La crisi italiana di Paolo Sylos Labini

  1. Le origini della crisi
    La crisi ideologico-politica,
    Tare antiche e recenti della società italiana,
    La crisi economica e finanziaria,
    Stato e mercato,
    Mutamenti della struttura sociale,
    La fluidità della situazione politica,
    Le prospettive,

  2. Bisogna fare i conti con Marx
    Le responsabilità di Marx,
    Marx: le tesi erronee e le tesi analiticamente feconde,
    Marx e i comunisti,
    La posizione della sinistra verso le piccole imprese,
    Le formule partecipative,
    Lotta di classe e odio di classe,
    Marx e Machiavelli,

  3. La legge finanziaria, il rovesciamento della scala di priorità e il conflitto d'interessi
    Economia reale ed economia finanziaria,
    La legge finanziaria,
    Le critiche al governo Berlusconi,
    Obiezioni ad una interpretazione moralistica,
    Un'obiezione politica,
  1. La riforma dello stato sociale
    Insegnamenti utili per il futuro,
    Tre grandi aree di spesa,
    La posizione dei sindacati,

  2. Una politica per accelerare la crescita dell'occupazione e lo sviluppo civile del Mezzogiorno
    La crescita dell'occupazione,
    La creazione di nuove imprese,
    Lo sviluppo civile nel Mezzogiorno,
    Il livello d'istruzione dei lavoratori,
    L'andamento dell'occupazione negli ultimi quarant'anni,

  3. La scuola, la ricerca scientifica e la qualità del lavoro
    Una condizione preliminare per riorganizzare il sistema scolastico,
    Riflessioni sulla riforma universitaria,
    I gravi problemi della ricerca,

3. LA LEGGE FINANZIARIA, IL ROVESCIAMENTO DELLA SCALA DI PRIORITA` E IL CONFLITTO D'INTERESSI

Passato, presente, futuro. Nei capitoli precedenti ho espresso alcune riflessioni su due temi molto ampi, che riguardano essenzialmente il passato, antico e recente: le origini della crisi della società italiana e la crisi del marxismo, coi suoi residui perniciosi. In questo capitolo discuterò questioni riguardanti il presente, mentre nei capitoli successivi considererò le prospettive e tratterò alcune linee di politica economica riguardanti i più gravi problemi di carattere, al tempo stesso, economico e civile: disoccupazione, Mezzogiorno, scuola e ricerca.
Oggi c'è una situazione che alcuni giudicano paradossale: l'andamento dell'economia reale è favorevole; è l'economia finanziaria che va male. Vediamo meglio.


Economia reale ed economia finanziaria

Le esportazioni tirano, grazie alla ripresa internazionale ed alla svalutazione della lira, la bilancia commerciale è decisamente attiva, la produzione industriale cresce ad un ritmo sostenuto e cresce il reddito. D'altro lato, i capitali esteri se ne vanno, con effetti negativi sulla bilancia dei pagamenti e sulla lira, che perde colpi rispetto alle altre monete, specialmente rispetto al marco; al tempo stesso la Borsa va male e aumenta l'interesse a breve e, ancor più, quello a lungo termine e sale il divario fra il nostro tasso e quello degli altri paesi industrializzati. Alcuni hanno detto che questa divaricazione fra economia reale ed economia finanziaria economicamente è priva di senso; si può spiegare solo per l'azione di qualche fattore del tutto anomalo, come per esempio un complotto, nazionale o internazionale. Non è così. Non è la prima volta che ha luogo una netta divergenza fra economia reale ed economia finanziaria. Un esempio rilevante si ebbe non molti anni fa negli Stati Uniti. Nell'ottobre 1987 vi fu un crollo in Borsa - del 30% in pochi giorni - simile a quello che nel 1929 segnò l'inizio della grande depressione, e numerosi economisti ritennero che stesse per aver luogo una nuova grande depressione. La depressione non ci fu e non ci fu neppure una recessione, che Guido Carli, fra gli altri, aveva giudicato probabile, e l'economia reale continuò ad espandersi. La crisi finanziaria venne superata nel giro di tre mesi, grazie all'intelligente politica del Sistema della riserva federale, che attraverso operazioni di mercato aperto iniettò dosi massicce di liquidità, controbilanciando una netta flessione della moneta bancaria, preludio di una flessione dell'economia reale. La divergenza fra economia reale ed economia finanziaria ebbe dunque luogo, ma durò poco; probabilmente, se la crisi finanziaria fosse durata più a lungo, la stessa economia reale sarebbe stata coinvolta e forse travolta. In effetti, anche se non implicano sintonia di movimenti dei grandi aggregati, esistono nessi essenziali fra economia reale ed economia finanziaria, la quale non è regolata da abili e diabolici speculatori (gli gnomi di Zurigo, nella pittoresca concezione un tempo diffusa a sinistra, che fa il paio con la teoria dei complotti, tuttora diffusa a destra), ma subisce spinte da mutevoli aspettative, condizionate, fra l'altro, dallo stato delle finanze pubbliche, dalle emissioni dei titoli pubblici, dai tassi dell'interesse, dai cambi e dalla pressione inflazionistica. Le principali cinghie di trasmissione fra il settore finanziario e quello reale sono rappresentate dai tassi dell'interesse e dai finanziamenti bancari e azionari alle imprese.
Dunque, da alcuni mesi nel nostro paese è in atto una divaricazione fra i due settori, la quale è imputabile a ragioni politiche. Più precisamente, il grave ritardo nella presentazione della legge finanziaria, i gravi contrasti interni alla maggioranza e i conflitti sociali hanno scosso la fiducia degli operatori stranieri, inducendo molti investitori a lasciare il nostro paese. Come conseguenza di ciò, il livello dei titoli pubblici a lungo termine (futures) che al principio della primavera era di 120 lire, è sceso al valore nominale di emissione, 100 lire; ciò significa che il tasso dell'interesse a lungo termine, che era sceso di circa due punti, è risalito al livello di sei mesi fa e il differenziale fra i nostri tassi e quelli tedeschi è aumentato anche di più. Al tempo stesso, la quotazione del marco, che alcuni mesi fa era di 940-950 lire ora supera le 1020 lire; il dollaro è salito da 1500 a 1600 lire e più. Il tasso a breve è aumentato - è stato aumentato di mezzo punto lo sconto ufficiale, soprattutto come segnale rivolto al mercato dei cambi -; ed è aumentato di più il tasso a breve praticato dalle banche sui prestiti alle imprese. La preoccupazione maggiore riguarda il dollaro, che ora, in parte per ragioni interne, simili a quelle che hanno provocato l'aumento del marco, e in parte per effetto del rialzo dello sconto negli Stati Uniti, ha mostrato una tendenza a salire: se l'aumento si consoliderà o, peggio, se proseguirà, si aggrava il rischio di un'inflazione importata, dato che noi paghiamo in dollari la maggior parte del petrolio e delle materie prime acquistate all'estero.


