La
crisi italiana
di Paolo Sylos Labini
|
- Le
origini della crisi
La crisi
ideologico-politica,
Tare antiche
e recenti della società italiana,
La crisi
economica e finanziaria,
Stato e
mercato,
Mutamenti
della struttura sociale,
La fluidità
della situazione politica,
Le prospettive,
- Bisogna
fare i conti con Marx
Le responsabilità
di Marx,
Marx: le
tesi erronee e le tesi analiticamente feconde,
Marx e i
comunisti,
La posizione
della sinistra verso le piccole imprese,
Le formule
partecipative,
Lotta di
classe e odio di classe,
Marx e Machiavelli,
- La
legge finanziaria, il rovesciamento della scala di priorità e il conflitto
d'interessi
Economia
reale ed economia finanziaria,
La legge
finanziaria,
Le critiche
al governo Berlusconi,
Obiezioni
ad una interpretazione moralistica,
Un'obiezione
politica,
|
- La
riforma dello stato sociale
Insegnamenti
utili per il futuro,
Tre grandi
aree di spesa,
La posizione
dei sindacati,
- Una
politica per accelerare la crescita dell'occupazione e lo sviluppo
civile del Mezzogiorno
La crescita
dell'occupazione,
La creazione
di nuove imprese,
Lo sviluppo
civile nel Mezzogiorno,
Il livello
d'istruzione dei lavoratori,
L'andamento
dell'occupazione negli ultimi quarant'anni,
- La
scuola, la ricerca scientifica e la qualità del lavoro
Una condizione
preliminare per riorganizzare il sistema scolastico,
Riflessioni
sulla riforma universitaria,
I gravi
problemi della ricerca,
|
1. LE ORIGINI DELLA CRISI
Quella che stiamo vivendo
è una crisi grave e sconcertante. Molti pensavano che l'Italia stava uscendo
da un periodo oscuro, dominato da numerosi sintomi di degenerazione, fra cui
una dilagante corruzione, per entrare in tempi brevi in una fase di miglioramento
politico e sociale. Finora di questo miglioramento non c'è alcuna indicazione,
anzi, pare che sia in atto un grave peggioramento: aumenta giorno per giorno
il numero di coloro che si vanno convincendo che siamo caduti dalla padella
nella brace (con diversi elementi positivi a favore della padella).
Lo svolgimento ha preso avvio poco meno di tre anni fa dalle inchieste aperte
da alcuni giudici di Milano sulle così dette tangenti - che sarebbe più corretto
definire secanti, come mi faceva notare un amico matematico -; le inchieste,
oramai passate alla storia col nome di Tangentopoli, sono tuttora in corso.
Per cercare di comprendere quel che sta accadendo in un modo non superficiale
dobbiamo cercare di andare oltre gli eventi contingenti e di considerare la
crisi in atto adottando una prospettiva più ampia. A questo scopo possiamo prendere
le mosse dalla concezione di Adamo Smith, il quale, prima di essere un economista,
era un filosofo.
Secondo Smith, per cercare di comprendere l'evoluzione di una determinata società
conviene studiare tre aspetti: cultura, istituzioni ed economia. Interpretando
Smith, possiamo dire che la cultura comprende l'istruzione, l'etica, le abitudini,
le idee e le ideologie prevalenti nella società. Le istituzioni comprendono
le forme organizzative e l'assetto giuridico della società sia nella sfera del
diritto pubblico che in quella del diritto privato. L'economia in senso proprio
comprende le risorse naturali e la posizione geografica e riguarda la produzione
e il commercio dei beni e le relazioni che si stabiliscono fra gli uomini nelle
attività produttive e commerciali. I tre aspetti vanno visti unitariamente;
così, la crescita della produzione e degli scambi è fortemente condizionata,
anche se non puntualmente determinata, dall'evoluzione della cultura e delle
istituzioni.
In questo periodo in Italia stiamo vivendo una crisi multipla: ideologico-politica,
istituzionale ed economica.
La crisi ideologico-politica
Durante il secolo che
ora volge al termine l'intera umanità, in un modo o nell'altro, ha vissuto uno
dei drammi più terribili della storia moderna. Al centro di questo dramma troviamo
il marxismo, che ha contribuito alla nascita dell'Unione Sovietica e in certi
paesi, per reazione, alla comparsa di regimi fascisti. Soprattutto dopo la seconda
guerra mondiale l'Unione Sovietica, sulla base della dottrina dell'imperialismo
di derivazione marxista, si è contrapposta a paesi retti da sistemi liberaldemocratici.
Il conflitto fra i paesi guida dei due blocchi, Usa e Urss, non era solo ideologico:
era anche istituzionale ed economico. Ed è essenzialmente sul piano economico
che si è concluso, nel modo che tutti conoscono: la data simbolica è quella
in cui è stato abbattuto il muro di Berlino. Sebbene la Cina per ora non abbia
cambiato il sistema politico, ha certamente cambiato il sistema economico, che
non può essere più definito come un sistema a pianificazione centralizzata.
I mutamenti che stanno avendo luogo nel mondo dopo la caduta del muro di Berlino
sono enormi. Il conflitto aveva condotto l'umanità assai vicino all'olocausto
nucleare ed aveva dato origine a una divisione in due grandi zone d'influenza
di tutti i continenti, eccettuata l'Oceania.
I confini di queste due zone non sono rimasti stabili nel tempo; tutt'altro.
Fra i cambiamenti più significativi, attuati o tentati, ricordo quelli avvenuti
in Arabia (Yemen del Sud), in Africa (Mozambico e Angola), nell'America centrale
e meridionale (Cuba, Nicaragua, Cile). In tutti i paesi appena nominati larghe
parti delle popolazioni hanno spinto o favorito i cambiamenti che portavano
verso la sfera d'influenza sovietica. Era la speranza di cospicui miglioramenti
economici che spingeva in tale direzione quelle persone, che di norma facevano
parte dei «dannati della terra». Ma i cambiamenti hanno gravemente deluso le
aspettative: venuta meno la tutela sovietica le popolazioni di quei paesi si
sono trovate, se possibile, perfino peggio di prima. Per l'America latina non
pochi intellettuali di sinistra sostenevano che gli interventi che il governo
degli Stati Uniti attuava per contrastare o impedire l'avvento al potere di
partiti filocomunisti andavano attribuiti ai disegni reazionari e antipopolari
di quel governo. Nella realtà gli interventi, non di rado durissimi, erano dovuti
alla preoccupazione - se si vuole, all'angoscia - che l'avvento al potere di
partiti filocomunisti potesse aprire la porta all'influenza o addirittura al
controllo dell'Unione Sovietica, come del resto era accaduto a Cuba.
La verità è che la cosiddetta guerra fredda è stata combattuta senza esclusione
di colpi. Ciascuno dei due contendenti usava anche l'arma dei finanziamenti
dei partiti amici. Come di recente è risultato evidente, i finanziamenti erano
clandestini; e ciò non poteva non alimentare pratiche di corruzione. Questo
è accaduto in tutti o quasi tutti i paesi dell'Alleanza atlantica; ma è accaduto
in forme particolarmente accentuate nei paesi, come l'Italia e la Grecia, in
cui più forti erano i partiti collegati con l'Unione Sovietica. I comunisti
dovevano restare fuori dal potere a tutti i costi, anche a costo - era questo
il modo di vedere dei servizi segreti, impropriamente detti deviati, stranieri
e italiani - di promuovere stragi e assassinii. (La degenerazione dei servizi
segreti, per forza d'inerzia, è sopravvissuta alla spinta che l'aveva determinata.)
All'interno della politica italiana s'era creato un complesso politico-mafioso-terroristico:
all'origine troviamo la strategia anticomunista, anche se in seguito le motivazioni
si sono ampliate e complicate. Le azioni volte a scongiurare l'ingresso dei
comunisti nell'area del potere si intensificarono quando sembrò profilarsi un'intesa
tra i due nemici storici, Democrazia cristiana e Partito comunista. La corruzione
alligna in tutti i paesi e in tutti i tempi; e l'Italia, per quel che è dato
sapere, non ha mai fatto eccezione. Non c'è dubbio, però, che negli ultimi due
decenni la corruzione in Italia ha avuto un'accelerazione impressionante. L'ipotesi
più probabile è che l'avvio di tale processo abbia avuto una motivazione essenzialmente
politica - i finanziamenti clandestini servivano soprattutto ai partiti dei
due schieramenti -. Una volta avviato, tuttavia, il processo si è autoalimentato
e quella motivazione politica ha perduto d'importanza, anche se è venuta meno
solo dopo la caduta del muro di Berlino. Sono invece aumentate d'importanza,
da un lato, l'esigenza di finanziare apparati di partito ormai pletorici e,
dall'altro, la spinta verso l'arricchimento personale di un crescente numero
di dirigenti politici e d'intermediari.
