fuori della teologia cristiana) non esiste alcun equivalente specifico in altre culture. E la produzione dell'educazione mediante il processo di scolarizzazione differenzia le scuole da tutti gli altri istituti d'istruzione esistenti in altre epoche. E questo che va capito, se si vuole cogliere il punto debole della maggioranza delle cosiddette scuole libere, non strutturate o indipendenti.

Per andare al di là della semplice riforma dell'aula, una scuola libera deve evitare di far proprio il program­ma occulto della scolarizzazione di cui ho parlato. La scuola libera ideale cerca di fornire istruzione e, contemporaneamente, di impedire che essa serva a istituire o legittimare una struttura classista, che divenga argomento per commisurare l'allievo a qualche parametro astratto, e che lo reprima, lo controlli, lo ridimensioni. Ma fin quan­do la scuola libera cercherà di fornire una istruzione o educazione “generale”, non potrà andare al di là di quelli che sono postulati reconditi dell'educazione.

Uno di questi postulati è la “sindrome dell'immigra­zione”, come la chiama Peter Schrag, la quale ci porta a trattare tutti come se fossero dei nuovi venuti che debbono subire un processo di naturalizzazione. Solo i consumatori di sapere che siano muniti di regolare diploma possono ottenere la cittadinanza. Gli uomini non nascono uguali, ma lo diventano grazie al periodo di gestazione che trascorrono nel corpo dell'Alma Mater. Bisogna gui­darli a staccarsi dal loro ambiente naturale e farli passare attraverso un utero sociale dove si formino quanto basta per divenire idonei alla vita quotidiana. Questa funzione le scuole libere spesso la svolgono meglio delle scuole di tipo meno attraente.

Gli istituti d'istruzione liberi hanno anche un'altra caratteristica in comune con quelli meno liberi: spersonalizzano la responsabilità dell'educazione. Pongono un'istituzione in loco parentis. Perpetuano l'idea che l'insegnamento, quando non avvenga all'interno della famiglia, spetti a un ente, del quale il singolo insegnante non è che un rappresentante. Persino la famiglia, in una società scolarizzata, si riduce a un “ente di acculturazione”. Gli istituti liberi che assumono insegnanti allo scopo di attuare il piano educativo collegialmente elaborato dai rispettivi comitati di direzione sono strumenti di spersonalizzazione degli autentici rapporti umani.

Certo, ci sono molte scuole libere che operano senza ricorrere a insegnanti forniti di titolo legale. Così facendo, esse costituiscono una seria minaccia per i sindacati degli insegnanti; ma non rappresentano minaccia alcuna per la struttura professionale della società. Una scuola dove la direzione affida a persone di sua fiducia l'incarico di at­tuare il proprio disegno scolastico, anche se tali persone non abbiano alcun diploma, abilitazione o tessera sindacale, non contesta affatto la legittimità della professione d'insegnante, così come una maitresse che agisca in un paese dove per operare legalmente è richiesta una licenza della polizia, non contesta la legittimità sociale della più antica professione del mondo per il fatto di metter su un bordello privato.

Nella grandissima maggioranza, coloro che insegnano nelle scuole libere non hanno alcuna possibilità di inse­gnare per conto proprio. Essi eseguono il compito collegialmente assegnato all'insegnamento per conto della direzione, la funzione meno trasparente dell'insegnamento per conto degli allievi, la funzione più mistica dell'insegnamento per conto della “società” in generale. La prova migliore è che di regola gli insegnanti delle scuole libere dedicano ancor più tempo dei loro colleghi professionisti a riunioni di comitati in cui si progetta come la scuola dovrebbe educare. E sono queste interminabili riunioni che spingono molti generosi insegnanti, allorché si rendono conto della loro illusione, a passare prima dalle scuole pubbliche a quelle libere e poi ad andarsene anche da queste.

Tutti gli istituti d'istruzione proclamano che loro scopo è quello di formare i giovani in funzione di qualcosa, in vista del futuro. Ma non li lasciano liberi di dedicarsi a tale compito finché non abbiano acquisito un alto grado di assuefazione al modo di essere degli anziani: forma­zione per la vita, anziché nella vita quotidiana. Queste poche scuole libere sanno evitarlo. Nondimeno esse sono tra i centri più importanti da cui 5 irradierà un nuovo stile di vita: non tanto per l'effetto che avranno i giovani che ne verranno fuori, quanto perché gli anziani forniti di crismi ufficiali appartengono spesso a una minoranza ra­dicale e la loro preoccupazione per il modo in cui cre­scono i figli li rafforza nel nuovo stile.