La legge finanziaria

Il ritardo della legge finanziaria ha decurtato i tempi di preparazione: solo tre settimane contro i tre mesi (o poco meno) dei tanto criticati governi presieduti prima da Amato e poi da Ciampi. Eppure non occorreva del genio per comprendere che, con l'incubo del debito pubblico e l'enorme deficit di bilancio, la preparazione e poi il varo della legge finanziaria dovevano avere la massima priorità. E di fatti al principio di giugno Berlusconi aveva dichiarato, certo anche per consiglio del ministro del Tesoro Dini, che entro luglio sarebbe stata messa a punto la finanziaria. Il ritardo ha avuto gravi conseguenze, giacché è mancato il tempo per gli studi preliminari e per gli incontri con le parti sociali. O meglio: le pensioni erano state oggetto di uno studio approfondito da parte della Commissione presieduta da Onorato Castellino, un economista rigoroso e competente. Ma per giungere ad una legge equilibrata e ampiamente accettabile, il governo doveva considerare con lo stesso impegno e con la stessa serietà anche le altre due grandi aree di spesa: la sanità, dove si poteva fare un'opera di disboscamento radicale, e i trasferimenti agli enti locali, problema su cui la Lega avrebbe potuto dare un importante contributo di razionalizzazione e di risparmio. Un tempo adeguato avrebbe consentito una serie di incontri con sindacati, industriali ed esponenti dell'opposizione; avrebbe consentito anche un più sistematico dialogo all'interno della maggioranza, già divisa da forti dissensi.
Il tempo non c'è stato - tre settimane sono poche assai - e la legge finanziaria è nata male, giacché solo il problema delle pensioni è stato studiato in modo adeguato, ma lo studio è stato seguìto da rari incontri coi sindacati e con poche e, a quanto pare, tempestose riunioni interne al governo. E vero: la finanziaria è squilibrata, nel senso che colpisce soprattutto i pensionati e i lavoratori dipendenti, ma io credo che questa è la conseguenza, non di un disegno preordinato, ma della dannata fretta. La questione della sanità è stata sostanzialmente lasciata nelle mani di un solo ministro, che ha fatto quello che ha potuto - i tagli sono stati abbastanza consistenti, è vero, ma potevano essere più razionali e molto più incisivi, come appare anche dal fatto che le proteste dei sindacati hanno riguardato quasi soltanto le pensioni e assai poco la sanità -. Con un tempo sufficiente a disposizione, tutto questo sarebbe risultato evidente e sarebbe risultato chiaro che consistenti risparmi potevano essere ottenuti anche prima della riforma, pur necessaria e urgente, delle finanze locali. La legge finanziaria richiede un tempo non breve giacché presuppone tre fasi: quella dello studio, quella degli incontri tra governo e parti sociali e la fase dell'approvazione in Parlamento.
Perché dunque quel grave ritardo?
E stato detto: quel ritardo è imputabile quasi esclusivamente alla «rissosità» interna alla maggioranza, che trova in Umberto Bossi il principale responsabile; Bossi non lascia lavorare Silvio Berlusconi: ecco il punto.
Non è così. Bossi, è vero, perseguendo i suoi fini, ha dato gomitate ed ha spesso contestato in modo duro e becero Berlusconi e l'altro alleato di governo, Fini. Ma se consideriamo una per una le contestazioni a Berlusconi ci rendiamo conto che tutte, in un modo o nell'altro, riguardano quelli che esponenti della Lega e non solo avversari politici hanno denunciato come interessi privati in atti di ufficio: le polemiche erano sguaiate, ma non prive di fondamento.
La verità è che le polemiche e le risse hanno aggravato la crisi finanziaria, ma non l'hanno creata; come l'hanno aggravata, ma non creata, l'incompetenza e l'inesperienza di diversi ministri. All'origine di tale crisi c'è invece - questo è veramente il punto - il rovesciamento della scala di priorità operato da Berlusconi per dedicarsi ad obiettivi niente affatto urgenti, anzi, alcuni in pieno contrasto con l'interesse pubblico, anche se conformi agli interessi del gruppo Fininvest: Tv, Rai (con la brutale defenestrazione di un Consiglio di amministrazione, il cui programma non si volle neppure esaminare), il decreto salvaladri (pernicioso soprattutto per una norma obiettivamente vantaggiosa per i mafiosi). Non è vero che Berlusconi non ha potuto lavorare: ha lavorato, eccome, ma pensando principalmente ai suoi interessi. Alle misure appena ricordate occorre aggiungere l'abolizione della legge Merloni, introdotta per mettere un argine alle tangenti negli appalti, e gli assalti all'autonomia della Banca d'Italia compiuti da esponenti della maggioranza, mai richiamati all'ordine: attacchi fondati su una serie di pretesti, uno diverso dall'altro. Nel quadro più recente entrano i conflitti coi magistrati di Mani pulite, conflitti che si sono delineati anche prima dell'avviso di garanzia inviato a Berlusconi, magistrati un tempo elogiati e corteggiati politicamente (a Di Pietro era stato offerto un ministero) e poi maledetti e perseguitati e quasi insultati. (Occorre tuttavia osservare che le critiche ai magistrati di Milano, che pure hanno l'attenuante della provocazione, non sono tutte infondate. C'è da augurarsi che in futuro non offrano più pretesti a chi ha buoni motivi per detestarli e che adottino il duplice criterio, più volte da loro enunciato ma non sempre applicato: misura e silenzio. In tutti i modi, i magistrati di Milano hanno meriti straordinari; è sconvolgente la recentissima notizia delle dimissioni del giudice Antonio Di Pietro.)
La crisi finanziaria in corso ha colpito numerosi risparmiatori. Negli ultimi otto mesi sono fuggiti dall'Italia - niente meno - ben 60 mila miliardi di lire; nello stesso periodo in Borsa si registra una perdita di oltre 70 mila miliardi per la flessione dei corsi azionari, mentre l'aumento dei tassi di interesse, a breve e a lungo termine, ha effetti negativi sul bilancio pubblico (ogni punto d'interesse comporta un maggior onere di 15 mila miliardi) e sugli investimenti privati.
Al principio di dicembre il governo ha scongiurato all'ultimo momento uno sciopero generale rinviando alcuni interventi qualificanti per le pensioni. In questo modo è stata salvata la pace sociale, e ciò è un bene; ma si è aperta una nuova falla nei conti pubblici, che va ad aggiungersi al probabile maggior onere per interessi e alla probabile sovrastima di certe entrate e di certi risparmi di spesa. All'origine dello squilibrio che ha condotto a far gravare sulle pensioni una quota troppo alta dei risparmi di spesa troviamo, di nuovo, quel rovesciamento della scala di priorità di cui ho detto e della conseguente maledetta fretta nel preparare la legge finanziaria. E bene ricordare che i sindacati avevano protestato contro le misure riguardanti le pensioni non perché si opponevano alla riforma in sé, ma perché volevano che la riforma fosse oggetto di un provvedimento specifico e perché criticavano duramente il metodo: volevano, a mio parere giustamente, essere consultati in modo sistematico.Data l'importanza della materia e degli interessi in gioco, ciò vale anche per i partiti di opposizione, quale che sia il governo.E anche bene ricordare che, sulle pensioni, il Pds ha preparato un progetto serio e rigoroso, che segna una vera e propria svolta rispetto alla linea prevalentemente assistenzialistica del passato: è un segnale importante, da non sottovalutare.
E stato detto e si continua a dire: ha vinto la destra, la sinistra ha perso. Magari fosse così. Io, che mi considero un laico di sinistra, pensavo da tempo che per un certo periodo un governo di destra poteva essere utile al paese per accelerare sia l'opera di risanamento delle finanze pubbliche sia il processo di privatizzazioni - due operazioni tipicamente «di destra».Questo governo non ha fatto né l'una cosa né l'altra. La verità è che il leader non è né di destra né di sinistra: è interessato essenzialmente ai suoi affari. Questo comincia a diventar chiaro a un numero crescente di persone, anche fra i membri e fra i consiglieri del governo. L'aumento del saggio dell'interesse danneggia gli imprenditori, specialmente i piccoli, le perdite sulle azioni e sui titoli a medio e a lungo termine colpiscono i risparmiatori; se poi la pressione inflazionistica si aggraverà a causa dell'aumento del dollaro, allora la schiera, già ampia, degli oppositori di questo governo crescerà con una velocità travolgente.
Riflettendo sulle vicende degli ultimi mesi si deve concludere che il governo Berlusconi ha assunto connotati chiaramente sovversivi giacché ha scatenato una sorta di guerriglia contro tutte le istituzioni che contano (se i successi appaiono limitati è solo perché le resistenze sono state assai più forti del previsto). Ecco le istituzioni che sono state oggetto d'attacco; l'elenco è impressionante: la Rai-Tv, il Consiglio superiore della magistratura (al principio), la magistratura, la Banca d'Italia, i sindacati, i grandi giornali e lo stesso Presidente della Repubblica. Questa guerriglia istituzionale è già costata al paese diverse decine di migliaia di miliardi di lire.