Diversi intellettuali ed alcuni uomini politici hanno riconosciuto la connessione
fra azione anticomunista e corruzione; tuttavia, ben di rado hanno fatto riferimento
all'altra linea, più feroce, della stessa azione: stragi, assassinii ed uso
politico delle organizzazioni criminali, come la mafia. Qualcuno si è spinto
fino al punto di giustificare una tale condotta, con l'argomento che una condotta
pulita avrebbe consentito ai comunisti di prendere il potere. Una tale giustificazione
non è ammissibile non solo e non tanto perché quel rischio in Italia non è mai
stato veramente grande, quanto perché non possiamo, per amore della vita, perdere
le ragioni di vivere - è la splendida regola etico-politica che Giovenale esprime
nella sua ottava satira e che vale per tutti, anche per i più convinti anticomunisti.
Oggi diversi giudici stanno facendo esplodere una serie di scandali: stanno
mettendo sotto i riflettori un gigantesco letamaio, nel quale si sono rotolati
per anni, come se fosse un prato grazioso, molti uomini politici e molti uomini
di affari. Occorre notare che quando, diversi anni fa, alcuni giudici hanno
cercato di perseguire quegli uomini politici che si distinguevano nella corruzione
e in altre attività criminose, sono stati rapidamente bloccati da quei personaggi,
un tempo potenti; altri giudici hanno attuato una sorta di autocensura per il
timore che il partito filosovietico menasse scandalo e in tal modo traesse vantaggio
politico. I valori etici, si è detto, dormivano; si deve aggiungere che il sonno
era profondo perché era stato somministrato un potente sonnifero. Il fatto che
da un certo punto in poi, specialmente dopo che erano venuti meno i finanziamenti
dell'Unione Sovietica, lo stesso Partito comunista sia entrato nel giro della
corruzione - nel giro delle cosiddette tangenti - non è affatto in contrasto
con la diagnosi ora abbozzata.
E bene che sia chiaro: non intendo attribuire l'estendersi della corruzione
soltanto e neppure prevalentemente alla guerra fredda. Il Giappone, paese che
non ha avuto nel suo interno un forte partito comunista, ma dove la corruzione
è stata e a quanto pare è tuttora ampia, dimostra che una tale diagnosi sarebbe
monca (l'unica analogia sta forse nel lungo predominio di un solo partito).
Intendo tuttavia affermare che la guerra fredda ha contribuito ad aggravare
in misura rilevante le spinte degenerative: a differenza del Giappone, la stessa
assenza, per molti anni, del ricambio politico è imputabile alla guerra fredda.
Sono poi da considerare la personalità, totalmente amorale, di certi uomini
politici ed il consumismo, che ha favorito le tendenze e le tentazioni al rapido
arricchimento.
Tare antiche e recenti della società italiana
Lo sviluppo del capitalismo
in Italia è stato tardivo. I paesi ritardatari, nella fase iniziale, sono costretti
a concentrare le loro risorse sulle grandi infrastrutture - che comprendono
le ferrovie - e sulle industrie pesanti, come la siderurgia (la quale riceve
un particolare impulso se il governo attribuisce un'elevata priorità agli armamenti).
Ma infrastrutture e industria pesante in un paese ritardatario, per definizione
economicamente molto arretrato, con pochi imprenditori moderni e con un mercato
molto ristretto, esigono un robusto intervento pubblico. Di qui due caratteristiche
del capitalismo italiano, come anche di quello di diversi altri paesi ritardatari.
La prima consiste in una spaccatura fra poche grandi imprese moderne direttamente
o indirettamente sostenute dallo Stato, e piccole imprese, che restano a lungo
di tipo tradizionale e sono quindi assai poco dinamiche; la seconda caratteristica
è data dalla commistione tra pubblico e privato in economia con i connessi gravi
rischi di abusi e corruzione. In Italia la spaccatura fra grandi e piccole imprese
e la commistione tra pubblico e privato divennero ancora più accentuate durante
la prima guerra mondiale, per via delle commesse militari, e poi nelle vicende
che seguirono la crisi del 1929, che costrinse il governo a compiere numerosi
salvataggi di grandi banche e grandi imprese.
Sotto l'aspetto civile, occorre tener ben presente che sino al 1912 in Italia
c'era, bensì, una libertà politica degna di considerazione, ma la democrazia
era assai circoscritta. Aveva diritto al voto poco più di un decimo della popolazione.
Nel 1913 il suffragio divenne più ampio - il diritto di voto fu esteso a circa
un quinto della popolazione, che era tuttavia pur sempre una minoranza -.In
quel tempo la stragrande maggioranza degli italiani era analfabeta o semi-analfabeta.
Dopo due anni venne la guerra e poi il fascismo.Pertanto, nel nostro paese la
democrazia è un fenomeno relativamente recente.
Tutto questo ha favorito una situazione di non partecipazione o di separatezza
tra classe politica e popolazione. Fino alla prima guerra mondiale tale separatezza
non fomentò, come era possibile, una diffusa corruzione nella vita politica
ai più alti livelli poiché in quel tempo di regola - ma non sono rare le eccezioni
- si dedicavano alla politica membri di cospicue famiglie borghesi o dell'aristocrazia
terriera, tutte persone che non pensavano certo alla politica come mezzo per
migliorare le loro condizioni economiche o addirittura per arricchirsi. Diversamente
stavano le cose al livello politico locale, soprattutto nel Mezzogiorno, come
il meridionale Gaetano Salvemini mise spietatamente in evidenza in scritti famosi,
ed in certe porzioni dell'economia, specialmente là dove aveva luogo la commistione
cui ho accennato. In politica, almeno al vertice, gli standard morali erano
relativamente buoni.
Con la prima guerra mondiale, soprattutto attraverso i gradi intermedi dell'esercito,
e subito dopo la guerra, entrano tumultuosamente sulla scena sociale e politica
schiere di persone appartenenti alla media e piccola borghesia (specialmente
piccola borghesia impiegatizia), schiere già in espansione e la cui crescita
riceve un vigoroso impulso dalla guerra. Qui non sono rari purtroppo gli individui
famelici e di moralità scadente - la fame si rivolge non solo verso il danaro,
ma anche verso il potere e l'influenza sociale -; per affermarsi, questi individui
vanno sia a destra che a sinistra, e sia all'estrema destra che all'estrema
sinistra. Le violente lotte sociali nel primo dopoguerra, l'angoscia per il
bolscevismo, l'ascesa del fascismo sono da considerare in questo quadro.
La separatezza fra popolazione e classe politica diventa acuta con la dittatura
fascista e la corruzione si estende soprattutto fra gli alti gerarchi. Diviene
tuttavia galoppante dopo la seconda guerra mondiale e specialmente negli ultimi
vent'anni. Come in ogni paese che perde una guerra, la sconfitta che conclude
la seconda guerra mondiale rappresenta un trauma grave per l'intera società.
Nel nostro paese il trauma è stato gravissimo non solo per le sofferenze di
ogni genere ma anche per l'impressionante contrasto fra retorica militaresca
e imperialistica e penosa realtà, un contrasto messo a nudo prima dall'assai
infelice campagna di Grecia e poi dalla tragica spedizione in Russia. Il trauma
non è stato ancora superato ed è rimasta, almeno in parte, quella scarsa fiducia
in se stessi che spinge molti italiani ad atteggiamenti spietatamente autocritici,
che stupiscono non pochi stranieri. Finita la guerra nel modo tragico e vergognoso
che ben conosciamo - la catastrofe non fu solo militare, ma anche politica e
morale - numerosi giovani si rivolsero al Partito comunista, che usciva da quella
spaventosa esperienza con grande prestigio grazie alle persecuzioni subìte e
grazie alla Resistenza, che li aveva visti fra i più impegnati. Quei giovani,
come molti altri, che si rivolgevano ad altri partiti avevano l'ansia di rinnovare
radicalmente una società di cui la guerra aveva rivelato tare gravissime. Al
tempo stesso, tutti coloro che aborrivano i comunisti e coloro che ad essi sembravano
alleati o affini, si rivolgevano in gran parte verso la Democrazia cristiana
che, grazie soprattutto al capillare sostegno anche organizzativo della Chiesa
cattolica, si presentava come il «baluardo contro il comunismo».
Lo scontro di cui ho parlato va visto in un tale contesto.
La crisi economica e finanziaria
Fra le tre aree di Smith
- cultura, istituzioni, economia - non sussistono paratie stagne; e gli stessi
problemi economici che oggi affliggono il nostro paese sono in vari modi collegati
con la crisi ideologico-politica e con la crisi istituzionale. L'incubo del
nostro paese e della classe politica è costituito dall'enorme debito pubblico;
esso rappresenta anche il principale ostacolo al nostro pieno ingresso in Europa.
