Riforma
Uno dei termini più compromessi, e quindi più esemplari
di
quello che potrebbe chiamarsi il vocabolario degli equivoci, inteso
nel senso dellelenco delle voci delluso corrente, paradossalmente
rovesciato, odierno, è la parola riforma. Essa
ha una lunga storia
e, riguardando i problemi fondamentali della costruzione della
civiltà e quindi della formazione delluomo, assai controversa.
Basti pensare al rovesciamento semantico che comporta la
declinazione di riforma in riformismo. Se riforma vuol dire
restituzione della forma originaria nel senso dinamico
dellattivazione di processi per elaborare e realizzare la
vera forma,
cioè la figura che esprime il più compiutamente e
il più correttamente possibile la sostanza, ovvero la struttura
di una realtà, il riformismo si attesta sul metodo graduale
di un cambiamento inteso come semplice perfezionamento, sottintendendo
la verità di ciò che devessere riformato come
già data storicamente e quindi soltanto da ripulire, cioè
da liberare da incrostazioni e da elementi disturbanti e in qualche
modo (comunque soft e non hard ) deformanti. Il referente alternativo
è la rivoluzione, intesa ad un tempo come operazione traumatica,
come vera e propria frattura e quindi come sostituzione di una forma
con unaltra. Il presupposto della rivoluzione è che
il pensiero possa definire un dover essere del tutto irrealizzato,
dunque in antitesi con la realtà storica, o almeno nascosto
cioè camuffato da quella realtà.
Ma questo significato metodologico del termine riformismo, e quindi
della sua realtà attiva come atteggiamento, assorbe poi totalmente
il termine riforma, quando il referente positivo di tutta loperazione
è la forma vigente storico/sociale, per cui si tratta di
conformarsi, con unopera di coerenza e di adeguamento. Da
questo punto di vista il riformismo, con tutti i suoi corollari
linguistici, sta ben piazzato nellalveo storicistico, quel
contesto per il quale il dover essere, e dunque il pensiero, sia
per il passato (giudizio) che per il futuro (previsione) è
un elemento tutto interno alla storia, tanto da non distinguersi
dal suo sviluppo più o meno necessario. Un tale appiattimento
del dover essere sullessere storico, cioè dellidea
sul fatto sia pure come risultato di un processo di elaborazione
complesso ma finalmente sintetico, e ogni volta tale, produce tutta
una serie di riduzioni semantiche relativamente ai termini che riguardano
loggetto della rappresentata riforma e della sua necessità.
Tali la libertà, la
democrazia, la partecipazione e così via. È qui che
si evidenzia più
clamorosa la metatesi, il rovesciamento semantico.
Libertà
Basti pensare al passaggio libertà/liberismo. Il liberismo,
da aspetto
economico e dunque strumentale del liberalismo, concezione che
concentra la sua attenzione sulla libertà come condizione
esistenziale e come metodo operativo delluomo, ha via via
semplicemente ridotto questa operazione storica liberatoria alla
eliminazione di ogni impaccio sociale e politico alla libera espressione
del meccanismo economico reso così del tutto autonomo, cioè
a sua volta come espressione del bisogno delluomo di situarsi
materialmente nella realtà e quindi come assunzione dei criteri
puramtente quantitativi di valore di questa situazione. Dal che
la misura della libertà di uno comporta il confronto con
la libertà dellaltro e perciò la concorrenza,
la competizione e per conseguenza il dominio. La dizione della libertà
dellindividuo come limitata esclusivamente dalla libertà
degli altri individui è semplicemente insensata e rappresenta
una impossibilità o per lo meno un aspetto estremamente riduttivo
di questo connotato umano. La libertà riguarda la relazione
e nessun atto umano è indenne da conseguenza di incidenza
relazionale,
cioè sociale. Il problema è piuttosto quello di quali
siano le azioni
che contribuiscono positivamente alla crescita congiunta di chi
compie latto e di chi ne è, anche solo indirettamente,
coinvolto.
