C E N S I S

Rapporto sulla situazione sociale del paese 2010

  • Indice
  • Considerazioni generali 1
  • La società italiana al 2010 13
  • Processi formativi 49
  • Lavoro, professionalità, rappresentanze 61
  • Il sistema di welfare 71
  • Territorio e reti 83
  • I soggetti economici dello sviluppo 93
  • Comunicazione e media 107
  • Governo pubblico 119
  • Sicurezza e cittadinanza 129

Considerazioni generali (pp. XI - XXIV del volume)

1. Sta per volgere al termine quel biennio 2009-2010 che era stato annunciato come portatore di una crisi economica e sociale senza precedenti. E non si sfugge alla sensazione che nella psicologia collettiva esso sia passato senza sortire gli effetti dirompenti che allora erano stati immaginati. Abbiamo resistito ai mesi e agli eventi più drammatici in virtù della qualità strutturale del nostro modello di sviluppo; pur con una evidente fatica del vivere e dolorose emarginazioni occupazionali, abbiamo tenuto il livello dei redditi e dei consumi; negli ultimi mesi abbiamo una riemersione della fiducia in una per ora incerta ripresa; qualche sintomo di movimento comincia ad essere registrato, specie sul piano della presenza di tante nostre imprese nei mercati emergenti. Arrivano quotidianamente ondate di paura, quasi sgomento, di fronte all’aggressività della speculazione internazionale sui nostri conti pubblici; ma la psicologia collettiva non le introietta, forse perché sono paure che vengono da circuiti astrali e lontani, non dominabili dai soggetti del sistema, che al massimo mettono in conto un aumento della già citata fatica di vivere.

2. Se la cosa non desse scandalo, potremmo allora - di fronte ad uno scenario scontato - essere per una volta liberi dalla coazione ad aspettare e/o prevedere “cosa c’è dietro l’angolo”, coazione del resto del tutto comprensibile in chi scrive e/o legge un rapporto socioeconomico a cadenza annuale.

Potremmo più sommessamente rivolgere l’attenzione ad una verifica di cosa è diventata la società italiana dopo un affannoso e travagliato decennio, che ha avuto il suo culmine delle paure nell’ultimo biennio, ma che è stato segnato in tutta la sua durata da una continua resistenza collettiva a sintomi e processi di declino. Una resistenza che in qualche misura ci ha appagato, ma anche un po’ consumato, facendo sorgere il dubbio che, anche se ripartisse a breve la marcia dello sviluppo, la nostra società non avrebbe spessore e vigore adeguati alle sfide complesse che dovremo affrontare.

Replicare ulteriormente il modello italiano, come abbiamo fatto negli ultimi anni, sarà anche una utile arma per difenderci più o meno bene dalle crisi planetarie o dal declino interno, ma non garantisce ripresa reale e, quel che più importa, collettivamente partecipata, così come ampiamente partecipato è stato il nostro sviluppo negli ultimi decenni.

3. Spessore e vigore, si è detto, nella consapevolezza che le due cose vanno insieme, visto che il vigore non è pura espressione di energia e volontà psichica collettive, ma è l’espressione dinamica di una complessa maturazione della società.

Ed è su questa maturazione che crescono i dubbi: nell’attuale realtà italiana rimbalzano spesso sensazioni di fragilità sia personali che di massa, che fanno pensare ad una perdita di consistenza (anche morale e psichica) del sistema nel suo complesso. È frequente il riscontro di comportamenti e atteggiamenti spaesati, indifferenti, cinici, passivamente adattativi o arrangiatorii, prigionieri delle influenze mediatiche, condannati al presente senza profondità di memoria e futuro. Con una rassegnazione implicita e diffusa non solo alla grande violenza della criminalità organizzata (“non c’è niente da fare”), ma anche alla insensatezza di molte insensatezze quotidiane (“siamo tutti un po’ matti”).

Una società, in sintesi, insicura della sua sostanza umana. E se si guarda ai livelli più alti del dibattito sociopolitico alto (rigore e ripresa, austerità e sviluppo) viene il dubbio che esso voli alto proprio perché non se la sente di affrontare il nodo, che si è andato aggrovigliando negli anni, di un franare verso il basso della intima consistenza di individui, soggetti collettivi, istituzioni.

