La crisi italiana di Paolo Sylos Labini

  1. Le origini della crisi
    La crisi ideologico-politica,
    Tare antiche e recenti della società italiana,
    La crisi economica e finanziaria,
    Stato e mercato,
    Mutamenti della struttura sociale,
    La fluidità della situazione politica,
    Le prospettive,

  2. Bisogna fare i conti con Marx
    Le responsabilità di Marx,
    Marx: le tesi erronee e le tesi analiticamente feconde,
    Marx e i comunisti,
    La posizione della sinistra verso le piccole imprese,
    Le formule partecipative,
    Lotta di classe e odio di classe,
    Marx e Machiavelli,

  3. La legge finanziaria, il rovesciamento della scala di priorità e il conflitto d'interessi
    Economia reale ed economia finanziaria,
    La legge finanziaria,
    Le critiche al governo Berlusconi,
    Obiezioni ad una interpretazione moralistica,
    Un'obiezione politica,
  1. La riforma dello stato sociale
    Insegnamenti utili per il futuro,
    Tre grandi aree di spesa,
    La posizione dei sindacati,

  2. Una politica per accelerare la crescita dell'occupazione e lo sviluppo civile del Mezzogiorno
    La crescita dell'occupazione,
    La creazione di nuove imprese,
    Lo sviluppo civile nel Mezzogiorno,
    Il livello d'istruzione dei lavoratori,
    L'andamento dell'occupazione negli ultimi quarant'anni,

  3. La scuola, la ricerca scientifica e la qualità del lavoro
    Una condizione preliminare per riorganizzare il sistema scolastico,
    Riflessioni sulla riforma universitaria,
    I gravi problemi della ricerca,

1. LE ORIGINI DELLA CRISI

Quella che stiamo vivendo è una crisi grave e sconcertante. Molti pensavano che l'Italia stava uscendo da un periodo oscuro, dominato da numerosi sintomi di degenerazione, fra cui una dilagante corruzione, per entrare in tempi brevi in una fase di miglioramento politico e sociale. Finora di questo miglioramento non c'è alcuna indicazione, anzi, pare che sia in atto un grave peggioramento: aumenta giorno per giorno il numero di coloro che si vanno convincendo che siamo caduti dalla padella nella brace (con diversi elementi positivi a favore della padella).
Lo svolgimento ha preso avvio poco meno di tre anni fa dalle inchieste aperte da alcuni giudici di Milano sulle così dette tangenti - che sarebbe più corretto definire secanti, come mi faceva notare un amico matematico -; le inchieste, oramai passate alla storia col nome di Tangentopoli, sono tuttora in corso.
Per cercare di comprendere quel che sta accadendo in un modo non superficiale dobbiamo cercare di andare oltre gli eventi contingenti e di considerare la crisi in atto adottando una prospettiva più ampia. A questo scopo possiamo prendere le mosse dalla concezione di Adamo Smith, il quale, prima di essere un economista, era un filosofo.
Secondo Smith, per cercare di comprendere l'evoluzione di una determinata società conviene studiare tre aspetti: cultura, istituzioni ed economia. Interpretando Smith, possiamo dire che la cultura comprende l'istruzione, l'etica, le abitudini, le idee e le ideologie prevalenti nella società. Le istituzioni comprendono le forme organizzative e l'assetto giuridico della società sia nella sfera del diritto pubblico che in quella del diritto privato. L'economia in senso proprio comprende le risorse naturali e la posizione geografica e riguarda la produzione e il commercio dei beni e le relazioni che si stabiliscono fra gli uomini nelle attività produttive e commerciali. I tre aspetti vanno visti unitariamente; così, la crescita della produzione e degli scambi è fortemente condizionata, anche se non puntualmente determinata, dall'evoluzione della cultura e delle istituzioni.
In questo periodo in Italia stiamo vivendo una crisi multipla: ideologico-politica, istituzionale ed economica.


La crisi ideologico-politica

Durante il secolo che ora volge al termine l'intera umanità, in un modo o nell'altro, ha vissuto uno dei drammi più terribili della storia moderna. Al centro di questo dramma troviamo il marxismo, che ha contribuito alla nascita dell'Unione Sovietica e in certi paesi, per reazione, alla comparsa di regimi fascisti. Soprattutto dopo la seconda guerra mondiale l'Unione Sovietica, sulla base della dottrina dell'imperialismo di derivazione marxista, si è contrapposta a paesi retti da sistemi liberaldemocratici.
Il conflitto fra i paesi guida dei due blocchi, Usa e Urss, non era solo ideologico: era anche istituzionale ed economico. Ed è essenzialmente sul piano economico che si è concluso, nel modo che tutti conoscono: la data simbolica è quella in cui è stato abbattuto il muro di Berlino. Sebbene la Cina per ora non abbia cambiato il sistema politico, ha certamente cambiato il sistema economico, che non può essere più definito come un sistema a pianificazione centralizzata. I mutamenti che stanno avendo luogo nel mondo dopo la caduta del muro di Berlino sono enormi. Il conflitto aveva condotto l'umanità assai vicino all'olocausto nucleare ed aveva dato origine a una divisione in due grandi zone d'influenza di tutti i continenti, eccettuata l'Oceania.
I confini di queste due zone non sono rimasti stabili nel tempo; tutt'altro. Fra i cambiamenti più significativi, attuati o tentati, ricordo quelli avvenuti in Arabia (Yemen del Sud), in Africa (Mozambico e Angola), nell'America centrale e meridionale (Cuba, Nicaragua, Cile). In tutti i paesi appena nominati larghe parti delle popolazioni hanno spinto o favorito i cambiamenti che portavano verso la sfera d'influenza sovietica. Era la speranza di cospicui miglioramenti economici che spingeva in tale direzione quelle persone, che di norma facevano parte dei «dannati della terra». Ma i cambiamenti hanno gravemente deluso le aspettative: venuta meno la tutela sovietica le popolazioni di quei paesi si sono trovate, se possibile, perfino peggio di prima. Per l'America latina non pochi intellettuali di sinistra sostenevano che gli interventi che il governo degli Stati Uniti attuava per contrastare o impedire l'avvento al potere di partiti filocomunisti andavano attribuiti ai disegni reazionari e antipopolari di quel governo. Nella realtà gli interventi, non di rado durissimi, erano dovuti alla preoccupazione - se si vuole, all'angoscia - che l'avvento al potere di partiti filocomunisti potesse aprire la porta all'influenza o addirittura al controllo dell'Unione Sovietica, come del resto era accaduto a Cuba.
La verità è che la cosiddetta guerra fredda è stata combattuta senza esclusione di colpi. Ciascuno dei due contendenti usava anche l'arma dei finanziamenti dei partiti amici. Come di recente è risultato evidente, i finanziamenti erano clandestini; e ciò non poteva non alimentare pratiche di corruzione. Questo è accaduto in tutti o quasi tutti i paesi dell'Alleanza atlantica; ma è accaduto in forme particolarmente accentuate nei paesi, come l'Italia e la Grecia, in cui più forti erano i partiti collegati con l'Unione Sovietica. I comunisti dovevano restare fuori dal potere a tutti i costi, anche a costo - era questo il modo di vedere dei servizi segreti, impropriamente detti deviati, stranieri e italiani - di promuovere stragi e assassinii. (La degenerazione dei servizi segreti, per forza d'inerzia, è sopravvissuta alla spinta che l'aveva determinata.)
All'interno della politica italiana s'era creato un complesso politico-mafioso-terroristico: all'origine troviamo la strategia anticomunista, anche se in seguito le motivazioni si sono ampliate e complicate. Le azioni volte a scongiurare l'ingresso dei comunisti nell'area del potere si intensificarono quando sembrò profilarsi un'intesa tra i due nemici storici, Democrazia cristiana e Partito comunista. La corruzione alligna in tutti i paesi e in tutti i tempi; e l'Italia, per quel che è dato sapere, non ha mai fatto eccezione. Non c'è dubbio, però, che negli ultimi due decenni la corruzione in Italia ha avuto un'accelerazione impressionante. L'ipotesi più probabile è che l'avvio di tale processo abbia avuto una motivazione essenzialmente politica - i finanziamenti clandestini servivano soprattutto ai partiti dei due schieramenti -. Una volta avviato, tuttavia, il processo si è autoalimentato e quella motivazione politica ha perduto d'importanza, anche se è venuta meno solo dopo la caduta del muro di Berlino. Sono invece aumentate d'importanza, da un lato, l'esigenza di finanziare apparati di partito ormai pletorici e, dall'altro, la spinta verso l'arricchimento personale di un crescente numero di dirigenti politici e d'intermediari.
Diversi intellettuali ed alcuni uomini politici hanno riconosciuto la connessione fra azione anticomunista e corruzione; tuttavia, ben di rado hanno fatto riferimento all'altra linea, più feroce, della stessa azione: stragi, assassinii ed uso politico delle organizzazioni criminali, come la mafia. Qualcuno si è spinto fino al punto di giustificare una tale condotta, con l'argomento che una condotta pulita avrebbe consentito ai comunisti di prendere il potere. Una tale giustificazione non è ammissibile non solo e non tanto perché quel rischio in Italia non è mai stato veramente grande, quanto perché non possiamo, per amore della vita, perdere le ragioni di vivere - è la splendida regola etico-politica che Giovenale esprime nella sua ottava satira e che vale per tutti, anche per i più convinti anticomunisti.
Oggi diversi giudici stanno facendo esplodere una serie di scandali: stanno mettendo sotto i riflettori un gigantesco letamaio, nel quale si sono rotolati per anni, come se fosse un prato grazioso, molti uomini politici e molti uomini di affari. Occorre notare che quando, diversi anni fa, alcuni giudici hanno cercato di perseguire quegli uomini politici che si distinguevano nella corruzione e in altre attività criminose, sono stati rapidamente bloccati da quei personaggi, un tempo potenti; altri giudici hanno attuato una sorta di autocensura per il timore che il partito filosovietico menasse scandalo e in tal modo traesse vantaggio politico. I valori etici, si è detto, dormivano; si deve aggiungere che il sonno era profondo perché era stato somministrato un potente sonnifero. Il fatto che da un certo punto in poi, specialmente dopo che erano venuti meno i finanziamenti dell'Unione Sovietica, lo stesso Partito comunista sia entrato nel giro della corruzione - nel giro delle cosiddette tangenti - non è affatto in contrasto con la diagnosi ora abbozzata.
E bene che sia chiaro: non intendo attribuire l'estendersi della corruzione soltanto e neppure prevalentemente alla guerra fredda. Il Giappone, paese che non ha avuto nel suo interno un forte partito comunista, ma dove la corruzione è stata e a quanto pare è tuttora ampia, dimostra che una tale diagnosi sarebbe monca (l'unica analogia sta forse nel lungo predominio di un solo partito). Intendo tuttavia affermare che la guerra fredda ha contribuito ad aggravare in misura rilevante le spinte degenerative: a differenza del Giappone, la stessa assenza, per molti anni, del ricambio politico è imputabile alla guerra fredda. Sono poi da considerare la personalità, totalmente amorale, di certi uomini politici ed il consumismo, che ha favorito le tendenze e le tentazioni al rapido arricchimento.