In questo senso il liberalismo, nella sua struttura significativa
fondamentale e dunque nella sua intenzione, riguarda luomo
nel
suo insieme, cioè inteso nella sua complessità materiale/spirituale:
ciò che è espresso meglio oggi dallaggettivo
libertario piuttosto
che dal termine liberale.
Sintende così che ogni riforma condotta sulla base
della riduzione
suddetta non avrà come referente luomo ma quella concezione
che enfatizza, esclusivizzandolo, laspetto economico della
sua realtà, espropriandone la soggettività, paradossalmente
persino della libertà economica. Tantè vero
che il retrosignificato autentico del liberismo, o neoliberismo,
è il monopolio, cioè la totale oggettivazione del
meccanismo economico, nei cui confronti si salvano, se così
si può dire, soltanto quei pochissimi che, conoscendone al
meglio possibile la procedura, ne approfittano personalmente. Ma
non manca chi1 oggi mette in rilievo limpossibilità
di questa conoscenza, e che quindi quei
pochissimi non determinano in realtà gli avvenimenti e che
la differenza tra loro e i più non è assoluta, nel
senso che il connotato
di vera umanità sarebbe da attribuirsi esclusivamente a loro,
come
essi pretendono, con una nuova, subdola ma esiziale forma di
razzismo; questa differenza consiste semplicemente nella
prevaricazione che essi esercitano su tutti, mediante la requisizione
a proprio favore di ogni libertà grazie al meccanismo del
profitto.
Razzismo esiziale poiché esemplare, diffusivo di sé:
i potenti si
presentano come modelli di umanità.
Il risultato è quellorrenda mistificazione linguistica
(e la si potrebbe anche dire misfatto non essendo solo linguistica)
che è la Casa delle libertà. Dove non si sa se il
plurale sia scelto per vergogna di un singolare troppo sfacciato,
o perché si intenda che la libertà economica copra
simbolicamente (a modo della moneta) tutti gli ambiti delle attività
umane, o infine perché non ci si rende conto (e i governati
non si rendano conto) che il miglior modo di sfuggire al problema
della libertà è quello di frantumare lattenzione
sulle molte libertà, per altro una ad una resa dipendente,
cioè resa conforme alla onnivalente libertà economica.
Democrazia
E che ne è, in questa prospettiva, di quellaltro mostro
sacro,
linguistico e no, che è la democrazia? La parola ha indubbiamente
unorigine cioè un etimo disgraziato. È connessa
con il potere
(cratos) invece che con il principio (arché). Forse (e questo
è un
problema moderno) per liberarla dalle implicazioni etico/religiose
che la concentrazione monarchica porta con sé (origine e
carattere
divino). Un bisogno di laicizzazione che non evita (al paro della
sovranità popolare, che evoca il sopra e il sotto) la gerarchizzazione
assoluta. Cosicché, al di là dellautogestione
diretta, ritenuta
impossibile per le grandi quantità, il problema diventerà
quello
della legittimità dellattribuzione del comando ad una
parte del
popolo, la maggioranza che può rivendicare questo diritto
appunto
nella prospettiva del valore della quantità, una maggioranza
vera o
presunta (pretesa) a seconda del sistema di calcolo adottato.
Questa qualificazione della maggioranza (la parte maggiore
è la
più simile al tutto e quindi se ne attribuisce virtù
e diritti) è
allorigine della distorsione totale attuale del sistema democratico
rispetto alla sua intenzione, vera e propria deformazione che soltanto
una riforma radicale che ne restituisse quella forma nel senso di
porre in atto gli strumenti adatti a rielaborarla in funzione delle
esigenze che la storia ha fatto emergere alla consapevolezza delluomo,
potrebbe rimediare. Ma tutto questo è impedito da quel concetto
storicistico di riforma che, si potrebbe dire, non permette di districarsi
dal groviglio delle forme possibili. Il risultato è lestremizzazione
del danno, il perseguimento coerenziale della deformazione non percepita
come tale, cioè come rovesciamento, ma solo come imperfezione.
