PROGRAMMI DI SUPPORTO ALL'INNOVAZIONE, IMPRESE AD ALTA TECNOLOGIA, MISSIONI SPAZIALI. L'EX IMPERO DI MEZZO STA TRASFORMANDO LA PROPRIA FISIONOMIA AD UN RITMO SEMPRE PIU' INCALZANTE (di GEORGE SHAFFER* / su LINK annoIV - n.10)
Secondo i canoni correnti un Paese in cui gli utilizzatori di personal computer sono meno del 5% e dove gli abitanti in grado di navigare su Internet non arrivano al 3% fa parte della cosiddetta area del Terzo mondo — se non del Quarto - che comprende gli stati più poveri e arretrati in termini di progresso. Tuttavia la nazione in questione è la Cina e queste percentuali minime valgono da sole 65 e 35 milioni di persone, ossia più di quante possono essere messe in campo da qualsiasi altro Paese industrializzato o sviluppato, a eccezione di Stati Uniti e Giappone.
Come capita sempre quando si parla della Cina, ci si trova inevitabilmente a fare i conti con le sue due personalità: quella che richiama ancora in larga misura la tradizione millenaria del Paese, a impronta confuciana, e quella tesa invece a crescere e avvicinarsi agli standard della società occidentale, pur essendo espressione da 55 anni di un regime pressoché totalitario, esercitato da un partito unico fortemente centralizzato.

SE 200 MILIONI SEMBRANO POCHI

L'elemento cardine di questa contrapposizione è in effetti l'estrema rapidità con cui l'ex Impero di mezzo sta trasformando la propria fisionomia attraverso un processo di crescita a dir poco sorprendente. Nell'ultimo decennio del XX secolo la Repubblica popolare è riuscita a raddoppiare il proprio reddito pro-capite con una velocità finora sconosciuta: la Gran Bretagna aveva impiegato 58 anni, gli Stati Uniti 47, il Giappone 33, l'Indonesia 17 e la Corea del Sud 11. E negli ultimi 20 anni precedenti il Duemila l'import-export cinese è passato da 18 a 490 miliardi di dollari,
moltiplicandosi quindi di ben 27 volte, contro le 7 del Giappone e le 8,5 degli Stati Uniti.
Nessun'altra nazione al mondo - nemmeno gli Usa durante la loro stagione più produttiva del decennio che ha chiuso il Novecento - ha inoltre conosciuto negli ultimi 15 anni un'espansione tanto impetuosa, con aumenti del pil (prodotto interno lordo) superiori spesso al 10% (per esempio 14,2% nel 1992 poi 13,9% e 13% dal 1993 al 1994) e che dopo il 2000 hanno continuato ad oscillare ancora fra l'8 e il 9,1% (dato del 2003).
Già ora la classe media è valutata in 400 milioni di persone, e anche quando si prende in considerazione solamente chi ha uno stile di vita del tutto simile a quello che per noi è considerato "affluente", cioè da ricchi, e vive in città che sembrano metropoli occidentali si parla pur sempre del 15% della popolazione. E questa comunità comprende 200 milioni di persone, equivalente cioè a mezza Europa e pari a due terzi degli Stati Uniti.
Proletarizzata fino agli anni Ottanta, la società si fa sempre più articolata. Nel 2002 la popolazione urbana ha superato quella extra-urbana e le città con oltre 1milione di abitanti adesso sono 167. Di queste aree metropolitane ben 25 contano più di 10 milioni di abitanti. In Europa, giusto per fare un confronto, vi sono soltanto due comprensori (escludendo Mosca) così densamente popolati: Londra e Parigi.

DOPO MARX E DOPO MAO
Un altro stereotipo datato riguarda l'immagine di un Paese che produce ed esporta solo merce a basso costo e beni di scarsa qualità come giocattoli (che coprono ormai il 75% della produzione mondiale) o manufatti a basso contenuto tecnologico e quindi di trascurabile valore aggiunto quali T-shirt e sandali. Dalla Cina invece escono sempre più semiconduttori, display, telefonini e computer, in quantità e qualità destinate a elevarsi col passare del tempo. La quota di prodotti ad alta tecnologia in Cina — secondo la defìnizione dell'Unctad e della World
Bank - è salita dal 10% sul totale del 1997 al 25% dell'anno scorso (mentre l'export italiano nello stesso settore, va detto a titolo comparativo, rappresenta solamente il 10%). E in uno studio recente l'Ifc - l'ente della Banca mondiale che finanzia il settore privato - assegna all'elettronica cinese di qui al
2005 un salto da 34 a 80 miliardi di dollari, ossia dall'8,1 al 14,3% dell'output mondiale. Verrà superata l'Europa (che arriverà a 73 miliardi) e saranno portate le prime insidie agli stessi Stati Uniti.
Quanto sia accelerata questa riconversione lo segnala il mercato delle materie prime. La Repubblica popolare è il primo consumatore al mondo di zinco e stagno, acciaio, gomma e cemento, oltre che di rame, platino, antimonio e silicio per l'industria elettronica e informatica. Lo è diventata anche per il titanio e la cosa può apparire scontata, dal momento che è molto utilizzato per fabbricare i telai delle biciclette di ultima generazione. Lo è meno se si considera
che questo metallo ora ha come prima destinazione e principale utilizzo la fabbricazione delle teste delle mazze da golf. I cinesi infatti hanno cominciato ad appassionarsi proprio a questo sport.
Grazie alla crescita esponenziale della sua capacità produttiva, Pechino oggi si colloca immediatamente alle spalle degli Usa nell'esportazione globale di hardware. E anche il primo importatore mondiale di legname, cotone e lana, compreso il cachemire di fascia superiore; è inoltre il secondo per nickel, carta e cartone, alluminio e polipropilene.
Ed è proprio per sostenere questi flussi alimentati dalla domanda cinese che le quotazioni dei noli navali e dei costi di trasporto a livello internazionale negli ultimi 18 mesi sono triplicati.

