Étienne
de La Boétie |
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Discorso
sulla Servitù Volontaria |
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Titolo
originale dellopera "Discours
de la Servitude Volontaire" -
Traduzione di Vincenzo Papa
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Saggio
introduttivo Unambigua utopia repubblicana e note
al testo di Enrico Voccia |
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Étienne de La Boétie
DISCORSO SULLA SERVITÙ VOLONTARIA Nellaver molti
signori non ci vedo bene alcuno
Che uno solo comandi, e che il re sia solo uno [26] così
diceva Ulisse in Omero, parlando in assemblea. Se avesse detto
soltanto: Nellaver
molti signori non ci vedo bene alcuno non
avrebbe potuto dire niente di meglio. Ma mentre, seguendo il filo
del ragionamento, si doveva dire che il dominio di molti non può
essere conveniente perché il potere di uno solo, dal momento in
cui prende il titolo di signore, è duro e irragionevole, egli
invece ha aggiunto: Che
uno solo comandi, e che il re sia solo uno
[27]
Bisognerebbe,
in questo caso, scusare Ulisse, che forse doveva usare quel linguaggio
per sedare la rivolta dellesercito, adattando, credo, il
suo discorso più alla circostanza che alla verità. Ma, per parlare
consapevolmente, è una tremenda disgrazia essere soggetti a un
padrone, della cui bontà non si può mai esser certi, visto che,
quando vuole, può sempre essere malvagio; e avere più padroni
significa essere altrettante volte sventurati. Non voglio per
il momento discutere quella questione così dibattuta, se cioè
le altre forme di pubblico potere siano migliori della monarchia,
tuttavia vorrei sapere, prima di mettere in discussione quale
posto la monarchia debba avere tra le forme di governo, se essa
debba averne uno, poiché è difficile credere che vi sia qualcosa
di pubblico in un governo in cui tutto è di uno solo. Ma questa
questione va messa da parte per unaltra volta, e richiederebbe
una trattazione a sé, o piuttosto si tirerebbe dietro ogni sorta
di disputa politica. Per ora, vorrei solo comprendere come è possibile che
tanti uomini, tanti paesi, tante città e nazioni tollerino talvolta
un solo tiranno, che non ha altro potere che quello che gli danno;
che ha il potere di nuocere loro solo finché essi possono sopportarlo;
che non potrebbe far loro alcun male, se non quando essi preferiscono
sopportarlo piuttosto che contraddirlo. È davvero sorprendente,
e tuttavia così comune che cè più da dispiacersi che da
stupirsi nel vedere milioni e milioni di uomini servire miserevolmente,
col collo sotto il giogo, non costretti da una forza più grande,
ma perché sembra siano ammaliati e affascinati dal nome solo di
uno, di cui non dovrebbero temere la potenza, visto che è solo,
né amare le qualità, visto che nei loro confronti è inumano e
selvaggio. La debolezza umana è tale, che dobbiamo spesso ubbidire
alla forza; dobbiamo prendere tempo, non possiamo essere sempre
i più forti. Dunque, se una nazione è costretta dalla forza delle
armi a sottomettersi ad uno, come la città di Atene ai trenta
tiranni,
[28]
non bisogna stupirsi che serva, ma compiangere
quella sventura; o meglio ancora, né stupirsi né lamentarsi, ma
sopportare il male pazientemente e riservarsi per lavvenire
una sorte migliore. La nostra natura è tale che i comuni doveri dellamicizia
prevalgono per una buona parte della nostra vita. È ragionevole
amare la virtù, apprezzare le buone azioni, essere riconoscenti
verso chi ci ha fatto del bene e limitare spesso il nostro benessere
per accrescere lonore e lutile di chi amiamo meritatamente.
Così, se gli abitanti di un paese avessero trovato qualche grande
personaggio che gli avesse dato prova di una grande previdenza
nel salvaguardarli, di un grande coraggio nel difenderli, di una
grande cura nel governarli; se, da quel momento, essi si abituassero
ad obbedirgli ed a fidarsene fino al punto di riconoscergli alcuni
privilegi, non so se sarebbe una cosa saggia, visto che lo si
toglierebbe da dove faceva bene, per innalzarlo dove potrebbe
far male. Ma certo, non si potrebbe fare a meno di amare e di
non temere alcun male da chi si è ricevuto solo bene. Ma, buon Dio! che storia è questa? Come diremo che
si chiama? Che disgrazia è questa? Quale vizio, o piuttosto, quale
disgraziato vizio? Vedere un numero infinito di persone non obbedire,
ma servire; non essere governati, ma tiranneggiati; senza che
gli appartengano né beni né parenti, né mogli né figli, né la
loro stessa vita! Sopportare i saccheggi, le licenziosità, le
crudeltà, non di un esercito, non di unorda barbara, contro
cui bisognerebbe difendere innanzitutto il proprio sangue e la
propria vita, ma di uno solo. E non di un Ercole né di un Sansone,
ma di un solo omuncolo, molto spesso il più vile ed effeminato
della nazione; non avvezzo alla polvere delle battaglie, ma a
malapena alla sabbia dei tornei; non solo incapace di comandare
gli uomini con la forza, ma in imbarazzo già a servire vilmente
lultima donnicciola! Chiameremo questa vigliaccheria? diremo
che coloro che servono sono codardi e deboli? Se due, tre o quattro
persone non si difendono da unaltra, questo è strano, ma
tuttavia possibile; si potrà ben dire giustamente che è mancanza
di coraggio. Ma se cento, mille sopportano uno solo, non si dovrà
dire che non vogliono, che non osano attaccarlo, e che non è vigliaccheria,
ma piuttosto spregevolezza ed abiezione? Se si vedono, non cento,
non mille uomini, ma cento paesi, mille città, un milione di uomini
non assalire uno solo, che li tratta nel migliore dei casi come
servi e schiavi, come potremmo chiamare questa? Vigliaccheria?
