La
teoria delle élites: i precursori
"Per teoria delle élite, s'intende: "quella
teoria secondo cui in ogni società è sempre e soltanto una minoranza
quella che detiene il potere, nelle sue varie forme, di contro a una
maggioranza che ne è priva. Poiché, fra tutte le forme di potere, la
teoria delle élites è nata e si è sviluppata con particolare riguardo
allo studio delle élites politiche, essa può essere ridefinita come
quella teoria secondo cui in ogni società appartiene sempre a una ristretta
cerchia di persone il potere politico, cioè il potere di prendere e
di imporre, anche ricorrendo in ultima istanza alla forza, decisioni
valevoli per tutti i membri del gruppo". (N. Bobbio, da N. Bobbio, N.
Matteucci, G. Pasquino, Dizionario di Politica, Utet, Torino, 1983 cit.
p.373.)
La formulazione classica di questa teoria fu data da Gaetano Mosca negli
Elementi di scienza politica (1896): " Fra le tendenze ed i fatti costanti,
che si trovano in tutti gli organismi politici, uno v'è n'è la cui evidenza
può essere a tutti facilmente manifesta: in tutte le società, a cominciare
da quelle più mediocremente sviluppate e che sono arrivate appena ai
primordi della civiltà, fino alle più colte e più forti, esistono due
classi di persone: quella dei governanti e quella dei governati. La
prima, che è sempre la meno numerosa, adempie a tutte le funzioni politiche,
monopolizza il potere e gode i vantaggi che ad esso sono uniti; mentre
la seconda, più numerosa, è diretta e regolata dalla prima in modo più
o meno legale, ovvero più o meno arbitrario e violento, e ad essa fornisce,
almeno apparentemente, i mezzi materiali di sussistenza e quelli che
alla vitalità dell'organismo politico sono necessari". ( G. Mosca, Elementi
di scienza politica, Laterza, 1953, I parte, cap.II. )
Mosca, comunque, non si limitò ad enunciare il principio; cercò anche
di spiegare il fenomeno, insistendo ripetutamente sull'osservazione
che la classe politica traeva la propria forza dal fatto di essere "organizzata";
le minoranze si mostrano capaci di mobilitare tutte le loro risorse
verso un unico fine, la maggioranza no.
Fu questo, dunque, l'elemento più originale e fertile della teoria moschiana
della classe politica. Come lo stesso Mosca ebbe a riconoscere, il fatto
che ovunque ci fossero minoranze governanti e maggioranze governate
era una constatazione fatta già da molti altri studiosi. La differenza
sta in ciò: che mentre questi autori avevano naturalmente attribuito
alla forza delle armi, la superiorità delle minoranze, Mosca fu il primo
a cogliere l'importanza fondamentale dell'organizzazione come elemento
di superiorità della minoranza dirigente sulla maggioranza dei governati;
e il passo degli Elementi, nel quale è fornita questa spiegazione, è
davvero incisivo: " La forza di qualsiasi minoranza è irresistibile
di fronte ad ogni individuo della maggioranza, il quale si trova solo
davanti alla totalità della minoranza organizzata; e nello stesso tempo
si può dire che questa è organizzata appunto perché è minoranza. Cento,
che agiscano sempre di concerto e d'intesa l'uno con gli altri, trionferanno
su mille presi ad uno ad uno e che non troveranno alcun accordo fra
loro; e nello stesso tempo sarà ai primi molto più facile l'agire di
concerto e l'avere un'intesa, perché son cento e non mille". ( G. Mosca,
Elementi di scienza politica, (1896), da La burocrazia, a cura di F.
Ferraresi e A Spreafico, Bologna, il Mulino, 1975, pp.64 e ss.)