4. Ma cosa frana in basso e crea quel senso di piatto senza rilievi significativi in cui ci sentiamo immersi (l’heideggeriano “il deserto cresce”)?

Sono franati in basso in primo luogo (lo segnalammo un anno fa) i rilievi alti e nobili della nostra vita sociale e sociopolitica (l’eredità risorgimentale, il laico primato dello Stato, la cultura del riformismo, la stessa fede in uno sviluppo continuato e progressivo).

Sono al tempo stesso franate in basso alcune rugosità significative, che hanno peraltro fatto storia collettiva, se solo si pensa alla diffusa desublimazione di archetipi, di ideali, di figure di riferimento; o se si pensa alla perdita di consistenza dei legami e delle relazioni sociali a tutti i livelli, che condannavano i singoli a quello stato di isolamento che abbiamo in passato definito come “mucillagine”; o se si pensa alla progressiva delusione per le istanze del primato del mercato e della liberalizzazione/privatizzazione dell’economia; o se si pensa anche all’irresistibile declino dell’opzione per una verticalizzazione (e personalizzazione) del potere ai fini di un salutare decisionismo di chi governa.

E in terzo luogo sono franati in basso (specialmente se si pensa alle psicologie individuali) i riferimenti della collocazione temporale e spaziale della vita quotidiana. La modernità, la post-modernità, la globalizzazione, la planetarizzazione hanno creato un mondo in cui il tempo è azzerato (il cosiddetto tempo reale) e così è pure azzerato lo spazio (con la simultaneità dei fenomeni in ogni parte del mondo); e dove quindi si sfarinano i significati che sempre le distanze e il tempo hanno creato nella vita dei singoli e dei popoli.

5. Tutto si appiattisce, vince solo una dimensione orizzontale, spesso vuota, tanto che è stato detto che il mondo globalizzato è “un campo di calcio senza neppure il rilievo delle porte dove indirizzare la palla”. Pur senza la stessa eleganza, la citazione richiama “il deserto cresce” sopra richiamato. Questa crescente tendenza all’orizzontalità delle dinamiche socioeconomica e sociopolitica non dovrebbe preoccupare più di tanto noi che per primi l’abbiamo capita e in qualche modo valorizzata (da quando, all’inizio degli anni ’70, imponemmo tematiche quali l’economia sommersa, la piccola impresa, il localismo economico). Ma abbiamo dovuto nel tempo constatare con rincrescimento come la cultura sociopolitica non abbia saputo elaborare idee e prassi coerenti con l’orizzontalità crescente, cioè con il crescente policentrismo dei soggetti e dei poteri. Anzi è andata in voluta controtendenza, con la enfasi data alla stagione non brillantissima della verticalizzazione e concentrazione personalizzata del potere.

Non ci si può sorprendere quindi se una società “piatta” come la nostra appiattisce (fa franare) anche tutti i soggetti presenti in essa, e in particolare la loro capacità e il loro vigore soggettivi. Una società ad alta soggettività, che aveva costruito una sua cinquantennale storia sulla vitalità, sulla grinta, sul vigore dei soggetti, si ritrova a dover fare i conti proprio con il declino della soggettività. Che ormai basta sul fronte della resistenza individuale e familiare alla crisi, ma non basta più quando bisogna giuocare su processi che hanno radici e motori fuori della realtà italiana; su terreni di competizione che non offrono riferimenti e appigli saldi alle pulsioni soggettive; su dinamiche dove sono sempre meno frequenti e meno significative le contingenze che coinvolgono la soggettualità dei singoli; in una realtà, in sintesi, dove non sono i soggetti a decidere le cose, ma viceversa.

6. L’appiattimento della soggettività e l’orizzontalità non governata comportano, a vedere in controluce quel che sta avvenendo, tre fenomeni molto peculiari: cresce l’indistinto, cioè la indeterminatezza del quadro e dei contorni in cui si muove la dinamica sociale; cresce la configurazione “indisciplinare” del sistema, retto ormai da un dispositivo oscillante, aleatorio e senza centro; cresce la sregolazione delle pulsioni e dei comportamenti individuali.