La mano invisibile in un mercato dell'istruzione

La categoria più pericolosa, tra i riformatori dell'istruzione, e' costituita da coloro i quali affermano che in un mercato libero il sapere si potrebbe produrre e distribuire molto più efficacemente che in un mercato monopolizzato dalla scuola. Costoro rilevano che è facile apprendere un'arte da un modello della medesima quando il discente è realmente interessato ad acquisirla, che un sistema di assegni individuali potrebbe conferire un più uguale potere d'acquisto in materia d'istruzione, e chiedono che vengano tenute accuratamente distinte tutte quelle procedure che servono a misurare e certificare il sapere acquisito. Tutto ciò mi pare ovvio; ma sarebbe un errore credere che la creazione di un mercato libero del sapere co­stituirebbe un 'alternativa radicale.

Indubbiamente la creazione di un mercato libero sopprimerebbe quello che ho chiamato il programma occulto dell'attuale sistema scolastico, cioè la frequenza imposta a determinate età lungo un corso graduato. Così pure, un mercato libero darebbe a tutta prima l'impressione dì con­trastare quelli che ho chiamato i fondamenti reconditi di una società scolarizzata: la “sindrome dell'immigrazione”, il monopolio istituzionale dell'insegnamento e il rituale dell'iniziazione lineare. Ma nello stesso tempo un mercato libero dell'istruzione fornirebbe all'alchimista infinite ma­ni invisibili per sistemare ciascun individuo nelle molteplici anguste caselle che una tecnocrazia più complessa è in grado di predisporre.

Decenni di fede nella scolarizzazione hanno tramutato il sapere in una merce, un prodotto commerciabile di tipo speciale. Oggi lo si considera un bene di prima ne­cessità e, contemporaneamente, la moneta più preziosa di una società. (La trasformazione del sapere in merce si ri­specchia in una parallela trasformazione del linguaggio. Parole che un tempo avevano funzione di verbi stanno diventando sostantivi che indicano possesso. Sino a non molto tempo fa “abitare”, “imparare”, “guarire” de­signavano delle attività: oggi si riferiscono di solito a delle merci o a dei servizi da fornire. Parliamo di indu­stria edilizia, di prestazione di assistenza medica; nessuno pensa più che la gente sia in grado di farsi una casa o di guarire per proprio conto. In una società cosiffatta si fini­sce per credere che i servizi professionali siano più pre­ziosi della cura personale. Invece d'imparare ad assistere la nonna, l'adolescente impara a picchettare l'ospedale che non vuole accoglierla). Questo atteggiamento potrebbe facilmente sopravvivere ad una abrogazione della scuola, come in America l'appartenenza a una chiesa continuò ad essere un requisito per accedere a una carica pubblica an­che molto tempo dopo l'approvazione del Primo Emen­damento. E ancor più evidente che un'abolizione dell'isti­tuzione scolastica potrebbe benissimo lasciar sussistere le batterie di esami che misurano i complessi “pacchi” di sapere, e, con esse, la pulsione a obbligare ognuno ad ac­quisirne un determinato quantitativo. La misurazione scien­tifica del valore di ogni persona e il sogno alchimistico della “educabilità di tutti alla piena umanità” verrebbero così finalmente a coincidere. Sotto le sembianze di un mer­cato libero, il villaggio globale si tramuterebbe in un gi­gantesco utero dove dei pedagoghi-terapisti controllereb­bero la complessa placenta da cui trarrebbe alimento ogni essere umano.

Attualmente le scuole limitano all'aula la competenza dell'insegnante. Impediscono che egli accampi pretese sull’intera vita di un uomo. La fine della scuola abbatterebbe questo limite e darebbe una parvenza di legittimità alla perpetua usurpazione pedagogica dell'intimità di ogni individuo. Darebbe il via a una mischia per il “sapere”su un mercato libero, che sfocerebbe nel paradosso di una democrazia volgare anche se apparentemente egualitaria.