La fortuna della teoria e dello stesso termine "?lite" risale, invece,
a Vilfredo Pareto che riuscì - in virtù del suo grande prestigio internazionale
- a farne uno dei temi dominanti della scienza politica. Alcuni anni
dopo gli Elementi, infatti, e non senza essere stato influenzato dalle
precedenti riflessioni di Mosca, il professore di Losanna enunciò, nell'Introduzione
ai Sistemi Socialisti, (1902) la tesi secondo cui in ogni società vi
è sempre una classe superiore che detiene generalmente il potere politico
e quello economico: a questa classe superiore Pareto diede il nome di
"aristocrazia". Egli richiamò l'attenzione sul fatto che, essendo gli
uomini diseguali in ogni campo della loro attività, essi finiscono col
disporsi in vari gradi, che vanno dal superiore all'inferiore e chiamò
?lite coloro che compongono il grado superiore soffermandosi sugli individui
occupanti i gradi superiori della ricchezza e del potere; in pratica
su coloro che costituiscono l'?lite più propriamente politica, o "aristocrazia".
In particolare, Pareto fu attratto dal fenomeno della grandezza e della
decadenza delle aristocrazie, cioè dal fatto che "le aristocrazie non
durano" maturando così la convinzione che la storia non sia altro che
il teatro di una continua lotta fra di esse per non soccombere e sparire
dalla scena sociale. A conferma sta il Trattato di sociologia generale
(1916), nel quale la sua teoria dell'equilibrio sociale si fonda in
gran parte sul modo con cui si combinano, s'integrano, e si ricambiano
le diverse classi di ?lite di cui le principali sono quelle politiche
(i cui due poli sono i politici che usano la forza, o leoni, e quelli
che usano l'astuzia, o volpi); quelle economiche (coi due poli degli
speculatori e dei redditieri), e quelle intellettuali ( in cui si contrappongono
continuamente gli uomini di fede e quelli di scienza).
Negli anni intercorsi tra i due scritti di Pareto (1902 e 1916) , Roberto
Michels, ispirandosi alle idee di Mosca e di Pareto, più a quelle del
primo che del secondo, pubblicò, prima in edizione tedesca (1910) poi
in edizione italiana La sociologia del partito politico nella democrazia
moderna (1912), un'opera che, studiando la struttura dei grandi partiti
di massa, in specie del partito socialdemocratico tedesco, mise in rilievo
nell'ambito della grande organizzazione, come quella dei partiti di
massa, lo stesso fenomeno della concentrazione del potere che Mosca
aveva constatato nella società in generale. A questo gruppo di potere
diede il nome di oligarchia, usando un termine diverso da quello di
'aristocrazia' usato da Pareto.
Per quanto il rapporto tra organizzazione e gruppo di potere secondo
Michels sia l'inverso di quello proposto da Mosca - per Mosca l'organizzazione
è uno strumento per la formazione della minoranza governante, mentre
per Michels è la stessa organizzazione che ha per conseguenza la formazione
di un gruppo elitario - , l'opera costituì una conferma storica ed empirica
della teoria elitistica, una verifica che contribuì a consolidarne il
successo.
Pareto a cavallo fra fatti e valori
Vilfredo Pareto è decisamente noto e stimato soprattutto come economista;
Einaudi, ad esempio, ebbe a criticarlo proprio per la sua incursione
nel campo della sociologia cogliendo l'occasione di un richiamo fatto
da Croce allo stesso Pareto, circa il rischio di deviazione che poteva
spingere gli economisti a sconfinare in altre discipline. Scrive Einaudi:
"Il Pareto non badò al Croce e scrisse il Trattato di sociologia generale
(1916), applicando allo studio delle leggi le quali governano le società
umane un metodo di classificazione in tipi e sottotipi, più o meno ricchi
dell'istinto e delle combinazioni e della persistenza degli aggregati,
profondamente repugnante a chi sia fornito di quel minimo di istinto
storico, grazie a cui non si riesce a comprendere come un avvenimento
sia simile ad un altro, e le vicende umane si ripetano identiche […]
e si è invece costretti a studiare quell'uomo, quelle istituzioni aventi
certi nomi simili ma operanti per lo più in maniere differentissime.
Di nuovo il Croce persuase i superbi a chinar la testa, ad esitare di
fronte alle generalizzazioni". (L. Einaudi, La scienza economica. Reminiscenze,
cit. da M. Finoia, Il pensiero economico italiano 1850/1950, Cappelli,
1980 p.97).