7. Cresce l’indistinto. Lo si avverte nella dialettica politica, sempre meno chiara e bipolare; nella comunicazione giornalistica, fatta da paginate eguali e parallele, salvo mirate spregiudicate operazioni di sevizio; nella comunicazione televisiva, coatta all’eccesso di stimolazioni ed eventi destinati a non permanere nella psiche collettiva; nelle nuove forme di tecnologia comunicazionale, in cui è ormai difficile distinguere messaggi e soggetti e le relative responsabilità; nel panorama delle responsabilità istituzionali, troppo frazionate e contraddittorie; nel mercato del lavoro, segnato da una nebbiosa sovrapposizione di disoccupati, precari, lavoratori sommersi, ecc.; nella stessa composizione etnica, visto lo scarso peso dei processi di integrazione; per non parlare di quanto avviene ai confini ambigui e traspiranti fra economia legale ed economia criminale.

Non siamo, come qualcuno ha detto, una società solo “liquida”, ma ancor più decisamente indistinta. Così indistinta che i migliori fra noi si impegnano nella moda di ricorrere quasi compulsivamente al numero e ai dati, alla quantificazione e alla misurazione, al monitoraggio e alla valutazione; mentre i peggiori fra noi si adagiano in quel “non c’è nulla da fare” che sembra la reazione più rancorosa che si possa immaginare, certamente quella più inutile. Con la “ricchezza” di questo duplice apporto, l’indistinto è destinato a restare a lungo indistinto.

8. C’è una causa immobile nella crescita e nella permanenza dell’indistinto, ed è il fatto che nel campo piatto della attuale società non c’è alcun dispositivo di regolazione, un “disciplinare” (come a livello locale abbiamo tanti disciplinari dei vini Docg; e come si affanna l’Unione, a livello europeo, per disciplinare tante piccole cose quotidiane). Nel complesso, la nostra società è senza regolazione: tutto sembra aleatorio e oscillante. Possiamo quindi parlare a lungo di potere e di politica, e possiamo anche scendere a più profonde concezioni di bio-potere e bio-politica; ma non riusciamo più ad individuare un dispositivo di fondo (centrale o periferico, morale o giuridico) che disciplini comportamenti, atteggiamenti, valori.

Lo stesso inutile spreco che si fa in questi anni del termine “valori” e della tematica dell’etica (termine e tematica ormai retoricamente spalmati e sprecati su ogni filosofia terrena o astrale che sia) sta a dimostrare che rispetto alla loro intima debolezza vince una deriva cinico-pragmatica in cui disciplina e autorità perdono giorno per giorno non solo l’espressione fenomenica, ma anche il significato simbolico, quello che più coerentemente è connesso alla psicologia individuale e collettiva.

9. Non c’è da sorprendersi se in questa situazione si afferma in Italia una diffusa ed inquietante sregolazione pulsionale.

Le cronache minute della vita italiana ci rinviano infatti tanti comportamenti puramente pulsionali, senza telos, incardinati in un egoismo autoreferenziale e narcisistico. Non si tratta solo di comportamenti di limite a livello dei singoli soggetti (il consumo tossicomaniaco di sostanze, l’ipnosi narcisistica dell’anoressia, il ritiro libidico del depresso) o dello stesso utilizzo del delitto per guadagnare potere all’interno della grande criminalità. Si tratta di fenomeni più diffusi e forse invasivi. Basta guardarsi intorno per constatare la sregolazione pulsionale esistente negli episodi di violenza familiare; nel bullismo gratuito e talvolta occasionale in strade e locali pubblici; nel gusto più apatico che crudele di compiere delitti comuni; nella tendenza ad altrettanto apatici e facilitati godimenti sessuali; nella ricerca di un eccesso di stimolazione esterna che supplisca al vuoto interiore del soggetto; nel ricambio febbrile degli oggetti da acquisire e godere; nella ricerca spesso demenziale di esperienze che sfidano la morte (dal cosiddetto balconing allo sfrangersi su un muro ad alta velocità).