Le scuole non sono affatto le sole o più efficienti isti­tuzioni che pretendano di tradurre conoscenze, compren­sioni e sapienza in tratti comportamentali la cui misura apre le porte del prestigio e del potere. Né sono le prime istituzioni di cui ci si è serviti per convertire l'istruzione nell'acquisto di particolari diritti. Il sistema cinese del mandarinato, per esempio, è stato per secoli uno stabile ed efficace incentivo all'istruzione, a beneficio di una classe relativamente aperta i cui privilegi dipendevano dal possesso di un sapere misurabile. La promozione al rango di dotto non conferiva automaticamente il diritto ai posti maggiormente ambiti, ma forniva un biglietto per la pub­blica lotteria nella quale si sorteggiavano le cariche tra i detentori del titolo di mandarino. Prima di cominciare a far guerre con le potenze europee, la Cina non aveva mai avuto scuole, e tanto meno università. Per tremila anni fu l'accertamento del sapere misurabile acquisito indivi­dualmente ciò che permise all'impero cinese - unico Stato nazionale che non abbia avuto né una vera chiesa né un sistema scolastico - di selezionare la propria élite di go­verno senza creare una vasta aristocrazia ereditaria. L'ac­cesso a questa élite era aperto ai familiari dell'imperatore e a tutti coloro che superavano le prove di accertamento.

Voltaire e i suoi contemporanei elogiavano il sistema cinese di promozione mediante prove d'istruzione; e nel 1791 in Francia, per l'accesso all'amministrazione pubbli­ca, furono istituiti degli appositi esami, successivamente aboliti da Napoleone. Sarebbe affascinante immaginare cosa sarebbe successo se per propagare gli ideali della Rivoluzione si fosse scelto il sistema del mandarinato an­ziché quello scolastico, che inevitabilmente dette sostegno al nazionalismo e alla disciplina militare. Nella realtà dei fatti, Napoleone rafforzò la scuola di tipo politecnico, resi­denziale. Il modello gesuitico della promozione rituale per gradi, all'interno di una istituzione chiusa, prevalse sul sistema del mandarinato e fu il metodo preferito dalle società occidentali per conferire legittimità alle proprie élites. I presidi divennero gli abati di una catena mondiale di monasteri dove ognuno s'affaccendava ad accumulare il sapere richiesto per entrare nel sempre obsolescente pa­radiso in terra.

Come i calvinisti soppressero i monasteri per poi tra­sformare tutta Ginevra in un unico convento, così noi dobbiamo temere che la soppressione della scuola possa dar luogo a un'unica fabbrica mondiale del sapere. A me­no di rivedere il concetto di istruzione o sapere, l'aboli­zione della scuola non potrebbe che portare a un accop­piamento tra il sistema del mandarinato - che distingue l'istruzione dalla certificazione - e una società impegnata a somministrare terapie a ogni uomo finché non sia maturo per l'età dorata.

La contraddittorietà delle scuole come strumento di progresso tecnocratico

L'educazione in funzione di una società fondata sul con­sumo equivale alla formazione del consumatore. La rifor­ma dell'aula, l'abbattimento delle pareti dell'aula, la dif­fusione dell'aula sono modi diversi di formare consumatori di merci soggette a invecchiare. La sopravvivenza d'una società nella quale le tecnocrazie possono dare definizioni sempre nuove della felicità umana identificandola con il consumo del loro prodotto più recente, è legata alle istituzioni educative (dalle scuole agli annunci pub­blicitari) che traducono l'istruzione in controllo sociale.

Nei paesi ricchi, come gli Stati Uniti, il Canada o l'Unio­ne Sovietica, gli enormi investimenti destinati alla scola­rizzazione rendono quanto mai evidenti quelle che sono le contraddizioni istituzionali del progresso tecnocratico. In quei paesi la difesa ideologica del progresso illimitato poggia sull'assunto che gli effetti egualizzanti di una sco­larizzazione senza fine possono controbilanciare le conse­guenze disegualizzanti della costante obsolescenza. La le­gittimità della stessa società industriale viene a dipendere dalla credibilità delle scuole, quale che sia il partito al potere, liberale o comunista. E ovvio che, in tali circostan­ze, il pubblico cerchi avidamente libri come il rapporto di Charles Silberman alla Commissione Carnegie, pubbli­cato col titolo La crisi nell'aula (New York 1970). Questo tipo di ricerca ispira fiducia per la solida documentazione su cui basa il suo processo alla scuola attuale, ma su una linea del genere gli insignificanti tentativi di salvare il sistema correggendone i difetti più vistosi possono solo creare una nuova ondata di vane aspettative.