Il debito pubblico ha raggiunto le dimensioni che conosciamo anche per effetto
dei prezzi pagati per fini di stabilizzazione sociale e politica. Lo stato sociale
s'inseriva in una tendenza comune a tutti i paesi industrializzati; ma in Italia
esso ha assunto i connotati assistenziali e clientelari che conosciamo - sia
rispetto agli utenti sia nell'ambito dei pletorici apparati che lo amministrano
- perché nella pratica politica i fattori cui accennavo hanno avuto un peso
di rilievo.
Al fabbisogno finanziario derivante dai disavanzi di bilancio lo Stato fa fronte
con la vendita di titoli pubblici: non occorre aderire alla teoria monetarista
per riconoscere che disavanzi sistematicamente finanziati con la stampa di biglietti
aggravano l'inflazione. Difatti, oramai da tempo i governi evitano di seguire
questa strada. Anno per anno però il disavanzo tende a crescere a causa del
crescente onere per interessi, salvo che non si attuino adeguati tagli di spesa
o non si accrescano i tributi - due vie politicamente assai difficili da percorrere
-. Se, com'è accaduto in Italia da parecchi anni, il disavanzo complessivo aumenta
ed aumenta il volume dei titoli da vendere, il tasso dell'interesse subisce
una spinta verso l'alto, per convincere i risparmiatori a cedere allo Stato
una parte cospicua dei loro risparmi. Il volume dei titoli da vendere è dunque
il primo determinante del tasso dell'interesse. Il secondo determinante è costituito
dall'intensità della pressione inflazionistica. Un terzo determinante è di carattere
internazionale: per sostenere la quotazione della lira rispetto alle altre monete
e contrastare l'inflazione importata occorre mantenere l'interesse ad un livello
tale da scoraggiare l'esodo di capitali e, se occorre, da attirare capitali
dall'estero. Cosicché, se nei paesi con cui abbiamo relazioni commerciali e
finanziarie l'interesse tende a flettere, una tale flessione imprime una spinta
verso il basso anche all'interesse interno, com'è accaduto fino a pochi mesi
fa. Tuttavia, se cresce la massa dei titoli da vendere, è ben difficile che
possa aver luogo una significativa riduzione dell'interesse. Ora, un interesse
relativamente alto ha conseguenze negative sia sugli investimenti pubblici che
su quelli privati. Sui primi un alto interesse ha conseguenze negative poiché,
quando la massa dei titoli da vendere è grande e crescente, il gravoso onere
per interessi induce il governo a comprimere tutte le spese che politicamente
possono essere compresse, a cominciare dalle spese per investimenti. Quanto
al settore privato, un alto interesse decurta i profitti netti e in questo modo
frena gli investimenti. Ma gli investimenti rappresentano la molla principale
dello sviluppo: bassi investimenti comportano uno sviluppo basso o nullo. Proprio
per questo motivo un aumento dell'interesse a breve a volte è usato dalla banca
centrale per indurre sindacati e associazioni padronali a contenere gli aumenti
dei salari.
In tutti i paesi industrializzati dal 1989 e fino all'autunno del 1993 le economie
si sono dibattute in una situazione vicina al ristagno e la schiera dei disoccupati
è decisamente aumentata. Dall'autunno del 1993 si è profilata una ripresa economica
internazionale, che ha ridotto in misura sensibile la quota dei disoccupati
negli Stati Uniti, dove la ripresa è stata netta, mentre l'ha ridotta molto
poco in Europa e, in particolare, in Italia. Bisogna osservare che la disoccupazione
può aumentare anche quando la produzione non diminuisce, per effetto dell'aumento
della produttività, che procede quasi senza interruzione anche quando c'è ristagno.
Bisogna anche osservare che un certo ammontare di disoccupati è fisiologico,
giacché si ricollega al tempo occorrente, per i giovani, per cercare un impiego
e, per tutti, per cambiare lavoro. La disoccupazione raggiunge e supera livelli
patologici quando il tempo per la ricerca e il cambiamento diviene molto lungo.
In questo dopoguerra si è notato che la disoccupazione fisiologica - o «di attrito»
- che permane anche in condizioni di sostenuta espansione, è andata crescendo,
essenzialmente perché, con l'aumento del livello medio d'istruzione e col miglioramento
delle condizioni economiche delle famiglie, coloro che desiderano trovare o
cambiare occupazione sono in grado di attendere più a lungo. Quando c'è ristagno
cresce la divergenza fra lavori desiderati e lavori disponibili; e poiché ben
difficilmente un laureato o un diplomato accetterà un posto di lavapiatti o
di facchino nei mercati generali, la disoccupazione non potrà non aumentare.
Né giova affermare che la disoccupazione non esisterebbe se tutti fossero disposti
ad accettare qualsiasi lavoro, giacché la divergenza cui ho accennato denuncia
un problema genuino. Problemi di tal genere sono frequenti soprattutto nel Mezzogiorno
d'Italia.
Più in generale, occorre osservare che da circa vent'anni la velocità della
crescita è diminuita in tutti i paesi industrializzati (in Italia il saggio
di aumento annuale medio del prodotto lordo è sceso dal 5,5% al 2,5%): effetto,
questo, di diversi fattori, tra cui è da ricordare la sempre più vigorosa concorrenza
mossa, in modo diretto o indiretto, da un numero crescente di paesi del Terzo
mondo, sia in certe produzioni di base, come l'acciaio e la chimica, sia in
diverse produzioni di beni di consumo, come i prodotti tessili e le calzature.
Per i paesi industrializzati la via maestra per contrastare gli effetti negativi
di tale concorrenza è di accelerare la crescita delle produzioni ad alta tecnologia,
ciò che comporta un'intensificazione degli sforzi per la ricerca. In questo
campo l'Italia è in grave ritardo.
Stato e mercato
Oggi hanno luogo vivaci
discussioni sulla contrapposizione fra Stato e mercato; ma le difficoltà hanno
riguardato sia i paesi che si sono posti sulla via della privatizzazione sia
paesi decisamente statalisti, come l'Italia. Il problema della riduzione dell'area
pubblica a favore di quella privata appare al centro della crisi ideologica
e degli scontri politici del nostro tempo. La questione sembra particolarmente
importante nel nostro paese, dove l'area pubblica è fra le più estese dei paesi
industrializzati - mettendo da parte, beninteso, i paesi che facevano parte
del socialismo reale, nei quali la questione si pone in termini profondamente
diversi.
Quando si mettono in risalto i vantaggi del mercato in contrasto con l'azione
pubblica nella vita economica generalmente si fa riferimento a quella rete sistematica
di scambi in cui sia la domanda che l'offerta fanno capo a tanti soggetti privati
ed i prezzi si formano in modo spontaneo e impersonale; in altre parole, si
fa riferimento ad un mercato in concorrenza bilaterale. Non è di questo genere
un mercato in cui l'offerta ovvero la domanda è controllata da un soggetto solo,
sia esso privato o pubblico, ovvero quello in cui è lo Stato che controlla il
prezzo. Tenendo conto di tali restrizioni, non possono essere considerati come
mercati che si autoregolano ed in cui il prezzo dipende impersonalmente dall'azione
di tanti e tanti soggetti:
- il mercato del lavoro,
la cui forma si approssima al monopolio bilaterale e nel quale, per di più,
in certi paesi, come il nostro, è rilevante l'intervento pubblico;
- il mercato delle aree
fabbricabili, dove l'offerta è fortemente condizionata dall'autorità pubblica;
- il mercato delle opere
pubbliche, in cui è la domanda ad essere condizionata dall'autorità pubblica;
- il mercato di beni
e servizi che presuppongono concessioni da parte di autorità pubbliche,
come ad esempio i telefoni, le acque minerali, le emittenti televisive e
radiofoniche;
- il mercato dei beni
prodotti in regime di monopolio naturale, come l'energia elettrica;
- i mercati di diversi
prodotti industriali, come le armi e i prodotti farmaceutici, richiesti
in misura significativa da organismi pubblici;
- i mercati di molti
prodotti agricoli, i cui prezzi sono in qualche modo regolati dall'autorità
pubblica, anche per effetto di accordi internazionali, come quelli del Mercato
comune europeo.
I mercati del credito sono
condizionati non solo dalla banca centrale, che è un organismo pubblico, ma,
più fondamentalmente, dall'autorità pubblica, che spesso controlla, attraverso
pacchetti azionari di maggioranza, numerosi istituti di credito. Analogamente,
sono controllate dall'autorità pubblica diverse grandi imprese industriali,
società di assicurazione, di trasporto, di comunicazione. La scuola, la ricerca,
la sanità sono attività in misura più o meno ampia - spesso molto ampia - gestite
o controllate da autorità pubbliche. A conti fatti, sembra che il mercato operi
pienamente solo nell'area, pur vasta, delle piccole imprese e nell'area delle
medie e grandi imprese nei settori aperti alla concorrenza internazionale, anche
se, in queste come in altre aree, sono relativamente frequenti i dazi, i sussidi
per interessi e i trasferimenti in conto capitale a favore delle imprese che
a rigore alterano il libero gioco del mercato.