Le critiche al governo Berlusconi

Spesso Berlusconi si lamenta, non solo di Bossi, ma anche di molti giornalisti e intellettuali, che alimentano polemiche dure e preconcette. E così?
Io dico che le polemiche sono certamente dure, ma non sono preconcette. Salvo poche eccezioni, nei primi due mesi del governo le critiche erano poche e tutti, compresi molti politici dell'opposizione, insistevano sull'idea che bisognava mettere il governo alla prova. In seguito le critiche sono cresciute di numero e d'intensità. La prova che stava fornendo il governo era, dapprima dubbia, poi sempre più chiaramente negativa. C'era sempre la cupa ombra del conflitto d'interessi; ma non c'era solo quest'ombra. Le critiche, sempre più diffuse, erano e sono pienamente meritate ed anzi, a causa dell'insufficiente conoscenza di notizie e dati, che pur sono pubblici o si possono desumere agevolmente da varie pubblicazioni, le critiche sono molto meno dure di quanto dovrebbero essere.
Silvio Berlusconi ha dovuto ammettere di essersi iscritto alla P2, di cui aveva sentito parlare come di un'associazione di persone che rappresentavano quanto di meglio c'era in Italia. Sandro Pertini l'aveva definita un'«associazione per delinquere». Chi aveva ragione? Della P2 facevano parte - l'abbiamo appreso poi, ma una persona accorta si sarebbe informato meglio in tempo utile - personaggi come Poggiolini, Giudice, Lo Prete, oltre ad una serie di personaggi squallidi e anonimi, preoccupati solo della carriera e degli affari. Dov'erano gli eccellenti? No, la P2 non era un'élite aristocratica, ma una pur ristretta cachistocrazia - il potere dei peggiori.
Già prima dell'avviso di garanzia a Silvio Berlusconi era noto a tutti che nella Fininvest gli indagati dalla giustizia penale erano diversi. Il personaggio che suscita le più gravi preoccupazioni, però, è uno dei principali collaboratori di Berlusconi, Marcello Dell'Utri, di cui ricordo solo due fatti. Il primo: una conversazione telefonica fra Dell'Utri e un esponente di spicco di Cosa Nostra, riportata in un rapporto della Criminalpol e discussa in un'intervista al giudice Borsellino, che è stata pubblicata da «L'Espresso» dell'8 aprile 1994. In quel rapporto si leggono notizie tremende; e non c'è mai stata alcuna smentita. Di recente il Tribunale della Libertà ha respinto la richiesta della Procura di Milano di arrestare Dell'Utri; ma non perché presume la sua innocenza - il Tribunale anzi ribadisce la presunzione di colpevolezza, soprattutto per fatture false - bensì per il fatto che non ravvisa più il pericolo d'inquinamento delle prove o di fuga. Tuttavia, gli elementi più gravi sono quelli che emergono da una biografia di Berlusconi cui nei mesi scorsi ho fatto riferimento in diversi articoli definendola agghiacciante; e l'ho definita agghiacciante per quello che in essa si legge e per il fatto che i due autori, Mario Guarino e Giovanni Ruggeri, sono stati assolti nei tre gradi di giudizio dalla querela per diffamazione. Quello che vi si legge a me ha fatto accapponare la pelle; fra l'altro, apprendiamo che Berlusconi, attraverso un suo prestanome, riconosciuto tale in giudizio, ha partecipato ad una società in cui troviamo Flavio Carboni, Domenico Balducci, usuraio della cosca di Pippo Calò, e Danilo Abbruciati, già capo della banda della Magliana. Da parte sua, Vito Ciancimino è entrato più volte in non occasionali rapporti d'affari con Marcello Dell'Utri attraverso il costruttore Francesco Rapisarda.
In generale, il clima che si è creato desta gravi preoccupazioni. Luciano Violante, in un recente libro (Non è la piovra. Dodici tesi sulla mafia italiana, Einaudi), ricorda il tentativo del governo di cancellare l'articolo 41 bis dell'ordinamento penitenziario, che prevede il carcere duro per i mafiosi. Violante ricorda anche che il tentativo fallì; pur tuttavia dopo quel fallimento si assiste a tentativi di svuotare la norma per via amministrativa. «Le magistrature di sorveglianza revocano molte attribuzioni a regime previste dall'articolo 41 bis di imputati e condannati per gravi delitti di mafia: si è passati dai 733 detenuti sottoposti a questo regime del maggio 1994 ai 445 del settembre successivo». Sono notizie estremamente preoccupanti; neanche queste sono state smentite.


Obiezioni ad una interpretazione moralistica

Diversi amici hanno mosso obiezioni alle mie critiche che uno di loro ha definito moralistiche. Ecco le obiezioni più precise.
  1. Non è compito nostro, ma dell'autorità giudiziaria, approfondire quegli addebiti: a ciascuno il suo mestiere.
  2. In tutti i paesi troviamo corruzione e azioni gravemente censurabili, a volte perseguibili penalmente, di non pochi leader politici. In Italia è sempre stato così: il gruppo politico che ha governato l'Italia per decenni non era migliore del gruppo attuale, come Tangentopoli ha dimostrato.
  3. E vero: diversi personaggi della Fininvest risultano indagati per corruzione o per concussione, fra cui ora troviamo anche il capo; ma bisogna riconoscere che quello era divenuto un sistema generalizzato e quindi la Fininvest non poteva non essere coinvolta, come ha ammesso lo stesso Berlusconi.
  4. Morale e politica non coincidono e possono entrare addirittura in conflitto. Perché scandalizzarsi o addirittura indignarsi? Del resto, dobbiamo riconoscere che esiste una necessaria divisione del lavoro: oggi Berlusconi è un politico e come tale va giudicato. La morale non c'entra.
Rispondo.
  1. E vero, non è compito nostro indagare sulle malefatte dei politici. Ma non possiamo ignorare i risultati delle indagini già svolte e dei processi, come quelli intentati a Guarino e a Ruggeri. In quanto cittadini, non in quanto giudici, dobbiamo formarci un giudizio preciso sui politici che operano al vertice delle istituzioni. Ciò accade in tutti i paesi che pretendono di essere civili, giacché si tratta di una questione di civiltà e non solo di codice penale; si tratta di chiarire a noi stessi quale tipo di società intendiamo lasciare ai nostri figli. Penso che tutti, laici o cattolici, dobbiamo reagire al processo di assuefazione al malaffare se vogliamo evitare che il nostro paese si trasformi in modo irreversibile in un'immensa palude melmosa, un processo che è in atto e che non può essere occultato neppure se i convegni su «etica ed economia» e su «etica e politica» da mensili, quali ora sono, diventano settimanali.
  2. E vero che in tutti i paesi troviamo politici che compiono ribalderie di vario genere. Ma il problema non è di stabilire se da noi le cose vanno meglio o peggio - mi pare più che evidente che oggi vanno peggio, soprattutto perché ha avuto luogo quel processo di mitridatizzazione cui alludevo poco fa e nel complesso le reazioni sono inadeguate -. Il problema è: che fanno i «giusti»? Si oppongono o, per quieto vivere, tirano a campare? Solo se si oppongono attivamente possiamo nutrire speranze di miglioramento civile del nostro paese: il movimento e la sua direzione contano assai più della situazione osservabile in un dato momento. Avere in Italia al governo politici dalla moralità molto dubbia non è una fatalità: nel passato abbiamo avuto più volte governi decisamente civili - l'esempio più recente è costituito dal governo Ciampi.
  3. Se quello delle tangenti era un sistema in cui era coinvolta anche la Fininvest, allora perché Berlusconi è entrato in politica? L'unica risposta è: se entrava in politica correva dei rischi, ma se ne restava fuori correva rischi anche maggiori: non disponendo più di protettori politici, doveva difendersi da solo per salvare se stesso e, per usare un'espressione di Giovanni Verga, per salvare «la roba». Bisogna ammettere che il quadro è assai deprimente.
  4. Quanto alla contrapposizione fra morale e politica, ho già ricordato che il mio punto di vista sul machiavellismo coincide con quello di Adamo Smith. Sono crollate le ideologie: non sarebbe bene riflettere sugli ideali?
Dopo i primi due mesi, durante i quali il giudizio sul governo è stato di favorevole attesa anche da parte di molti oppositori, la credibilità di Berlusconi è andata declinando. Credo che l'indice più significativo sia dato dall'andamento dei buoni del tesoro a lungo termine o, se si preferisce, della quotazione del marco. Di recente, dopo l'avviso di garanzia, pare che la credibilità sia precipitata, ma era ulteriormente declinata già prima, come mostrano i risultati delle recenti elezioni amministrative. A questo declino hanno decisamente contribuito non solo le misure d'interesse chiaramente aziendale e le gravi difficoltà finanziarie, che hanno procurato perdite cospicue a molti risparmiatori, ma anche le due solenni promesse fatte durante la campagna elettorale e non mantenute: la riduzione delle imposte, da realizzare unificando le aliquote Irpef al 30%, e la creazione di un milione di posti di lavoro da ottenere in tempi ragionevolmenti brevi. Queste promesse sono state disattese e la gente si è sentita gabbata. E vero che la promessa fiscale era stata «corretta» poco prima delle elezioni. Ma oramai l'inganno era stato compiuto e l'effetto era stato raggiunto. Anche la martellante propaganda delle reti televisive controllate dalla Fininvest ha contribuito a spingere molti elettori a votare per il movimento Forza Italia: la teledipendenza denunciata da Norberto Bobbio ha giocato la sua parte, almeno immediatamente. In breve, c'è stato un abuso della credulità popolare che, quando è doloso, configura un reato perseguito dal codice penale.
Via via che la gente si rende conto di essere stata gabbata, si ricrede. Cosicché il richiamo ai risultati delle elezioni di marzo e poi delle elezioni europee fatto da Berlusconi per legittimare il suo rifiuto di dimettersi nonostante l'avviso di garanzia è, oramai, fuori luogo.
Si dice che l'Italia è un laboratorio politico. Credo che sia così. Ma più per gli esperimenti peggiori che per quelli da assumere come modello. I gravi costi economici e non economici che abbiamo sopportato (e purtroppo la storia non è finita) costituiscono una prova empirica degli effetti disastrosi del tanto discusso conflitto d'interessi. L'unica via di uscita oramai è che Berlusconi si dimetta nel più breve tempo possibile, nell'interesse del paese e, se dobbiamo credere a quanto afferma, della sua salute.