Ora, naturalmente in tutti i vizi ci sono dei limiti, oltre i
quali non possono andare: due uomini, e forse anche dieci, possono
temere uno solo; ma se mille, un milione, mille città non si difendono
da uno solo questa non è vigliaccheria, perché non arriva fino
a questo punto; proprio come il coraggio non arriva fino al punto
che uno solo dia la scalata ad una fortezza, assalga un esercito,
conquisti un regno. Dunque quale vizio mostruoso è mai questo
che non merita nemmeno il nome di vigliaccheria, e per il quale
non si trova un termine sufficientemente offensivo, che la natura
rinnega di aver generato e la lingua rifiuta di nominare? Si mettano cinquantamila uomini armati da una parte
e altrettanti dallaltra; li si schieri in battaglia e li
si faccia scontrare, gli uni liberi, combattenti per la loro libertà,
gli altri per toglierla loro. A chi si pronosticherebbe la vittoria?
Chi andrà al combattimento con più coraggio, quelli che sperano
come ricompensa di salvaguardare la loro libertà, o quelli che
come contropartita dei colpi inferti o ricevuti possono aspettarsi
solo la schiavitù altrui? Gli uni hanno sempre davanti agli occhi
la felicità della vita passata e laspettativa di una gioia
simile per lavvenire; non pensano a quel poco che patiscono
il tempo che dura una battaglia, ma a quello che dovranno sopportare
per sempre loro stessi, i loro figli e tutta la discendenza. Gli
altri non hanno niente che li imbaldanzisca, se non un pizzico
di bramosia che si smussa subito contro il pericolo e che non
può essere tanto ardente da non spegnersi, forse, alla minima
goccia di sangue che esca dalle loro ferite. Nelle battaglie così
famose di Milziade, Leonida e Temistocle,
[29]
avvenute duemila anni fa e che ancora oggi
sono così presenti nella memoria dei libri e degli uomini come
fosse accaduto laltro ieri, che furono combattute in Grecia
per il bene dei Greci e come esempio per il mondo intero; ebbene,
cosa diede ad un così piccolo numero di uomini, quali erano i
Greci, non il potere, ma il coraggio di resistere alla forza di
navi che riempivano il mare intero, di sconfiggere tanti popoli,
talmente numerosi che le truppe dei Greci non avrebbero, eventualmente,
neanche potuto fornire dei comandanti agli eserciti nemici? In
quei giorni gloriosi non si svolgeva tanto la battaglia dei Greci
contro i Persiani, quanto la vittoria della libertà sul dominio,
della lealtà sulla bramosia. É straordinario sentir parlare del coraggio che la
libertà mette nel cuore di chi la difende; ma ciò che avviene
in tutti i paesi, fra tutti gli uomini, tutti i giorni, cioè che
un uomo ne opprima centomila e li privi della loro libertà, chi
potrebbe crederlo se lo si sentisse solo raccontare e non vederlo?
E se avvenisse solo in paesi stranieri ed in terre lontane, e
lo si raccontasse, chi non penserebbe che sia piuttosto una favola
e una invenzione e non una cosa vera? Per di più questo tiranno
solo, non cè bisogno di combatterlo, non occorre sconfiggerlo,
è di per sé già sconfitto, basta che il paese non acconsenta alla
propria schiavitù. Non bisogna togliergli niente, ma non concedergli
nulla. Non occorre che il paese si preoccupi di fare niente per
sé, a patto di non fare niente contro di sé. Sono dunque i popoli
stessi che si lasciano o piuttosto si fanno tiranneggiare, poiché
smettendo di servire ne sarebbero liberi. È il popolo che si assoggetta,
che si taglia la gola e potendo scegliere fra lessere servo
e lessere libero, lascia la libertà e prende il giogo; che
acconsente al suo male, o piuttosto lo persegue. Se gli costasse
qualcosa recuperare la libertà, non lo inciterei, sebbene luomo
non dovrebbe avere niente di più caro che affermare il suo diritto
naturale e, per così dire, da bestia ritornare uomo. Ma non pretendo
lui un tale coraggio; gli concedo pure che preferisca una certa
sicurezza di vivere miserabilmente ad una incerta speranza di
vivere nellagiatezza. Ma se per avere la libertà basta desiderarla,
se cè solo bisogno di un semplice atto di volontà, quale
popolo al mondo potrebbe valutarla ancora troppo cara, potendola
ottenere solo con un desiderio, e che lesini la volontà di recuperare
il bene che dovrebbe riacquistare a prezzo del proprio sangue,
e la cui perdita dovrebbe rendere insopportabile la vita e desiderabile
la morte a tutte le persone dignitose? Certo, come il fuoco di
una piccola scintilla diviene grande e si rafforza sempre, e più
trova legno, più è pronto a bruciarne, e se non vi si mette dellacqua
per spegnerlo, basta non metterci più legno, non avendo più da
consumare, si consuma da sé, diviene senza forza e non è più fuoco;
allo stesso modo i tiranni, più saccheggiano, più esigono, più
rovinano e distruggono, più gli si dà, più li si serve, tanto
più si rafforzano e divengono sempre più forti e più rinvigoriti
per annientare e distruggere tutto; ma se non gli si dà niente,
se non gli si obbedisce, senza combattere, senza colpire, restano
nudi e sconfitti e non sono più niente, o sono come il ramo che
diviene secco e morto quando la radice non ha più linfa e nutrimento. I coraggiosi non temono il pericolo per ottenere ciò
che desiderano. Gli avveduti non rifiutano la fatica. I vili e
gli ottusi non sanno sopportare il male né riconquistare il bene:
si limitano a desiderarlo, e la virtù di aspirarvi gli è negata
dalla loro vigliaccheria, restandogli per natura il desiderio
di averlo. Questo desiderio, questa volontà di aspirare a tutte
le cose che, una volta ottenute, li renderebbero felici e contenti,
è comune ai saggi ed agli stolti, ai coraggiosi ed ai codardi.