E il tutto, nella somma di tanti comportamenti individuali, diventa una collettiva compatta onda di pulsioni sregolate, di cui spesso non si può capire l’intenzione cosciente del singolo (il “cosa ha voluto dire”), forse perché l’atto compiuto esprime una quasi coatta esclusione della significazione, sotterraneo fattore di disgregazione di ogni rapporto sociale.

10. Fa parte comunque del mestiere e della responsabilità del ricercatore non farsi rigettare da questa esclusione collettiva dalla significazione. Bisogna scavare, capire, interpretare, porsi il problema di cosa vuol dire quel che sta avvenendo nelle fibre più intime (non nascoste, anzi esposte in pubblico) del nostro vivere sociale. Superando anche la resistenza intellettuale ad applicarsi a “ragionare sul vuoto”, visto che c’è il sospetto che la componente dominante di una società dove vincono l’indistinto, l’indisciplinare, la sregolazione delle pulsioni sia il vuoto, morale e psichico insieme.

Siamo una società pericolosamente segnata dal vuoto, visto che ad un ciclo storico pieno di interessi e di conflitti sociali, si va sostituendo un ciclo segnato dall’annullamento e dalla nirvanizzazione degli interessi e dei conflitti, comunque di tutto ciò che può disturbare l’apatica autoreferenzialità delle pulsioni.

11. In parallelo e in simbiosi, anche la psicologia dei singoli soggetti è altrettanto segnata dalla coazione al vuoto. Siamo una società in cui gli individui vengono sempre più lasciati a se stessi, liberi di perseguire ciò che più aggrada loro senza più il quotidiano controllo di norme di tipo generale o dettate dalle diverse appartenenze a sistemi intermedi. Essi possono quindi gloriosamente andare, come negli ultimi decenni, a vitali avventure personali (si ricordi l’esplosione della piccola impresa), ma possono anche scivolare, come sta oggi accadendo, verso il dispendio di se stessi: si spende, replicandolo e consumandolo, il modello di sviluppo faticosamente costruito negli ultimi decenni; si spende, disperdendola, l’appartenenza a gruppi sociali più o meno formali; e spesso ci si lascia andare a un dispendio più o meno consapevole della propria personalità.

Questa segreta doppia autoelisione, in cui si crea ed alimenta il vuoto, crea nei singoli una diffusa ma personalizzata insicurezza. Possiamo certo, sul piano generale, convenire su una oggettiva insecuritas come cifra del mondo moderno; possiamo anche convenire che un po’ di incertezza faccia parte del giuoco in un processo di globalizzazione che impone una grande flessibilità dei fattori; ma dobbiamo nel contempo prendere atto che tutto si traduce in una crescente marea di insicurezza personale, fenomeno non facilmente accettabile in una società che per generazioni ha perseguito la sicurezza come valore fondante e ha lavorato per garantirsi lavoro stabile, casa di proprietà, consistente volume di risparmio.

12. È l’insicurezza il vero virus che opera nella realtà sociale di questi anni. Ed è su di essa che occorre lavorare, perché certo si tratta di un fenomeno interno ai singoli individui, ma anche di grande consistenza sociale, visto che le tante insicurezze personali fanno somma, una somma spiazzante rispetto alla radicata nostra tradizione di primato della sicurezza.

Forse per questo duplice significato tale novità ha dato luogo ad una riflessione per ora un po’ ondeggiante e primordiale, ma comunque ambiziosamente razionale:

- da una parte si pensa che l’insicurezza debba essere affrontata dall’alto, con interventi volti a rassicurare le paure: più leggi e norme in ogni realtà ansiogena; più controllo delle contingenze economiche e delle slabbrature della convivenza collettiva; più ordine in tutto; più obblighi e doveri per tutti;

- dall’altra parte si pensa che bisogna partire dal basso, accrescendo le capacità, la preparazione, la razionalità, la coscienza dei singoli, attraverso politiche volte a valorizzare il merito come unico strumento di affermazione della personalità individuale e di crescita della sua classe dirigente.