Un'obiezione politica

Amici di centro e di sinistra hanno mosso al mio modo di ragionare, oltre la critica che ho chiamato moralistica, una critica politica: guarda che se Berlusconi cade, gli elettori di Forza Italia si riversano su Fini, che è un fascista, sia pure molto abile, anche nel mimetizzarsi. E vero che i suoi seguaci sono relativamente puliti, anche perché di regola sono rimasti fuori dal potere, almeno dal potere centrale; ma sono pur sempre gli eredi di Mussolini.
Questa argomentazione mi convince solo in parte. Se riconosciamo che il fascismo sorse principalmente come reazione al bolscevismo, che incuteva orrore e paura - per ragioni morali e culturali più che economiche - ad un gran numero di persone, fra cui, almeno in un primo tempo, alcuni grandi intellettuali, allora non possiamo non essere comprensivi. Certo, il calcolo degli avversari del boscevismo nel lungo periodo è fallito miseramente: volevano l'ordine e la salvaguardia dei valori tradizionali, e si sono trovati con un regime che ha soppresso la libertà, si è alleato con Hitler - del resto, inizialmente allievo di Mussolini - ed ha poi portato l'intero paese alla rovina, non solo per la moltitudine di morti e non solo nelle strutture materiali ed economiche, ma anche e ancora di più per la débacle morale.Il punto è che eravamo manifestamente impreparati alla guerra e la disfatta, nonostante l'eroismo di molti, nel suo significato politico complessivo è stata ignominiosa - è il termine da usare giacché il dittatore aveva preparato il paese con dichiarazioni impastate di bolsa retorica, come quella degli otto milioni di baionette, e aveva gettato il paese nell'inferno di una guerra totale ben sapendo (anche a me, ragazzo, appariva evidente) che la preparazione militare era assolutamente inadeguata: l'uomo voleva approfittare delle vittorie del potente alleato. Perciò, la salvaguardia dei valori si è tradotta nel suo contrario - ciò che illustra ottimamente sia il fatto che la paura è una pessima consigliera sia l'idea che non è per moralismo che dobbiamo seguire la regola di Giovenale.
In ogni modo, accetto solo limitatamente quell'argomentazione e sono pronto a riconoscere che Fini ha compiuto un notevole progresso per lasciare dietro di sé il fascismo. Il progresso è degno di nota, ma è ben lungi dall'essere completo. Segni recenti di un tale ritardo sono costituiti dalla grave resistenza al processo di privatizzazioni, visto oramai con favore anche a sinistra, non tanto per motivi economici o finanziari quanto per porre un freno alla corruzione ed agli abusi dei politici al potere. La resistenza dei ministri di Alleanza nazionale ha fatto segnare il passo a quel processo, in contrasto con la politica di Ciampi, tanto criticato da Alleanza nazionale. Per di più, personaggi di spicco di questo partito si sono distinti negli attacchi all'autonomia della Banca d'Italia, un'azione che si ricollega a quella di un magistrato dichiaratamente missino e che si concretò principalmente in una vergognosa persecuzione di Paolo Baffi, uomo civile e integerrimo. Infine, un'esponente del movimento ha dichiarato che occorre un organismo di controllo per i giornali e i giornalisti che usano male la libertà di stampa; in sintonia con questo punto di vista, il capo dell'attuale governo si è spinto fino ad auspicare una legge speciale per la stampa, che ponga fine alle «distorsioni». (Di fronte a tutto ciò, le formule «Polo della libertà» e «Buon governo» suonano come una macabra irrisione.)
Sono segni o segnali molto preoccupanti, che hanno contribuito a danneggiare l'immagine politica dell'Italia all'estero e la credibilità del nostro paese nei mercati finanziari internazionali e che denunciano una tendenza veterostatalista e centralista tipica della fase finale del fascismo. Per di più, nel movimento creato da Fini si nota pur sempre un cospicuo numero di personaggi quanto mai equivoci. E il capo, parole a parte, ha sempre mostrato un'evidente simpatia per i dittatori, per i violenti e per i razzisti. Le mie obiezioni a questo movimento restano dunque molto gravi. A parte tali obiezioni, o forse anche per queste (molti le condividono), nego che possa aver luogo un travaso completo o quasi completo di voti da Forza Italia ad Alleanza nazionale.Le recenti elezioni amministrative, se pure circoscritte ad una quota minoritaria dell'elettorato, indicano che il travaso c'è stato, ma, nell'aggregato, è stato modestissimo: hanno guadagnato di più quasi tutti gli altri gruppi. Certo, la sinistra e il centro possono ingrandirsi in misura significativa a spese di entrambi quei movimenti a condizione di pervenire ad una base programmatica comune e ad una concordia di intenti che ancora non c'è, ma che oggi non sembra troppo lontana.
Il lettore tenga presente che questo capitolo è stato scritto quando Berlusconi era ancora Presidente del Consiglio (nota aggiunta nel febbraio 1995).


4. LA RIFORMA DELLO STATO SOCIALE

Insegnamenti utili per il futuro

Dopo i risultati delle elezioni amministrative e l'avviso di garanzia a Silvio Berlusconi, oggi (principio di dicembre 1994), il governo in carica si dibatte in gravi difficoltà. Non è possibile prevedere quali saranno i prossimi svolgimenti, anche se dobbiamo essere ben consapevoli che Berlusconi non è un politico normale e che non se ne andrà senza aver compiuto tutti i possibili tentativi e accettato tutti i possibili compromessi per restare al potere. Nel precedente capitolo mi sono soffermato sul governo Berlusconi perché credo che da questa infelice esperienza si possono ricavare importanti insegnamenti per il futuro, principalmente due.
Primo insegnamento. Quello del conflitto d'interessi non è un problema soltanto etico: è un problema di grande rilevanza economica e politica. Per il futuro occorrerà risolvere seriamente questo problema, per esempio, fissando delle incompatibilità assolute e introducendo un vero blind trust - quello proposto dalla Commissione non era neppure un myopic trust.
Secondo insegnamento. Il debito pubblico ha raggiunto dimensioni gigantesche e il deficit di bilancio, in assenza d'interventi chirurgici, tende a crescere sia per la lievitazione automatica di certe spese, sia perché, essendo finanziato con titoli, cresce solo per questo motivo l'onere per interessi. Per bloccare questa spirale infernale, dobbiamo dare tagli molto incisivi specialmente alle spese maggiori che crescono automaticamente. E poiché il grosso di tali spese si riferiscono alla previdenza, all'assistenza e alla sanità, dobbiamo renderci ben conto che la preparazione della legge finanziaria - ed oramai mi riferisco alla prossima legge - investe, niente meno, l'intera riforma dello stato sociale. Ed è su questo fondamentale problema che intendo soffermarmi in questo capitolo.
Oramai, il debito pubblico e il relativo onere per interessi sono diventati una pesantissima palla al piede per la nostra politica economica: le spese d'investimento sono le prime a soffrirne e difatti, in termini reali, dal 1990 al 1993 sono diminuite del 16%, e quest'anno la diminuzione risulterà ancora più accentuata. Non si può predisporre alcuna vigorosa politica tendente alla crescita dell'occupazione ed allo sviluppo del Mezzogiorno senza ridurre drasticamente il deficit pubblico che alimenta il debito. Oramai sia dentro che fuori del governo si pensa che una manovra addizionale sia indispensabile in tempi brevi, anche ricorrendo ad aggravi fiscali, in pieno contrasto con le promesse elettorali.
Ma se vogliamo alleggerire drasticamente la paralizzante palla al piede del debito pubblico, per la legge finanziaria relativa al 1996 dobbiamo prepararci ad un taglio anche superiore a quello compiuto dal governo Amato, che fu di ben 90 mila miliardi: e dobbiamo prepararci, io credo, ad un taglio dell'ordine di 100 mila miliardi e forse più.
Certo, si può operare non solo sulle spese, ma anche sulle entrate tributarie, sia intensificando la lotta all'evasione sia introducendo un'addizionale Irpef. Più volte ho proposto d'inviare «commandos» di esperti nei paesi in cui il fisco funziona per imitare creativamente, nei metodi pratici, e, se occorre, anche in certe norme, quel che conviene imitare. Ma una tale azione, che comunque va fatta, non può avere effetti rapidi. Nel passato avevo anche suggerito d'introdurre un'addizionale Irpef, una misura che ha il vantaggio di far pagare soprattutto i redditieri più abbienti e di non avere effetti di tipo inflazionistico, ma ha lo svantaggio di colpire principalmente i lavoratori dipendenti e i redditieri più onesti. Non mi pare che oggi sia rilevante l'obiezione che mi fu rivolta due anni fa, che cioè un inasprimento fiscale poteva indebolire la domanda di beni di consumo, con ripercussioni negative sulla congiuntura economica, che allora era molto insoddisfacente. Tutto considerato, però, il contributo principale alla riduzione del deficit non può provenire che da risparmi ottenibili con la realizzazione di tagli delle principali categorie di spese sociali. E qui che si pone il problema di una riforma dello stato sociale, che sia radicale e che sia concepita in modo unitario. Imporre con la forza una tale riforma non è possibile, come esperienze antiche e recenti hanno confermato. Può essere attuata col consenso delle parti sociali. Ma per ottenere risultati adeguati servono a poco le intese parziali; occorre invece un patto organico con le parti sociali - sindacati (di sinistra, di centro e di destra), associazioni degli imprenditori, grandi e piccoli, ed altre associazioni di categoria.