Tare antiche e recenti della società italiana

Lo sviluppo del capitalismo in Italia è stato tardivo. I paesi ritardatari, nella fase iniziale, sono costretti a concentrare le loro risorse sulle grandi infrastrutture - che comprendono le ferrovie - e sulle industrie pesanti, come la siderurgia (la quale riceve un particolare impulso se il governo attribuisce un'elevata priorità agli armamenti). Ma infrastrutture e industria pesante in un paese ritardatario, per definizione economicamente molto arretrato, con pochi imprenditori moderni e con un mercato molto ristretto, esigono un robusto intervento pubblico. Di qui due caratteristiche del capitalismo italiano, come anche di quello di diversi altri paesi ritardatari. La prima consiste in una spaccatura fra poche grandi imprese moderne direttamente o indirettamente sostenute dallo Stato, e piccole imprese, che restano a lungo di tipo tradizionale e sono quindi assai poco dinamiche; la seconda caratteristica è data dalla commistione tra pubblico e privato in economia con i connessi gravi rischi di abusi e corruzione. In Italia la spaccatura fra grandi e piccole imprese e la commistione tra pubblico e privato divennero ancora più accentuate durante la prima guerra mondiale, per via delle commesse militari, e poi nelle vicende che seguirono la crisi del 1929, che costrinse il governo a compiere numerosi salvataggi di grandi banche e grandi imprese.
Sotto l'aspetto civile, occorre tener ben presente che sino al 1912 in Italia c'era, bensì, una libertà politica degna di considerazione, ma la democrazia era assai circoscritta. Aveva diritto al voto poco più di un decimo della popolazione. Nel 1913 il suffragio divenne più ampio - il diritto di voto fu esteso a circa un quinto della popolazione, che era tuttavia pur sempre una minoranza -.In quel tempo la stragrande maggioranza degli italiani era analfabeta o semi-analfabeta. Dopo due anni venne la guerra e poi il fascismo.Pertanto, nel nostro paese la democrazia è un fenomeno relativamente recente.
Tutto questo ha favorito una situazione di non partecipazione o di separatezza tra classe politica e popolazione. Fino alla prima guerra mondiale tale separatezza non fomentò, come era possibile, una diffusa corruzione nella vita politica ai più alti livelli poiché in quel tempo di regola - ma non sono rare le eccezioni - si dedicavano alla politica membri di cospicue famiglie borghesi o dell'aristocrazia terriera, tutte persone che non pensavano certo alla politica come mezzo per migliorare le loro condizioni economiche o addirittura per arricchirsi. Diversamente stavano le cose al livello politico locale, soprattutto nel Mezzogiorno, come il meridionale Gaetano Salvemini mise spietatamente in evidenza in scritti famosi, ed in certe porzioni dell'economia, specialmente là dove aveva luogo la commistione cui ho accennato. In politica, almeno al vertice, gli standard morali erano relativamente buoni.
Con la prima guerra mondiale, soprattutto attraverso i gradi intermedi dell'esercito, e subito dopo la guerra, entrano tumultuosamente sulla scena sociale e politica schiere di persone appartenenti alla media e piccola borghesia (specialmente piccola borghesia impiegatizia), schiere già in espansione e la cui crescita riceve un vigoroso impulso dalla guerra. Qui non sono rari purtroppo gli individui famelici e di moralità scadente - la fame si rivolge non solo verso il danaro, ma anche verso il potere e l'influenza sociale -; per affermarsi, questi individui vanno sia a destra che a sinistra, e sia all'estrema destra che all'estrema sinistra. Le violente lotte sociali nel primo dopoguerra, l'angoscia per il bolscevismo, l'ascesa del fascismo sono da considerare in questo quadro.
La separatezza fra popolazione e classe politica diventa acuta con la dittatura fascista e la corruzione si estende soprattutto fra gli alti gerarchi. Diviene tuttavia galoppante dopo la seconda guerra mondiale e specialmente negli ultimi vent'anni. Come in ogni paese che perde una guerra, la sconfitta che conclude la seconda guerra mondiale rappresenta un trauma grave per l'intera società. Nel nostro paese il trauma è stato gravissimo non solo per le sofferenze di ogni genere ma anche per l'impressionante contrasto fra retorica militaresca e imperialistica e penosa realtà, un contrasto messo a nudo prima dall'assai infelice campagna di Grecia e poi dalla tragica spedizione in Russia. Il trauma non è stato ancora superato ed è rimasta, almeno in parte, quella scarsa fiducia in se stessi che spinge molti italiani ad atteggiamenti spietatamente autocritici, che stupiscono non pochi stranieri. Finita la guerra nel modo tragico e vergognoso che ben conosciamo - la catastrofe non fu solo militare, ma anche politica e morale - numerosi giovani si rivolsero al Partito comunista, che usciva da quella spaventosa esperienza con grande prestigio grazie alle persecuzioni subìte e grazie alla Resistenza, che li aveva visti fra i più impegnati. Quei giovani, come molti altri, che si rivolgevano ad altri partiti avevano l'ansia di rinnovare radicalmente una società di cui la guerra aveva rivelato tare gravissime. Al tempo stesso, tutti coloro che aborrivano i comunisti e coloro che ad essi sembravano alleati o affini, si rivolgevano in gran parte verso la Democrazia cristiana che, grazie soprattutto al capillare sostegno anche organizzativo della Chiesa cattolica, si presentava come il «baluardo contro il comunismo».
Lo scontro di cui ho parlato va visto in un tale contesto.