Cè una sola cosa di cui, non so perché, manca agli uomini
il desiderio naturale: è la libertà, che pure è un bene così grande
e piacevole, che una volta perduto, tutti i mali vengono uno dietro
laltro, e perfino i beni che restano dopo di lei perdono
completamente gusto e sapore, corrotti dalla servitù. Solo la
libertà, gli uomini non la desiderano perché, così pare, se la
desiderassero essi lotterrebbero; come se rifiutassero di
fare questa conquista solo perché troppo facile. Poveri e miseri popoli insensati, nazioni ostinate
nel vostro male e cieche nel vostro bene, vi lasciate strappare
sotto gli occhi la parte migliore del vostro reddito, saccheggiare
i vostri campi, derubare le vostre case e spogliarle dei mobili
antichi e di famiglia! Vivete in modo da non poter vantare niente
che sia vostro; e ciònonostante sembrerebbe per voi un grande
favore tenere in affitto i vostri beni, le vostre famiglie e le
vostre vite. E tutto questo danno, questa disgrazia, questa rovina,
non vi viene da molti nemici, ma bensì da un solo nemico, da colui
che voi fate così potente comè, per il quale andate coraggiosamente
in guerra, per la cui grandezza non rifiutate certo di affrontare
la morte. Colui che tanto vi domina non ha che due occhi, due
mani, un corpo, non ha niente di più delluomo meno importante
dellimmenso ed infinito numero delle nostre città, se non
la superiorità che gli attribuite per distruggervi. Da dove ha
preso tanti occhi, con i quali vi spia, se non glieli offrite
voi? Come può avere tante mani per colpirvi, se non le prende
da voi? I piedi con cui calpesta le vostre città, da dove li ha
presi, se non da voi? Come fa ad avere tanto potere su di voi,
se non tramite voi stessi? Come oserebbe aggredirvi, se non avesse
la vostra complicità? Cosa potrebbe farvi se non foste i ricettatori
del ladrone che vi saccheggia, complici dellassassino che
vi uccide e traditori di voi stessi? Seminate i vostri frutti,
affinché ne faccia scempio. Riempite ed ammobiliate le vostre
case, per rifornire le sue ruberie. Allevate le vostre figlie
perché abbia di che inebriare la sua lussuria. Allevate i vostri
figli, perché, nel migliore dei casi, li porti alla guerra e li
conduca al macello, li faccia ministri delle sue bramosie, ed
esecutori delle sue vendette. Vi ammazzate di fatica perché possa
trattarsi delicatamente nei suoi lussi e voltolarsi nei suoi piaceri
sporchi e volgari. Vi indebolite per renderlo più forte e rigido
nel tenervi la briglia più corta. E di tutte queste indegnità,
che neanche le bestie potrebbero accettare o sopportare, voi potreste
liberarvi se provaste, non dico a liberarvene, ma solo a volerlo
fare. Siate decisi a non servire più, ed eccovi liberi. Non voglio
che lo scacciate o lo scuotiate, ma solo che non lo sosteniate
più, e lo vedrete, come un grande colosso al quale è stata tolta
la base, piombare giù per il suo stesso peso e rompersi. Certo i medici consigliano giustamente di non toccare
le ferite incurabili, ed io non mi comporto saggiamente volendo
dare consigli al popolo, che ha perso da lungo tempo ogni consapevolezza,
e che, visto che non sente più il suo male, dimostra che la sua
malattia è mortale. Cerchiamo dunque per ipotesi, di capire come
si sia così profondamente radicata questa ostinata volontà di
servire, da far sembrare che lo stesso amore della libertà non
sia così naturale. In primo luogo, credo che sia fuori dubbio che, se
vivessimo secondo i diritti che la natura ci ha dato e secondo
gli insegnamenti che ci rivolge, saremmo naturalmente obbedienti
ai genitori, seguaci della ragione e servi di nessuno. Tutti gli
uomini sono testimoni, ciascuno per sé, dellobbedienza che
ognuno, senzaltro impulso che quello naturale, porta a suo
padre e a sua madre. Quanto alla questione se la ragione sia innata
o meno, questione dibattuta a fondo dagli accademici
[30]
ed affrontata da ogni scuola di filosofi, per
il momento non penso di sbagliare dicendo che nellanimo
nostro cè un seme naturale di ragione, che, coltivato dal
buonsenso e dal costume, fiorisce in virtù e, al contrario, non
riuscendo spesso a resistere contro i vizi acquisiti, si isterilisce
soffocato. Ma di sicuro, se mai cè qualcosa di chiaro ed
evidente nella natura, che è impossibile non vedere, è che la
natura, ministro di Dio, la governatrice degli uomini, ci ha fatti
tutti della stessa forma, e come sembra, allo stesso stampo, perché
possiamo riconoscerci reciprocamente come compagni o meglio come
fratelli. E se, dividendo i doni che ci faceva, ha avvantaggiato
nel corpo o nella mente gli uni più degli altri, non ha inteso
per questo metterci al mondo come in recinto da combattimento,
e non ha mandato quaggiù né i più forti né i più furbi come briganti
armati in una foresta, per tiranneggiare i più deboli. Ma, piuttosto,
bisogna credere che la natura dando di più agli uni e di meno
agli altri, abbia voluto lasciar spazio allaffetto, perché
avesse dove esprimersi, avendo gli uni potere di dare aiuto, gli
altri bisogno di riceverne. Da quando questa buona madre ci ha
dato a tutti la terra intera per dimora, ci ha alloggiati tutti
in una certa misura nella stessa casa, ci ha formati sullo stesso
modello, perché ognuno potesse specchiarsi e quasi riconoscersi
luno nellaltro; se ci ha dato a tutti questo gran
dono della voce e della parola per familiarizzare e fraternizzare
di più, e per reciproca e comune dichiarazione dei nostri pensieri,
arrivare ad una comunione delle nostre volontà; se ha cercato
con ogni mezzo di stringere così saldamente il vincolo della nostra
alleanza e associazione; se ha mostrato in ogni cosa, che voleva
farci non solo tutti uniti ma addirittura una cosa sola, non bisogna
dubitare che siamo naturalmente liberi, perché siamo tutti compagni,
e a nessuno può venire in mente che la natura abbia messo qualcuno
in servitù, dopo averci messo tutti insieme. Ma, in fondo, è del tutto inutile discutere se la libertà
sia un dato di natura, visto che non si può tenere nessuno in
schiavitù senza fargli torto, e che non cè niente al mondo
di così contrario alla natura, che è tutta razionale, dellingiustizia.