Tre grandi aree di spesa

Ai tagli di trasferimenti riguardanti le spese sociali conviene aggiungere tagli riguardanti i trasferimenti agli enti locali. Per avere solo un'idea di larga massima delle dimensioni finanziarie per i diversi trasferimenti nel 1993 (si tratta di cifre tonde, in migliaia di miliardi): previdenza 260, assistenza 30, sanità 90; in totale, 380 mila miliardi, mentre i trasferimenti agli enti locali, al netto delle spese sanitarie, ascendono a 80 mila miliardi.
Si pone un importante quesito: come possono tagli molto rilevanti consentire la sopravvivenza stessa dello stato sociale?
In via di principio, la risposta non è ardua: lo stato sociale non va demolito, va trasformato e reso più snello e più robusto proprio per salvare la sua funzione principale, che è quella di sostenere ed aiutare i più deboli. Può apparire come un'azione di pura e semplice solidarietà in sé apprezzabile ma non rilevante dal punto di vista economico o da quello sociale. Non è così. La prestazione, a spese della collettività, dei servizi sanitari ai non abbienti, a lungo andare, tenendo in vita e in salute persone che in questo modo possono accudire figli molto piccoli, tende a ridurre la microcriminalità; inoltre, le persone che altrimenti sarebbero morte o diventate invalide nel corso del tempo possono dare il loro contributo allo sviluppo economico e, alcune, allo sviluppo culturale della società. Considerazioni analoghe valgono per le pensioni, dove pesa molto di più la questione dei diritti acquisiti. Tutto questo, però, significa che lo stato sociale va salvato anzi rafforzato per la fascia bassa dei redditieri; la fascia dei redditieri medi può essere aiutata con incentivi fiscali e quella dei maggiori redditieri neanche in tal modo: in queste due fasce possono avere un ruolo importante le mutue e le assicurazioni.
Questo criterio, che nella sua formulazione essenziale appare ovvio e che io avevo prospettato in modo articolato dieci anni fa, è stato via via tenuto presente nei diversi tentativi di effettuare risparmi sulle spese sociali. Si tratta, però, di non procedere attraverso interventi frammentari: si tratta di por mano a una riforma organica, preparata adeguatamente.
E stato affermato che nelle recenti vicende è emerso che né i partiti di opposizione né i sindacati avevano progetti alternativi. Io dico che può essere fatta una critica opposta: i partiti di opposizione e i sindacati di progetti ne avevano fin troppi; è mancato un progetto unitario, ben definito nelle linee essenziali, anche se non troppo dettagliato. Penso che i diversi partiti e i sindacati, sia di destra che di sinistra, dovrebbero accordarsi per cominciare a delineare un progetto unitario di riforma dello stato sociale. Forse il Consiglio dell'economia e del lavoro potrebbe essere l'organismo adatto per coordinare un tale lavoro. Ma un progetto operativo può essere predisposto solo dal potere politico e, in particolare, del governo. Io mi auguro che Berlusconi, che ormai è diventato un ostacolo al miglioramento della situazione economica e politica, venga messo da parte e si pervenga a un nuovo governo, sia pure dichiaratamente provvisorio, che ponga, fra le sue priorità, la riforma istituzionale e quella delle autonomie locali e che avvii immediatamente la preparazione della legge finanziaria per il 1996. In una tale prospettiva, converrebbe ricostituire subito la Commissione di studi presieduta da Castellino per rendere più razionale, per il futuro, la riforma delle pensioni; e converrebbe creare altre due Commissioni: per la sanità e per i trasferimenti agli enti locali o, più ampiamente, per la riforma delle finanze locali. Già esistono, in Parlamento, Commissioni che si occupano di questi problemi. Occorrono però, a fianco e a sostegno di queste, Commissioni di studio che non facciano altro lavoro e che siano composte da specialisti. Appena pronte le relazioni preliminari delle tre Commissioni bisognerebbe avviare le discussioni con le parti sociali, con le associazioni di categoria e con le parti politiche che sono fuori dal governo, quale che esso sia, riconoscendo che la riforma dello stato sociale rappresenta oramai un'emergenza nazionale.


La posizione dei sindacati

Mi è stato obiettato: è ingenuo attendersi che i sindacati siano pronti a collaborare a misure che comportino tagli incisivi delle spese sociali; potranno dare il loro consenso solo a tagli marginali: la difesa dello status quo per i sindacati e, in particolare, per i sindacati di sinistra è pressoché un riflesso condizionato. La prova è data dalla durissima resistenza ai risparmi, attuali e futuri, connessi con la riforma delle pensioni, una resistenza che ha indotto il governo, per preservare la pace sociale, a rinviare tale riforma.
Io contesto questo punto di vista. L'opposizione è stata condizionata dalla fretta e quindi dalla scarsezza di incontri col governo, dalle conseguenti decisioni, largamente unilaterali, e dall'insufficiente considerazione delle altre aree di spesa. A mio giudizio, la dura opposizione va messa in relazione anche col deterioramento dell'immagine di Berlusconi: non solo coloro che operano nei mercati finanziari interni e internazionali, ma anche i lavoratori - numerosissimi lavoratori - modificano la loro condotta sulla base del giudizio che si formano del governo in virtù dell'evidenza empirica. In effetti, le due leggi finanziarie, quella preparata da Amato e quella di Ciampi, provocarono manifestazioni di protesta e scioperi di gran lunga meno vigorosi ed estesi di quelli attuali. Ma c'è un altro motivo per cui non si può dar ragione agli scettici. Al tempo del primo accordo sul costo del lavoro del 1992 pochi pensavano che i sindacati avrebbero rinunciato a qualsiasi forma di scala mobile. Eppure questo è accaduto: merito del governo Amato che seppe portare avanti gradualmente gli elementi dell'accordo; merito dei sindacati - la Cgil dovette affrontare una grave lacerazione interna - e delle associazioni degli imprenditori, che fecero diverse concessioni.
Sempre nel 1992 Amato aveva elaborato, attribuendo deleghe al governo approvate poi dal Parlamento, alcuni capisaldi delle riforme delle pensioni e della sanità, su cui i sindacati si erano espressi favorevolmente; un anno dopo il governo Ciampi aveva decisamente esteso l'accordo sul costo del lavoro, includendo anche misure, rimaste poi inattuate, sulle scuole professionali, sulla ricerca ed altre; gli effetti dei due accordi sono stati chiaramente positivi, in primo luogo, sull'inflazione, e poi, in modo indiretto, sul deficit pubblico.
Se poi si riconosce che gli obiettivi da perseguire con le assai più ampie possibilità aperte dai tagli sono socialmente rilevanti - ne parlerò nei due capitoli che seguono - allora né i sindacati, né i partiti di sinistra e di centro, né i partiti classificabili nell'area di destra faranno un'opposizione a oltranza.