Né l'alchimia né la magia né la muratoria sono in grado di risolvere il problema dell'attuale crisi, che non sta “nell'aula” ma nell'istruzione. Occorre descolarizzare la nostra visione del mondo, e per arrivare a questo dobbia­mo riconoscere il carattere illegittimo e religioso dell'impresa scolastica in se stessa. La sua hubris sta nel proposito di fare dell'uomo un essere sociale sottoponendolo a un trattamento entro un processo predeterminato.

Per coloro che condividono l'ethos tecnocratico, tutto ciò che è tecnicamente possibile deve essere messo a disposizione almeno di alcune poche persone, che lo voglia­no o no. La privazione e la conseguente frustrazione della maggioranza non contano. Se la cobaltoterapia è possibile, la città di Tegucigalpa deve averne l'apparecchiatura in ognuno dei suoi due ospedali maggiori, a un costo che sarebbe sufficiente per liberare dai parassiti una parte notevole di tutta la popolazione dell'Honduras. Visto che si possono raggiungere velocità supersoniche, qualcuno deve viaggiare a queste velocità. Essendo ormai concepibile il volo su Marte, bisogna trovare una giustificazione razionale per farlo apparire necessario. Nell'ethos tecno­cratico la povertà si modernizza: non soltanto alcune alternative un tempo esistenti vengono precluse da nuovi monopoli, ma la carenza dei beni di prima necessità viene estesa e aggravata da un crescente divario tra i servizi tecnologicamente realizzabili e quelli effettivamente disponibili per la maggioranza.

Quando un insegnante fa proprio questo ethos tecnocratico, si trasforma in “educatore”. Si comporta allora come se l'istruzione fosse un'impresa tecnologica intesa a render l'uomo atto a qualunque ambiente venga creato dal “progresso scientifico”. Sembra non accorgersi del fatto evidente che la continua obsolescenza di tutte le merci comporta un prezzo elevato: il costo crescente dell'istruirei cittadini a prenderne nozione. Sembra dimenticare che la continua crescita del costo degli strumenti di produ­zione è pagata a caro prezzo sul piano dell'istruzione: diminuisce infatti l'intensità del fattore lavoro nell'economia,e l'apprendimento sul lavoro diventa impossibile o tutt'al più un privilegio di pochi. In tutto il mondo il costo dell'educare gli uomini in funzione della società cresce più in fretta della produttività globale, e sono sempre di meno coloro che si sentono intelligentemente corresponsabili del bene pubblico.

Ogni incremento della spesa per la scuola rende ovun­que macroscopica la futilità della scolarizzazione. Para­dossalmente sono i poveri le prime vittime dello sviluppo scolastico. Nello Stato dell'Ontario la Commissione Wright ha dovuto riferire al governo che l'istruzione post-secon­daria rappresenta, inevitabilmente e senza rimedio, una tassazione sproporzionata dei poveri per un servizio di cui godranno sempre soprattutto i ricchi.

L'esperienza conferma queste predizioni. Sono parec­chi decenni ormai che nell'Unione Sovietica un sistema di quote favorisce l'ammissione all'università dei figli di ope­rai a scapito dei figli di laureati; ciò nonostante, questi ultimi sono proporzionalmente assai più numerosi tra i laureandi russi che tra quelli statunitensi.

Nei paesi poveri, le scuole razionalizzano il ritardo eco­nomico di tutta quanta una nazione. La maggioranza dei cittadini è esclusa dagli scarsi mezzi moderni di produzione e di consumo, ma aspira a entrare nell'economia dalla porta della scuola. La legittimazione della gerarchia del privilegio e del potere, un tempo affidata al lignaggio, all'eredità, al favore del re o del papa, alla spietatezza negli affari o sul campo di battaglia, è passata a una for­ma di capitalismo più sottile: cioè all'istituto gerarchico ma liberale dell'istruzione obbligatoria, che autorizza colui che è ben scolarizzato a considerare colpevole chi resta indietro nel consumo di sapere in quanto dispone di un titolo inferiore. Questa razionalizzazione dell'ineguaglian­za non può tuttavia mai quadrare con i fatti, e ai regimi populisti riesce sempre più difficile mascherare il conflitto tra l'ideale conclamato e la realtà.