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Alle spalle di tutto questo cè ancora
un altro concetto, del tutto
conforme con la riduzione quantitativa, quello di progresso,
identificato con i grandi mezzi di produzione tecnologica grazie
a
cui luomo acquisisce un potere sempre crescente e sulla natura
e
dunque, allinterno dellumanità, di alcuni (quei
pochissimi di cui
sopra, detentori capitalistici di quei mezzi) su tutti gli altri.
Il
meccanismo stesso democratico diventa un mezzo riformistico,
per realizzare quella conformità in cui consiste il perfezionamento
della deformazione, cioè la concentrazione estrema del potere
mediante lacquisizione del consenso.
Partecipazione
Ed ecco infine ancora un termine magico, partecipazione, come
fruizione personale di un tutto al cui funzionamento si contribuisce
con tutta la propria attività vitale. Questa perfetta specularità
di due tutto, quello dellindividuo e quello dellinsieme,
non solo è onninclusiva di chi è dentro,
ma di conseguenza esclusiva di chi, non avendo nulla da dare o non
riuscendo comunque a dare nulla, è del tutto fuori: e questo
già osservava Socrate obiettando alla concezione di Trasimaco,
per cui la giustizia consisterebbe nel dare a ciascuno il suo, vale
a dire ciò che si merita grazie appunto a ciò che
egli, a sua volta e per primo, dà. Questo sistema del dare/avere
privilegia evidentemente chi ha già e chi ha di più,
con una progressione geometrica (si pensi al maggioritario, cioè
al premio di maggiotanza di cui è in qualche modo antenato
il maggiorasco). Il dare, in verità, per chi ha si riduce
allidea della sua possibilità, mentre ciò che
conta è il suo prendere nella forma del profitto. Questa
è la sostanza del
capitalismo. Il capitale, oggi soprattutto nella forma del denaro,
è
produttivo di per sé. La partecipazione è dunque partecipazione
agli utili, secondo le regole delleconomia efficientistica
che
considera la libertà del singolo un disturbo, venuto meno
che sia
lespediente della mano invisibile di smithiana
memoria e ridotta
ad illusione indotta (ecco il consenso) liniziativa individuale.
La
mano invisibile agisce piuttosto allinterno delle coscienze
individuali, è il loro subconscio, ciò che le conduce
a calcolare più
o meno i propri interessi in funzione del meccanismo constatato.
Giustizia
E di un ultimo termine, sempre a modo di esempio, che ha subito
un radicale inquinamento semantico, possiamo analizzare la
trasformazione: il termine giustizia, come condizione e strumento
adatto alla costruzione e al mantenimento della società.
Esso si è
totalmente istituzionalizzato, e il suo riferimento alletica,
già
eliminato dalladozione machiavellica della politica, è
divenuto il
bisogno e il progetto di coerenza, cioè di conformità,
con gli interessi di coloro che si identificano con lo Stato, fruendo
addirittura di una delega consensuale, provvisoria soltanto finché
quelloperazione di conformizzazione (la riforma) non la renda
definitiva. Giusto è ciò che conviene al più
forte, diceva ancora Trasimaco, intendendo con questo lautorizzazione
di chi comanda a stabilire le regole della relazione sociale, in
vista del solito meccanismo di passaggio dalla quantità alla
qualità che fa del più (il più forte) il tutto.
La volontà del principe è il principio del diritto.