5. UNA POLITICA PER ACCELERARE LA CRESCITA DELL'OCCUPAZIONE E LO SVILUPPO CIVILE DEL MEZZOGIORNO

La crescita dell'occupazione

La riforma, che dovrebbe rendere più vigoroso lo stato sociale soprattutto per la fascia meno abbiente della popolazione, dovrebbe, al tempo stesso, comportare minori spese e liberare risorse adeguate per finanziare un programma con tre grandi obiettivi, fra loro strettamente interconnessi: occupazione, Mezzogiorno, scuola e ricerca. Dell'occupazione e del Mezzogiorno parlerò brevemente in questo capitolo; ai problemi della scuola e della ricerca accennerò nel capitolo successivo, che è anche l'ultimo.
Tre sono le interpretazioni analitiche della disoccupazione: l'interpretazione dei liberisti, quella keynesiana e quella degli economisti che, in mancanza di un termine più preciso, chiamerò post-keynesiani; corrispondentemente, tre sono le strategie di politica economica, anche se è bene avvertire subito che fra le tre correnti di pensiero non c'è più quella contrapposizione che si poteva osservare fino a qualche anno fa.
Per i liberisti, la disoccupazione si combatte rendendo i salari più flessibili verso il basso, ciò che si ottiene riducendo drasticamente quegli interventi esterni al mercato introdotti dallo Stato e dai sindacati, che spingono i salari su livelli più alti di quelli che il mercato determinerebbe. I liberisti raccomandano la drastica riduzione dei vincoli che ostacolano la mobilità da un'attività ad un'altra e da un'impresa ad un'altra e, più in generale, la flessibilità nel mercato del lavoro.
Per i keynesiani, è raccomandabile, nel breve periodo, ridurre il tasso dell'interesse, espandere le spese pubbliche, produttive e improduttive, da finanziare con emissione di titoli; con riferimento al lungo periodo, raccomandano d'introdurre tributi, per redistribuire i redditi ed accrescere così la propensione al consumo, e di attuare un «controllo sociale degli investimenti».
Fra i post-keynesiani, le posizioni sono diverse.
Questo non è il luogo per approfondire i problemi appena accennati. Mi limito ad osservare che il difetto dei liberisti sta in ciò, che essi trascurano il fatto che i salari non sono solo costi, sono anche redditi, talché una loro riduzione frena la domanda di beni di consumo. Inoltre, i liberisti si riferiscono a livelli «troppo alti» dei salari, mentre le difficoltà dipendono dal fatto che non di rado i salari crescono più della produttività, comprimendo progressivamente i margini di profitto e, al tempo stesso, determinando o accentuando l'aumento dei prezzi. Invece, sulla convenienza di accrescere la flessibilità nel mercato del lavoro sono ormai d'accordo tutti gli economisti, liberisti e non liberisti, ma alcuni, ed io fra questi, sostengono che, se è vero che una flessibilità troppo limitata è dannosa sotto l'aspetto economico, lo è anche una flessibilità «eccessiva» (ho cercato di spiegare questa nozione in un saggio di carattere teorico).
Quanto alle altre raccomandazioni, tutti gli economisti sono d'accordo sulla convenienza di ridurre il tasso dell'interesse, anche se ci sono differenze nel valutare le condizioni che debbono verificarsi affinché una tale riduzione possa essere attuata senza creare guai.
Mentre oggi neppure i keynesiani più convinti sono disposti a sottoscrivere la raccomandazione di espandere ogni tipo di spesa pubblica, sono numerosi gli economisti che raccomandano investimenti pubblici produttivi o innovativi alla condizione, alcuni aggiungono, di compensare le maggiori spese volte a questi fini con risparmi di altre spese pubbliche.
Fra le linee di politica economica raccomandate dai post-keynesiani, oltre quelle ricordate poco fa, su cui concordano tutti gli economisti, ricordo la raccomandazione di ridurre gli orari di lavoro, di organizzare lavori socialmente utili e di promuovere la creazione di nuove imprese. Esprimerò brevissimi commenti sulla prima e la seconda linea di politica economica, per concentrarmi sulla terza linea - creazione di nuove imprese - che ritengo la più importante e la più feconda di tutte.
Io credo che nel breve periodo la riduzione degli orari promossa dai sindacati e dallo Stato possa essere più una misura difensiva, per contenere l'aumento della disoccupazione in certe industrie, che un modo capace di far crescere l'occupazione. Nel lungo periodo la riduzione delle ore può contenere su un più largo fronte la crescita della disoccupazione; ma bisogna essere ben consapevoli che questa via, la quale può essere percorsa in vari modi, è assai accidentata. Volendo introdurre una nota ironica in una problematica peraltro molto seria, possiamo dire che, in generale, sulla via della riduzione degli orari gli impiegati pubblici sono dei pionieri formidabili!
E certo raccomandabile la proposta, ripetutamente avanzata in forme diverse da diversi economisti, di organizzare un «esercito di lavoro» per servizi d'interesse sociale, non solo in patria (soprattutto per affrontare i problemi dell'ambiente), ma anche per contribuire alla creazione di nuove attività produttive nei paesi del Terzo mondo. Tuttavia, per non andare incontro a delusioni, occorre non sottovalutare né i problemi finanziari né i gravi problemi organizzativi che la proposta di lavori socialmente utili comporta.


La creazione di nuove imprese

In generale, nelle condizioni attuali, nelle quali, diversamente da quanto accadeva al tempo di Keynes, normalmente un'estesa disoccupazione non si associa ad un'ampia capacità inutilizzata, il problema non è quello di riattivare una domanda aggregata caduta da alti livelli precedenti: il problema fondamentale è quello di allargare la capacità produttiva, non solo e non tanto attraverso l'espansione delle imprese esistenti, quanto attraverso la creazione di nuove imprese specialmente nell'industria, e, ancora di più, nei servizi.
Considerando la crescente differenziazione del mercato del lavoro e la crescente importanza delle innovazioni di specializzazione, occorre accelerare l'aumento dei livelli di istruzione e di formazione dei lavoratori, sia riformando il sistema scolastico, sia stimolando la crescita delle occasioni di impieghi qualificati attraverso la creazione di imprese capaci di usare nuove tecnologie e, addirittura, capaci di promuoverle. E poiché uno dei due punti deboli delle piccole imprese sta nella capacità di innovare e di applicare nuove tecnologie (l'altro è costituito dalla capacità di esportare), è necessario che l'autorità pubblica favorisca, sia sotto l'aspetto legale e organizzativo sia sotto quello fiscale e creditizio, la costituzione di consorzi. Alcune misure in questa direzione sono state già prese dal governo Ciampi e dall'attuale governo; ma occorre fare molto di più. Al tempo stesso - ed è un punto di grande rilievo - l'autorità pubblica deve anche predisporre servizi ausiliari per l'assistenza tecnica, prendendo a modello organismi esistenti in altri paesi europei (in Francia c'è l'Anvar). La proposta dei distretti industriali, che è caldeggiata da diversi economisti e che mira a rafforzare e a diffondere, in certe zone, le cosiddette economie esterne, s'inserisce in una tale prospettiva.
Le nuove imprese possono offrire beni e servizi per le grandi imprese che decidono di acquistarli fuori piuttosto che produrli direttamente; oppure beni e servizi la cui domanda aumenta sia perché cresce il reddito individuale sia perché, con tale crescita, si accentua la differenziazione dei bisogni e dei mercati; ovvero beni e servizi prodotti a costi relativi decrescenti grazie al progresso tecnico; o, infine, beni e servizi importati, che possono essere vantaggiosamente prodotti all'interno.
Una forma particolarmente importante di creazione di nuove imprese può essere costituita da quella che ho chiamato «produzione d'imprese a mezzo d'imprese». Da uno studio presentato dal Censis a un convegno sulla situazione industriale, tenuto a Sorrento nel 1988, risultava che 6-7 nuove piccole imprese su 10 nel Nord e 5-6 nel Sud erano organizzate da lavoratori che dipendevano da imprese di dimensioni maggiori e che si mettevano in proprio. Certe volte il distacco avveniva col pieno accordo delle imprese maggiori, che trovavano conveniente decentrare certe attività e diventavano le principali clienti delle nuove imprese. Una tale forma di creazione di piccole imprese va decisamente raccomandata giacché le persone acquisiscono, nelle imprese di provenienza, un' importante esperienza pratica. La creazione di nuove imprese può essere favorita dagli stessi sindacati proponendo, nei contratti collettivi, clausole particolari per le liquidazioni, clausole che possono essere integrate da incentivi fiscali e creditizi decisi dallo Stato. Incentivi di questo genere possono essere previsti per i fondi amministrati dalla Cassa integrazione guadagni, che oggi rappresenta un organismo per distribuire sussidi di disoccupazione. In sostanza si tratta di aiutare i lavoratori in Cassa integrazione e, più in generale, i disoccupati a formare nuove piccole imprese o a diventare lavoratori indipendenti.
La via maestra da percorrere per ridurre progressivamente la disoccupazione è dunque costituita dalla creazione di nuove piccole imprese. E la via maestra non solo per ragioni economiche ma anche per ragioni civili, giacché fa crescere la schiera delle persone autonome, capaci di autogestirsi, persone che rinunciano ad attendere il posto da influenti uomini politici locali. Per tutto il nostro paese, ma specialmente per il Mezzogiorno, ciò riveste vitale importanza, giacché lo sviluppo civile è ben più importante dello sviluppo economico, o, più precisamente, questo è importante solo se è strumentale rispetto a quello.


Lo sviluppo civile nel Mezzogiorno

La creazione di nuove imprese è importante per il Mezzogiorno in primo luogo perché è in quest'area che il problema della disoccupazione è particolarmente grave. La quota dei disoccupati, infatti, qui supera il 18%, mentre è la metà nel Centro ed è poco più di un terzo (6,5%) nelle regioni settentrionali. E lecito affermare che in queste regioni la disoccupazione supera assai limitatamente il livello fisiologico (livello «di attrito») che stimo intorno al 5-6%, da due a tre volte più alto del livello fisiologico di trenta o quaranta anni fa. Questo è vero per tutti i paesi industrializzati - con qualche differenza, non particolarmente rilevante, nelle cifre -. Il fatto è che con l'aumento del livello medio di istruzione dei lavoratori, le aspettative di un lavoro gratificante e corrispondente agli studi fatti si elevano e quindi cresce il tempo di attesa che i giovani sono disposti ad affrontare per trovare un lavoro di quel genere; un aumento del tempo di attesa diviene possibile anche per la crescita del reddito familiare medio. Pertanto, considerando puramente la quantità, la disoccupazione è un problema di scarso rilievo nel Nord, assume un certo rilievo nel Centro e appare come un grave problema nel Sud.
Per molti aspetti il problema rientra nella così detta questione meridionale. C'è tuttavia un aspetto particolare, che si ricollega a due caratteristiche della società meridionale odierna. La prima consiste in questo, che la quota principale dei disoccupati è costituita da giovani forniti di licenza di scuola media inferiore o di diploma; questi giovani appartengono a famiglie che, come ho già osservato, possono mantenerli anche dopo la fine degli studi, circostanza che ha frenato le migrazioni dal Sud al Nord. In effetti, quasi tutto l'aumento della disoccupazione nel Sud è imputabile all'aumento delle persone, specialmente donne, in cerca di prima occupazione, un aumento che si è concentrato in quattro anni, dal 1986 al 1989, senza poi regredire. La seconda caratteristica è che la quota dei dipendenti della pubblica amministrazione, che nel Nord ascende al 18% dell'occupazione totale, nel Sud, dove c'è meno da amministrare, è più alta che nel Nord (23%). E poiché spesso nella media nazionale le retribuzioni del settore pubblico sono cresciute più che nel settore privato e, d'altra parte, nel Sud il settore pubblico, tenuto conto anche della sicurezza, offre spesso retribuzioni più appetibili che nel settore privato, si comprende perché molti giovani, forniti di titoli di studio medi, non di rado perseguiti proprio per ottenere un posto nella pubblica amministrazione, preferiscono aspettare piuttosto che cercare un impiego nel settore privato, dove la domanda di lavoro cresce molto lentamente, o avviare un'attività autonoma. Se è vero che questo fattore ha aggravato la situazione della disoccupazione nel Sud, come è stato messo in rilievo da un recente studio del Centro Europa Ricerche di Roma, è necessario che il governo sia molto cauto tanto nella politica delle retribuzioni quanto nella politica di creazione di nuovi posti di lavoro nel settore pubblico del Sud, favorendo vigorosamente, al tempo stesso, la creazione di nuove imprese per evitare che, nonostante tutto, molti giovani restino in fila di attesa per un posto pubblico, mentre la domanda di lavoro nel settore privato cresce poco o non cresce affatto.