L'acuto disagio dell'economista piemontese è del tutto comprensibile
se si fa riferimento ad alcuni aspetti decisamente contraddittori della
personalità paretiana. Di qui la necessità di decifrare, innanzitutto,
la sua complessa e tormentata esperienza politica i cui risvolti hanno
caratterizzato la stessa elaborazione della teoria delle élites. Una
esperienza, si è detto, tormentata sopratutto perché in lui si sono
riflessi con precisione i drammi dell' epoca, i conflitti che agitarono
la scena europea fra la rivoluzione del 48' e la prima guerra mondiale.
E poi perché il suo carattere :"assai poco propenso ai compromessi e
alle manovre diplomatiche".( P.Bonetti, Pareto, Laterza, 1994, cit.p.4)
dovette sperimentare brucianti delusioni politiche. Ecco, allora, il
suo disincantato realismo, che non poche volte sfiorò il cinismo, e
ancora un pessimismo che si tradusse, infine, nel totale rigetto degli
ideali democratici. Conclusione questa alla quale Pareto giunse dopo
aver percorso un complesso itinerario teorico durante il quale ebbe
modo di individuare alcuni punti che si riveleranno poi fondamentali
per il suo pensiero politico : a) la dottrina dell'equilibrio sociale,
b) la teoria della circolazione delle élites, c) l'affermazione che
la forza è elemento primario nella regolazione dei rapporti umani.
Sicchè nonostante Pareto avesse della scienza una concezione rigorosamente
aliena da giudizi di valore e proclamasse che essa doveva restare lontana
dall'impegno pratico, non riuscì ad imbrigliare le sue stesse passioni
che trasuderanno in tutta la sua riflessione politica. Pareto, infatti,
aveva ben capito quanto fosse sconfinato l'universo della paura umana
e quanto invece angusto lo spazio che le collettività lasciano alla
ragione per risolvere i loro problemi. Conscio, dunque, della potenza
dell'irrazionale, Pareto tentò sempre - pur non riuscendoci - di restar
fedele agli imperativi della scienza che prescrivono un atteggiamento
neutrale nella descrizione dei fatti. Ecco perché l'immagine che egli
amò dare di se stesso fu quella - come ha scritto Bobbio - : "dello
spassionato fustigatore di tutte le passioni umane che avevano ostacolato
il cammino della conoscenza scientifica della società; dell'incredulo
irrisore di tutte le credenze più assurde che avevano alimentato le
metafisiche sociali (di cui molte si facevano passare per scienza);
del lucido, sempre raziocinante, impassibile osservatore della ricorrente,
e per quanto esecrata sempre rinascente, follia umana". ( N.Bobbio,
a cura di, Pareto e il sistema sociale, Firenze, Sansoni,1973 p.6 ).
In tutte le sue teorie, infatti, vi è un attacco contro le facoltà dell'uomo
come essere razionale. La sua fondamentale distinzione fra azioni logiche
e azioni non-logiche, la differenza fra "residui" e "derivazioni", la
teoria stessa della circolazione delle élites, indicano in Pareto un
pessimismo radicale, un disincanto tale - ha scritto Ferrarotti - :"
...da bruciare i margini per qualsiasi illusione di cambiamenti qualitativi
reali."( F.Ferrarotti a cura di, Pareto, Milano, Mondadori,1973 p.22).
Il nocciolo del pensiero paretiano perciò, a ben vedere, è tutto qui
:nel suo pessimismo, nella sua completa sfiducia negli uomini e nelle
loro realizzazioni.
8. A questo punto però la pretesa scientificità di Pareto va fragorosamente
in frantumi; le migliaia di pagine scritte dal professore di Losanna
- ha osservato infatti Raymond Aron - sono :" grevi di passione e di
giudizi di valore" (R.Aron,, Le tappe del pensiero sociologico, ˜Mondadori,1981,
p.428 ) e Pizzorno ha aggiunto che :"anche nei più rarefatti passaggi
delle sue analisi teoriche" egli rimane:" un pensatore politico, si
nutre di materia politica e mira a un'interpretazione globale della
politica".( A.Pizzorno, Sistema sociale e classe politica, in Storia
delle idee politiche economiche e sociali, a cura di L.Firpo, vol.VI,
Il secolo ventesimo, Utet, Torino,1972, p. 13).