Se ne deve concludere che la libertà è un dato naturale, e per
ciò stesso, a mio avviso, che non solo siamo nati in possesso
della nostra libertà, ma anche con la volontà di difenderla. Ora,
se per caso avessimo qualche dubbio in proposito e fossimo tanto
imbastarditi da non poter riconoscere i nostri beni né le nostre
inclinazioni innate, vi dovrò trattare come meritate, e far salire,
per così dire, le bestie in cattedra, per insegnarvi la vostra
natura e condizione. Gli animali, per Dio! se gli uomini non fanno
troppo i sordi, gli gridano: VIVA LA LIBERTÀ! Molti muoiono appena
sono catturati: come il pesce muore appena fuori dall acqua,
così quelli chiudono gli occhi e non vogliono sopravvivere alla
loro libertà naturale. Se gli animali avessero tra loro qualche
gerarchia, farebbero dellesser liberi la loro nobiltà. Gli
altri, dai più grandi ai più piccoli, quando sono catturati, fanno
un resistenza così accanita con unghia, corna, becco e zampe,
da dimostrare a sufficienza quanto gli sia caro ciò che stanno
per perdere. Poi, una volta catturati, ci danno tanti segni visibili
della consapevolezza che hanno della loro disgrazia, che è facile
osservare che per loro è più un languire che un vivere, e che
continuano la loro vita più per rimpiangere il felice stato perduto
che perché soddisfatti della prigionia. Cosaltro vuol dire
lelefante che, essendosi difeso fino allo stremo, non vedendo
altra possibilità e sul punto di essere catturato, sfonda le sue
mascelle e rompe i suoi denti contro un albero, se non che il
grande desiderio che ha di restare libero comè, gli dà dellintelligenza
e decide di mercanteggiare con i cacciatori barattando lavorio
dei suoi denti come riscatto per la sua libertà? Noi adeschiamo
il cavallo fin dalla sua nascita per addomesticarlo a servire;
eppure non lo sappiamo blandire in modo tale che, al momento di
domarlo, non morda il freno e non scalci contro lo sperone, come
(parrebbe) per mostrare alla natura e testimoniare almeno in quel
modo, che se serve, non è per sua volontà, ma per nostra costrizione.
Cosaltro dire? Anche
i buoi gemono sotto il peso del giogo come
ho detto in altre occasioni, per passatempo nelle mie rime francesi.
[31]
Perché scrivendoti, o Longa,
[32]
non esito a mescolare i miei versi, che non
ti ho mai letto, perché se tu avessi mostrato di apprezzarli,
sarei stato considerato un vanaglorioso. Così dunque, se ogni
essere dotato di sensibilità, dal momento che ce lha, avverte
il male della sottomissione ed insegue la libertà, se le bestie,
che pure sono fatte per servire luomo, possono adattarsi
a servire solo manifestando il desiderio contrario, quale evento
sventurato ha potuto snaturare talmente luomo, lunico
nato davvero per vivere liberamente, e fargli perdere il ricordo
del suo stato primitivo ed il desiderio di riacquistarlo? Vi sono tre tipi di tiranni: gli uni ottengono il regno
attraverso lelezione del popolo, gli altri con la forza
delle armi, e gli altri ancora per successione ereditaria. Chi
lo ha acquisito per diritto di guerra si comporta in modo tale
da far capire che si trova, diciamo così, in terra di conquista.
Coloro che nascono sovrani non sono di solito molto migliori,
anzi essendo nati e nutriti in seno alla tirannia, succhiano con
il latte la natura del tiranno, e considerano i popoli che sono
loro sottomessi, come servi ereditari; e, secondo la loro indole
di avari o prodighi, come sono, considerano il regno come loro
proprietà. Chi ha ricevuto il potere dello Stato dal popolo dovrebbe
essere, forse, più sopportabile e lo sarebbe, penso, sennonché
appena si vede innalzato al di sopra degli altri, lusingato da
quel non so che chiamato grandezza, decide di non spostarsi più
da lì. Di solito, costui decide di consegnare ai suoi figli il
potere che il popolo gli ha lasciato; e dal momento che questi
hanno concepito quest idea, è strano di quanto superino
gli altri tiranni in ogni genere di vizio e perfino di crudeltà,
non trovando altri mezzi per garantire la nuova tirannia che estendere
la servitù ed allontanare talmente i loro sudditi dalla libertà,
che, per quanto vivo, gliene si possa far perdere il ricordo.
A dire il vero, quindi, esiste tra loro qualche differenza, ma
non ne vedo affatto una possibilità di scelta; e per quanto i
metodi per arrivare al potere siano diversi, il modo di regnare
è quasi sempre simile: gli eletti trattano i sudditi come se avessero
catturato dei tori da domare; i conquistatori li considerano una
loro preda; i successori pensano di farne dei loro schiavi naturali.
Ma a proposito, se per caso nascessero oggi delle persone
del tutto nuove, non abituate alla sottomissione, né attratte
dalla libertà, e che non conoscessero cosè luna e
cosè laltra, se non a stento i nomi; se gli si prospettasse
di essere servi o di vivere liberi, quali regole sceglierebbero?
Senzaltro preferirebbero obbedire alla sola ragione anziché
servire un uomo; a meno che non si tratti di quelli dIsraele,
i quali, senza costrizione né bisogno, istituirono un tiranno:
così non leggo mai la storia di quel popolo senza provarne risentimento,
quasi fino a diventare così disumano da rallegrarmi dei tanti
mali che gliene derivarono.
[33]
Certamente tutti gli uomini, finché conservano qualcosa
di umano, se si lasciano assoggettare, o vi sono costretti o sono
ingannati: costretti dalle armi straniere, come Sparta o Atene
dalle forze di Alessandro, o dalle fazioni, come il governo di
Atene prima di cadere nelle mani di Pisistrato.