E dunque lo Stato e non il mercato che oggi domina la vita economica? Per l'economia
italiana, la risposta sembra affermativa. Ma in una certa misura la domanda
si pone anche per gli Stati Uniti, la roccaforte del capitalismo. In effetti,
se le spese pubbliche in Italia rappresentano quasi la metà del reddito nazionale
- una quota solo limitatamente più alta che negli altri paesi europei -, negli
Stati Uniti la quota, tutt'altro che modesta, è di circa il 35%; in quel paese
è molto minore l'incidenza delle spese sociali, mentre è maggiore quella delle
spese militari - in quel paese ha tuttora gran peso politico, oltre che economico,
il così detto complesso militare-industriale -. E indubbio però che, nell'ambito
dei paesi industrializzati, da noi l'intervento pubblico sia fra i più estesi.
Perché? Le ragioni sono diverse. Ho già osservato che il capitalismo moderno
in Italia ha cominciato a svilupparsi con ritardo ed ha avuto bisogno fin da
principio di interventi pubblici particolarmente robusti. Altri interventi,
come quelli che portarono alla creazione delle acciaierie di Terni o alla costruzione
di certi rami ferroviari, sono stati motivati, più che da ragioni economiche,
da esigenze strategiche e militari. La statizzazione di diverse grandi banche
e di grandi imprese industriali ha ricevuto un forte impulso dalla crisi economica
che ebbe inizio nel 1929, che stava provocando fallimenti a catena. Per bloccare
un tale fenomeno, che dava origine ad un aumento enorme della disoccupazione,
lo Stato è intervenuto ed ha salvato numerose grandi imprese e grandi banche.
Il dichiarato intento era di restituire quelle imprese all'iniziativa privata
appena possibile. Ma per decenni sono state operate privatizzazioni solo in
via eccezionale. Anzi, sono stati compiuti nuovi salvataggi e non pochi industriali
e banchieri privati hanno sollecitato nuove statizzazioni. Abbiamo poi avuto
due casi - petrolio ed elettricità - in cui l'intervento pubblico è stato compiuto
perché si trattava di settori strategici per lo sviluppo economico. Infine,
in Italia l'allargamento dell'intervento pubblico è stato favorito da correnti
dottrinarie diverse, come la dottrina sociale cristiana, il keynesismo, il corporativismo,
il marxismo.
E necessario mettere bene in chiaro che le spinte provenienti dall'economia
o dalle ideologie sono state utilizzate dai partiti - da tutti o da quasi tutti
i partiti, di destra, di centro o di sinistra - nel loro stesso interesse: dal
momento che i partiti avevano occupato lo Stato, la statizzazione ha significato
controllo esercitato dai partiti sulle imprese e sulle banche statizzate, con
vantaggi di potere e con vantaggi economici.
Anche in Italia si è profilato un movimento contro l'intervento dello Stato
e in favore delle privatizzazioni e del «mercato». Le resistenze sono grandi.
Sotto l'aspetto dell'interesse generale le privatizzazioni sono da noi più che
giustificate, giacché l'allargamento dell'area statale nel nostro paese è andato
ben oltre i limiti fisiologici, comunque intesi. Le motivazioni addotte a favore
delle privatizzazioni sono tre: 1) l'esigenza di una maggiore efficienza; 2)
la possibilità di ricavare cospicui mezzi finanziari dalla vendita di imprese
pubbliche; 3) l'esigenza di porre fine agli abusi di ogni genere perpetrati
dai partiti nell'area statale. La prima motivazione ha una base incerta (quasi
tutte le imprese pubbliche sono organizzate nella forma di società per azioni);
la seconda motivazione può avere un certo peso; ma è la terza la motivazione
di maggior rilievo.
La reazione all'intervento pubblico ed a favore del «mercato» significa cambiamento
e non abolizione delle regole. Il mercato non è assenza di regole, come alcuni
sembrano ritenere, non è un vuoto, riempito solo dalle azioni dei singoli che
sono mossi dal loro tornaconto. Il mercato è un complesso prodotto giuridico
e istituzionale, frutto di un'evoluzione plurisecolare: sistemi di contratti,
tipi e forme di imprese pubbliche e private, di istituzioni e di organismi pubblici
addetti al controllo ed alla vigilanza su operazioni complesse, come quelle
svolte da intermediari finanziari e da società per azioni, condizionano, racchiudono
ed anzi costituiscono il mercato.
Come nel caso del mercato, anche nel caso del liberismo oggi circolano, in Italia
e fuori, concetti gravemente erronei.
Il liberismo ha tre significati, che in parte si sovrappongono, ma non coincidono.
In primo luogo, il liberismo si contrappone al protezionismo e significa libertà
del commercio internazionale. In secondo luogo, significa massimo spazio assegnato
ai mercati in libera concorrenza, con l'eliminazione delle posizioni di monopolio,
là dove ciò è possibile, e con l'introduzione di controlli di vario genere per
le posizioni di tipo monopolistico, di cui ho dato esempi più sopra; infine,
il liberismo si contrappone allo statalismo, ossia all'«eccesso» dell'intervento
pubblico in economia.
Due riflessioni sul terzo significato di liberismo. Prima riflessione: il grado
d'intervento pubblico, comunque misurato (per esempio: percentuale delle spese
pubbliche sul prodotto nazionale, estensione della proprietà pubblica di unità
produttive), varia nel tempo e nei paesi. Di regola, dopo la seconda guerra
mondiale è cresciuto in tutti o quasi tutti i paesi industrializzati, almeno
se come misura si usa la quota delle spese pubbliche.
Io sostengo che in Italia l'intervento pubblico è andato troppo avanti, non
solo per motivi legati all'evoluzione economica, ma anche e, negli ultimi tre
decenni, soprattutto per motivi di stabilizzazione sociale e politica.
Seconda riflessione. Adamo Smith, che molti considerano il profeta del liberismo,
era, in realtà, decisamente in favore del liberismo nel commercio internazionale,
era, di nuovo, in favore dei mercati in concorrenza, ma era decisamente contrario
ad ogni forma di monopolio; era certamente contrario ad estendere l'intervento
pubblico nell'economia, ma in questa direzione non si spingeva affatto così
lontano come sembrano ritenere molti suoi sedicenti seguaci. Mi limito a ricordare
che le funzioni che Smith assegna allo Stato sono tre, non due: oltre la difesa
e la giustizia, fra quelle funzioni include la costruzione di quelle opere pubbliche
e la creazione di quelle istituzioni, specialmente nell'area dell'istruzione,
che non sono - o non sono sufficientemente - profittevoli per i privati, mentre
sono vantaggiose «per una grande società».
Mutamenti della struttura
sociale
Conviene riflettere sui
dati delle due tabelle che seguono: i dati possono dare una prima idea delle
profonde trasformazioni subìte dalla struttura economico-sociale del nostro
paese dopo la fine della guerra.
| 1951
| 1971
| 1983
| 1993
|
1.
| Agricoltura
| 43
| 18
| 13
| 9
|
2.
| Industria
e artigianato
| 35
| 42
| 35
| 32
|
3.
| Servizi
| 15
| 30
| 36
| 41
|
4.
| Pubblica
amministrazione
| 7
| 10
| 16
| 18
|
Tab. 1. Categorie economiche (composizione percentuale)
| 1951
| 1971
| 1983
| 1993
|
1.
| «Borghesia»
| 2
| 3
| 3
| 3
|
2.
| Classi
medie urbane
| 26
| 38
| 46
| 52
|
| di cui:
|
| impiegati
privati
| 5
| 9
| 10
| 11
|
| impiegati
pubblici
| 8
| 11
| 16
| 18
|
| artigiani
| 5
| 5
| 6
| 6
|
| commercianti
| 6
| 8
| 9
| 11
|
3.
| Contadini
proprietari
| 31
| 12
| 8
| 6
|
4.
| Classe
operaia
| 41
| 47
| 43
| 39
|
| di cui:
|
| salariati
agricoli
| 12
| 6
| 4
| 3
|
| operai
dell'industria
| 23
| 31
| 28
| 25
|
| commercio,
trasporti e servizi
| 6
| 10
| 11
| 11
|
Tab. 2. Classi e categorie sociali (composizione percentuale)
Sotto l'aspetto delle
categorie economiche, in questo dopoguerra le trasformazioni più rilevanti
sono avvenute in agricoltura (l'esodo agrario è stato gigantesco) e nei servizi
- ormai l'occupazione nei servizi privati e pubblici rappresenta il 60% della
popolazione attiva -. Dal punto di vista delle classi e delle categorie sociali,
è fortemente cresciuta la piccola borghesia impiegatizia e sono cresciuti
i commercianti - circa il doppio -, mentre la «classe operaia», dopo essere
aumentata, nei primi venti anni, dal 41 al 47%, è poi diminuita ed ora non
arriva al 40%.