Se è così, allora, viene da chiedersi se potrà mai, questo grande classico,
essere letto e studiato senza dover subire processi o addirittura condanne
derivanti dalle sue scelte politiche. Sì, ci sentiamo di rispondere,
poiché gli innumerevoli giudizi di valore che pur trasudano dai sui
scritti - come ha osservato acutamente Paolo Bonetti - non: "necessariamente
pregiudicano il valore scientifico delle sue dottrine, dal momento che
nessun pensatore sociale può costruire adeguate categorie analitiche
indipendentemente dal proprio orizzonte di valori". Pareto - del resto
- :"al contrario di Max Weber, non era ben consapevole di questo legame
fra valori e ricerca anche nella più avalutativa delle scienze, e questo
costituisce certamente un limite metodologico che lascia talvolta penetrare
inavvertitamente i giudizi di valore nel cuore stesso dell'indagine,
deformando il linguaggio e rendendo imprecisi i concetti>>.( P.Bonetti,
Pareto, op. cit. pp. 54-55)
Quindi, ambiguità terminologiche ed oscillazioni concettuali, si rivelano
pienamente anche nella teoria della circolazione delle élites che pur
presentata come semplice costatazione sociologica, viene poi dallo stesso
Pareto mescolata alle sue passioni e ai suoi risentimenti politici.
Non c'è dubbio infatti che questa teoria sia innervata e scossa da forti
tensioni ideologiche in senso antidemocratico. Ciò non toglie però che
essa conservi un effettivo valore scientifico non inficiato dalle scelte
politiche di colui che l'ha elaborata. Essere realisti, insomma, proponendo
una teoria politico-sociologica che tenga conto di come effettivamente
vanno le cose non vuol dire essere contro la democrazia, tutt'altro
:"Non c'è nessuna contraddizione - ha scritto Sartori - tra una visione
realistica e una fede democratica, per la buona ragione che il "realismo"
sta, indifferentemente, per tutte le parti " nec cubat in ulla".Vi può
essere un realismo democratico, esattamente come c'è un realismo non
democratico. Ne consegue che difendere la democrazia scomunicando il
realismo è difenderla male, e anzi danneggiare la democrazia. Perché
regalare il realismo ai nemici? Perchè non impadronirsene sotto specie
di realismo democratico? Il realismo che è davvero tale è un puro e
semplice "realismo cognitivo". Se così, "accertare il fatto" è indispensabile
anche per il democratico".( G.Sartori, Democrazia.Cosa è, Rizzoli,1993,
p.38
In definitiva, dunque, è possibile una interpretazione euristicamente
fertile di Pareto a patto che il suo spietato realismo, per quanto pregno
di pessimismo, in buona parte comprensibile alla luce delle cocenti
delusioni politiche, non sia considerato incompatibile con la fede nella
libertà e nella democrazia. Anzi - aggiungiamo - è proprio l'esistenza
di questa conciliabilità che deve spingere, chi ha a cuore le sorti
dei regimi di libertà, a porsi senza infingimenti o giustificazioni
di sorta il problema del potere e delle istituzioni preposte al suo
esercizio, cercando di tener presente l'intramontabile insegnamento
di Montesquieu secondo il quale :"Perché non si possa abusare del potere
bisogna che...il potere freni il potere".