[34]
Spesso gli uomini perdono la libertà con linganno,
ed in questo, sono più frequentemente ingannati da se stessi di
quanto non siano sedotti dagli altri: così il popolo di Siracusa,
principale città della Sicilia (mi dicono che oggi si chiama Saragozza),
oppresso dalle guerre, badando sconsideratamente solo al pericolo
immediato, innalzò Dioniso, primo tiranno, e gli diede lincarico
di guidare lesercito, non accorgendosi di averlo reso così
potente che quel furfante, ritornato vittorioso, come se avesse
vinto non i suoi nemici ma i suoi concittadini, si fece da capitano
re e da re tiranno. È incredibile come il popolo, appena è assoggettato,
cade rapidamente in un oblio così profondo della libertà, che
non gli è possibile risvegliarsi per riottenerla, ma serve così
sinceramente e così volentieri che, a vederlo, si direbbe che
non abbia perduto la libertà, ma guadagnato la sua servitù. È
vero che, allinizio, si serve costretti e vinti dalla forza,
ma quelli che vengono dopo servono senza rimpianti e fanno volentieri
quello che i loro predecessori avevano fatto per forza. È così
che gli uomini che nascono sotto il giogo, e poi allevati ed educati
nella servitù, senza guardare più avanti, si accontentano di vivere
come sono nati, e non pensano affatto ad avere altro bene né altro
diritto, se non quello che hanno ricevuto, e prendono per naturale
lo stato della loro nascita. E tuttavia non cè erede così
prodigo e trascurato da non dare unocchiata qualche volta
ai registri di famiglia, per vedere se gode di tutti i diritti
di successione, o se si è tramato qualcosa contro di lui o contro
il suo predecessore. Ma è certo che la consuetudine, che ha una
grande influenza su di noi, ne ha soprattutto nellinsegnarci
a servire e, come si dice di Mitridate che si abituò a bere il
veleno, nellinsegnarci ad ingoiare ed a non trovare amaro
il veleno della servitù. Non si può dire che la natura non abbia
un ruolo importante nel condizionare la nostra indole in un senso
o nellaltro; ma bisogna altresì confessare che ha su di
noi meno potere della consuetudine: infatti lindole naturale,
per quanto sia buona, si perde se non è curata; e leducazione
ci plasma sempre alla sua maniera, comunque sia, malgrado lindole.
I semi del bene che la natura mette in noi sono così piccoli e
fragili da non poter sopportare il minimo impatto di uneducazione
contraria; si conservano con più difficoltà di quanto si rovinino,
si disfino e si riducano a niente: né più né meno che gli alberi
da frutta, che hanno tutti qualche qualità specifica, che conservano
bene se li si lascia crescere, ma che perdono subito per portare
altri frutti estranei e non i loro, secondo gli innesti. Le erbe
hanno ciascuna la loro proprietà, la loro qualità naturale e la
loro specificità; ma tuttavia il gelo, il tempo, il terreno o
la mano del giardiniere vi aggiungono o diminuiscono gran parte
della loro virtù, per cui la pianta vista in un posto, è impossibile
riconoscerla in un altro luogo. Chi vedesse i Veneziani, un pugno di uomini che vivono
così liberamente che il più misero di loro non vorrebbe essere
il re, nati e cresciuti in maniera tale che non riconoscono altra
ambizione se non quella di gareggiare a chi meglio conserverà
gelosamente la libertà, educati sin dalla culla in maniera tale
che non scambierebbero una briciola della loro libertà con tutte
le felicità della terra;
[35]
chi avrà visto queste persone e partendo di
là se ne andrà nelle terre di colui che chiamiamo il Gran Signore,
[36]
vedendo lì delle persone nate solo per servirlo
e morire per mantenere la sua potenza, penserebbe che questi e
gli altri abbiano la stessa natura, o piuttosto non penserebbe
che, uscendo da una città di uomini, sia entrato in un parco di
animali? Si racconta che Licurgo, il legislatore di Sparta, aveva
allevato due cani, tutti e due fratelli ed allattati dello stesso
latte, luno ingrassato in cucina, laltro abituato
ai campi e al suono della tromba e del corno, e volendo mostrare
al popolo spartano che gli uomini sono come li fa leducazione,
mise i due cani in piazza, e tra loro una scodella di zuppa ed
una lepre: luno corse alla zuppa e laltro alla lepre.
Eppure disse sono fratelli.. Egli dunque,
con le sue leggi e la sua politica, educò così bene gli Spartani,
che ognuno di loro preferì morire mille volte piuttosto che riconoscere
altro signore che il re e la ragione. Vorrei ricordare un discorso che tenne una volta uno
dei favoriti di Serse, il gran re dei Persiani, con due Spartani.
Mentre Serse preparava il suo grande esercito per conquistare
la Grecia, inviò i suoi ambasciatori per le città greche a chiedere
dellacqua e della terra: era la maniera che i Persiani avevano
di intimare alle città di arrendersi. Non ne inviò né ad Atene
né a Sparta perché quelli che erano stati spediti da Dario, suo
padre, gli Ateniesi e gli Spartani avevano gettato gli uni nelle
fosse e gli altri nei pozzi, dicendo loro che prendessero quanta
acqua e terra volessero per portarla al loro principe. Quegli
uomini non potevano sopportare che si attentasse alla loro libertà
neanche con la minima parola. Per averli trattati così gli Spartani si avvidero di
essere incorsi nellira degli dei, specie di Taltibio, dio
degli ambasciatori: perciò per placarlo, presero la decisione
di inviare a Serse due loro concittadini per presentarsi a lui,
che disponesse di loro secondo la sua volontà, per vendicare gli
ambasciatori che essi avevano ucciso a suo padre. Due Spartani,
chiamati luno Sperto e laltro Buli, si offrirono di
loro spontanea volontà per questo risarcimento. Infatti vi si
recarono, e sulla strada arrivarono al palazzo di un Persiano
chiamato Indarne, che era luogotenente del re in tutte le città
asiatiche della costa. Questi li accolse con tutti gli onori,
fece loro una magnifica accoglienza e, dopo varie discussioni
che andavano da una cosa allaltra, chiese loro perché rifiutassero
così ostinatamente lamicizia del re. Vedete, Spartani,
disse giudicate dalla mia persona quanto il re sappia
onorare coloro che lo meritano, e pensate che se gli apparteneste,
egli farebbe lo stesso: se vi avesse conosciuto, non cè
nessuno fra voi che non sarebbe signore di una città della Grecia.
Riguardo a questo, Indarne, tu non sapresti darci un buon
consiglio dissero gli Spartani perché hai provato
il bene che ci prometti, ma non quello di cui noi godiamo: hai
provato il favore del re; ma non sai niente di quale gusto abbia
la libertà e quanto sia dolce. Se ne avessi provato il gusto,
tu stesso ci consiglieresti di difenderla, non con la lancia e
lo scudo, ma con le unghie e con i denti.