Queste profonde trasformazioni sono avvenute in un contesto di rapido sviluppo
economico, il più rapido mai avvenuto nella nostra storia: dal 1951 il reddito
totale è aumentato di ben cinque volte, quello individuale, di quattro volte.
In via di larga massima, contrariamente a quanto molti credono, ciò è avvenuto
tanto nel Centro-Nord quanto nel Sud, con l'avvertenza che il divario economico
fra le due grandi circoscrizioni, misurato in termini di reddito individuale,
che nel 1951 era pari a circa il 46% ed era sceso al 35 nel 1975 per effetto
delle massicce migrazioni dal Sud al Nord, è risalito alla quota del 1951
negli ultimi anni.
Queste quantità dicono poco, tuttavia, del divario sociale e civile fra Sud
e Centro-Nord, che può essere variamente misurato: ad esempio, usando i dati
riguardanti le persone o i lavoratori con diversi titoli di studio, o la delinquenza
minorile, o altri. Quanto alla crescita culturale dell'intera società, in
generale si può forse affermare che essa procede ad una velocità più bassa
della crescita strettamente economica: in certi periodi può procedere addirittura
in direzione opposta.
Le trasformazioni nella struttura sociale hanno accentuato la frammentazione
delle posizioni politiche; in particolare, man mano che diminuisce il peso
della così detta classe operaia e, in particolare, di quella che fa capo alle
grandi imprese, si modificano il profilo della sinistra e il carattere del
sindacato. Insieme con un discreto benessere economico, si sono diffusi atteggiamenti
di tipo conservatore fra i ceti più diversi. Ma le posizioni politiche di
questo tipo cambiano radicalmente sia nelle diverse epoche storiche sia, in
tempi brevi, secondo gli interessi economici dei gruppi più influenti - proprietari
terrieri, grandi industriali, piccoli imprenditori dell'industria e dei servizi
-. Così l'orizzonte politico, che è a lungo termine nel caso dei proprietari
terrieri, è breve o brevissimo nel caso dei gruppi di ceti medi e, pertanto,
comporta una forte fluidità, con repentini mutamenti sulle aggregazioni sociali,
politiche e sindacali; tali mutamenti, oggi, vengono esasperati dalla crisi
ideologico-politica in atto e dalla caduta del comunismo reale.
La fluidità della situazione
politica
La crisi in atto nel
nostro paese ha dato luogo ad una fluidità e mutevolezza della vita politica
quali ben raramente erano state osservate in passato. Oggi non è più chiaro
dov'è la destra e dove la sinistra. L'intero quadro politico è in via di radicale
trasformazione. Le classi medie, che hanno sempre avuto il dono dell'ubiquità
politica e culturale, oggi, dopo il sostenuto sviluppo economico, si sono ulteriormente
allargate e sono divenute ancora più eterogenee e mobili che in passato. La
frammentazione delle classi medie, già notevole sul piano politico, è ancora
più accentuata sul piano sindacale. La classe operaia, costituita dai lavoratori
salariati, è ulteriormente diminuita. La parte della classe operaia che fa capo
alle grandi imprese è tuttora relativamente omogenea; ma le grandi imprese oggi
sperimentano difficoltà nettamente più gravi di quelle in cui si dibattono le
imprese di minori dimensioni. Il quadro sociale è oggi reso più complesso dalla
presenza di una non trascurabile schiera d'immigrati extra-comunitari, che sono
disposti a svolgere quei lavori poco gradevoli che i lavoratori italiani, anche
quelli del Mezzogiorno, non sono più disposti a svolgere. Fra coloro che avversano
un'ulteriore restrizione dei flussi d'immigrazione ci sono persone che paventano
le difficoltà economiche conseguenti a tale restrizione; essi tuttavia sottovalutano
le capacità di adattamento del sistema economico (progresso tecnico, ulteriore
meccanizzazione di certe operazioni, ristrutturazioni produttive, aumento delle
importazioni di certi prodotti). A coloro che sono addirittura a favore di un
allargamento dell'immigrazione in nome di ideali umanitari, si deve far notare
che il modo per aiutare il Terzo mondo e particolarmente certi paesi africani
non è questo, ma sta nel predisporre, d'accordo con altri paesi europei, progetti
di sviluppo scolastico ed educativo (ciò che, fra l'altro, può contribuire alla
flessione della natalità) e adeguati programmi di assistenza tecnica e organizzativa
nel campo della produzione, a cominciare dall'agricoltura.
Le prospettive
Se le prospettive immediate
sono caratterizzate da grande fluidità, per le prospettive non immediate dobbiamo
riconoscere che siamo entrati in una crisi gravissima, da cui tuttavia possiamo
uscire in tempi non lunghi, anche se non brevi, e possiamo avviarci a divenire
un paese veramente e pienamente civile. Ciò potrà accadere se sapremo introdurre
alcune riforme essenziali, non solo nei sistemi elettorali, ma anche nella organizzazione
della pubblica amministrazione, della sanità, della scuola, dell'Università,
della ricerca. Chi studia l'evoluzione della società inglese nel secolo scorso
può trarre motivi di conforto, pur tenendo conto che le condizioni di quella
società erano profondamente diverse da quelle della società italiana di oggi:
la pubblica amministrazione, che era inefficiente e non marginalmente corrotta,
dopo alcune importanti riforme cambiò e migliorò in misura molto notevole. In
effetti, di motivi di conforto oggi abbiamo grande bisogno, giacché il momento
che stiamo vivendo (dicembre 1994) è a dir poco atroce.
2. BISOGNA FARE I CONTI
CON MARX
Le responsabilità di
Marx
La crisi ideologico-politica
cui ho fatto cenno è sboccata nella crisi delle istituzioni. La crisi ha colpito
in primo luogo il marxismo e i partiti che si richiamavano a quella dottrina.
Paradossalmente, tuttavia, in modo indiretto ha colpito anche i partiti antimarxisti
e anticomunisti, che hanno visto ridurre in modo non esiguo il consenso popolare
e intellettuale e venir meno il cemento che li univa e il sostegno internazionale;
lo stesso appoggio della Chiesa è divenuto molto più critico e molto più differenziato.
Con Marx bisogna fare i conti non solo e non tanto per motivi culturali, che
possono interessare solo una minoranza di intellettuali. I conti con Marx vanno
fatti anche per comprendere l'assai infelice situazione in cui oggi viviamo.
Non possiamo non chiederci: come mai nella campagna elettorale Silvio Berlusconi
ha potuto usare il tema dell'anticomunismo con un non trascurabile successo,
come pare? Eppure dopo la caduta del muro di Berlino il comunismo non dovrebbe
far più paura né sul piano internazionale né su quello interno; per di più,
dopo un lungo e drammatico dibattito ed una dolorosa scissione, il Partito comunista
italiano ha cambiato nome, obiettivi e simbolo (al 90%).
Evidentemente, esistono ancora, soprattutto in certi strati della piccola borghesia,
alcuni riflessi condizionati. Il grande trauma nazionale, mai pienamente superato,
fu quello del 1921-22, quando il pericolo del comunismo, reso incombente dalla
vittoria dei bolscevichi in Russia, seminò panico e orrore in una cospicua fetta
della società italiana e non soltanto per via degli interessi economici minacciati.
Se non si tiene conto di quel panico e di quell'orrore non si può comprendere
l'ascesa del fascismo al potere.
In Europa dopo la prima guerra mondiale e nell'America latina dopo la seconda
guerra, la paura del comunismo ha contribuito alla nascita e all'affermazione
dei fascismi, alle condiscendenze dei conservatori inglesi verso Hitler e a
quelle dei nordamericani verso le dittature militari latinoamericane (attenzione:
ha contribuito non vuol dire che ha determinato). In Europa, dopo la prima guerra
mondiale e poi durante la seconda, per combattere quel fascismo che avevano
contribuito a far sorgere, molti comunisti hanno affrontato pericoli, prigione,
torture, sacrifici di ogni genere.
Le atrocità commesse dai comunisti per impadronirsi del potere e poi quelle
perpetrate nei paesi in cui erano riusciti ad instaurare la dittatura possono
rendere comprensibili le reazioni anticomuniste, ma non possono in alcun modo
giustificare i mezzi adoperati quando si tratti di mezzi barbari o tali da imbarbarire
la vita sociale. Se si pone mente al fine si può sostenere che il senatore americano
Joseph McCarthy aveva ragione; si deve però subito aggiungere che erano radicalmente
sbagliati i mezzi, cosicché la condanna morale e politica del maccartismo fu
pienamente giustificata. Quando, in Italia, dopo la prima guerra mondiale ebbe
luogo quella reazione antibolscevica che fu ampiamente utilizzata dal Partito
fascista furono pochi, ma non pochissimi, fra coloro che avevano una profonda
avversione per il bolscevismo, gli uomini, come Giustino Fortunato, Gaetano
Salvemini ed Ernesto Rossi, che non si fecero travolgere dalla paura neppure
nei momenti più difficili e tennero duro. Oggi, dopo la tragedia della seconda
guerra mondiale scatenata dal principale allievo e imitatore di Mussolini, appare
evidente che ebbero ragione coloro che tennero duro, anche se in quel momento
vennero battuti. In breve, non si può combattere una barbarie con un'altra barbarie:
i Gulag e Auschwitz si equivalgono.