La teoria delle élites
In Pareto la teoria delle élites si presenta caratterizzata, sin dall'inizio,
dalla più rigorosa avalutatività, tanto che Pareto la connette ai "principi
di fisiologia sociale" esposti nel Corso di economia politica, e, in
particolare, alla curva della distribuzione della ricchezza, che resta
sostanzialmente inalterata, nelle diverse epoche, nonostante la diversità
dell'organizzazione economica e sociale. Questa costanza della curva
dipende: "probabilmente dalla distribuzione dei caratteri fisiologici
e psicologici degli uomini" ( I sistemi socialisti, UTET, Torino, 1974,
pp.129-30). Ciò che dal punto di vista della scienza politica si può
legittimamente affermare è che, in ogni società, alcuni individui occupano,
per il loro grado di influenza e di potere politico, la stessa posizione
nella curva della distribuzione del potere, e questa posizione coincide,
generalmente, con quella occupata nella curva della distribuzione della
ricchezza. Pareto osserva, infatti, che i soli caratteri ad andare sempre
insieme sono il potere e la ricchezza:"....Se gli uomini sono disposti
secondo il loro grado di influenza e potere politico e sociale, in tal
caso, nella maggior parte delle società, saranno, almeno in parte, gli
stessi uomini ad occupare lo stesso posto, in tale figura e in quella
della distribuzione della ricchezza. Le classi dette superiori sono
generalmente anche le più ricche. Queste classi costituiscono l'eletta,
una 'aristocrazia' (nel senso etimologico: aristos = migliore)". (I
sistemi socialisti, 1920, p.20). L'affermazione che, in ogni società,
è presente un'aristocrazia dirigente non è un'affermazione di valore,
ma la semplice constatazione sociologica che determinati individui posseggono,
in quel certo tipo di società, le qualità necessarie per l'esercizio
e il mantenimento del potere, quale che sia la valutazione morale che
noi possiamo dare di tali qualità.
E qui compare uno dei principi fondamentali della sociologia paretiana,
il principio della eteregeneità sociale: " Piaccia o non piaccia a certi
teorici, sta di fatto che la società umana non è omogenea, che gli uomini
sono diversi fisicamente, moralmente, intellettualmente" ( Trattato
pag.75). La diseguaglianza tra gli uomini è accresciuta dal fatto che
in ogni ramo dell'attività umana vi sono alcuni che hanno indici più
alti e altri che hanno indici più bassi di capacità. Coloro che hanno
gli indici più alti costituiscono, in ogni ramo di attività, la classe
eletta, ovvero la élite. Ogni società, dunque, è composta da élites
e non-élites. Al fine di studiare la forma e il movimento di una società
Pareto ritiene di isolare come più rilevante la classe eletta di governo,
la élite politica: " Il meno che possiamo fare è di dividere la società
in due strati, cioè uno strato superiore, in cui stanno di solito i
governanti, ed uno strato inferiore, dove stanno i governati". ( Trattato
pag. 80)
A questo punto però va aggiunta una importante considerazione e cioè:
la definizione fondata sul grado di influenza o potere, che presuppone
una determinata struttura politica, era pienamente congruente con una
teoria dei sistemi o delle forme di governo, quale Pareto delineò nei
Sistemi socialisti; la definizione di élite fondata sulla superiorità
individuale invoca, invece, una tipologia psicologica. Per il Pareto
del Trattato di sociologia generale, allora, non esistono che due tipi
base di élites, diverse a seconda che tra i loro membri prevalga l'uno
o l'altro dei due tratti psicologici ( i cosiddetti residui): l'istinto
delle combinazioni , cioè la disposizione a innovare, inventare, produrre
fati nuovi, oppure la persistenza degli aggregati, cioè l'inclinazione
alla stabilità, alla conservazione dei rapporti tradizionali in ogni
campo.
La circolazione delle élites
Con questa delimitazione, il problema dell'equilibrio sociale si risolve
nel problema dei rapporti tra classe governante e classe governata.
Ogni società è caratterizzata dalla diversa composizione della classe
governante e della classe governata, e dal diverso modo in cui avviene
il ricambio tra l'una e l'altra. A questo ricambio Pareto dà il nome
di "circolazione delle élites": esso è il maggiore indicatore delle
diverse forme che può assumere l'equilibrio sociale. Dov'è scarsa o
nulla la circolazione, l'equilibrio è statico; dov'è graduale e regolare,
dove cioè avviene un continuo passaggio di elementi dalla classe governata
alla classe governante, l'equilibrio è dinamico. Quando la circolazione
s'interrompe, si genera uno squilibrio, che può portare alla sostituzione
violenta di un sistema con un altro (rivoluzione). Questo perché non
vi è nessun sistema sociale destinato a durare oltre un certo limite
di tempo: " Le aristocrazie non durano. Qualunque ne siano le cagioni,
è incontestabile che dopo un certo periodo spariscono. La storia è un
cimitero di aristocrazie" (Trattato p.82).