La crisi economica e finanziaria

Fra le tre aree di Smith - cultura, istituzioni, economia - non sussistono paratie stagne; e gli stessi problemi economici che oggi affliggono il nostro paese sono in vari modi collegati con la crisi ideologico-politica e con la crisi istituzionale. L'incubo del nostro paese e della classe politica è costituito dall'enorme debito pubblico; esso rappresenta anche il principale ostacolo al nostro pieno ingresso in Europa. Il debito pubblico ha raggiunto le dimensioni che conosciamo anche per effetto dei prezzi pagati per fini di stabilizzazione sociale e politica. Lo stato sociale s'inseriva in una tendenza comune a tutti i paesi industrializzati; ma in Italia esso ha assunto i connotati assistenziali e clientelari che conosciamo - sia rispetto agli utenti sia nell'ambito dei pletorici apparati che lo amministrano - perché nella pratica politica i fattori cui accennavo hanno avuto un peso di rilievo.
Al fabbisogno finanziario derivante dai disavanzi di bilancio lo Stato fa fronte con la vendita di titoli pubblici: non occorre aderire alla teoria monetarista per riconoscere che disavanzi sistematicamente finanziati con la stampa di biglietti aggravano l'inflazione. Difatti, oramai da tempo i governi evitano di seguire questa strada. Anno per anno però il disavanzo tende a crescere a causa del crescente onere per interessi, salvo che non si attuino adeguati tagli di spesa o non si accrescano i tributi - due vie politicamente assai difficili da percorrere -. Se, com'è accaduto in Italia da parecchi anni, il disavanzo complessivo aumenta ed aumenta il volume dei titoli da vendere, il tasso dell'interesse subisce una spinta verso l'alto, per convincere i risparmiatori a cedere allo Stato una parte cospicua dei loro risparmi. Il volume dei titoli da vendere è dunque il primo determinante del tasso dell'interesse. Il secondo determinante è costituito dall'intensità della pressione inflazionistica. Un terzo determinante è di carattere internazionale: per sostenere la quotazione della lira rispetto alle altre monete e contrastare l'inflazione importata occorre mantenere l'interesse ad un livello tale da scoraggiare l'esodo di capitali e, se occorre, da attirare capitali dall'estero. Cosicché, se nei paesi con cui abbiamo relazioni commerciali e finanziarie l'interesse tende a flettere, una tale flessione imprime una spinta verso il basso anche all'interesse interno, com'è accaduto fino a pochi mesi fa. Tuttavia, se cresce la massa dei titoli da vendere, è ben difficile che possa aver luogo una significativa riduzione dell'interesse. Ora, un interesse relativamente alto ha conseguenze negative sia sugli investimenti pubblici che su quelli privati. Sui primi un alto interesse ha conseguenze negative poiché, quando la massa dei titoli da vendere è grande e crescente, il gravoso onere per interessi induce il governo a comprimere tutte le spese che politicamente possono essere compresse, a cominciare dalle spese per investimenti. Quanto al settore privato, un alto interesse decurta i profitti netti e in questo modo frena gli investimenti. Ma gli investimenti rappresentano la molla principale dello sviluppo: bassi investimenti comportano uno sviluppo basso o nullo. Proprio per questo motivo un aumento dell'interesse a breve a volte è usato dalla banca centrale per indurre sindacati e associazioni padronali a contenere gli aumenti dei salari.
In tutti i paesi industrializzati dal 1989 e fino all'autunno del 1993 le economie si sono dibattute in una situazione vicina al ristagno e la schiera dei disoccupati è decisamente aumentata. Dall'autunno del 1993 si è profilata una ripresa economica internazionale, che ha ridotto in misura sensibile la quota dei disoccupati negli Stati Uniti, dove la ripresa è stata netta, mentre l'ha ridotta molto poco in Europa e, in particolare, in Italia. Bisogna osservare che la disoccupazione può aumentare anche quando la produzione non diminuisce, per effetto dell'aumento della produttività, che procede quasi senza interruzione anche quando c'è ristagno. Bisogna anche osservare che un certo ammontare di disoccupati è fisiologico, giacché si ricollega al tempo occorrente, per i giovani, per cercare un impiego e, per tutti, per cambiare lavoro. La disoccupazione raggiunge e supera livelli patologici quando il tempo per la ricerca e il cambiamento diviene molto lungo. In questo dopoguerra si è notato che la disoccupazione fisiologica - o «di attrito» - che permane anche in condizioni di sostenuta espansione, è andata crescendo, essenzialmente perché, con l'aumento del livello medio d'istruzione e col miglioramento delle condizioni economiche delle famiglie, coloro che desiderano trovare o cambiare occupazione sono in grado di attendere più a lungo. Quando c'è ristagno cresce la divergenza fra lavori desiderati e lavori disponibili; e poiché ben difficilmente un laureato o un diplomato accetterà un posto di lavapiatti o di facchino nei mercati generali, la disoccupazione non potrà non aumentare. Né giova affermare che la disoccupazione non esisterebbe se tutti fossero disposti ad accettare qualsiasi lavoro, giacché la divergenza cui ho accennato denuncia un problema genuino. Problemi di tal genere sono frequenti soprattutto nel Mezzogiorno d'Italia.
Più in generale, occorre osservare che da circa vent'anni la velocità della crescita è diminuita in tutti i paesi industrializzati (in Italia il saggio di aumento annuale medio del prodotto lordo è sceso dal 5,5% al 2,5%): effetto, questo, di diversi fattori, tra cui è da ricordare la sempre più vigorosa concorrenza mossa, in modo diretto o indiretto, da un numero crescente di paesi del Terzo mondo, sia in certe produzioni di base, come l'acciaio e la chimica, sia in diverse produzioni di beni di consumo, come i prodotti tessili e le calzature. Per i paesi industrializzati la via maestra per contrastare gli effetti negativi di tale concorrenza è di accelerare la crescita delle produzioni ad alta tecnologia, ciò che comporta un'intensificazione degli sforzi per la ricerca. In questo campo l'Italia è in grave ritardo.