Dobbiamo chiederci: qual è la responsabilità di Marx in queste tragedie?
Sono molti gli intellettuali che tendono a minimizzare le responsabilità di
quegli altri intellettuali che non si limitano a sforzarsi di conoscere il mondo,
ma si propongono di cambiarlo. Ora, non c'è dubbio che nel gran crogiolo dell'evoluzione
storica, gli intellettuali di un qualche rilievo sono in qualche misura responsabili:
poco o molto, secondo i casi. Con le sue sdegnate denunce, che avevano affascinato
molti, con le sue tesi sulla socializzazione dei mezzi di produzione, sulla
necessità di un «piano generale» una volta socializzati i mezzi di produzione,
sulla dittatura del proletariato (tesi che è servita per giustificare tremende
dittature, non solo nell'Unione Sovietica), coi suoi incitamenti a usare il
terrorismo, con la sua morale rivoluzionaria, con le sue grandiose analisi storiche
ed economiche, poi sviluppate da diversi seguaci, segnatamente da Lenin, Marx
ha una responsabilità innegabilmente rilevante nell'evoluzione intellettuale
e politica dell'Unione Sovietica e, via via, negli altri paesi in cui il marxismo
ha svolto un ruolo di rilievo. Le grandiose analisi storiche ed economiche rappresentano
uno straordinario merito intellettuale di Marx - tornerò su questo punto -;
al tempo stesso costituiscono (non è un paradosso) una circostanza che aggrava
le sue responsabilità sotto l'aspetto etico-politico.
Dobbiamo dunque distinguere il Marx rivoluzionario dal Marx economista: il primo
si è assunto responsabilità tremende nei suoi sforzi volti a «cambiare il mondo»;
il secondo può aiutare a comprenderlo. In due parole: il primo Marx va esecrato,
il secondo va studiato; dal momento che non ci troviamo di fronte al fondatore
di una religione, ma a un pensatore, la distinzione e la separazione sono del
tutto legittime.
Cominciamo col Marx rivoluzionario.
Di violenza, di frode, di inganni al mondo ce ne sono sempre stati e, io temo,
ce ne saranno sempre. Gli intellettuali che teorizzano l'opportunità ed anzi
la necessità di ricorrere a violenza, a frode e a inganno si assumono la responsabilità
di giustificare e quindi di aggravare ed estendere queste atroci tendenze insite
nell'uomo. Marx, è stato detto, si è assunto senza esitazione quella responsabilità
per un fine nobile: per il riscatto degli oppressi del nostro tempo - i lavoratori
salariati -. Ma il raggiungimento del fine è estremamente incerto e problematico
- la realtà dei paesi dove la dottrina di Marx si è affermata mostra che il
progetto è miseramente e tragicamente fallito -. Applicando quei terribili insegnamenti
nel perseguire quel fine la somma delle violenze, delle frodi e degli inganni
cresce: questo è matematico, questo è accaduto. Il fine non è stato raggiunto:
al contrario.
Mi è stato obiettato: considera la Rivoluzione francese: anche in quella serie
di eventi tragici vi furono, in abbondanza, violenze, frodi e inganni; ma non
per questo la Rivoluzione francese è da condannare. E vero. Ma sfido chiunque
a individuare un solo intellettuale in qualche modo paragonabile a Marx che
nel periodo preparatorio abbia teorizzato l'opportunità di usare anche i mezzi
più barbari per perseguire quel fine. Dobbiamo tenere ben presente che il marxismo
fondava le sue basi teoriche sulla lotta di classe e, connessamente, sull'odio
di classe; non solo la violenza, compresa la violenza terroristica, ma anche
la frode e l'inganno erano del tutto leciti ed anzi raccomandabili per far trionfare
la causa del proletariato e cambiare il corso della storia. Nelle opere indirizzate
agli intellettuali Marx ha parlato ripetutamente di lotta di classe, ha parlato
di miseria crescente e di crescente abiezione dei proletari in regime capitalistico.
Non ha esplicitamente parlato di odio di classe e dei mezzi da usare per il
trionfo del proletariato. Tuttavia, coloro che hanno studiato a tavolino le
principali opere di Marx e, a maggior ragione, coloro che non le hanno studiate,
ma sono stati attratti dalle sue violente denunce dei vizi della società capitalistica,
di rado si sono resi conto delle tremende implicazioni delle sue idee. Coloro
che sono passati dalla teoria alla prassi sono stati indotti o costretti dalle
circostanze a rendersi ben conto di quelle implicazioni. Del resto, Marx le
aveva rese esplicite in lettere e in indirizzi rivolti al primo nucleo del Partito
comunista tedesco. Per togliere di mezzo ogni dubbio è utile qualche citazione.
«Vae victis! Noi non abbiamo riguardi; noi non ne attendiamo da voi. Quando
sarà il nostro turno non abbelliremo il terrore».
Lo sdegno di Marx contro le nefandezze del capitalismo, che in passato aveva
esercitato un notevole fascino su tanti e tanti giovani, era strumentale, giacché
egli non esitava a raccomandare ogni sorta di nefandezze per combatterlo: «Agite
gesuiticamente, buttate alle ortiche la germanica probità, onestà, integrità.
In un partito si deve appoggiare tutto ciò che aiuta ad avanzare, senza farsi
noiosi scrupoli morali».
Marx scrive a Engels, riferendosi a una tesi esposta in un articolo sull'India
destinato all'«Herald Tribune», del quale per un breve periodo fu collaboratore,
una tesi di cui non era sicuro ma che, ciò nonostante, voleva esporre, dato
che (il commento è mio) un profeta non poteva ignorare una questione così grave
come l'«insurrezione indiana» - questo era il titolo dell'articolo -. Scrive
dunque a Engels: «E possibile che io ci faccia una figuraccia. Tuttavia possiamo
sempre cavarcela con un po' di dialettica. Naturalmente ho tenute le mie considerazioni
su un tono tale che avrò ragione anche in caso contrario».
Marx: le tesi erronee e le tesi analiticamente feconde
Stando così le cose,
possiamo fidarci di Marx come analista della società e, in particolare, come
economista? Ritengo che, per sceverare le tesi erronee da quelle valide e analiticamente
feconde, si può adottare il seguente criterio: quanto più direttamente le tesi
di Marx riguardano il suo programma rivoluzionario, tanto più bisogna diffidarne,
mentre le tesi più lontane da quel programma, ossia le tesi strettamente analitiche,
vanno considerate, pur sempre con occhio critico, ma con minore sospetto.
Le principali tesi erronee sul piano interpretativo sono due: la tesi della
tendenza alla proletarizzazione delle società capitalistiche e la tesi dell'immiserimento
della classe operaia. Queste tesi si articolano in cinque proposizioni: 1) «Tutta
la società si scinde sempre più in due vasti campi nemici, in due classi ostili
l'una all'altra»; 2) «L'operaio moderno, invece di elevarsi col progresso dell'industria,
cade sempre più in basso, al disotto delle stesse condizioni della propria classe.
L'operaio si trasforma in un povero e il pauperismo tende ad aumentare assai
più rapidamente dell'aumento della popolazione e della ricchezza»; 3) «L'antico
ceto medio rovina e cade nel proletariato»; 4) «Il moto proletario è il moto
autonomo dell'immensa maggioranza della popolazione in favore dell'immensa maggioranza»;
5) «Nei paesi dove la civiltà moderna si è sviluppata si è formata una piccola
borghesia nuova. Essa oscilla tra il proletariato e la borghesia. Senonché i
suoi componenti vengono continuamente ricacciati nel proletariato per effetto
della concorrenza». (Sono tutte citazioni tratte dal Manifesto del Partito comunista,
che è appunto concepito, non come un'analisi, ma come una presentazione sintetica
di tesi fondamentali.)
Tutte le tesi ora richiamate appaiono come errori madornali, solo molto limitatamente
giustificabili facendo riferimento al tempo in cui furono scritte.
Una tesi che si presenta come analitica e per certi aspetti lo è, ma che deve
esser vista come strumentale rispetto al programma rivoluzionario, è la tesi
del valore-lavoro, che mirava a fornire una interpretazione «scientifica» dello
sfruttamento - in realtà, un concetto etico -. Dopo dibattiti durati oltre un
secolo, è stato dimostrato - paradossalmente da un economista per nulla ostile
a Marx - che la teoria del valore-lavoro non è sostenibile. Sulla tomba di questa
teoria possono essere scritti, come epitaffio, due righi che si trovano nell'indice
analitico di Produzione di merci a mezzo di merci di Piero Sraffa: «Il valore
è proporzionale al costo in lavoro quando i profitti sono zero».