Così dunque Pareto ritiene di aver posto le condizioni per la soluzione
di due problemi fondamentali della sociologia: la tipologia delle forme
storiche dei sistemi e la tipologia dei mutamenti sociali. Il primo
problema egli lo collega alla composizione della classe eletta, il secondo
alla circolazione dalla classe non eletta all'altra. Per risolvere il
primo quanto il secondo problema, Pareto si serve in modo particolare
delle due prime classi di residui (istinti) che compongono la sua tipologia:
quella che rivela l'istinto delle combinazioni e quella che rivela i
sentimenti in favore della persistenza degli aggregati. A seconda prevalga
l'uno o l'altro istinto le élites sono progressiste o conservatrici,
innovative o tradizionali, tolleranti o autoritarie, aperte o chiuse.
Distinguendo quindi in ogni classe eletta tre diversi livelli, quello
della élite politica (che a Pareto sembra la più importante al fine
di determinare l'equilibrio sociale), quello dell'élite economica, e
quello dell'élite intellettuale, la preminenza dell'uno o dell'altro
istinto ("residuo") contraddistingue tre coppie di élites: a livello
politico, l'élite che governa principalmente con l'astuzia e quella
che governa principalmente con la forza (le volpi e i leoni); a livello
economico, la classe degli speculatori, comprendente gli imprenditori,
cioè di coloro "la cui entrata è essenzialmente variabile e dipende
dall'avvedutezza della persona nel trovare fonti di guadagno", e quella
dei redditieri; al livello intellettuale, gli uomini di scienza che
tendono allo scetticismo e gli uomini di fede che tendono al dogmatismo.
Tendenzialmente si può dire che una società in cui la politica è in
mano alle volpi, è anche una società mercantile con una cultura scettica
e critica; una società in cui la politica è esercitata dai leoni, invece,
è anche una società con una economia stagnante e forti credenze religiose.
La società ideale dovrebbe essere quella in cui a tutti i tre diversi
livelli di residui delle due classi siano distribuiti in modo da garantire
insieme il mutamento (istinto delle combinazioni) e la continuità (persistenza
degli aggregati). Ma siccome nessun sistema sociale è durato sinora
oltre un certo limite di tempo, occorre andare a cercare la causa del
mutamento in un difetto di circolazione delle classi elette. È un fatto
che le classi elette tendono a perpetuare il loro dominio: ma le prime,
quelle dei "combinatori", finiscono a lungo andare per mancare delle
energie sufficienti a mantenere in pugno il potere contro i vari sommovimenti
che provengono dal basso; le seconde, quelle degli "aggregatori", finiscono
a lungo andare per essere indebolite dalle spinte innovatrici che provengono
dalla classe soggetta, spesso guidata da coloro che sono stati rifiutati
o allontanati dalla classe eletta. Tutto ciò conferma agli occhi di
Pareto che il mutamento sociale dipende dal diverso modo con cui avviene
il passaggio dalla classe non eletta alla classe eletta. La condizione
ideale è che vi sia un costante e regolare trasferimento di individui
della classe non eletta alla classe eletta. Quando questo processo difetta
o si arresta, il sistema tende a perpetuare un solo tipo di classe eletta;
ma l'uniformità che ne deriva finisce con lo spingere la società ad
entrare in quella fase che non consentendo più mutamento graduale porta
a poco a poco al mutamento radicale. Composizione e circolazione della
classe eletta sono dunque due fenomeni strettamente congiunti.