E ci siamo ritornati. Il principe è chi comunque comanda,
e giusto è tutto ciò che gli permette di comandare
e che perpetua il suo comando, eliminando come ingiusto ogni ostacolo
a questo fine. A questa operazione presiede unapposita istituzione,
il Ministero della Giustizia, anzi il Ministro della Giustizia,
dove la maiuscola esprime appunto il significato etico di ogni sua
decisione (e se si aggiunge poi la parola Grazia si indica lulteriore
autorizzazione di decidere, con generoso e gratuito arbitrio, del
bene e del male, della vita e della morte, di ciascuno e quindi
di tutti, al di là delle stesse regole di Giustizia pur stabilite
con lo stesso arbitrio). Si intende che si tratta delletica
di cui si è detto, cioè della conformità agli
interesi di chi comanda e al cui servizio milita il Ministro della
Giustizia (partecipando del resto in grossa misura agli utili di
tutta limpresa). In questo senso ogni decisione di questo
Ministro è volta a conformare la realtà sociale a
quel criterio: il Ministro della Giustizia opera permanentemente
per la Riforma della Giustizia, cioè della società
in conformità di quel preciso concetto etico di Giustizia.
Più machiavellico di così! (O meno machiavellico di
così?).
Ragione
Ma cè infine un termine la cui trasformazione odierna
sintetizza
tutti i rovesciamenti sopra esaminati e si dà come matrice
giustificativa del loro rovesciamento significativo. Il termine
ragione, specialmente nella sua forma dinamica, attiva di razionalizzazione.
Ragione vuol dire connessione corretta, coerente, motivazione, verità.
La razionalizzazione è quellimpresa grazie alla quale
qualcosa (loggetto di tale operazione) viene messo a
posto, viene reso coerente e dunque adeguato alla propria
idea e, per conseguenza finale, efficiente. Ma ecco il punto della
razionalizzazione in versione moderna: il referente della coerenza
è appunto lefficienza, la pura efficienza, apparentemente
ideale, in realtà funzionale ad un tutto, ad
un contesto più o meno totale a sua volta funzionante. Il
termine ultimo di questo funzionamento?
Il funzionamento stesso, la sua perfezione; e la misura che la constata
e la controlla è il principio delleconomia assoluta,
cioè autonoma, oggettivata come sistema: il meno per il più,
la crescita come rendimento, minimo dei costi, cioè dellinvestimento
per il massimo del ricavo, e dunque del profitto. Razionalizzare
la sanità, listruzione, la giustizia è sì
renderle dinamicamente coerenti con la costruzione della società,
dove però non si pone affatto il problema di quale sia la
società giusta, sana, consapevole, in quanto costituita da
individui giusti sani consapevoli di sé e della realtà
tutta, ma la si sottintende a priori come quel sistema compatto,
la cui realtà, cioè il cui funzionamento sta nella
crescita intesa come rendimento, come accumulo di un patrimonio
che è tale solo se rende, se si moltiplica in funzione appunto
della logica economica sopra detta. Il referente, e tanto meno lo
scopo, non è più lindividuo nella sua identità/relazionalità,
ma la costruzione come tale dellinsieme. Il che dichiara certamente
una valutazione non labile dei criteri e dei valori di questa costruzione,
ma secondo una misura tutta quantitativa, si potrebbe dire matematico/geometrica,
che spregia la qualità e dunque lindividualità,
come pure variabili da ricondursi in ogni modo rigorosamente alla
coerenza generale.
In questo senso ci si lamenta del mondo attuale come privo di
valori, poiché la valutazione esclusivamente economica impedisce
ogni criterio di altra valutazione, estetica, etica, politica, religiosa
e
così via. Tuttal più queste valutazioni impreziosiscono
quella
unica generale e si traducono in adeguata moneta. Si può
così ben
parlare a ragione di un vero e proprio mondo, ricostruito pazientemente
e meticolosamente mediante unopera di razionalizzazione che
rimanda i valori inutili nel passato, rappresentazione archeologica
di una realtà che nel corso di una lunga storia (anchessa
dunque da ricostruirsi in vista di questo criterio) si è
faticosamente liberata della propria forma di crisalide acquistando
le ali per volare ad una velocità sempre più accellerata
e trionfante. La giustizia, sè detto, è dei
forti, perché la ragione è della forza. Così
è precismente definito il compito della
razionalizzazione sociale, cioè della riforma: i conti tornano.
1. Vedi Castoriadis, La razionalità
del capitalismo, in Libertaria, n.4. dic. 2001, pp.60
sgg.)
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