Stato e mercato

Oggi hanno luogo vivaci discussioni sulla contrapposizione fra Stato e mercato; ma le difficoltà hanno riguardato sia i paesi che si sono posti sulla via della privatizzazione sia paesi decisamente statalisti, come l'Italia. Il problema della riduzione dell'area pubblica a favore di quella privata appare al centro della crisi ideologica e degli scontri politici del nostro tempo. La questione sembra particolarmente importante nel nostro paese, dove l'area pubblica è fra le più estese dei paesi industrializzati - mettendo da parte, beninteso, i paesi che facevano parte del socialismo reale, nei quali la questione si pone in termini profondamente diversi.
Quando si mettono in risalto i vantaggi del mercato in contrasto con l'azione pubblica nella vita economica generalmente si fa riferimento a quella rete sistematica di scambi in cui sia la domanda che l'offerta fanno capo a tanti soggetti privati ed i prezzi si formano in modo spontaneo e impersonale; in altre parole, si fa riferimento ad un mercato in concorrenza bilaterale. Non è di questo genere un mercato in cui l'offerta ovvero la domanda è controllata da un soggetto solo, sia esso privato o pubblico, ovvero quello in cui è lo Stato che controlla il prezzo. Tenendo conto di tali restrizioni, non possono essere considerati come mercati che si autoregolano ed in cui il prezzo dipende impersonalmente dall'azione di tanti e tanti soggetti:
I mercati del credito sono condizionati non solo dalla banca centrale, che è un organismo pubblico, ma, più fondamentalmente, dall'autorità pubblica, che spesso controlla, attraverso pacchetti azionari di maggioranza, numerosi istituti di credito. Analogamente, sono controllate dall'autorità pubblica diverse grandi imprese industriali, società di assicurazione, di trasporto, di comunicazione. La scuola, la ricerca, la sanità sono attività in misura più o meno ampia - spesso molto ampia - gestite o controllate da autorità pubbliche. A conti fatti, sembra che il mercato operi pienamente solo nell'area, pur vasta, delle piccole imprese e nell'area delle medie e grandi imprese nei settori aperti alla concorrenza internazionale, anche se, in queste come in altre aree, sono relativamente frequenti i dazi, i sussidi per interessi e i trasferimenti in conto capitale a favore delle imprese che a rigore alterano il libero gioco del mercato.
E dunque lo Stato e non il mercato che oggi domina la vita economica? Per l'economia italiana, la risposta sembra affermativa. Ma in una certa misura la domanda si pone anche per gli Stati Uniti, la roccaforte del capitalismo. In effetti, se le spese pubbliche in Italia rappresentano quasi la metà del reddito nazionale - una quota solo limitatamente più alta che negli altri paesi europei -, negli Stati Uniti la quota, tutt'altro che modesta, è di circa il 35%; in quel paese è molto minore l'incidenza delle spese sociali, mentre è maggiore quella delle spese militari - in quel paese ha tuttora gran peso politico, oltre che economico, il così detto complesso militare-industriale -. E indubbio però che, nell'ambito dei paesi industrializzati, da noi l'intervento pubblico sia fra i più estesi. Perché? Le ragioni sono diverse. Ho già osservato che il capitalismo moderno in Italia ha cominciato a svilupparsi con ritardo ed ha avuto bisogno fin da principio di interventi pubblici particolarmente robusti. Altri interventi, come quelli che portarono alla creazione delle acciaierie di Terni o alla costruzione di certi rami ferroviari, sono stati motivati, più che da ragioni economiche, da esigenze strategiche e militari. La statizzazione di diverse grandi banche e di grandi imprese industriali ha ricevuto un forte impulso dalla crisi economica che ebbe inizio nel 1929, che stava provocando fallimenti a catena. Per bloccare un tale fenomeno, che dava origine ad un aumento enorme della disoccupazione, lo Stato è intervenuto ed ha salvato numerose grandi imprese e grandi banche. Il dichiarato intento era di restituire quelle imprese all'iniziativa privata appena possibile. Ma per decenni sono state operate privatizzazioni solo in via eccezionale. Anzi, sono stati compiuti nuovi salvataggi e non pochi industriali e banchieri privati hanno sollecitato nuove statizzazioni. Abbiamo poi avuto due casi - petrolio ed elettricità - in cui l'intervento pubblico è stato compiuto perché si trattava di settori strategici per lo sviluppo economico. Infine, in Italia l'allargamento dell'intervento pubblico è stato favorito da correnti dottrinarie diverse, come la dottrina sociale cristiana, il keynesismo, il corporativismo, il marxismo.
E necessario mettere bene in chiaro che le spinte provenienti dall'economia o dalle ideologie sono state utilizzate dai partiti - da tutti o da quasi tutti i partiti, di destra, di centro o di sinistra - nel loro stesso interesse: dal momento che i partiti avevano occupato lo Stato, la statizzazione ha significato controllo esercitato dai partiti sulle imprese e sulle banche statizzate, con vantaggi di potere e con vantaggi economici.
Anche in Italia si è profilato un movimento contro l'intervento dello Stato e in favore delle privatizzazioni e del «mercato». Le resistenze sono grandi. Sotto l'aspetto dell'interesse generale le privatizzazioni sono da noi più che giustificate, giacché l'allargamento dell'area statale nel nostro paese è andato ben oltre i limiti fisiologici, comunque intesi. Le motivazioni addotte a favore delle privatizzazioni sono tre: 1) l'esigenza di una maggiore efficienza; 2) la possibilità di ricavare cospicui mezzi finanziari dalla vendita di imprese pubbliche; 3) l'esigenza di porre fine agli abusi di ogni genere perpetrati dai partiti nell'area statale. La prima motivazione ha una base incerta (quasi tutte le imprese pubbliche sono organizzate nella forma di società per azioni); la seconda motivazione può avere un certo peso; ma è la terza la motivazione di maggior rilievo.
La reazione all'intervento pubblico ed a favore del «mercato» significa cambiamento e non abolizione delle regole. Il mercato non è assenza di regole, come alcuni sembrano ritenere, non è un vuoto, riempito solo dalle azioni dei singoli che sono mossi dal loro tornaconto. Il mercato è un complesso prodotto giuridico e istituzionale, frutto di un'evoluzione plurisecolare: sistemi di contratti, tipi e forme di imprese pubbliche e private, di istituzioni e di organismi pubblici addetti al controllo ed alla vigilanza su operazioni complesse, come quelle svolte da intermediari finanziari e da società per azioni, condizionano, racchiudono ed anzi costituiscono il mercato.
Come nel caso del mercato, anche nel caso del liberismo oggi circolano, in Italia e fuori, concetti gravemente erronei.
Il liberismo ha tre significati, che in parte si sovrappongono, ma non coincidono. In primo luogo, il liberismo si contrappone al protezionismo e significa libertà del commercio internazionale. In secondo luogo, significa massimo spazio assegnato ai mercati in libera concorrenza, con l'eliminazione delle posizioni di monopolio, là dove ciò è possibile, e con l'introduzione di controlli di vario genere per le posizioni di tipo monopolistico, di cui ho dato esempi più sopra; infine, il liberismo si contrappone allo statalismo, ossia all'«eccesso» dell'intervento pubblico in economia.
Due riflessioni sul terzo significato di liberismo. Prima riflessione: il grado d'intervento pubblico, comunque misurato (per esempio: percentuale delle spese pubbliche sul prodotto nazionale, estensione della proprietà pubblica di unità produttive), varia nel tempo e nei paesi. Di regola, dopo la seconda guerra mondiale è cresciuto in tutti o quasi tutti i paesi industrializzati, almeno se come misura si usa la quota delle spese pubbliche.
Io sostengo che in Italia l'intervento pubblico è andato troppo avanti, non solo per motivi legati all'evoluzione economica, ma anche e, negli ultimi tre decenni, soprattutto per motivi di stabilizzazione sociale e politica.
Seconda riflessione. Adamo Smith, che molti considerano il profeta del liberismo, era, in realtà, decisamente in favore del liberismo nel commercio internazionale, era, di nuovo, in favore dei mercati in concorrenza, ma era decisamente contrario ad ogni forma di monopolio; era certamente contrario ad estendere l'intervento pubblico nell'economia, ma in questa direzione non si spingeva affatto così lontano come sembrano ritenere molti suoi sedicenti seguaci. Mi limito a ricordare che le funzioni che Smith assegna allo Stato sono tre, non due: oltre la difesa e la giustizia, fra quelle funzioni include la costruzione di quelle opere pubbliche e la creazione di quelle istituzioni, specialmente nell'area dell'istruzione, che non sono - o non sono sufficientemente - profittevoli per i privati, mentre sono vantaggiose «per una grande società».

Mutamenti della struttura sociale

Conviene riflettere sui dati delle due tabelle che seguono: i dati possono dare una prima idea delle profonde trasformazioni subìte dalla struttura economico-sociale del nostro paese dopo la fine della guerra.

1951 1971 1983 1993
1. Agricoltura 43 18 13 9
2. Industria e artigianato 35 42 35 32
3. Servizi 15 30 36 41
4. Pubblica amministrazione 7 10 16 18

Tab. 1. Categorie economiche (composizione percentuale)

1951 1971 1983 1993
1. «Borghesia» 2 3 3 3
2. Classi medie urbane 26 38 46 52
di cui:
impiegati privati 5 9 10 11
impiegati pubblici 8 11 16 18
artigiani 5 5 6 6
commercianti 6 8 9 11
3. Contadini proprietari 31 12 8 6
4. Classe operaia 41 47 43 39
di cui:
salariati agricoli 12 6 4 3
operai dell'industria 23 31 28 25
commercio, trasporti e servizi 6 10 11 11

Tab. 2. Classi e categorie sociali (composizione percentuale)