Per dieci anni la Cuba di Castro ha profuso grandi energie nell'istruzione popolare a ritmo accelerato, utilizzando il materiale umano disponibile, senza il consueto rispetto per le credenziali professionali. Gli spettacolosi successi conseguiti inizialmente da questa campagna, specie nella riduzione dell'analfabetismo, sono stati addotti a prova che il lento tasso di crescita degli altri sistemi scolastici latino-americani sarebbe dovuto alla corruzione, al militarismo e al carattere capitalistico, di mercato, degli ordinamenti economici. Ma ora la logica della scolarizzazione gerarchica comincia a valere anche per Fidel e per il suo tentativo di produrre l'Uomo nuovo mediante la scuola. Pur se gli studenti passano metà dell'anno nelle piantagioni di canna da zucchero e aderiscono senza riserve agli ideali egualitari del companero Fidel, ogni anno la scuola produce un nuovo scaglione di sussiegosi con­sumatori di sapere pronti a passare a più alti livelli di consumo. E anche Castro si scontra con la dimostrazione evidente che il sistema scolastico non ce la farà mai a sfornare abbastanza personale tecnico. I diplomati che van­no a occupare i nuovi impieghi distruggono con il loro con­servatorismo i risultati ottenuti dai quadri sforniti di titolo di studio che avevano raggiunto le loro posizioni addestrandosi sul lavoro. Non è certo agli insegnanti che si può ad­dossare la colpa dei fallimenti di un governo rivoluzionario il quale insiste a perseguire la capitalizzazione istituzionale della forza lavoro attraverso un “programma occulto” che è fatto apposta per produrre una borghesia universale.

L'8 marzo 1971 una decisione della Corte suprema de­gli Stati Uniti ha aperto la strada ad una contestazione anche con mezzi legali della legittimità del programma oc­culto su cui si fonda il sistema d'istruzione americano. Esprimendo l'opinione unanime della Corte sul caso “Griggs e altri contro la Duke Power Company”, il suo presidente Warren E. Burger ha affermato che “diplomi ed esami sono servitori utili, ma il Congresso ha sancito il ragione­vole principio che non devono diventare padroni della realtà”. Il presidente interpretava in tal modo quella che era stata l'intenzione del Congresso nella sezione della Legge sui diritti civili del 1964 dedicata all'uguaglianza delle possibilità; e su questa base ha stabilito che qua­lunque titolo di studio richiesto ai candidati a un impiego, e qualunque esame cui li si sottoponga, deve “misurare l'uomo in funzione dell'impiego” e non “l'uomo in astrat­to”. L'onere di provare che i requisiti scolastici siano “una misura ragionevole della prestazione lavorativa ri­chiesta” spetta al datore di lavoro. Con questa decisione, la Corte ha inteso vietare l'uso di diplomi ed esami come strumenti di discriminazione razziale; ma il ragionamento del presidente vale per qualsiasi caso in cui si subordini l'occupazione al possesso di un pedigree scolastico. Sarà arduo per gli imprenditori sostenere che la scolarizzazione sia un requisito indispensabile per accedere a un’posto di lavoro; è facile infatti dimostrare che tale pretesa è necessariamente antidemocratica perché comporta un'ine­vitabile discriminazione. La Great Training Robbery, la grande rapina dell'istruzione, così efficacemente denunciata da Ivar Berg, è ormai destinata a subire continue contesta­zioni da parte di studenti, imprenditori e contribuenti.

Ricuperare la responsabilità di insegnare e imparare

Una rivoluzione contro queste forme di privilegio e di potere che si basano sul possesso di un titolo ufficiale di studio deve partire da un modo diverso di concepire l'ap­prendimento. Ciò vuol dire, soprattutto, intendere in maniera diversa la responsabilità di insegnare e di imparare. Il sapere può essere definito merce solo se lo si considera come il risultato di un'impresa istituzionale o come la realizzazione di obiettivi istituzionali. Se si ricupera il senso della responsabilità personale di ciò che s'impara o s insegna, diventa possibile spezzare questo incantesimo e 'colmare il distacco tra l'istruzione e la vita.