Il livello d'istruzione dei lavoratori

La questione del titolo di studio dei lavoratori è importante anche sotto altri aspetti.
Se si dividono sia gli appartenenti alle forze di lavoro che i disoccupati in quattro categorie, secondo il titolo di studio - persone che hanno al massimo la licenza elementare, licenziati, diplomati e laureati -, si nota che la quota di coloro che hanno al massimo la licenza elementare in Italia è ancora nettamente più alta rispetto agli altri paesi sviluppati (si tratta, in sostanza, di semi-analfabeti): stiamo sul 24% - il 22% nel Centro-Nord ed il 28% nel Sud -. Si tratta di quote patologiche per un paese civile: questi indici debbono convincerci che è necessario intensificare gli sforzi per riorganizzare ed ammodernare l'intero sistema scolastico, cominciando dalle scuole elementari.


L'andamento dell'occupazione negli ultimi quarant'anni

Dal momento che nella campagna elettorale per le elezioni di marzo si discusse molto della promessa di creare un milione di nuovi posti di lavoro e poiché il problema dell'occupazione è comunque un problema grave, conviene ricordare schematicamente le variazioni dell'occupazione nel nostro paese durante gli ultimi decenni.
Se si considera l'occupazione totale, questa dal 1954 al 1974, che pure è stato un periodo di rapido sviluppo produttivo, è diminuita, a causa dell'esodo agrario (tabella 1). Dal 1974 al 1993, l'occupazione totale è aumentata, in media, di 210 mila unità l'anno. Se si considera l'occupazione extra-agricola questa è cresciuta di 420 mila unità l'anno nel periodo 1954-1974; nel ventennio successivo l'aumento - 250 mila unità l'anno - è dovuto soltanto al sostenuto aumento nell'occupazione nel settore dei servizi, privati e pubblici, il quale ha più che compensato non solo la flessione dell'occupazione nell'agricoltura ma anche la flessione nell'industria, imputabile a un rapido processo di ristrutturazione che si è svolto in un periodo di sviluppo più lento. Nel 1993 l'occupazione extra-agricola ha subìto addirittura una caduta, poiché, a causa dell'avversa congiuntura economica, i servizi privati hanno addirittura espulso 300 mila lavoratori e, a causa delle difficoltà finanziarie, la pubblica amministrazione non ha assorbito nuovi lavoratori (tabella 2). Mettendo da parte l'occupazione in agricoltura, che è stata sempre in diminuzione, più o meno forte, la creazione annuale di nuovi posti è stata, negli altri settori, di 320 mila unità l'anno nel quadriennio 1967-70, un periodo di rapido sviluppo, e di 390 mila unità nel 1974, anche questo un anno nettamente favorevole. In quegli anni, però, non si era profilato quel processo di intensa ristrutturazione che ha provocato una cospicua flessione, se pure con interruzioni, nell'occupazione industriale. Sebbene il 1994 sia un anno di ripresa economica, tutti gli istituti di ricerca prevedono un aumento molto limitato dell'occupazione. Le cose potranno andar meglio nel 1995, specialmente se si adotta un'adeguata politica volta a sostenere la crescita dell'occupazione. Ma la promessa di un milione di nuovi posti di lavoro oggi appare chiaramente a tutti quella che era: una promessa che mirava ad abbindolare gli ingenui.

Agricoltura Industria Servizi Pubb.
amm.ne
Totale
1954-74 -460 120 200 100 -40
1974-93 -150 -130 380 120 210

Tab. 1. Variazioni medie annuali dell'occupazione (migliaia)

Industria Servizi Pubblica
Ammin.ne
Totale
1959-62 200 40 40 200
1967-70 140 120 60 320
1974 115 160 115 390
1982-93 -220 115 30 -75
1993 -200 -300 0 -500

Tab. 2. Variazioni medie annuali dell'occupazione nei settori extra-agricoli (migliaia)

Chi vuol farsi un'idea delle relazioni fra le variazioni della struttura dell'occupazione e quelle della struttura sociale può mettere a confronto queste due tabelle con quelle presentate nel primo capitolo.

6. LA SCUOLA, LA RICERCA SCIENTIFICA E LA QUALITA DEL LAVORO

Sovente si discute del sistema scolastico e della ricerca come di due settori che hanno certamente un ruolo molto importante nella società, ma che vanno considerati separatamente. Si tratta di una concezione gravemente fuorviante. Già gli accenni espressi nel precedente capitolo sulla suddivisione della forza lavoro secondo i titoli di studio mostrano chiaramente che i problemi della scuola, del Mezzogiorno e dell'occupazione costituiscono un insieme da considerare in modo unitario; i problemi della ricerca scientifica, a loro volta, non sono separabili da quelli dell'Università e della qualità del lavoro di tutti e non solo dei ricercatori e degli scienziati. La stessa creazione di piccole imprese, che è quella qui proposta come la via maestra per affrontare i problemi quantitativi e qualitativi dell'occupazione, va vista congiuntamente coi problemi della scuola. E evidente che solo una scuola efficiente può dare un contributo di rilievo alla creazione di nuove piccole imprese: persone semi-analfabete o con basso livello di istruzione ben di rado sono in grado di organizzare nuove imprese, per quanto modeste. D'altro lato, è necessario favorire specialmente la nascita e la crescita di piccole imprese dinamiche anche sotto l'aspetto delle innovazioni per creare posti di lavoro di tipo moderno. A questo scopo servono organismi di assistenza tecnologica alle piccole imprese, come il già citato Anvar francese - ma in Francia ci sono altri due organismi di questo genere; ce ne sono anche in altri paesi europei e negli Stati Uniti -. Da noi un dipartimento dell'Enea svolge un'assistenza tecnologica alle piccole imprese, ma è necessaria una radicale riorganizzazione per rendere veramente efficiente quell'attività, oggi svolta in modo frammentario. D'altra parte, considerata l'elevata mortalità delle piccole imprese nei primi anni di vita, occorrono anche organismi che operino da «tutor». Anche in questo campo possono intervenire società private, che tuttavia hanno bisogno di incentivi e di sostegni organizzativi da parte di enti pubblici.
E socialmente utile stimolare la creazione di piccole imprese di ogni tipo; tuttavia la creazione di piccole imprese tecnologicamente avanzate richiede non solo la costituzione e lo sviluppo di organismi di cui si è appena detto, ma anche uno sviluppo più vigoroso di certe Facoltà universitarie, uno sviluppo da considerare nel quadro complessivo della riforma dell'Università; così una crescita più sostenuta dei laureati in ingegneria elettronica può portare con sé una crescita meno lenta di piccole imprese operanti in tale importante settore.
A questo punto è conveniente proporre qualche specifico tema di riflessione sulla scuola, sull'Università e sulla ricerca scientifica.

Una condizione preliminare per riorganizzare il sistema scolastico

Considerata la dichiarata disponibilità d'intellettuali ed influenti uomini politici del centro e della sinistra a trovare, sulla questione della scuola privata, una soluzione non conflittuale, si può pensare di avviare in tempi brevi la procedura di revisione costituzionale per abolire la norma che vieta il finanziamento della scuola privata e che, alla fine, è risultata un ostacolo ad una riorganizzazione unitaria e, al tempo stesso, razionalmente differenziata del sistema scolastico. Mi riferisco alla norma che così recita: «Enti e privati hanno il diritto di istituire scuole e istituti d'istruzione, senza oneri per lo Stato»; mi riferisco anche a quella lunga serie di espedienti che sono stati escogitati dall'italica furbizia per far diventare «con» quel «senza».