Sotto l'aspetto delle categorie economiche, in questo dopoguerra le trasformazioni più rilevanti sono avvenute in agricoltura (l'esodo agrario è stato gigantesco) e nei servizi - ormai l'occupazione nei servizi privati e pubblici rappresenta il 60% della popolazione attiva -. Dal punto di vista delle classi e delle categorie sociali, è fortemente cresciuta la piccola borghesia impiegatizia e sono cresciuti i commercianti - circa il doppio -, mentre la «classe operaia», dopo essere aumentata, nei primi venti anni, dal 41 al 47%, è poi diminuita ed ora non arriva al 40%.
Queste profonde trasformazioni sono avvenute in un contesto di rapido sviluppo economico, il più rapido mai avvenuto nella nostra storia: dal 1951 il reddito totale è aumentato di ben cinque volte, quello individuale, di quattro volte. In via di larga massima, contrariamente a quanto molti credono, ciò è avvenuto tanto nel Centro-Nord quanto nel Sud, con l'avvertenza che il divario economico fra le due grandi circoscrizioni, misurato in termini di reddito individuale, che nel 1951 era pari a circa il 46% ed era sceso al 35 nel 1975 per effetto delle massicce migrazioni dal Sud al Nord, è risalito alla quota del 1951 negli ultimi anni.
Queste quantità dicono poco, tuttavia, del divario sociale e civile fra Sud e Centro-Nord, che può essere variamente misurato: ad esempio, usando i dati riguardanti le persone o i lavoratori con diversi titoli di studio, o la delinquenza minorile, o altri. Quanto alla crescita culturale dell'intera società, in generale si può forse affermare che essa procede ad una velocità più bassa della crescita strettamente economica: in certi periodi può procedere addirittura in direzione opposta.
Le trasformazioni nella struttura sociale hanno accentuato la frammentazione delle posizioni politiche; in particolare, man mano che diminuisce il peso della così detta classe operaia e, in particolare, di quella che fa capo alle grandi imprese, si modificano il profilo della sinistra e il carattere del sindacato. Insieme con un discreto benessere economico, si sono diffusi atteggiamenti di tipo conservatore fra i ceti più diversi. Ma le posizioni politiche di questo tipo cambiano radicalmente sia nelle diverse epoche storiche sia, in tempi brevi, secondo gli interessi economici dei gruppi più influenti - proprietari terrieri, grandi industriali, piccoli imprenditori dell'industria e dei servizi -. Così l'orizzonte politico, che è a lungo termine nel caso dei proprietari terrieri, è breve o brevissimo nel caso dei gruppi di ceti medi e, pertanto, comporta una forte fluidità, con repentini mutamenti sulle aggregazioni sociali, politiche e sindacali; tali mutamenti, oggi, vengono esasperati dalla crisi ideologico-politica in atto e dalla caduta del comunismo reale.

La fluidità della situazione politica

La crisi in atto nel nostro paese ha dato luogo ad una fluidità e mutevolezza della vita politica quali ben raramente erano state osservate in passato. Oggi non è più chiaro dov'è la destra e dove la sinistra. L'intero quadro politico è in via di radicale trasformazione. Le classi medie, che hanno sempre avuto il dono dell'ubiquità politica e culturale, oggi, dopo il sostenuto sviluppo economico, si sono ulteriormente allargate e sono divenute ancora più eterogenee e mobili che in passato. La frammentazione delle classi medie, già notevole sul piano politico, è ancora più accentuata sul piano sindacale. La classe operaia, costituita dai lavoratori salariati, è ulteriormente diminuita. La parte della classe operaia che fa capo alle grandi imprese è tuttora relativamente omogenea; ma le grandi imprese oggi sperimentano difficoltà nettamente più gravi di quelle in cui si dibattono le imprese di minori dimensioni. Il quadro sociale è oggi reso più complesso dalla presenza di una non trascurabile schiera d'immigrati extra-comunitari, che sono disposti a svolgere quei lavori poco gradevoli che i lavoratori italiani, anche quelli del Mezzogiorno, non sono più disposti a svolgere. Fra coloro che avversano un'ulteriore restrizione dei flussi d'immigrazione ci sono persone che paventano le difficoltà economiche conseguenti a tale restrizione; essi tuttavia sottovalutano le capacità di adattamento del sistema economico (progresso tecnico, ulteriore meccanizzazione di certe operazioni, ristrutturazioni produttive, aumento delle importazioni di certi prodotti). A coloro che sono addirittura a favore di un allargamento dell'immigrazione in nome di ideali umanitari, si deve far notare che il modo per aiutare il Terzo mondo e particolarmente certi paesi africani non è questo, ma sta nel predisporre, d'accordo con altri paesi europei, progetti di sviluppo scolastico ed educativo (ciò che, fra l'altro, può contribuire alla flessione della natalità) e adeguati programmi di assistenza tecnica e organizzativa nel campo della produzione, a cominciare dall'agricoltura.


Le prospettive

Se le prospettive immediate sono caratterizzate da grande fluidità, per le prospettive non immediate dobbiamo riconoscere che siamo entrati in una crisi gravissima, da cui tuttavia possiamo uscire in tempi non lunghi, anche se non brevi, e possiamo avviarci a divenire un paese veramente e pienamente civile. Ciò potrà accadere se sapremo introdurre alcune riforme essenziali, non solo nei sistemi elettorali, ma anche nella organizzazione della pubblica amministrazione, della sanità, della scuola, dell'Università, della ricerca. Chi studia l'evoluzione della società inglese nel secolo scorso può trarre motivi di conforto, pur tenendo conto che le condizioni di quella società erano profondamente diverse da quelle della società italiana di oggi: la pubblica amministrazione, che era inefficiente e non marginalmente corrotta, dopo alcune importanti riforme cambiò e migliorò in misura molto notevole. In effetti, di motivi di conforto oggi abbiamo grande bisogno, giacché il momento che stiamo vivendo (dicembre 1994) è a dir poco atroce.