Ricuperare il potere d'imparare o d'insegnare significa che l'insegnante il quale si azzarda a intromettersi negli affari privati di un'altra persona si assume anche la re­sponsabilità dei risultati. Parimenti, lo studente che si espone all'influenza di un insegnante deve assumersi la responsabilità della propria istruzione. In questo quadro le istituzioni educative - se proprio sono necessarie - si configurano idealmente come dei centri di servizi dove uno possa trovare l'ambiente a lui adatto e avere accesso a un pianoforte, a un forno, a dischi, libri o diapositive. Le scuole, le stazioni televisive, i teatri e via dicendo sono concepiti principalmente in funzione di un loro uso da parte dei professionisti. Descolarizzare la società significa anzitutto negare lo statuto professionale di quella che è la seconda tra le più antiche professioni del mondo, cioè l'insegnamento. L'abilitazione di Stato degli insegnanti costituisce oggi un'indebita restrizione del diritto alla libertà di parola, così come la struttura corporativa e le pretese professionali del giornalismo costituiscono un'indebita re­strizione del diritto alla libertà di stampa. Le norme che impongono l'obbligo di frequenza sono in contrasto con la libertà di riunione. La descolarizzazione della società non è altro che una mutazione culturale, mediante la quale un popolo ricupera l'uso effettivo delle proprie libertà costituzionali: è la libertà di apprendere e di insegnare esercitata da uomini che sanno di essere nati liberi, non che vengono educati alla libertà. La maggior parte della gente impara, il più delle volte, quando fa qualcosa che le piace; la maggior parte della gente è curiosa e vuole trovare un significato in tutto ciò con cui viene a contatto; e la maggior parte della gente è capace di rapporti personali autentici con gli altri, quando non sia ottenebrata da un lavoro disumano o spenta dalla scolarizzazione.

Il fatto che nei paesi ricchi la gente non impari molto per conto proprio non è prova del contrario; è piuttosto conseguenza del vivere in un ambiente dal quale, paradossalmente, non si può imparare molto proprio perché è così rigidamente programmato. Gli individui sono costantemente frustrati dalla struttura della società contemporanea, dove i fatti sulla cui base si prendono le decisioni sono diventati quanto mai sfuggenti. Si vive in un ambiente dove gli strumenti utilizzabili per scopi creativi sono ormai articoli di lusso, un ambiente dove i canali di comunicazione sono fatti per permettere a pochi di parlare ai molti.

Una nuova tecnologia, non una nuova educazione

Negli anni di Kennedy venne fuori una tipica immagine che, attraverso gli scritti di Kenneth Boulding, ha ottenuto largo credito nel pensiero economico: il patrimonio di sapere. Questo prezioso bene sociale sarebbe costituito dall'accrezione cumulativa degli escrementi mentali pro­dotti dagli individui migliori e più svegli. Si è cioè im­maginato, al posto dei mucchi di terra o d'oro dei prece­denti capitalismi, un “capitale” anale. Lo custodiscono, anziché i banchieri e gli speculatori, gli scienziati e gli specialisti nell'immagazzinamento e ricupero dell'informazione. Crescendo fino a raggiungere una massa critica, questa accumulazione produce interesse. Un, tipo particolare di esperto in marketing, chiamato “educatore”, distribuisce tale ricchezza incanalandola verso coloro che godono del privilegio di poter accedere ai piani alti di quélla borsa internazionale del sapere che va sotto il no­me di “scuola”. Qui, costoro acquistano dei titoli di possesso di sapere, che accrescono il valore sociale del detentore. In certe società questo valore si traduce principalmente in incremento del reddito personale, mentre nelle società dove il capitale di sapere è considerato troppo prezioso per finire come proprietà privata, il valore si traduce in potere, rango e privilegi. Questo singolare trattamento è razionalizzato con le pompose onoranze che si tributano ai custodi di tale patrimonio ogni volta che lo destinano a un nuovo uso.

Questa concezione influisce anche sul nostro modo di pensare lo sviluppo della tecnologia moderna. Un mito contemporaneo vorrebbe farci credere che la sensazione di impotenza oggi avvertita dalla maggioranza della gente sia l'effetto di una tecnologia che non può fare a meno di creare sistemi giganteschi. Ma non è la tecnologia a rendere giganteschi i sistemi, immensamente potenti gli strumenti, unidirezionali i canali di comunicazione: al con­trario, se adeguatamente controllata, la tecnologia potreb­be fornire a tutti la capacità di comprendere meglio il proprio ambiente e di plasmarlo con le proprie mani, e consentirebbe a ciascuno una pienezza di intercomunica­zione quale non è mai stata possibile prima d'ora. Questo uso alternativo della tecnologia è anche l'alternativa centrale nel campo dell'istruzione.