[37]
Solo lo Spartano diceva quello che occorreva
dire, ma certamente luno e laltro parlavano come erano
stati educati: poiché era impossibile che il Persiano avesse rimpianto
della libertà, non avendola mai avuta, né che lo Spartano sopportasse
la soggezione, avendo gustato la libertà. Catone lUticense,
[38]
ancora ragazzo e sottoposto alla verga, andava
e veniva spesso dalla casa di Silla il dittatore,
[39]
sia perché per la casata cui apparteneva non
gli si sbarrava mai la porta, e sia perché erano parenti stretti.
Era sempre in compagnia del suo maestro, quando ci andava, secondo
labitudine dei ragazzi di nobile famiglia. Egli si accorse
che, nella casa di Silla, in sua presenza o con il suo consenso,
alcuni venivano imprigionati, altri condannati; chi era esiliato,
chi strangolato; uno chiedeva la confisca dei beni di un cittadino,
laltro la testa. Insomma, tutto si svolgeva non come a casa
di un pubblico ufficiale, ma come a casa di un tiranno del popolo,
e non come in un tribunale di giustizia, ma in un laboratorio
di tirannia. Allora il ragazzo disse al suo maestro: Perché
non mi date un pugnale? Lo nasconderò sotto il vestito: io entro
spesso nella camera di Silla prima che si sia alzato, ho il braccio
sufficientemente forte per sbarazzarne la città. Ecco un
discorso che appartiene davvero a Catone: un inizio degno della
sua morte. Ed anche se non si dicessero né il suo nome né il suo
paese, e si raccontasse soltanto il fatto così comè, la
cosa stessa parlerebbe da sé e si penserebbe subito che era Romano
e nato a Roma, quando la città era libera. Perché dico tutto questo? Non certo perché io ritengo
che il paese o il territorio contino qualche cosa, poiché in tutti
i paesi la soggezione è amara e piace lesser libero; ma
perché sono dellavviso che si debba avere pietà per coloro
che dalla nascita si sono trovati il giogo al collo, oppure che
li si scusi, o meglio che gli si perdoni, se, non avendo visto
neanche lombra della libertà e non avendone alcun sentore,
non si accorgono di quale danno derivi dallessere schiavi.
Se ci fossero dei paesi, come racconta Omero riguardo ai Cimmeri,
[40]
dove il sole si mostra diversamente che da
noi, e dopo averli illuminati per sei mesi continui, li lascia
sonnecchianti nelloscurità per laltra metà dellanno,
coloro che nascessero durante quella lunga notte, se non avessero
mai sentito parlare della luce, si stupirebbero oppure forse,
non avendo visto il giorno, si abituerebbero alle tenebre in cui
sono nati, senza desiderare la luce? Non si rimpiange mai quello
che non si ha mai avuto, ed il rimpianto viene solo dopo il piacere,
ed il ricordo della gioia passata accompagna sempre la conoscenza
del male. La natura delluomo è proprio di essere libero
e di volerlo essere, ma la sua indole è tale che naturalmente
conserva linclinazione che gli dà leducazione. Diciamo dunque che alluomo risultano naturali
tutte le cose alle quali si educa e si abitua; ma gli è davvero
innato solo quello a cui spinge la natura semplice e non alterata:
così la prima ragione della servitù volontaria è labitudine:
come i più bravi destrieri che prima mordono il freno e poi ne
gioiscono, e mentre prima recalcitravano contro la sella, ora
si addobbano coi finimenti e tutti fieri si pavoneggiano sotto
la bardatura. Dicono che sono sempre stati sottomessi, che i loro
padri hanno vissuto così. Pensano di essere tenuti a sopportare
il male e lasciano che gli si dia ad intendere con lesempio,
basando sullestensione del tempo il potere di coloro che
li tiranneggiano. Ma a dire il vero, gli anni non danno mai il
diritto di fare il male, anzi ingigantiscono loffesa. Si
trovano sempre alcuni di carattere più fiero, che sentono il peso
del giogo e non possono trattenersi dallo scuoterlo; che non si
abituano mai alla soggezione e, come Ulisse che per mare e per
terra cercava sempre di vedere il fumo di casa sua, non possono
fare a meno di avvedersi dei loro diritti naturali e di ricordarsi
dei loro avi e del loro stato primitivo. Sono spesso questi che,
con mente lucida e lo spirito acuto, non si accontentano come
il popolino, di guardare ciò che è davanti ai loro piedi, ma guardano
indietro ed avanti e ricordano anche il passato per giudicare
il futuro e valutare il presente. Sono quelli che, avendo la mente
di per sé ben fatta, lhanno ancora migliorata con lo studio
ed il sapere. Questi, quandanche la libertà fosse del tutto
persa e scomparsa dalla faccia della terra, limmaginerebbero
e la sentirebbero nel loro spirito, e perfino lassaporerebbero,
e la servitù non sarebbe di loro gusto, per quanto la si possa
imbellettare. Il Gran Turco
[41]
si è reso conto del fatto che i libri e listruzione
danno più di qualunque altra cosa agli uomini il senso e la consapevolezza
di sé e lodio per la tirannia; per questo sento dire che
nelle sue terre non ci sono quasi più persone di cultura, né sono
richieste. Ora, comunemente, lo zelo e laffetto di quelli
che hanno conservato, nonostante il tempo, la devozione alla libertà,
per quanto siano numerosi, resta senza effetto per il fatto che
essi non si conoscono reciprocamente: sotto il tiranno, gli viene
tolta del tutto la libertà di fare, di parlare e quasi anche di
pensare, e rimangono tutti isolati con le loro idee. Perciò, Momo,
[42]
il dio burlone, non scherzava poi tanto quando
trovò da ridire sulluomo che Vulcano
[43]
aveva forgiato, perché non gli aveva messo
una piccola finestra al cuore, affinché attraverso di essa si
potessero vedere i suoi pensieri. Si è detto che quando Bruto
e Cassio
[44]
intrapresero la liberazione di Roma, o meglio
di tutto il mondo, non vollero che ne facesse parte Cicerone,
quel grande pieno di zelo per il bene pubblico, e giudicarono
il suo cuore troppo debole per un evento così grande: si fidavano
della sua volontà, ma non erano affatto certi del suo coraggio.