2. BISOGNA FARE I CONTI CON MARX

Le responsabilità di Marx

La crisi ideologico-politica cui ho fatto cenno è sboccata nella crisi delle istituzioni. La crisi ha colpito in primo luogo il marxismo e i partiti che si richiamavano a quella dottrina. Paradossalmente, tuttavia, in modo indiretto ha colpito anche i partiti antimarxisti e anticomunisti, che hanno visto ridurre in modo non esiguo il consenso popolare e intellettuale e venir meno il cemento che li univa e il sostegno internazionale; lo stesso appoggio della Chiesa è divenuto molto più critico e molto più differenziato. Con Marx bisogna fare i conti non solo e non tanto per motivi culturali, che possono interessare solo una minoranza di intellettuali. I conti con Marx vanno fatti anche per comprendere l'assai infelice situazione in cui oggi viviamo. Non possiamo non chiederci: come mai nella campagna elettorale Silvio Berlusconi ha potuto usare il tema dell'anticomunismo con un non trascurabile successo, come pare? Eppure dopo la caduta del muro di Berlino il comunismo non dovrebbe far più paura né sul piano internazionale né su quello interno; per di più, dopo un lungo e drammatico dibattito ed una dolorosa scissione, il Partito comunista italiano ha cambiato nome, obiettivi e simbolo (al 90%).
Evidentemente, esistono ancora, soprattutto in certi strati della piccola borghesia, alcuni riflessi condizionati. Il grande trauma nazionale, mai pienamente superato, fu quello del 1921-22, quando il pericolo del comunismo, reso incombente dalla vittoria dei bolscevichi in Russia, seminò panico e orrore in una cospicua fetta della società italiana e non soltanto per via degli interessi economici minacciati. Se non si tiene conto di quel panico e di quell'orrore non si può comprendere l'ascesa del fascismo al potere.
In Europa dopo la prima guerra mondiale e nell'America latina dopo la seconda guerra, la paura del comunismo ha contribuito alla nascita e all'affermazione dei fascismi, alle condiscendenze dei conservatori inglesi verso Hitler e a quelle dei nordamericani verso le dittature militari latinoamericane (attenzione: ha contribuito non vuol dire che ha determinato). In Europa, dopo la prima guerra mondiale e poi durante la seconda, per combattere quel fascismo che avevano contribuito a far sorgere, molti comunisti hanno affrontato pericoli, prigione, torture, sacrifici di ogni genere.
Le atrocità commesse dai comunisti per impadronirsi del potere e poi quelle perpetrate nei paesi in cui erano riusciti ad instaurare la dittatura possono rendere comprensibili le reazioni anticomuniste, ma non possono in alcun modo giustificare i mezzi adoperati quando si tratti di mezzi barbari o tali da imbarbarire la vita sociale. Se si pone mente al fine si può sostenere che il senatore americano Joseph McCarthy aveva ragione; si deve però subito aggiungere che erano radicalmente sbagliati i mezzi, cosicché la condanna morale e politica del maccartismo fu pienamente giustificata. Quando, in Italia, dopo la prima guerra mondiale ebbe luogo quella reazione antibolscevica che fu ampiamente utilizzata dal Partito fascista furono pochi, ma non pochissimi, fra coloro che avevano una profonda avversione per il bolscevismo, gli uomini, come Giustino Fortunato, Gaetano Salvemini ed Ernesto Rossi, che non si fecero travolgere dalla paura neppure nei momenti più difficili e tennero duro. Oggi, dopo la tragedia della seconda guerra mondiale scatenata dal principale allievo e imitatore di Mussolini, appare evidente che ebbero ragione coloro che tennero duro, anche se in quel momento vennero battuti. In breve, non si può combattere una barbarie con un'altra barbarie: i Gulag e Auschwitz si equivalgono.
Dobbiamo chiederci: qual è la responsabilità di Marx in queste tragedie?
Sono molti gli intellettuali che tendono a minimizzare le responsabilità di quegli altri intellettuali che non si limitano a sforzarsi di conoscere il mondo, ma si propongono di cambiarlo. Ora, non c'è dubbio che nel gran crogiolo dell'evoluzione storica, gli intellettuali di un qualche rilievo sono in qualche misura responsabili: poco o molto, secondo i casi. Con le sue sdegnate denunce, che avevano affascinato molti, con le sue tesi sulla socializzazione dei mezzi di produzione, sulla necessità di un «piano generale» una volta socializzati i mezzi di produzione, sulla dittatura del proletariato (tesi che è servita per giustificare tremende dittature, non solo nell'Unione Sovietica), coi suoi incitamenti a usare il terrorismo, con la sua morale rivoluzionaria, con le sue grandiose analisi storiche ed economiche, poi sviluppate da diversi seguaci, segnatamente da Lenin, Marx ha una responsabilità innegabilmente rilevante nell'evoluzione intellettuale e politica dell'Unione Sovietica e, via via, negli altri paesi in cui il marxismo ha svolto un ruolo di rilievo. Le grandiose analisi storiche ed economiche rappresentano uno straordinario merito intellettuale di Marx - tornerò su questo punto -; al tempo stesso costituiscono (non è un paradosso) una circostanza che aggrava le sue responsabilità sotto l'aspetto etico-politico.
Dobbiamo dunque distinguere il Marx rivoluzionario dal Marx economista: il primo si è assunto responsabilità tremende nei suoi sforzi volti a «cambiare il mondo»; il secondo può aiutare a comprenderlo. In due parole: il primo Marx va esecrato, il secondo va studiato; dal momento che non ci troviamo di fronte al fondatore di una religione, ma a un pensatore, la distinzione e la separazione sono del tutto legittime.
Cominciamo col Marx rivoluzionario.
Di violenza, di frode, di inganni al mondo ce ne sono sempre stati e, io temo, ce ne saranno sempre. Gli intellettuali che teorizzano l'opportunità ed anzi la necessità di ricorrere a violenza, a frode e a inganno si assumono la responsabilità di giustificare e quindi di aggravare ed estendere queste atroci tendenze insite nell'uomo. Marx, è stato detto, si è assunto senza esitazione quella responsabilità per un fine nobile: per il riscatto degli oppressi del nostro tempo - i lavoratori salariati -. Ma il raggiungimento del fine è estremamente incerto e problematico - la realtà dei paesi dove la dottrina di Marx si è affermata mostra che il progetto è miseramente e tragicamente fallito -. Applicando quei terribili insegnamenti nel perseguire quel fine la somma delle violenze, delle frodi e degli inganni cresce: questo è matematico, questo è accaduto. Il fine non è stato raggiunto: al contrario.
Mi è stato obiettato: considera la Rivoluzione francese: anche in quella serie di eventi tragici vi furono, in abbondanza, violenze, frodi e inganni; ma non per questo la Rivoluzione francese è da condannare. E vero. Ma sfido chiunque a individuare un solo intellettuale in qualche modo paragonabile a Marx che nel periodo preparatorio abbia teorizzato l'opportunità di usare anche i mezzi più barbari per perseguire quel fine. Dobbiamo tenere ben presente che il marxismo fondava le sue basi teoriche sulla lotta di classe e, connessamente, sull'odio di classe; non solo la violenza, compresa la violenza terroristica, ma anche la frode e l'inganno erano del tutto leciti ed anzi raccomandabili per far trionfare la causa del proletariato e cambiare il corso della storia. Nelle opere indirizzate agli intellettuali Marx ha parlato ripetutamente di lotta di classe, ha parlato di miseria crescente e di crescente abiezione dei proletari in regime capitalistico. Non ha esplicitamente parlato di odio di classe e dei mezzi da usare per il trionfo del proletariato. Tuttavia, coloro che hanno studiato a tavolino le principali opere di Marx e, a maggior ragione, coloro che non le hanno studiate, ma sono stati attratti dalle sue violente denunce dei vizi della società capitalistica, di rado si sono resi conto delle tremende implicazioni delle sue idee. Coloro che sono passati dalla teoria alla prassi sono stati indotti o costretti dalle circostanze a rendersi ben conto di quelle implicazioni. Del resto, Marx le aveva rese esplicite in lettere e in indirizzi rivolti al primo nucleo del Partito comunista tedesco. Per togliere di mezzo ogni dubbio è utile qualche citazione.
«Vae victis! Noi non abbiamo riguardi; noi non ne attendiamo da voi. Quando sarà il nostro turno non abbelliremo il terrore».
Lo sdegno di Marx contro le nefandezze del capitalismo, che in passato aveva esercitato un notevole fascino su tanti e tanti giovani, era strumentale, giacché egli non esitava a raccomandare ogni sorta di nefandezze per combatterlo: «Agite gesuiticamente, buttate alle ortiche la germanica probità, onestà, integrità. In un partito si deve appoggiare tutto ciò che aiuta ad avanzare, senza farsi noiosi scrupoli morali».
Marx scrive a Engels, riferendosi a una tesi esposta in un articolo sull'India destinato all'«Herald Tribune», del quale per un breve periodo fu collaboratore, una tesi di cui non era sicuro ma che, ciò nonostante, voleva esporre, dato che (il commento è mio) un profeta non poteva ignorare una questione così grave come l'«insurrezione indiana» - questo era il titolo dell'articolo -. Scrive dunque a Engels: «E possibile che io ci faccia una figuraccia. Tuttavia possiamo sempre cavarcela con un po' di dialettica. Naturalmente ho tenute le mie considerazioni su un tono tale che avrò ragione anche in caso contrario».


Marx: le tesi erronee e le tesi analiticamente feconde

Stando così le cose, possiamo fidarci di Marx come analista della società e, in particolare, come economista? Ritengo che, per sceverare le tesi erronee da quelle valide e analiticamente feconde, si può adottare il seguente criterio: quanto più direttamente le tesi di Marx riguardano il suo programma rivoluzionario, tanto più bisogna diffidarne, mentre le tesi più lontane da quel programma, ossia le tesi strettamente analitiche, vanno considerate, pur sempre con occhio critico, ma con minore sospetto.
Le principali tesi erronee sul piano interpretativo sono due: la tesi della tendenza alla proletarizzazione delle società capitalistiche e la tesi dell'immiserimento della classe operaia. Queste tesi si articolano in cinque proposizioni: 1) «Tutta la società si scinde sempre più in due vasti campi nemici, in due classi ostili l'una all'altra»; 2) «L'operaio moderno, invece di elevarsi col progresso dell'industria, cade sempre più in basso, al disotto delle stesse condizioni della propria classe. L'operaio si trasforma in un povero e il pauperismo tende ad aumentare assai più rapidamente dell'aumento della popolazione e della ricchezza»; 3) «L'antico ceto medio rovina e cade nel proletariato»; 4) «Il moto proletario è il moto autonomo dell'immensa maggioranza della popolazione in favore dell'immensa maggioranza»; 5) «Nei paesi dove la civiltà moderna si è sviluppata si è formata una piccola borghesia nuova. Essa oscilla tra il proletariato e la borghesia. Senonché i suoi componenti vengono continuamente ricacciati nel proletariato per effetto della concorrenza». (Sono tutte citazioni tratte dal Manifesto del Partito comunista, che è appunto concepito, non come un'analisi, ma come una presentazione sintetica di tesi fondamentali.)
Tutte le tesi ora richiamate appaiono come errori madornali, solo molto limitatamente giustificabili facendo riferimento al tempo in cui furono scritte.
Una tesi che si presenta come analitica e per certi aspetti lo è, ma che deve esser vista come strumentale rispetto al programma rivoluzionario, è la tesi del valore-lavoro, che mirava a fornire una interpretazione «scientifica» dello sfruttamento - in realtà, un concetto etico -. Dopo dibattiti durati oltre un secolo, è stato dimostrato - paradossalmente da un economista per nulla ostile a Marx - che la teoria del valore-lavoro non è sostenibile. Sulla tomba di questa teoria possono essere scritti, come epitaffio, due righi che si trovano nell'indice analitico di Produzione di merci a mezzo di merci di Piero Sraffa: «Il valore è proporzionale al costo in lavoro quando i profitti sono zero».
Altre tesi di Marx, che possono essere considerate indipendentemente dal suo programma rivoluzionario, appaiono analiticamente feconde. Ricordo quattro tesi di questo tipo.
  1. Se la tesi della inevitabile proletarizzazione inerente alle moderne società capitalistiche è radicalmente sbagliata, non è invece sbagliata, ma anzi è utile, l'analisi riguardante i movimenti delle molteplici classi sociali che Marx svolge nelle sue opere storiche (la dicotomia - proletari e capitalisti - va considerata in prospettiva, non come realtà già in atto).
  2. E feconda la tesi secondo la quale il movimento del sistema economico va studiato considerando due settori (una dicotomia che anticipa quella keynesiana fra consumi e investimenti) e distinguendo fra riproduzione semplice e riproduzione su scala allargata - il movimento in cui si suppone che il sovrappiù sia almeno in parte investito.
  3. E particolarmente feconda la tesi secondo cui il processo di accumulazione capitalistica è spinto dalle innovazioni e ha carattere ciclico. Qui non vanno lesinati i riconoscimenti all'intuizione fondamentale di Marx. Si deve tuttavia osservare che egli si limita a enunciare la tesi, ma non si addentra nell'analisi.
  4. E importante la tesi secondo cui la creazione di moneta bancaria ha un ruolo essenziale nell'accumulazione ciclica.
Oltre le tesi di questo genere, che vanno approfondite e utilizzate, c'è un'idea fondamentale, che a rigore non è originale, ma che Marx per primo presenta in termini precisi e metodologicamente rilevanti: è - come afferma Joseph Schumpeter in Capitalismo, socialismo e democrazia (cap. III) - «l'idea di una teoria del processo economico così com'esso si svolge, per impulso interno, nel tempo storico, un processo che in ogni momento produce una situazione che da sola determina la successiva. In tal modo, l'autore di tante concezioni errate è stato anche il primo a visualizzare quella che perfino oggi è ancora la teoria economica del futuro, per la quale andiamo lentamente e faticosamente accumulando mattoni e calce, dati statistici ed equazioni funzionali». E agevole rendersi conto che questa è la stessa idea che sottende il recente approccio dinamico definito «path dependence» («dipendenza dal percorso precedente»). In ultima analisi, l'approccio della «path dependence» tende verso una sorta di «histoire raisonnée», che costituisce il ponte fra la teoria economica e la storia.
Questo duplice giudizio - favorevole per il Marx economista, drasticamente negativo per il Marx rivoluzionario - può apparire contraddittorio. Ho cercato di chiarire perché non lo è. Sul progetto rivoluzionario di Marx, tuttavia, permane un quesito fondamentale, che ho già proposto altrove e che qui ripropongo.