In breve, una classe dirigente si mantiene al potere finché riesce,
attraverso un processo di lenta e sapiente assimilazione, a rinsanguarsi
con le energie intellettuali e morali degli elementi migliori dei ceti
inferiori; quando questo processo di circolazione delle élites si interrompe,
si hanno le grandi crisi rivoluzionarie dell'equilibrio sociale, dal
momento che l'aristocrazia al potere ha esaurito la sua funzione e un'altra
si appresta a prenderne il posto. Ma si tratta in ogni caso, della lotta
fra due oligarchie, e non fra un'oligarchia e il popolo, come ama ripetere
la retorica democratica, poiché se è vero che le nuove élites sorgono
dalle classi inferiori, è altrettanto certo che le classi inferiori
"sono incapaci di governare, e l'oclocrazia non ha mai portato se non
a disastri" (I sistemi socialisti, UTET, Torino, 1974, p. 153).
La decadenza delle élites
Nell'affrontare il tema della "degenerazione" e della "decadenza",
è alla borghesia del suo tempo che Pareto pensa, quando scrive che la
decadenza di un'aristocrazia è sempre annunciata dall' "invasione dei
sentimenti umanitari e di morbosa sensibilità", che "la rendono incapace
di difendere le sue posizioni". Il Pareto dei primi anni del nuovo secolo
squarcia duramente e imparzialmente tutti i veli ideologici per cogliere
le leggi permanenti della lotta politica, quelle che valgono anche per
le società più liberali e civilmente avanzate. L'individuazione del
nesso inscindibile fra diritto e forza non è incompatibile con la preferenza
per le istituzioni liberali perché anche queste, per funzionare, hanno
bisogno della "forza", cioè della volontà di difendere l'ordinamento
giuridico nel quale ogni élite (compresa, naturalmente, quella liberale),
incarna concretamente il proprio sistema di valori e la propria concezione
della società. Quando, al contrario, una élite non è pronta a dare battaglia
per difendere le istituzioni da essa create, è segno che essa è ormai
in preda ad una inarrestabile perdita di potere sociale: " non le resta
che lasciare il posto a un'altra élite, avente le qualità virili che
a lei mancano. Semplice chimera, se crede che i principi umanitari ch'essa
ha proclamato le saranno applicati: i vincitori faranno risuonare ai
suoi orecchi l'implacabile vae victis". (I sistemi socialisti, UTET,
Torino, 1974, p.156).
Un determinato equilibrio sociale si mantiene finché l'élite ha capacità
di supremazia e di assimilazione attraverso un sapiente dosaggio di
persuasione e coercizione legale; si rovescia, dando inizio a un nuovo
ciclo, quando l'aristocrazia comincia a confondere "la benevolenza del
forte con la viltà del debole", ed entra in una spirale di autodisgregazione
morale. Nelle lotte politico-sociali non sono le teorie scientifiche
ad affrontarsi, ma le vernici logiche, vale a dire le ideologie, con
cui i gruppi umani razionalizzano, a posteriori, sentimenti e interessi".
( Cfr.Manuale di economia politica p.87). Per quel che concerne il mondo
contemporaneo, la scienza non può che constatare la divaricazione fra
una permanente eterogeneità sociale e il mito sempre più diffuso dell'eguaglianza,
il quale "opera potentemente per determinare i mutamenti che subisce
la società": se il valore scientifico del concetto di eguaglianza "oggettivamente
è nullo", del suo valore soggettivo, della sua efficacia sociale, debbono
fare gran conto le classi dirigenti, poiché: "esso è il mezzo comunemente
usato, specialmente ai tempi nostri, per torre di mezzo un'aristocrazia
e sostituirla con un'altra". ( Manuale di economia politica pp.83 e
86). La democrazia liberale ( o plutocrazia demagogica) è dunque, per
Pareto, l'ultima forma politica in cui si esprime l'eterno conflitto
fra le élites per la conquista e il mantenimento del potere: in essa,
si cerca di conciliare la oggettiva "diversità" degli uomini col "sentimento
che li vuole uguali", dando "l'apparenza del potere al popolo, e la
sostanza del potere ad una parte eletta", poiché, anche nelle democrazie
più progredite, si ha la persistenza, sotto differenti forme, degli
stessi fenomeni sociali. Nella ricerca del consenso, le diverse frazioni
della élite liberale, sono costrette a prendere in considerazione aspirazioni,
interessi ed umori di strati sociali sempre più bassi: In Inghilterra,
Whigs e Tories: " fanno a gara nel prostrarsi umilmente ai piedi dell'uomo
dell'infima plebe, e ognuno di essi procaccia di superare l'altro nell'adulazione.