Leggi securizzanti e promozione del merito, queste le due strade su cui si ipotizza oggi una risposta all’insicurezza individuale e collettiva. Viene il dubbio che esse siano troppo “razionali” per poter contrastare un’insicurezza che ha risvolti importanti di irrazionalità. I fenomeni che occupano le cronache dei giornali, non esprimendo delle chiare volontà di significato (cosa vogliono dirci o cosa vogliono essere i ragazzi che fanno balconing o che uccidono familiari stretti o casuali passanti?), ci impongono di non affrontarli troppo razionalmente, pena il restare nell’inerte stupore e sgomento che essi inducono in tutti noi.

13. Se la razionalità delle norme e delle coscienze non basta più, occorre allora scendere ancor più a fondo nella personalità dei singoli e nella soggettività collettiva: bisogna avere il coraggio di scendere a verificare se e come funziona l’inconscio individuale. Non l’inconscio come luogo della dimensione irrazionale di ognuno di noi, ma come luogo della modulazione mentale della propria potenza e dei propri comportamenti.

È infatti nell’inconscio che si confrontano e si articolano i due grandi fattori della vita: la legge e il desiderio. È il desiderio che esprime la volontà e il bisogno di superare un vuoto vissuto come “mancanza ad essere” perseguendo e acquisendo oggetti e relazioni; ed è la legge (l’autorità esterna o interiorizzata) che, contrastando o vincolando il desiderio, determina l’aggiustamento ad esso o la sua nevrotica rinuncia.

a) Sembra però avvenire ogni giorno di più che il desiderio diventi esangue, senza forza, indebolito da una realtà socioeconomica:

- che da un lato ha appagato la maggior parte delle psicologie individuali attraverso una lunga cavalcata di soddisfazione dei desideri covati per decenni se non per secoli (la casa e il suo arredo, la mobilità territoriale con auto e aereo, la frequenza della formazione e il titolo di studio, la vacanza e il tempo libero; ecc.);

- e che dall’altro è basata sul primato dell’offerta che garantisce il godimento di oggetti e di relazioni mai desiderati, o almeno non abbastanza desiderati (bambini obbligati a godere giocattoli mai chiesti; adulti coatti, più che desideranti, al sesto tipo di telefono cellulare, ecc.).

Forse aveva ragione chi profetizzava che il capitalismo avrebbe trionfato con la strategia del rinforzo continuato dell’offerta, strumento invincibile nel non dare spazio ai desideri. Così, all’inconscio manca oggi la materia prima su cui lavorare, cioè il desiderio. Questo è troppo depotenziato per poter creare quel drammatico scontro con la legge che è necessario per far funzionare l’alchimia della modulazione dei propri orientamenti valoriali e comportamentali.

b) Del resto, anche l’altro fattore dell’alchimia mentale non è in migliori condizioni di salute. Il trionfo dell’orizzontalità e il processo di desublimazione rendono labili i riferimenti individuali alla potenza verticale e irrevocabile della legge, del padre, del dettato religioso, della stessa coscienza (anzi questa spesso diventa il grimaldello e/o l’alibi per scorciatoie banalmente autoreferenziali rispetto ai dispositivi della norma). Si vive senza norma, quasi senza individuabili confini della normalità, per cui tutto nella mente dei singoli è aleatorio vagabondaggio, non capace di riferirsi ad un solido basamento.

14. Una legge sempre meno forte si combina con un desiderio sempre meno vigoroso, con un pericoloso declino del giuoco di modulazione esercitato dall’inconscio in ciascuno di noi. Ma non è solo un problema limitato alla sfera individuale, perché anche il sistema sociale soffre della stessa perdita.

Da un lato, infatti, l’evaporazione della legge comporta giorno dopo giorno la mancanza di certezze anche sociali e non solo valoriali: le norme si confondono e si accavallano; il potere si frammenta e si dissemina; la decisionalità si sfarina; vince l’accavallarsi delle contingenze e del loro fronteggiamento; ed anche quello che sembra il potere di ultima istanza (la gestione dei flussi finanziari) non riesce a dare senso alla politica come regolazione di sistema.