Per crescere, una persona ha anzitutto bisogno di poter accedere a cose, a luoghi, a processi, a eventi e a docu­menti. Ha bisogno di vedere, di toccare, di armeggiare, di cogliere tutto ciò che un ambiente significante contiene. Oggi questa possibilità d'accesso è in gran parte preclusa. Divenuto una merce, il sapere ha acquisito le protezioni della proprietà privata, e un principio inteso a salvaguardare l'intimità personale è diventato argomento per escludere da certi fatti chi non possieda le credenziali appropriate. Nelle scuole gli insegnanti tengono per sé il sapere, a meno che non coincida con il programma della giornata. I media informano, ma tolgono di mezzo tutto ciò che ri­tengono inopportuno riprodurre. L'informazione è sigillata in linguaggi speciali, e insegnanti specializzati si guadagnano da vivere ritraducendola. I brevetti sono diritto riservato delle aziende, i segreti competenza delle burocrazie, e il potere di escludere gli altri dalle riserve private - siano esse cabine di guida, uffici legali, depositi di rottami o cliniche - è gelosamente custodito da professioni, istituzioni, nazioni. Né la struttura politica né quella professionale delle nostre società, d'Oriente come d'Occidente, resisterebbero alla perdita del potere di escludere intere classi della popolazione da fatti di cui queste potrebbero utilmente avvalersi. L'accesso ai fatti che io auspico va ben oltre la veridicità delle etichette: deve consistere nel contatto con la realtà, mentre da un messaggio pubblicitario noi esigiamo soltanto che non ci inganni. L'accesso alla realtà è un'alternativa di fondo a un sistema che invece pretende di insegnarla.

Abolire il diritto al segreto di gruppo - anche laddove le professioni sostengono che la segretezza giova al bene comune - è, come si vedrà tra poco, un obiettivo politico assai più radicale della tradizionale richiesta di trasferire alla collettività la proprietà o il controllo degli strumenti di produzione. La socializzazione degli strumenti non accompagnata da un'effettiva socializzazione del know-how necessario per il loro uso tende a porre il capitalista di sapere nella posizione prima occupata dal finanziere. L'uni­co titolo su cui il tecnocrate fonda il suo potere è il patrimonio da lui posseduto in qualche settore della cono­scenza ristretto e segreto, e il miglior modo per salvaguar­darne il valore è una grossa organizzazione ad alta inten­sità di capitale che renda estremamente arduo l'accesso al know-how.

Al discente interessato non occorre molto tempo per apprendere pressoché tutte le abilità di cui voglia servirsi. Questo noi tendiamo a dimenticarlo, in una società dove non c'è campo il cui ingresso non sia monopolizzato da docenti di professione, che perciò tacciano di ciarlataneria l'insegnamento impartito da persone prive di titolo formale. Poche abilità meccaniche impiegate nell'industria o nella ricerca sono così impegnative, complesse e pericolose come la guida di un'auto, che la maggioranza della gente impara presto da un suo pari. Non tutti hanno una inclinazione per la logica superiore, ma quelli che l'han­no fanno progressi rapidi se vengono precocemente allenati a fare giochi matematici. A Cuernavaca un ragazzo su venti è in grado di battermi a Whiff'n' Proof dopo una quindicina di giorni dacché ha cominciato a impararlo. Al nostro centro CIDOC nel giro di quattro mesi tutti gli adulti motivati, tranne una minuscola percentuale, riuscivano a imparare lo spagnolo abbastanza per svolgere attività universitaria in questa lingua.

Un primo passo per consentire l'accesso alle abilità potrebbe consistere nel fornire vari incentivi agli individui già esperti che fossero disposti a mettere in comune il proprio sapere. Inevitabilmente ciò andrebbe contro gli interessi delle corporazioni, delle professioni e dei sinda­cati. Tuttavia un apprendistato multiplo è affascinante:offre a ognuno la possibilità d'imparare qualcosa in pres­soché tutti i campi. Non c'è motivo per cui una persona non dovrebbe associare in sé la capacità di guidare un veicolo, di riparare un telefono o un gabinetto, di assistere una partoriente e di fare del disegno architettonico. I gruppi che difendono interessi particolari nonché i loro disciplinati clienti sosterranno naturalmente che il pubblico ha bisogno d'esser tutelato da una garanzia profes­sionale; ma è un discorso che viene ormai regolarmente contestato dalle varie associazioni per la protezione del consumatore. Molto più sul serio dobbiamo invece prendere l'obiezione che alla socializzazione radicale delle abilità viene mossa dagli economisti, e cioè che democratizzando il sapere brevetti, tecniche e via dicendo - si scoraggerebbe il “progresso”. E un'obiezione che si può superare solo mettendo in luce il tasso di crescita delle diseconomie futili che sono generate da tutti i sistemi d'istruzione esistenti.