Altre tesi di Marx, che possono essere considerate indipendentemente dal suo
programma rivoluzionario, appaiono analiticamente feconde. Ricordo quattro tesi
di questo tipo.
- Se la tesi della inevitabile
proletarizzazione inerente alle moderne società capitalistiche è radicalmente
sbagliata, non è invece sbagliata, ma anzi è utile, l'analisi riguardante
i movimenti delle molteplici classi sociali che Marx svolge nelle sue opere
storiche (la dicotomia - proletari e capitalisti - va considerata in prospettiva,
non come realtà già in atto).
- E feconda la tesi secondo
la quale il movimento del sistema economico va studiato considerando due
settori (una dicotomia che anticipa quella keynesiana fra consumi e investimenti)
e distinguendo fra riproduzione semplice e riproduzione su scala allargata
- il movimento in cui si suppone che il sovrappiù sia almeno in parte investito.
- E particolarmente feconda
la tesi secondo cui il processo di accumulazione capitalistica è spinto
dalle innovazioni e ha carattere ciclico. Qui non vanno lesinati i riconoscimenti
all'intuizione fondamentale di Marx. Si deve tuttavia osservare che egli
si limita a enunciare la tesi, ma non si addentra nell'analisi.
- E importante la tesi
secondo cui la creazione di moneta bancaria ha un ruolo essenziale nell'accumulazione
ciclica.
Oltre le tesi di questo genere,
che vanno approfondite e utilizzate, c'è un'idea fondamentale, che a rigore
non è originale, ma che Marx per primo presenta in termini precisi e metodologicamente
rilevanti: è - come afferma Joseph Schumpeter in Capitalismo, socialismo e democrazia
(cap. III) - «l'idea di una teoria del processo economico così com'esso si svolge,
per impulso interno, nel tempo storico, un processo che in ogni momento produce
una situazione che da sola determina la successiva. In tal modo, l'autore di
tante concezioni errate è stato anche il primo a visualizzare quella che perfino
oggi è ancora la teoria economica del futuro, per la quale andiamo lentamente
e faticosamente accumulando mattoni e calce, dati statistici ed equazioni funzionali».
E agevole rendersi conto che questa è la stessa idea che sottende il recente
approccio dinamico definito «path dependence» («dipendenza dal percorso precedente»).
In ultima analisi, l'approccio della «path dependence» tende verso una sorta
di «histoire raisonnée», che costituisce il ponte fra la teoria economica e
la storia.
Questo duplice giudizio - favorevole per il Marx economista, drasticamente negativo
per il Marx rivoluzionario - può apparire contraddittorio. Ho cercato di chiarire
perché non lo è. Sul progetto rivoluzionario di Marx, tuttavia, permane un quesito
fondamentale, che ho già proposto altrove e che qui ripropongo.
Marx e i comunisti
Molti di coloro che durante
e subito dopo la seconda guerra mondiale hanno sentito la forte attrazione esercitata
dal comunismo e dal Partito comunista e spesso hanno operato in quel partito
con gravi sacrifici, chiedono oggi che vengano comprese le ragioni delle loro
scelte considerando il momento storico in cui venivano fatte. E una richiesta
giusta: anche chi scrive sentì fortemente quell'attrazione e, se non ne fu travolto,
lo dovette all'influenza di diverse persone di grande statura morale, non comuniste
ma neppure violentemente anticomuniste - il violento anticomunismo avrebbe potuto
avere l'effetto opposto per quella tendenza anticonformistica frequente fra
i giovani.
Dobbiamo dunque liquidare tutto quanto è stato compiuto nel nome di Marx - ecco
il quesito -; dobbiamo negare o rinnegare la passione, l'impegno e i gravi sacrifici?
Tutto da buttar via sul terreno dell'azione?
Io dico di no. In certi paesi, fra cui è l'Italia, i comunisti hanno di fatto
accantonato da lungo tempo il progetto rivoluzionario e hanno dato rilevanti
contributi all'evoluzione democratica della società in cui hanno operato. E
anche vero, però, che se molti di quei comunisti avessero conosciuto il contenuto
di quelle «confidenze» di Marx, di cui ho citato solo alcuni esempi, avrebbero
abbandonato il partito o avrebbero preteso un cambiamento radicale del nome
e della linea politica, come solo di recente è accaduto. Si può obiettare: non
c'era alcun bisogno di conoscere quelle «confidenze»; la condotta assolutamente
cinica e priva di scrupoli dei massimi dirigenti era apparsa in modo più che
evidente durante gran parte della tragica esperienza sovietica e durante la
guerra civile spagnola - è ancora illuminante il libro scritto nel 1937 in uno
stile terribilmente sobrio da George Orwell (Omaggio alla Catalogna, Milano
1993) -. All'obiezione si può rispondere ricordando che i comunisti - a parte
i capi - non credevano a quelle che venivano definite come calunnie borghesi.
D'altra parte, le stesse azioni riformistiche portate avanti dai comunisti erano
doppiamente viziate: sul piano della politica internazionale, dall'ostilità
degli Stati Uniti - un'ostilità durissima e in nessun modo vantaggiosa per il
paese considerato - e sul piano della politica economica da residui della dottrina
marxista di cui parlerò fra poco. Criticare il marxismo in quanto dottrina rivoluzionaria
e rimuovere quei residui significa liberare energie che fino a un tempo recente
risultavano gravemente frenate e limitate. Un caro amico poco meno che mio coetaneo,
che in gioventù è stato comunista e che da molti anni non lo è più mi dice,
appassionatamente, che egli non può condividere le conclusioni che emergono
dalla mia durissima critica, politica ed etica, al Marx rivoluzionario e che
conducono, indipendentemente dalle intenzioni, a criminalizzare milioni di persone
in perfetta buona fede, che spesso hanno rischiato la vita o l'hanno persa per
perseguire quegli ideali che hanno origine antichissima e che erano stati fatti
propri in tempi vicini a noi da Marx e dai rivoluzionari da lui ispirati. Non
solo nelle mie intenzioni ma neppure nelle conclusioni, io credo, si possono
trovare elementi per una criminalizzazione. Ho già dichiarato che per poco non
divenni comunista; se lo fossi diventato, non per questo sarei entrato nella
schiera dei criminali. Credo che i due volumi, editi da Einaudi, che raccolgono
le Lettere dei condannati a morte della Resistenza - uno dei quali curati da
Giovanni Pirelli, fratello del «capitalista» - costituiscano una fra le più
nobili testimonianze a favore dell'uomo; e molti fra quei condannati erano comunisti.
Tutto ciò non toglie assolutamente nulla a quegli uomini ed a quelle donne e
alla loro esperienza, ma non fa che aggravare le responsabilità di Marx, mosso
più da un luciferino orgoglio intellettuale che da amore per i proletari; i
quali, a differenza del suo amico Engels, non conosceva neppure. Il punto è
che, se ci convinciamo che la dottrina di Marx, in quanto dottrina rivoluzionaria,
è radicalmente erronea ed ha provocato immani disastri, dobbiamo proclamarlo
a gran voce, anche se siamo stati comunisti, anche se dobbiamo far valere la
nostra buona fede, richiamando alla nostra stessa memoria, per non veder scemare
neppure di poco la stima di noi stessi, le azioni positive e socialmente utili
che possiamo aver compiute. In una tale denuncia non ci deve far velo nessuna
considerazione emotiva o affettiva. Non c'è dubbio: una critica che può colpire
persone che stimiamo profondamente e che in qualche caso sono anche nostri cari
amici, come anche un'autocritica, ci costa. Ma solo così, io credo, possiamo
restare fedeli al nostro mestiere di intellettuali.
La posizione della sinistra verso le piccole imprese
La scarsa considerazione
per le piccole imprese da parte di molti esponenti della sinistra politica e
sindacale può essere in una certa misura riconducibile alla tesi marxista della
progressiva concentrazione delle imprese. Questa tesi non è erronea in sé. Per
un lungo periodo, a partire dalla fine del secolo scorso, si è osservata una
tale tendenza in diversi rami dell'industria e della finanza, anche se negli
ultimi due decenni essa, a quanto pare, si è arrestata o si è addirittura capovolta.
L'errore sta nell'interpretazione di tale tendenza, che cioè le grandi e grandissime
imprese sarebbero destinate a dominare un numero crescente di mercati e a condizionare
in misura crescente il potere politico, al livello interno e nei rapporti internazionali;
questa è l'interpretazione che può essere ricondotta a Marx e a Lenin. C'è poi
l'interpretazione di Schumpeter, secondo il quale la capacità d'innovare tende
a essere sempre più una prerogativa delle grandi imprese. Entrambe le interpretazioni
vanno respinte, non perché - mi riferisco a Marx e a Lenin - le grandi imprese
non contino, ma perché non è vero che abbiano un peso crescente e non è vero
che in paesi democratici gruppi sociali diversi, come quelli rappresentati dai
militari, dagli intellettuali e da organizzazioni politiche, siano puramente
subordinati ai gruppi economici - certe volte è vero il contrario -. Quanto
all'interpretazione di Schumpeter, appare ormai evidentemente infondata la tesi
secondo cui le piccole imprese avrebbero avuto un ruolo sempre più marginale
nel campo essenziale delle innovazioni; non di rado, il loro ruolo è invece
di primaria importanza. (Conviene notare che la teoria della concentrazione
costituisce una delle basi della teoria leninista dell'imperialismo.)