E tuttavia, chi voglia ripercorrere gli avvenimenti del passato
e gli annali antichi, ne troverà pochi che, vedendo il loro paese
male guidato ed in cattive mani, avendo cercato con intenzione
e con onestà di liberarlo, non ci siano riusciti, e che la libertà
non si sia fatta strada con le sue forze. Armodio, Aristogitone, Trasibulo, Bruto il vecchio,
Valerio e Dione
[45]
realizzarono felicemente quanto avevano progettato;
in questi casi, quasi mai la fortuna fa difetto alla buona volontà.
Bruto il giovane e Cassio eliminarono felicemente la servitù,
ma restaurando la libertà morirono: non indegnamente (perché sarebbe
blasfemo dire che ci sia stata qualche cosa di indegno nella vita
o nella morte di quelle persone). Ma certo con gran danno, perpetua
sventura e completa rovina della repubblica, che fu seppellita
con loro. Le altre imprese che sono state compiute in seguito
contro gli imperatori romani non erano che congiure di persone
ambiziose che non sono da compiangere per gli inconvenienti che
gli sono capitati, essendo evidente che non desideravano eliminare
ma spostare di capo la corona, con la pretesa di scacciare il
tiranno e mantenere la tirannia. A costoro non vorrei che avesse
arriso il successo, e sono contento che abbiano mostrato, con
il loro esempio, che non bisogna abusare del santo nome della
libertà per compiere imprese malvagie. Ma per tornare al nostro discorso, che avevo perso
di vista, la principale ragione per cui gli uomini servono volontariamente,
è che nascono servi e sono educati come tali. Da questo deriva
che facilmente essi divengono, sotto i tiranni, vili ed effeminati.
È ad Ippocrate, il progenitore della medicina, che dobbiamo questa
intuizione, che lha esposta in uno dei suoi libri dal titolo
Le Malattie.
[46]
Questo personaggio aveva in tutti i sensi un
cuore nobile, e lo dimostrò chiaramente quando il Gran Re
[47]
volle attirarlo presso di lui con offerte e
grandi doni, ed egli rispose francamente che avrebbe avuto degli
scrupoli ad impegnarsi a guarire i Barbari che volevano uccidere
i Greci, ed a servire con la sua arte chi progettava di assoggettare
la Grecia. La lettera che gli inviò trova ancora posto tra le
altre sue opere, e testimonierà per sempre del suo cuore leale
e della sua natura nobile. Dunque è certo che con la libertà si
perde di colpo anche il valore. Le persone asservite non hanno
né vigore né asprezza nella lotta: vanno negligentemente verso
il pericolo quasi come costretti ed appesantiti, e non sentono
affatto nel loro cuore ribollire lardore della libertà che
fa disprezzare il pericolo e dà voglia di acquistare lonore
e la gloria con una bella morte tra i propri compagni. Le persone
libere fanno a gara, ognuno per il bene comune, ognuno per sé,
aspettando di aver tutti la loro parte di male nella sconfitta
o di bene nella vittoria. Ma le persone asservite, oltre a questo
coraggio guerriero, perdono anche la vivacità in tutte le altre
cose, e hanno il cuore abietto e debole e incapace di aspirare
a grandi cose. I tiranni lo sanno bene, e, vedendoli prendere
questa piega, ve li spingono per farli infiacchire di più. Senofonte, storico autorevole e di primo rango tra
i Greci, ha fatto un libro
[48]
in cui fa parlare delle miserie del potente
Simonide con Gerone,
[49]
tiranno di Siracusa. Questo libro è pieno di
onesti e profondi rimproveri, che, secondo me, sono anche esposti
ottimamente. Fosse piaciuto a Dio che i tiranni di tutti i tempi
lavessero messo davanti agli occhi e se ne fossero serviti
da specchio! Non posso credere che non avrebbero riconosciuto
i loro difetti ed avrebbero avuto qualche vergogna delle loro
tare. In quel trattato egli racconta la pena in cui vivono i tiranni,
che facendo male a tutti, sono costretti a temere tutti. Tra le
altre cose, vi è scritto che i cattivi monarchi si servono di
mercenari stranieri per la guerra, non osando mettere le armi
in mano alla loro gente, alla quale hanno fatto torto. (Ci sono
stati dei buoni sovrani che hanno assoldato delle popolazioni
straniere, come i Francesi stessi, più in passato che oggi, ma
con lintenzione di salvaguardare i loro concittadini senza
curarsi di perdere del denaro pur di risparmiare uomini. È quanto
sosteneva, mi pare, Scipione lAfricano,
[50]
che avrebbe preferito salvare un cittadino
piuttosto che aver sconfitto cento nemici). Ma quello che è assolutamente
certo è che il tiranno non pensa mai che il potere gli sia garantito,
finché ha sotto di lui un solo uomo di valore. Dunque a buon diritto
gli si potrà dire quello che Trasone in Terenzio si vanta di aver
rimproverato al domatore di elefanti: Per
questo così bravo siete Ma
questastuzia dei tiranni nellabbrutire i loro sudditi
non la si può comprendere più chiaramente che nellatteggiamento
di Ciro
[52]
nei confronti dei Lidi, dopo che si fu impadronito
di Sardi, la principale città della Lidia, e che ebbe preso in
ostaggio e fatto prigioniero Creso,
[53]
quel re tanto ricco. Appena gli fu portata
la notizia che i Sardesi erano in rivolta, li avrebbe potuti schiacciare
subito; ma, non volendo né mettere a sacco una città così bella,
né essere sempre obbligato a mantenervi una guarnigione per sorvegliarla,
concepì un grande espediente per garantirsene il controllo: vi
impiantò dei bordelli, delle taverne e dei giochi pubblici, e
fece pubblicare unordinanza perché gli abitanti ne facessero
uso. Si trovò così bene con questo presidio che in seguito non
fu mai necessario un solo colpo di spada contro i Lidi. Quelle
persone povere e miserabili si divertirono ad inventare ogni sorta
di giochi tanto che i Latini ne hanno tratto una loro parola e
ciò che noi chiamiamo passatempo, essi lo chiamano LUDI, cioè
LYDI.