Riflessioni sulla riforma universitaria

Il recente provvedimento del ministro Podestà ha più difetti che pregi; comunque, ha una rilevanza molto modesta. Senza dubbio, occorre por mano in tempi brevi ad alcune essenziali linee di riforma riguardanti, in primo luogo, i professori. Sui concorsi è bene far partecipare alle commissioni docenti di altri paesi europei, ma, forse, non direttamente (c'è il problema della lingua), bensì richiedendo loro un giudizio scritto su un numero prestabilito (limitato) di lavori, eventualmente sintetizzati a cura degli interessati. Non è detto che i docenti stranieri siano migliori dei nostri; ma sono, quasi sempre, disinteressati; io stesso sono stato invitato a presentare il mio giudizio su un candidato alla cattedra di una Università inglese: in quel paese questa è prassi abituale. Con la stessa prassi, ogni tre o quattro anni, dopo aver vinto il primo concorso, ciascun docente deve essere sottoposto a giudizio per l'avanzamento di carriera e di stipendio. Un'analoga prassi, preferibilmente con una maggioranza di docenti stranieri, deve essere adottata per giudicare, sulla base di una relazione periodica, l'attività di ricerca degli istituti e dei laboratori, sia quelli dell'Università sia quelli degli enti pubblici di ricerca: un tale giudizio, formulato per iscritto da Commissioni di valutazione, deve condizionare l'assegnazione dei fondi per la ricerca, che oggi sono distribuiti alla cieca o, come si dice, a pioggia. Sia i giudizi delle Commissioni dei concorsi sia quelli delle Commissioni di valutazione dovrebbero partire da punteggi preliminari elaborati su dati obiettivi, differenziati secondo quattro o cinque grandi gruppi di discipline; è un metodo che comincia a diffondersi in diversi paesi. Infine, dev'essere reintrodotta la norma (un tempo c'era) secondo la quale i docenti hanno il dovere di tenere lezioni durante l'intero anno accademico: se scelgono corsi «semestrali» devono tenere due corsi in due distinti «semestri» - che in realtà durano, ciascuno, tre mesi e mezzo -. Quale che sia la loro efficacia, le lezioni sono importanti perché stabiliscono una continuità di rapporti fra studenti e docenti. Ricordo che nelle Università americane ogni docente deve tenere due o tre corsi per «term»: ne segue che i docenti italiani sono sovrapagati e sono troppi.
Per pungolare i docenti e indurli ad adempiere nel modo migliore ai loro doveri conviene attribuire agli studenti che abbiano superato un determinato numero di esami il compito di formulare valutazioni sui corsi. In certe Università, anche in Italia, questa è già prassi: si tratta di estenderla e di stabilire regole generali, semplici e chiare.
Anche per gli studenti occorre introdurre nuove regole generali, che non sono affatto in contrasto con l'autonomia delle Università, ma, anzi, possono rafforzarla. E essenziale affrontare alle radici il problema della tremenda «mortalità» studentesca: solo uno studente su tre giunge alla laurea. Occorre, in via preliminare, elevare le tasse universitarie, che oggi coprono poco più del 5% del costo, portandole al 15-20%; contemporaneamente occorre moltiplicare le borse di studio per i «meritevoli», capaci di coprire le tasse o - per i molto meritevoli - di fornire anche mezzi di mantenimento. Inoltre, va incentivata la pratica, particolarmente raccomandabile perché insegna a contare su se stessi, dei «prestiti d'onore». Occorre poi istituire, all'entrata dei giovani nell'Università, un colloquio di valutazione ed orientamento ed occorre introdurre l'obbligo di superare ogni anno un numero minimo di esami fissando, al tempo stesso, un periodo massimo per conseguire la laurea, come avviene in paesi più civili del nostro.
Negli anni recenti alcuni passi nella direzione di una riforma valida dell'Università sono stati compiuti; ma i passi più importanti sono ancora da compiere.


I gravi problemi della ricerca

L'indice che viene usato in via preliminare, specialmente per compiere confronti internazionali, è la quota sul prodotto interno lordo delle spese di ricerca; già questo indice non dà motivi di ottimismo: è vero che negli ultimi anni è alquanto aumentato, ma è anche vero che è pur sempre la metà dei valori che si osservano in Gran Bretagna, in Francia, in Germania (1,6% contro il 3-3,2%). Per di più, il governo attuale ha addirittura ridotto gli stanziamenti per la ricerca. Tuttavia, pur non essendo privo di significato, l'indice appena ricordato non ha grande valore: in realtà, se si potesse valutare la produttività, scientifica e sociale, delle spese per la ricerca (ciò è difficile ma, se si compiono studi approfonditi di settore, non impossibile), si arriverebbe alla conclusione che la distanza che ci separa dai partner europei appena ricordati non è di 1 a 2, ma più ampia, presumibilmente non di poco. Il fatto è che la nostra organizzazione della ricerca è caratterizzata da gravi sprechi e non solo nell'Università, ma anche negli enti pubblici di ricerca: il Consiglio nazionale delle ricerche (Cnr), l'Enea, l'Istituto nazionale di fisica nucleare (Infn), l'Istituto superiore di sanità ed altri enti minori. Secondo Felice Ippolito, un uomo che ha dedicato buona parte della sua vita ai problemi della ricerca, il Cnr e l'Enea, in particolare, dovrebbero essere completamente ristrutturati, seguendo i modelli della Francia, della Germania e della Gran Bretagna («Le scienze», novembre 1994).
Non solo nell'Università, ma anche negli enti di ricerca non mancano le «isole di eccellenza»: vanno studiate proprio per comprendere che cosa funziona e trarne indicazioni pratiche - pur essendo consapevoli che le «isole di eccellenza» debbono molto alla personalità di singoli scienziati -. Forse sarebbe opportuno promuovere un'indagine parlamentare sull'Università e sugli enti di ricerca, chiamando anche a testimoniare docenti, ricercatori, funzionari, tecnici e studenti.
La ricerca di base è svolta soprattutto (ma non esclusivamente) nell'Università, mentre la ricerca applicata è svolta negli enti di ricerca e nelle imprese private, particolarmente nelle grandi imprese. Bisogna dire che, se i politici hanno gravi responsabilità per la situazione infelice della ricerca nel nostro paese, anche gli industriali non sono affatto privi di colpe, giacché preferiscono investire cospicui mezzi finanziari nel calcio («circenses») piuttosto che in cultura: un indice, anche questo, dell'arretratezza civile dell'intero paese tanto nel suo settore pubblico quanto in quello privato. Il giorno in cui vedremo costituirsi una robusta lobby in Parlamento per far passare un provvedimento fiscale che preveda fortissimi sgravi fiscali (ben più incisivi di quelli esistenti) per la costituzione di istituti di ricerca finanziati da imprese private, sarà un gran bel giorno per il paese.
Tuttavia, non basta inventare: per lo sviluppo economico e civile occorre poi applicare le invenzioni, occorre cioè innovare; ed è necessario che le innovazioni si diffondano progressivamente. Ora, l'estensione e la velocità della diffusione dipendono dall'efficienza del sistema scolastico considerato nel suo complesso. A questo proposito può essere interessante una osservazione - forse dovrei definirla soltanto una ipotesi -. I laboratori e gli istituti di ricerca inglesi sono fra i più avanzati del mondo; eppure la performance dell'economia inglese, se si considera la crescita della produttività e il ritmo dell'immissione di nuovi prodotti, appare meno e non più brillante di quella di altri paesi industrializzati: chiaramente, la diffusione delle innovazioni è lenta in Gran Bretagna. Certi indizi inducono a ritenere che ciò dipende dal fatto che le scuole medie non sono particolarmente efficienti. E un'ipotesi da approfondire.
Torniamo al nostro paese, dove le cose vanno certamente peggio. Sotto l'aspetto economico, un debole sistema di ricerca comporta un fiacco e limitato sviluppo di prodotti ad alta tecnologia, con la conseguenza che anche le esportazioni di tali prodotti crescono relativamente poco. Questo è un fatto negativo, poiché, a lungo andare, i prodotti che possono fare tutti sono vulnerabili nella concorrenza internazionale.
La crescita delle attività della ricerca scientifica riveste grande importanza per lo sviluppo economico; ma la ricerca scientifica, intesa in senso lato, è essenziale per lo sviluppo civile, che è assai più importante dello sviluppo economico. I due processi non coincidono, ma si sovrappongono in vari modi. Così lo sviluppo della ricerca scientifica direttamente e indirettamente favorisce la crescita dei posti di lavoro capaci di procurare soddisfazioni intellettuali assai più che soddisfazioni economiche. E in realtà, nonostante la filosofia consumistica e dell'arricchimento, che sembra prevalere, credo che un numero crescente di giovani aspiri più a quelle che a queste.
La scienza non è soltanto, come afferma Adamo Smith, il grande antidoto del fanatismo e della superstizione, ma è anche, come sostengono lo stesso Smith e poi, molto più vigorosamente, il nostro Carlo Cattaneo, il principio primo dello sviluppo economico e dell'incivilimento. La scienza è l'acqua sorgiva che, scendendo dalle montagne può, a cascata, irrigare e rendere fertili e prospere le colline e le vallate sottostanti. Può gradualmente migliorare la qualità del lavoro ossia, in ultima analisi, la qualità della vita.

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