La tesi del processo di concentrazione poteva indurre, come ha indotto, i marxisti
a considerare con freddezza, ma non necessariamente con avversione, le piccole
imprese. Una certa avversione è riconducibile al marxismo per via dell'«antagonismo
di classe», che nelle piccole imprese è affievolito o annullato. E riscontrabile,
specialmente nel passato, una notevole freddezza non solo da parte dei marxisti
ma anche della sinistra non marxista; presumibilmente una delle ragioni sta
nel fatto che la forza dei sindacati di norma è maggiore nelle grandi che nelle
piccole imprese e, sia pure in misure e con caratteristiche diverse secondo
i paesi, i sindacati hanno influenza sui partiti e sulla vita politica. Abbiamo
tuttavia in Italia una situazione che appare in contrasto con le osservazioni
appena espresse: in Emilia e in altre zone del Centro-Nord hanno prevalso a
lungo i partiti di sinistra di tipo marxista e, in particolare, i comunisti,
eppure le piccole imprese hanno avuto uno sviluppo molto notevole e, non di
rado, sono state create da ex operai specializzati che erano e sono poi rimasti
comunisti. Il paradosso si spiega tenendo conto che la «pace sociale», che nelle
piccole imprese quasi sempre s'instaura, per motivi strutturali, ha decisamente
favorito lo sviluppo di quelle imprese, con vantaggi sia dei lavoratori che
dei «capitalisti». D'altra parte, anche in questo caso è rimasta una notevole
ambiguità: nei fatti - e soprattutto nei fatti riguardanti le zone cui alludevo
dianzi - l'atteggiamento del Partito comunista verso le piccole imprese era
sostanzialmente favorevole, ma in via di principio, al livello della politica
economica nazionale, restava la freddezza, se non proprio l'ostilità.
Con la costituzione del Partito democratico della sinistra le cose sono alquanto
cambiate; ma il cambiamento resta ancora in superficie.
Le formule partecipative
Fra i residui perniciosi
del marxismo sul piano della politica economica vanno annoverati i residui che
si manifestano nell'avversione a tutte le formule che, in senso lato, possiamo
definire partecipative. Fra queste possiamo considerare: le integrazioni retributive
e i premi collegati con gli aumenti di produttività o di profittabilità delle
imprese, la partecipazione agli utili, varie forme di partecipazione alla gestione,
l'azionariato dei lavoratori e, più ampiamente, il cosiddetto azionariato popolare.
Il motivo dell'avversione sta nel fatto che tutte queste forme partecipative
comportano collaborazione fra lavoratori dipendenti e capitalisti; ma non si
può collaborare col «nemico di classe»: è un peccato, se non un tradimento.
Ora, che le forme appena ricordate possano prestarsi ad abusi, non c'è alcun
dubbio; ma se dovessimo rifiutare ogni forma o formula che comporta il pericolo
di abusi, non potremmo fare assolutamente nulla al mondo - e non solo nel mondo
delle imprese -. D'altra parte, il pericolo di abusi era relativamente elevato
alcuni decenni or sono, quando il livello d'istruzione dei lavoratori dipendenti
era relativamente basso e quando i sindacati non disponevano di uffici studi
bene attrezzati. Oggi le cose sono cambiate, ma quell'avversione persiste, sia
pure solo come residuo di una dottrina politicamente perniciosa.
Lotta di classe e odio di classe
Sia nel caso delle piccole
imprese sia in quello delle forme partecipative affiora quello che considero
l'elemento peggiore del marxismo: la predicazione dell'odio di classe che nell'originaria
dottrina marxista doveva servire ad accelerare lo scontro finale e ad alleviare
i dolori del parto, nella fideistica certezza che la rivoluzione era inevitabile
e quindi quanto più fosse violenta e rapida tanto meglio sarebbe stato. Ora,
è più che evidente che fra capitalisti e lavoratori dipendenti non vi è necessariamente
armonia d'interessi: gli scioperi non infrequenti neppure nei paesi in cui la
dottrina marxista ha avuto assai pochi seguaci e dove nessuno parla di rivoluzione,
bastano a dimostrare che i conflitti d'interesse ci sono e a volte sono aspri.
Ma gli interessi non sono sempre e necessariamente in conflitto, come appare
chiaro quando è in gioco la sopravvivenza stessa dell'impresa o quando si adotta
l'una o l'altra delle forme partecipative di cui si è detto, con un successo
che in molti casi è netto.
Nel progetto rivoluzionario di Marx «non pomi v'eran ma stecchi con tosco» -
per usare le parole del grande poeta -. Lo stecco più velenoso è senza dubbio
quello dell'odio di classe considerato come la leva indispensabile per attuare
la nuova società.
Se si riconosce che le linee di politica economica richiamate sopra sono nell'interesse
dei lavoratori, dipendenti o indipendenti, allora si deve attribuire al marxismo
la responsabilità di averle ostacolate, col risultato che alcune di quelle linee
sono state adottate, almeno parzialmente, dalla destra, mentre era ed è nell'interesse
della sinistra adottarle e svilupparle, ammesso che questa parte politica sia
particolarmente sollecita verso gli interessi dei lavoratori. Mi auguro che
coloro che hanno a cuore il rinnovamento della cultura di sinistra - compresi
coloro che accoglievano il messaggio marxista nel suo complesso - approfondiscano
la critica non solo al fine di utilizzare gli aspetti analitici validi, ma anche
per individuare altri residui passivi, che spesso non sono evidenti e sono rintracciabili
non solo a sinistra, ma anche a destra.
Marx e Machiavelli
La raccomandazione che
Marx rivolge al primo nucleo del Partito comunista tedesco - «agite gesuiticamente»
eccetera - merita qualche commento. Si tratta di una raccomandazione tipicamente
machiavellica, che nel nostro paese, abituato da tempo immemorabile a rispettare
ed ammirare i punti di vista del grande segretario fiorentino, non fa scandalo.
Dico che ciò è male. Dico che il machiavellismo rappresenta una tabe gravissima
della cultura politica del nostro paese, che - andando ben oltre, è vero,
le idee originarie - è servita a giustificare ogni sorta di delitti e di imbrogli
e quindi ha decisamente contribuito a renderli molto più diffusi di quanto
altrimenti sarebbero stati; una tabe che ha contagiato non pochi politici
e intellettuali sia fra i laici che fra i cattolici - in questo secondo caso
lo sconcerto è anche maggiore, data la pretesa dei cattolici di essere portatori
di una moralità più ampia e più elevata di quella dei laici.
Per evitare di dar esca a complicate e inconcludenti discussioni filosofiche,
mi limito ad affermare che il mio punto di vista coincide con quello espresso,
in termini quanto mai pacati e concreti, dal mio economista e filosofo preferito,
Adamo Smith, il quale, riferendosi al ben noto massacro dei rivali perpetrato,
a tradimento, da Cesare Borgia, nella Teoria dei sentimenti morali (parte
VI, sez. II) così scrive:
Machiavelli, uomo in effetti di moralità non troppo scrupolosa anche per i
suoi tempi, faceva parte della corte di Cesare Borgia, quale rappresentante
della Repubblica di Firenze, quando il delitto fu perpetrato. Egli ne dà una
descrizione molto dettagliata in quella lingua pura, elegante e semplice che
contraddistingue tutti i suoi scritti. Ne parla con molta freddezza, si compiace
dell'abilità con cui Cesare Borgia lo orchestrò, mostra molto disprezzo per
l'ingenuità e la debolezza delle vittime, ma nessuna compassione per la loro
triste e prematura morte, nessun genere di indignazione per la crudeltà e
la falsità del loro assassino.
Se l'umanità deve consistere di esseri civili e non di selvaggi e di assassini,
certi valori morali debbono essere rispettati: è un'affermazione che Salvemini
esprime in un articolo pubblicato nella rivista «Il Ponte» del 1952; la condivido
in pieno.
Posto che si voglia avanzare sulla via dell'incivilimento, allora nessun fine,
neppure l'unità politica di un grande paese, neppure il riscatto del proletariato,
può giustificare l'abbandono di quei valori. Altrimenti l'unità nazionale,
pur se la si ottiene, diviene unità di una palude melmosa e il riscatto del
proletariato si trasforma nel suo opposto: i mezzi deturpano il fine in modo
molto difficilmente rimediabile.
Continua >>>>>