La possibilità di accedere alle persone disposte a spar­tire le proprie abilità non basta a garantire l'apprendimen­to. Tale possibilità è infatti limitata non solo dal monopolio che i programmi scolastici da una parte e i sindacati dall'altra esercitano rispettivamente sui contenuti e sulle modalità dell'istruzione, ma anche da una tecnologia di penuria. Le abilità che oggi contano di più riguardano l'uso di strumenti che sono di per sé rari. Tali strumenti producono beni o rendono servizi che tutti vorrebbero ma di cui pochi soltanto possono fruire, e solo un numero limitato di persone è in grado di usarli. Sulla totalità degli individui affetti da una data malattia soltanto pochi privilegiati beneficiano dei frutti di una tecnologia medica sofisticata, e sono ancora meno i medici che acquisiscono la capacità di servirsene.

Tuttavia i medesimi frutti della ricerca medica hanno dato luogo a un'attrezzatura essenziale che oggi permette, per esempio, ai soldati di sanità di ottenere in condizioni di emergenza, con solo qualche mese d'addestramento, risultati che un medico a pieno titolo non avrebbe neppure immaginato durante la seconda guerra mondiale. A un livello ancora più semplice, qualsiasi giovane contadina sarebbe oggi in grado di diagnosticare e curare la maggior parte delle malattie infettive se i professionisti della scienza medica preparassero dosi e istruzioni speci­fiche per una determinata area geografica.

Come si ricava da tutti questi esempi, già delle considerazioni educative sono sufficienti per esigere un radicale ridimensionamento della struttura professionale che oggi ostacola il rapporto tra il ricercatore e la maggioranza della gente che vuole accedere alla scienza. Se si prestasse ascolto a questa richiesta, tutti gli uomini potrebbero im­parare a usare gli strumenti di ieri, resi più efficaci e durevoli dalla scienza d'oggi, per creare il mondo di domani.

Purtroppo, quella che prevale oggi è la tendenza esat­tamente opposta. Conosco una zona costiera dell'America meridionale dove la maggior parte della popolazione si guadagna da vivere praticando la pesca su piccole barche.

Il motore fuoribordo è senza dubbio lo strumento che ha cambiato nel modo più drastico la vita di questi pesca­tori. Ma nella zona da me studiata, il cinquanta per cento dei fuoribordo acquistati tra il 1945 e il 1950 funziona ancora grazie a continui aggiusti, mentre il cinquanta per cento dei fuori bordo acquistati nel 1965 non va più perché questi ultimi sono stati fabbricati in modo da non poter essere riparati. Il progresso tecnologico fornisce alla maggioranza congegni che essa non può permet­tersi, mentre la priva degli strumenti più semplici di cui ha bisogno.

Il cemento armato, i metalli e le materie plastiche che si usano nell'edilizia hanno fatto grandi progressi dagli anni '40 e dovrebbero offrire a un maggior numero di persone la possibilità di costruirsi la propria casa. Ma mentre nel 1948 più del 30 per cento delle case unifamiliari degli Stati Uniti erano state fabbricate dal loro proprietario, alla fine degli anni '60 la percentuale dei costruttori in proprio era scesa a meno del 20 per cento.

La caduta del livello delle capacità dovuta al cosiddetto sviluppo economico è ancor più visibile nell'America Latina. Qui la maggioranza della gente continua a costruirsi la propria casa dalle fondamenta al tetto. Spesso usa il fango in forma di mattoni e la paglia per la copertura, materiali d'insuperata utilità in un clima umido, caldo e ventoso. Altrove si ricava un'abitazione da cartoni, fusti di benzina e altri rifiuti industriali. Invece di fornire alla gente delle attrezzature semplici e dei componenti fortemente standardizzati, durevoli e facili da riparare, tutti i governi si sono messi a produrre in serie edifici a basso costo. E chiaro che nessun paese può permettersi di for­nire unità d'abitazione moderne e soddisfacenti alla maggioranza della sua popolazione; e tuttavia non c'è paese dove questa politica non stia rendendo progressivamente più difficile per la maggioranza l'acquisizione delle cono­scenze e delle capacità di cui essa avrebbe bisogno per costruirsi da sola delle case migliori.

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