Dall’altro lato, la caduta dei desideri porta al primato del godimento e dell’edonismo di massa, alla serialità dei comportamenti, alla rassegnazione per la loro eterodirezione, al presentismo euforico, al rifiuto del tempo lungo e dell’accumulazione, all’eccessivo peso del mondo esterno rispetto alla coltivazione dei mondi interni. L’individualismo atomizzato cresce e si corrompe in un pericoloso vuoto sociale.

15. La tentazione più immediata a questo parallelo declino della legge e del desiderio è quella di operare sulla prima, nella convinzione che in una società a crescente secolarizzazione e desublimazione solo un ritorno alla roccia dei principi (statuali, civili, morali, religiosi) possa garantire quelle certezze di cui ha bisogno la nostra insicurezza individuale e collettiva. Ma, al di là delle ambizioni e dei pericoli delle vocazioni fondamentaliste, è da notare che non esistono in Italia quelle sedi di auctoritas che potrebbero o dovrebbero ridare forza alla legge, vista l’inermità istituzionale in cui viviamo anche in realtà a forte componente carismatica (ne è l’esempio più evidente la Chiesa).

16. Più utile appare il richiamo ad un rilancio del desiderio, individuale e collettivo. “Torniamo a desiderare” può apparire una indebita incitazione profetica, ma è piuttosto la riproposizione di una virtù civile, un ritornante raccogliersi sulla dimensione più intima dei singoli e delle comunità.

Da tale dimensione si può partire, sapendo che solo il desiderio “impone l’altro” (oggetto, relazione, condizione che sia) facendoci “disubriacare” dalla costante condanna alla soggettività autoreferenziale; solo il desiderio non ci appiattisce al deserto tutto orizzontale su cui siamo via via franati; solo il desiderio ci fa alzare gli occhi da quelle reti orizzontali che ci impigliano nell’esistente e in una inerte e non significativa reciprocità; solo il desiderio fornisce telos progressivo (non conservativo e distruttivo) alle pulsioni; solo il desiderio può darci lo slancio per vincere il nichilismo dell’indifferenza generalizzata; solo il desiderio può dare all’inconscio (individuale e collettivo) l’orgoglio di quel senso della complessità che può superare l’ambiziosa univocità della semplificazione; solo il desiderio esprime quella volontà di significazione (di voler dire e di voler essere) che oggi manca in tanti comportamenti.

Senza desiderio non c’è inconscio, non si attiva ed alimenta quel giuoco di confronto con la legge che può dare anche divieti, rimozioni, nevrosi, ma che è essenziale per modulare lo svolgimento di una vita.

Se, come dicevano i greci, virtuoso è colui che sa modulare la potenza del proprio desiderio (senza vietarlo del tutto e senza del tutto accondiscendere ad esso), allora non è paradossale dire che tornare a desiderare è la virtù civile necessaria per riattivare la dinamica di una società troppo appagata e appiattita. Senza aver paura dei conflitti individuali, collettivi e istituzionali che un rinnovato vigore del desiderio può comportare: meglio il conflitto, oggi, che l’appiattimento.

17. Questa enfasi sul tornare a desiderare può apparire una fuga in avanti rispetto all’andamento piatto della nostra cultura collettiva, rispetto ai duri problemi attuali della nostra società e alla conclamata urgenza di adeguate politiche (alcuni parlano nuovamente di piani pluriennali) per rilanciare lo sviluppo. Ma, come si è scelto quest’anno un avvio non tradizionale per questo Rapporto, sembra anche possibile chiuderlo in modo meno rituale degli anni in cui la sintesi interpretativa sfociava in una totale fiducia nelle lunghe derive, su cui spontaneamente evolve la nostra società; e/o chiamava in causa una responsabilità delle istituzioni e della loro classe dirigente. Ci sono infatti quest’anno buone ragioni per operare una scelta più tiepida su questa duplice tastiera.

a) Per quanto riguarda le lunghe derive, si è già detto che la loro permanenza nel tempo permette il fronteggiamento della crisi, ma non la piena ripresa del sistema. E occorre dire che non sono all’orizzonte dinamiche partecipate e vigorose, visto che i tre processi che più sono in espansione, cioè:

- la crescita di comportamenti sostanzialmente “apolidi”, legati al primato della competitività internazionale, sia a livello dei medio- grandi imprenditori, sia a livello delle migliaia di giovani orientati a studiare e lavorare all’estero;

- la crescita di nuovi reticoli di rappresentanza, sia nel mondo delle imprese, specie quelle diffuse, sia nelle istituzioni locali (con un lento formarsi di un tessuto federalista);

- la crescita di una propensione comunitaria, con la tendenza a vivere in luoghi a misura d’uomo (borghi, paesi o piccole città), in condizioni di alta qualità della vita e in ricchezza relazionale con la natura e le persone;

non presentano, a ben vedere, quella partecipata forza sociale necessaria per creare una nuova onda larga di trasformazione, per fare “deriva”, per avviare una nuova fase storica.

b) Ancora più improbabile è che si possa far conto su quell’impulso sociopolitico, progettuale e programmatico, tante volte in passato chiamato in causa. È difficile pensare infatti di far conto su élite di aristocratici bennati, visto che non ne circolano molti in questo periodo; su leadership partitiche volte a perseguire una propria linea egemonica (quelle che ci sono sembrano ad altro interessate); su un rinnovato impegno degli apparati pubblici, oggi più portati alla loro disarticolazione che allo sforzo di elaborare adeguati dispositivi di governo. E purtroppo nessuno di tali soggetti può trovare alimento nel livello del dibattito sociopolitico: la tematica rigore-ripresa è ferma alle parole; gli input esterni sono flebili, come è flebile tutta la riflessione sullo sviluppo europeo (tranne che per l’obbligo del rigore); e i tanti richiami ai temi “all’ordine del giorno” (la scuola, l’occupazione, le infrastrutture, la legalità, il Mezzogiorno, ecc.) rappresentano un insieme di enunciati seriali che ancora non spingono i più impazienti verso l’insurrezione del pensiero, ma certo non supportano alcuna speranza di nuovi impulsi. Il destino “piatto” di tale dibattito sembra ad oggi irrevocabile.

18. La caratura negativa del giudizio sulla flebilità delle derive spontanee e delle istanze politiche non va comunque attribuita solo all’ingenerosità dell’osservatore esterno, ma anche e specialmente alla potenza egemonica di quella strategia della continua offerta che qualcuno ha indicato come la “strategia vincente del tardo capitalismo” e a cui noi stessi quest’anno dedichiamo molte delle pagine successive.

Tutto sembra destinato ad apparire debole di fronte ad essa: non solo anticipa e quindi disinnesca i desideri; non solo rende residuale ogni cultura desiderante (del resto malamente consumatasi negli ultimi decenni); non solo occupa tutti gli spazi di potenziale innovazione dei comportamenti; non solo permette la compresenza di opzioni diversissime, dalla sobrietà più o meno obbligata al lusso; ma di fatto mette addirittura ordine e cadenza alla vita quotidiana iniettando un desiderio sommerso ma diffuso di mantenimento dell’esistente. E non sorprende che sotto una schiuma di litigiosità (tutti sembrano arrabbiati con tutti) il livello di conflittualità non aumenta: l’egemonia dell’offerta crea di fatto stabilità sociale.

Dovremo con questo prender atto che la complessità italiana è essenzialmente complessità culturale. La crisi che stiamo attraversando ha bisogno quindi principalmente di uno scavo e di messaggi che facciano autocoscienza di massa (di massa e non di piazza, come pensano affabulatori in cerca di autostima).

In una società che ha sempre fatto paradigma di se stessa (senza uniformarsi ad impulsi e dispositivi dati in precedenza) tale autocoscienza di massa può nascere solo dalla consapevolezza che la strategia dell’offerta continuata giova al tardo capitalismo, ma non alla gente comune; che occorre contrastare tale strategia, sottraendosi il più possibile ad essa; che occorre ricominciare ad esprimere domande autonome; che occorre, in parole già dette, “tornare a desiderare”; che occorre perciò sviluppare una mente immaginale, capace di innovare pensieri e richieste. E forse quel che dobbiamo desiderare è questo ritrovare una mente in opera, un riarmo mentale più che morale.