Marx e i comunisti

Molti di coloro che durante e subito dopo la seconda guerra mondiale hanno sentito la forte attrazione esercitata dal comunismo e dal Partito comunista e spesso hanno operato in quel partito con gravi sacrifici, chiedono oggi che vengano comprese le ragioni delle loro scelte considerando il momento storico in cui venivano fatte. E una richiesta giusta: anche chi scrive sentì fortemente quell'attrazione e, se non ne fu travolto, lo dovette all'influenza di diverse persone di grande statura morale, non comuniste ma neppure violentemente anticomuniste - il violento anticomunismo avrebbe potuto avere l'effetto opposto per quella tendenza anticonformistica frequente fra i giovani.
Dobbiamo dunque liquidare tutto quanto è stato compiuto nel nome di Marx - ecco il quesito -; dobbiamo negare o rinnegare la passione, l'impegno e i gravi sacrifici? Tutto da buttar via sul terreno dell'azione?
Io dico di no. In certi paesi, fra cui è l'Italia, i comunisti hanno di fatto accantonato da lungo tempo il progetto rivoluzionario e hanno dato rilevanti contributi all'evoluzione democratica della società in cui hanno operato. E anche vero, però, che se molti di quei comunisti avessero conosciuto il contenuto di quelle «confidenze» di Marx, di cui ho citato solo alcuni esempi, avrebbero abbandonato il partito o avrebbero preteso un cambiamento radicale del nome e della linea politica, come solo di recente è accaduto. Si può obiettare: non c'era alcun bisogno di conoscere quelle «confidenze»; la condotta assolutamente cinica e priva di scrupoli dei massimi dirigenti era apparsa in modo più che evidente durante gran parte della tragica esperienza sovietica e durante la guerra civile spagnola - è ancora illuminante il libro scritto nel 1937 in uno stile terribilmente sobrio da George Orwell (Omaggio alla Catalogna, Milano 1993) -. All'obiezione si può rispondere ricordando che i comunisti - a parte i capi - non credevano a quelle che venivano definite come calunnie borghesi. D'altra parte, le stesse azioni riformistiche portate avanti dai comunisti erano doppiamente viziate: sul piano della politica internazionale, dall'ostilità degli Stati Uniti - un'ostilità durissima e in nessun modo vantaggiosa per il paese considerato - e sul piano della politica economica da residui della dottrina marxista di cui parlerò fra poco. Criticare il marxismo in quanto dottrina rivoluzionaria e rimuovere quei residui significa liberare energie che fino a un tempo recente risultavano gravemente frenate e limitate. Un caro amico poco meno che mio coetaneo, che in gioventù è stato comunista e che da molti anni non lo è più mi dice, appassionatamente, che egli non può condividere le conclusioni che emergono dalla mia durissima critica, politica ed etica, al Marx rivoluzionario e che conducono, indipendentemente dalle intenzioni, a criminalizzare milioni di persone in perfetta buona fede, che spesso hanno rischiato la vita o l'hanno persa per perseguire quegli ideali che hanno origine antichissima e che erano stati fatti propri in tempi vicini a noi da Marx e dai rivoluzionari da lui ispirati. Non solo nelle mie intenzioni ma neppure nelle conclusioni, io credo, si possono trovare elementi per una criminalizzazione. Ho già dichiarato che per poco non divenni comunista; se lo fossi diventato, non per questo sarei entrato nella schiera dei criminali. Credo che i due volumi, editi da Einaudi, che raccolgono le Lettere dei condannati a morte della Resistenza - uno dei quali curati da Giovanni Pirelli, fratello del «capitalista» - costituiscano una fra le più nobili testimonianze a favore dell'uomo; e molti fra quei condannati erano comunisti. Tutto ciò non toglie assolutamente nulla a quegli uomini ed a quelle donne e alla loro esperienza, ma non fa che aggravare le responsabilità di Marx, mosso più da un luciferino orgoglio intellettuale che da amore per i proletari; i quali, a differenza del suo amico Engels, non conosceva neppure. Il punto è che, se ci convinciamo che la dottrina di Marx, in quanto dottrina rivoluzionaria, è radicalmente erronea ed ha provocato immani disastri, dobbiamo proclamarlo a gran voce, anche se siamo stati comunisti, anche se dobbiamo far valere la nostra buona fede, richiamando alla nostra stessa memoria, per non veder scemare neppure di poco la stima di noi stessi, le azioni positive e socialmente utili che possiamo aver compiute. In una tale denuncia non ci deve far velo nessuna considerazione emotiva o affettiva. Non c'è dubbio: una critica che può colpire persone che stimiamo profondamente e che in qualche caso sono anche nostri cari amici, come anche un'autocritica, ci costa. Ma solo così, io credo, possiamo restare fedeli al nostro mestiere di intellettuali.