[54]
Non tutti i tiranni hanno dichiarato così espressamente
di voler effeminare la loro gente; ma, a dire il vero, quello
che lui ordinò formalmente e completamente, gli altri lo hanno
ottenuto surrettiziamente. In realtà, questa è il tipico atteggiamento
del popolino, sempre più numeroso nelle città, che è sospettoso
verso chi lo ama ed ingenuo verso chi lo inganna. Non pensiate
che vi sia alcun uccello che si catturi meglio alla pania, né
pesce che per golosità del verme, si attacchi più rapidamente
allamo di quanto tutti i popoli vengano attratti rapidamente
alla servitù, per la minima piuma che passi loro, come si dice,
davanti alla bocca. Ed è straordinario che si lascino andare così
presto, basta solo che li si solletichi. I teatri, i giochi, le
farse, gli spettacoli, i gladiatori, le bestie esotiche, le medaglie,
i quadri ed altre simili distrazioni poco serie, erano per i popoli
antichi lesca della servitù, il prezzo della loro libertà,
gli strumenti della tirannia. Questi erano i metodi, le pratiche,
gli adescamenti che utilizzavano gli antichi tiranni per addormentare
i loro sudditi sotto il giogo. Così i popoli, istupiditi, trovando
belli quei passatempi, divertiti da un piacere vano, che passava
loro davanti agli occhi si abituavano a servire più scioccamente
dei bambini che vedendo le luccicanti immagini dei libri illustrati,
imparano a leggere. I tiranni Romani trovarono anche un altro stratagemma:
festeggiare spesso le decine pubbliche, ingannando quella gentaglia
che si lascia andare più di ogni altra cosa ai piaceri della gola.
Il più intelligente e colto tra loro non avrebbe lasciato la sua
scodella di zuppa per ritrovare la libertà della repubblica di
Platone. I tiranni elargivano un quarto di grano, un mezzo litro
di vino ed un sesterzio; e allora faceva pietà sentir gridare:
Viva il re! Gli zoticoni non si accorgevano che non
facevano altro che recuperare una parte del loro, e che quello
che recuperavano, il tiranno non avrebbe potuto dargliela, se
prima non lavesse presa a loro stessi. Chi avesse raccattato
oggi un sesterzio, e si fosse rimpinzato al pubblico festino,
benedicendo Tiberio e Nerone
[55]
e la loro bella generosità, lindomani,
costretto ad abbandonare i suoi beni alla loro avarizia, i propri
figli alla lussuria, il suo stesso sangue alla crudeltà di quei
magnifici imperatori, non avrebbe detto una parola più di una
pietra, non si sarebbe commosso più di un tronco. Il popolino
ha fatto sempre questo: subito pronto e dissoluto verso il piacere
che non può ottenere onestamente, e del tutto insensibile verso
il torto ed il dolore che non può sopportare onestamente. Non
vedo oggi nessuno che, udendo parlare di Nerone, non tremi al
solo nome di questo spregevole mostro, di questa ripugnante peste
del mondo; e tuttavia, di costui, di questincendiario, di
questo boia, di questa bestia selvaggia, si può ben dire che dopo
la sua morte, spregevole quanto la sua vita, il nobile popolo
romano ne ebbe un tale dispiacere, ricordandosi dei suoi giochi
e dei suoi festini, che fu sul punto di portarne il lutto; così
scrive Cornelio Tacito,
[56]
autore coraggioso e serio ed affidabile. Tutto
questo non sembrerà strano, visto che quello stesso popolo aveva
fatto lo stesso in precedenza alla morte di Cesare, che abolì
le leggi e la libertà; personaggio che non ebbe, mi pare, niente
che valesse, poiché la sua stessa umanità, tanto decantata, fu
più dannosa della crudeltà del più disumano tiranno, perché fu
proprio quella sua velenosa dolcezza che indorò la pillola della
servitù per il popolo romano Ma, dopo la sua morte, quel popolo
che aveva ancora in bocca il gusto dei suoi banchetti e nella
mente il ricordo delle sue prodigalità, per rendergli gli onori
e cremarlo, fece a gara ad ammucchiare i banchi del foro, e poi
gli innalzò una colonna, come al Padre del popolo
(così riportava il capitello), e gli rese più onore da morto,
di quanto se ne sarebbe dovuto rendere ad un vivo, a parte forse
a quelli che lavevano ucciso.
[57]
Gli imperatori romani non dimenticarono neanche di
assumere di solito il titolo di tribuno del popolo, sia perché
quella era ritenuta sacra, sia perché era stata istituita per
la difesa e la protezione del popolo, e sotto la tutela dello
Stato. Così si garantivano che il popolo si fidasse di più di
loro, come se dovesse sentirne il nome e non invece gli effetti.
Oggi non fanno molto meglio quelli che compiono ogni genere di
malefatta, anche importante, facendola precedere da qualche grazioso
discorso sul bene pubblico e sullutilità comune. Tu infatti
conosci bene, o Longa, il formulario che potrebbero usare assai
finemente in alcune situazioni. Ma, nella maggior parte dei casi,
non ci può essere tanta finezza dove cè tanta impudenza.
I re dAssiria, e dopo di loro quelli della Media, si presentavano
al pubblico il più tardi possibile, per insinuare nei popoli il
dubbio che fossero in qualche cosa più che uomini, e lasciare
in questa fantasticheria i popoli che lavorano volentieri di fantasia
nelle cose che non possono giudicare a vista.
[58]
Così tante popolazioni, che furono per moltissimo
tempo sotto il dominio assiro, con quel mistero si abituavano
a servire e servivano più volentieri, non sapendo quale padrone
avessero, né quasi se ne avessero, e temevano tutti, per fede,
uno che nessuno aveva mai visto. I primi re dEgitto non
si mostravano quasi mai, senza portare sulla testa un gatto, un
ramo o del fuoco; e, così facendo, con la stranezza della cosa,
davano ai loro sudditi un senso di riverenza ed ammirazione; laddove,
alle persone che non fossero state troppo stupide o troppo asservite,
non avrebbero suscitato che lazzi e risate. |
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