Questa, persino nelle minuzie, appare. Quando si preparano le elezioni,
i candidati non si vergognano di mandare le donne e le figlie loro a
mendicare suffragi, e a porgere la mano e le labbra a gente sudicia
e male educata" ( Cfr. Manuale di economia politica p.92). Il liberalismo
si trasforma in plutocrazia demagogica per cercare di contrastare l'avanzata
della nuova élite socialista, ma in questa sua politica corrompe se
stesso e tende a rovesciarsi nel suo contrario, in una forma di società
sempre più burocratizzata e pronta ad affidarsi alle cure di qualche
"cesare", come già avvenne, nella fase conclusiva, di disgregamento
demagogico, della repubblica romana.
La perenne oscillazione dei residui determina, quindi, il gioco della
politica e produce, sul piano delle ideologie, l'alterno prevalere della
conservazione e del progresso. Le società sono "essenzialmente eterogenee",
ma per sopravvivere è necessario che vengano rispettate determinate
"uniformità": forza e astuzia, costrizione e ricerca del consenso sono
gli strumenti adoperati dall'élite al potere per mantenere le necessarie
uniformità sociali, ma nessun regime politico, dal più autoritario al
più democratico, può fare a meno della "forza", se non vuole andare
incontro alla sua disgregazione. Certo, una classe di governo può con
l'uso dell'astuzia, della frode e della corruzione, tenere a bada gli
avversari e neutralizzarne la violenza eversiva: ma in questo modo,
nella classe governante, si rafforzano sempre più i residui dell' istinto
delle combinazioni e si indeboliscono quelli della persistenza degli
aggregati, aumenta il numero delle "volpi", diminuisce quello dei "leoni".
I capi delle opposizioni vengono sapientemente addomesticati e abilmente
integrati nel sistema di potere dominante; ma questa tecnica di governo,
per quanto efficace, non può andare oltre certi limiti: giunge il momento
in cui l'élite al potere, troppo satura di uomini in cui prevalgono
i residui della prima classe, di uomini abituati a governare col compromesso
e con l'astuzia, si trova in difficoltà di fronte a una nuova élite
nella quale si sono condensati i residui della seconda classe, un nuovo
ceto dirigente in cui sono presenti e dominanti quei caratteri di fede,
energia e coraggio che fanno ormai difetto alla vecchia aristocrazia.
Quando una classe governante, di fronte alle ripetute trasgressioni
dell'ordine sociale, non sa più adoperare la forza, è inevitabile -
osserva Pareto - "l'opera anarchica dei governati": dove il potere pubblico
si disgrega, per mancanza di energia da parte di chi dovrebbe far rispettare
l'ordinamento giuridico, si formano ben presto piccoli Stati entro il
grande Stato, piccole società in contrapposizione fra loro e nei confronti
della società in generale; dove viene meno un'autorità capace di imporre
la "giustizia pubblica", proliferano le giustizie private. L'efficacia
della legge, anche della più democratica delle leggi, sta nella "forza"
che la sostiene e ne impone il rispetto, mentre "gravissima illusione
è quella degli uomini politici che si figurano potere supplire con inermi
leggi all'uso della forza armata". La riprova di questo permanente legame
tra "forza" e "diritto", spezzato il quale si apre la strada alla rivoluzione
e alla guerra, sta nelle relazioni internazionali, dove, mancando un'autorità
super partes dotata di effettivo potere, le controversie sono risolte
dalla forza dei contendenti, più o meno elegantemente nascosta "sotto
gli orpelli delle declamazioni umanitarie ed etiche".
La lezione di Pareto è ben presente in alcuni grandi teorici della democrazia
liberale come Joseph A. Schumpeter e Raymond Aron a conferma di quanto
ha scritto Sartori sulla piena conciliabilità fra teoria delle élites,
realismo politico e preferenza morale per i valori e le istituzioni
di una società democratica purché si abbia una concezione non mitica
della democrazia.
|