La posizione della sinistra verso le piccole imprese

La scarsa considerazione per le piccole imprese da parte di molti esponenti della sinistra politica e sindacale può essere in una certa misura riconducibile alla tesi marxista della progressiva concentrazione delle imprese. Questa tesi non è erronea in sé. Per un lungo periodo, a partire dalla fine del secolo scorso, si è osservata una tale tendenza in diversi rami dell'industria e della finanza, anche se negli ultimi due decenni essa, a quanto pare, si è arrestata o si è addirittura capovolta. L'errore sta nell'interpretazione di tale tendenza, che cioè le grandi e grandissime imprese sarebbero destinate a dominare un numero crescente di mercati e a condizionare in misura crescente il potere politico, al livello interno e nei rapporti internazionali; questa è l'interpretazione che può essere ricondotta a Marx e a Lenin. C'è poi l'interpretazione di Schumpeter, secondo il quale la capacità d'innovare tende a essere sempre più una prerogativa delle grandi imprese. Entrambe le interpretazioni vanno respinte, non perché - mi riferisco a Marx e a Lenin - le grandi imprese non contino, ma perché non è vero che abbiano un peso crescente e non è vero che in paesi democratici gruppi sociali diversi, come quelli rappresentati dai militari, dagli intellettuali e da organizzazioni politiche, siano puramente subordinati ai gruppi economici - certe volte è vero il contrario -. Quanto all'interpretazione di Schumpeter, appare ormai evidentemente infondata la tesi secondo cui le piccole imprese avrebbero avuto un ruolo sempre più marginale nel campo essenziale delle innovazioni; non di rado, il loro ruolo è invece di primaria importanza. (Conviene notare che la teoria della concentrazione costituisce una delle basi della teoria leninista dell'imperialismo.)
La tesi del processo di concentrazione poteva indurre, come ha indotto, i marxisti a considerare con freddezza, ma non necessariamente con avversione, le piccole imprese. Una certa avversione è riconducibile al marxismo per via dell'«antagonismo di classe», che nelle piccole imprese è affievolito o annullato. E riscontrabile, specialmente nel passato, una notevole freddezza non solo da parte dei marxisti ma anche della sinistra non marxista; presumibilmente una delle ragioni sta nel fatto che la forza dei sindacati di norma è maggiore nelle grandi che nelle piccole imprese e, sia pure in misure e con caratteristiche diverse secondo i paesi, i sindacati hanno influenza sui partiti e sulla vita politica. Abbiamo tuttavia in Italia una situazione che appare in contrasto con le osservazioni appena espresse: in Emilia e in altre zone del Centro-Nord hanno prevalso a lungo i partiti di sinistra di tipo marxista e, in particolare, i comunisti, eppure le piccole imprese hanno avuto uno sviluppo molto notevole e, non di rado, sono state create da ex operai specializzati che erano e sono poi rimasti comunisti. Il paradosso si spiega tenendo conto che la «pace sociale», che nelle piccole imprese quasi sempre s'instaura, per motivi strutturali, ha decisamente favorito lo sviluppo di quelle imprese, con vantaggi sia dei lavoratori che dei «capitalisti». D'altra parte, anche in questo caso è rimasta una notevole ambiguità: nei fatti - e soprattutto nei fatti riguardanti le zone cui alludevo dianzi - l'atteggiamento del Partito comunista verso le piccole imprese era sostanzialmente favorevole, ma in via di principio, al livello della politica economica nazionale, restava la freddezza, se non proprio l'ostilità.
Con la costituzione del Partito democratico della sinistra le cose sono alquanto cambiate; ma il cambiamento resta ancora in superficie.


Le formule partecipative

Fra i residui perniciosi del marxismo sul piano della politica economica vanno annoverati i residui che si manifestano nell'avversione a tutte le formule che, in senso lato, possiamo definire partecipative. Fra queste possiamo considerare: le integrazioni retributive e i premi collegati con gli aumenti di produttività o di profittabilità delle imprese, la partecipazione agli utili, varie forme di partecipazione alla gestione, l'azionariato dei lavoratori e, più ampiamente, il cosiddetto azionariato popolare. Il motivo dell'avversione sta nel fatto che tutte queste forme partecipative comportano collaborazione fra lavoratori dipendenti e capitalisti; ma non si può collaborare col «nemico di classe»: è un peccato, se non un tradimento. Ora, che le forme appena ricordate possano prestarsi ad abusi, non c'è alcun dubbio; ma se dovessimo rifiutare ogni forma o formula che comporta il pericolo di abusi, non potremmo fare assolutamente nulla al mondo - e non solo nel mondo delle imprese -. D'altra parte, il pericolo di abusi era relativamente elevato alcuni decenni or sono, quando il livello d'istruzione dei lavoratori dipendenti era relativamente basso e quando i sindacati non disponevano di uffici studi bene attrezzati. Oggi le cose sono cambiate, ma quell'avversione persiste, sia pure solo come residuo di una dottrina politicamente perniciosa.


Lotta di classe e odio di classe

Sia nel caso delle piccole imprese sia in quello delle forme partecipative affiora quello che considero l'elemento peggiore del marxismo: la predicazione dell'odio di classe che nell'originaria dottrina marxista doveva servire ad accelerare lo scontro finale e ad alleviare i dolori del parto, nella fideistica certezza che la rivoluzione era inevitabile e quindi quanto più fosse violenta e rapida tanto meglio sarebbe stato. Ora, è più che evidente che fra capitalisti e lavoratori dipendenti non vi è necessariamente armonia d'interessi: gli scioperi non infrequenti neppure nei paesi in cui la dottrina marxista ha avuto assai pochi seguaci e dove nessuno parla di rivoluzione, bastano a dimostrare che i conflitti d'interesse ci sono e a volte sono aspri. Ma gli interessi non sono sempre e necessariamente in conflitto, come appare chiaro quando è in gioco la sopravvivenza stessa dell'impresa o quando si adotta l'una o l'altra delle forme partecipative di cui si è detto, con un successo che in molti casi è netto.
Nel progetto rivoluzionario di Marx «non pomi v'eran ma stecchi con tosco» - per usare le parole del grande poeta -. Lo stecco più velenoso è senza dubbio quello dell'odio di classe considerato come la leva indispensabile per attuare la nuova società.
Se si riconosce che le linee di politica economica richiamate sopra sono nell'interesse dei lavoratori, dipendenti o indipendenti, allora si deve attribuire al marxismo la responsabilità di averle ostacolate, col risultato che alcune di quelle linee sono state adottate, almeno parzialmente, dalla destra, mentre era ed è nell'interesse della sinistra adottarle e svilupparle, ammesso che questa parte politica sia particolarmente sollecita verso gli interessi dei lavoratori. Mi auguro che coloro che hanno a cuore il rinnovamento della cultura di sinistra - compresi coloro che accoglievano il messaggio marxista nel suo complesso - approfondiscano la critica non solo al fine di utilizzare gli aspetti analitici validi, ma anche per individuare altri residui passivi, che spesso non sono evidenti e sono rintracciabili non solo a sinistra, ma anche a destra.


Marx e Machiavelli

La raccomandazione che Marx rivolge al primo nucleo del Partito comunista tedesco - «agite gesuiticamente» eccetera - merita qualche commento. Si tratta di una raccomandazione tipicamente machiavellica, che nel nostro paese, abituato da tempo immemorabile a rispettare ed ammirare i punti di vista del grande segretario fiorentino, non fa scandalo. Dico che ciò è male. Dico che il machiavellismo rappresenta una tabe gravissima della cultura politica del nostro paese, che - andando ben oltre, è vero, le idee originarie - è servita a giustificare ogni sorta di delitti e di imbrogli e quindi ha decisamente contribuito a renderli molto più diffusi di quanto altrimenti sarebbero stati; una tabe che ha contagiato non pochi politici e intellettuali sia fra i laici che fra i cattolici - in questo secondo caso lo sconcerto è anche maggiore, data la pretesa dei cattolici di essere portatori di una moralità più ampia e più elevata di quella dei laici.
Per evitare di dar esca a complicate e inconcludenti discussioni filosofiche, mi limito ad affermare che il mio punto di vista coincide con quello espresso, in termini quanto mai pacati e concreti, dal mio economista e filosofo preferito, Adamo Smith, il quale, riferendosi al ben noto massacro dei rivali perpetrato, a tradimento, da Cesare Borgia, nella Teoria dei sentimenti morali (parte VI, sez. II) così scrive:
Machiavelli, uomo in effetti di moralità non troppo scrupolosa anche per i suoi tempi, faceva parte della corte di Cesare Borgia, quale rappresentante della Repubblica di Firenze, quando il delitto fu perpetrato. Egli ne dà una descrizione molto dettagliata in quella lingua pura, elegante e semplice che contraddistingue tutti i suoi scritti. Ne parla con molta freddezza, si compiace dell'abilità con cui Cesare Borgia lo orchestrò, mostra molto disprezzo per l'ingenuità e la debolezza delle vittime, ma nessuna compassione per la loro triste e prematura morte, nessun genere di indignazione per la crudeltà e la falsità del loro assassino.
Se l'umanità deve consistere di esseri civili e non di selvaggi e di assassini, certi valori morali debbono essere rispettati: è un'affermazione che Salvemini esprime in un articolo pubblicato nella rivista «Il Ponte» del 1952; la condivido in pieno.
Posto che si voglia avanzare sulla via dell'incivilimento, allora nessun fine, neppure l'unità politica di un grande paese, neppure il riscatto del proletariato, può giustificare l'abbandono di quei valori. Altrimenti l'unità nazionale, pur se la si ottiene, diviene unità di una palude melmosa e il riscatto del proletariato si trasforma nel suo opposto: i mezzi deturpano il fine in modo molto difficilmente rimediabile.

Continua >>>>>