LA LUNGA MARCIA DEGLI EREDI DI DENG
La rapidità con cui è venuto a maturazione il processo di qualificazione industriale e commerciale può indurre a pensare che si tratta del frutto di una scelta relativamente recente e che fa parte della stessa strategia che ha prodotto altre riforme. Per esempio il sempre più forte ridimensionamento dell'impresa di stato; la creazione di un autentico libero mercato; l'entrata in vigore della nuova legge che elimina il monopolio statale in materia di assunzioni e licenziamenti; o, ancora, il trasferimento tuttora in corso dei flussi produttivi e occupazionali dai settori più maturi e a conduzione pubblica (siderurgia, cemento, materiali da costruzione, veicoli, macchinari) a quelli
con migliori prospettive: tessili, abbigliamento, edilizia, alimentari e soprattutto servizi, nel loro complesso. È il risultato invece di una politica assai più lungimirante, che risale a quasi 20 anni fa e che apre a una lettura del tutto nuova la straordinaria ascesa economica della Repubblica popolare. Una strategia successiva alla svolta epocale con cui Deng Xiaoping tracciò il futuro della Repubblica popolare nel 1979 (tre anni dopo la scomparsa di
Mao Tse-Tung), quando annunciò la cosiddetta politica delle porte aperte; però precedente all'altrettanto fondamentale svolta di undici anni fa quando - nel marzo 1993 - venne formalizzato il concetto di "socialismo di libero mercato" introducendo alcune importanti modifiche alla costituzione, emendata in otto dei suoi 138 articoli. Si dimostra quindi - come si è potuto percepire nel corso degli anni - che proprio la strategia per l'innovazione costituiva un evidente e imprescindibile, ancorché implicito, presupposto dell'approdo del Paese a quella fisionomia adesso nota a tutto il mondo anche col nome di "socialismo dai colori cinesi". Questa strategia venne infatti
enunciata con la "Decision on reform of the science and technology management system", adottata già nel 1985 dal comitato centrale del partito comunista e subito dopo attuata materialmente dal governo.
E fa capire come e quanto ( e soprattutto da quanto tempo) la nomenklatura di Pechino fosse cosciente che il progresso della ricerca scientifica e la promozione dell'innovazione tecnologica occupano un ruolo chiave nell'attività dell'esecutivo, in quanto costituiscono la prima condizione e necessità sia per avviare il reale sviluppo di tutto il Paese sia per rendere sostenibile e costante nel tempo la sua crescita. Ma costituisce soprattutto l'esemplificazione paradigmatica di tutto il programma politico elaborato e seguito negli ultimi 25 anni dai leader
cinesi, oltre che del profondo pragmatismo con cui ogni linea del piano è stata tradotta in interventi. Abbandonando il modello di stampo sovietico a pianificazione centralizzata - che aveva prodotto pochi investimenti nella ricerca, un ritardo tecnologico assai pesante e in particolare gravi inefficienze economiche - venne messo a punto in effetti un disegno molto articolato, riassumibile tuttavia in tre voci guida, secondo la sintesi tracciata dall'economista Yasheng
Huang (Selling China: foreign direct investment during the reform era; Cambridge University Press-NewYork):

  • sfruttare e utilizzare le conoscenze dei Paesi sviluppati, incentivando gli investimenti esteri
    e i trasferimenti di tecnologia e favorendo la for mazione di studenti e ricercatori all'estero;
  • promuovere la ricerca di base (praticamente inesistente nel periodo precedente) e incoraggiare
    la creazione di legami tra le istituzioni di ricerca e le imprese;
  • assecondare la localizzazione di imprese ad alta tecnologia tramite la creazione di zone a
    forte incentivazione per favorire un modello di innovazione distrettuale

QUALE CAMBIAMENTO OLTRE LA MURAGLIA
Come risulta chiaro dai suoi principi chiave, questa Decision contiene già tutti gli elementi costitutivi della Cina moderna e della sua economia. È prima di tutto responsabilità del solo governo progettare i sistemi d'intervento in ogni settore (a cominciare dal sistema organizzativo tecnologico e scientifico) e il suo ruolo è attivo in tutte le fasi. Tale coinvolgimento è diretto fino alla creazione di un libero mercato, mentre diventa di semplice controllo nel momento in cui l'iniziativa privata lo rende operativo e funzionante.
Per raggiungere questo obiettivo è considerato essenziale, in seconda istanza, realizzare lo spostamento delle produzioni dai settori ad alta intensità di lavoro verso quelli manifatturieri ad alta intensità di tecnologia e a elevato valore aggiunto. Assolutamente decisiva per il successo di tutto il processo è poi, in terzo luogo, la consapevolezza di dover attrarre i gruppi internazionali più sviluppati e avanzati (cioè fare molto di più che aprire semplicemente loro le frontiere) e di porsi in grado di "assorbire" e assimilare al meglio — in quantità, qualità e rapidità - le loro conoscenze e le loro capacità produttive (ossia non solo copiando comportamenti e prodotti, ma riproducendone
per intero natura, carattere, pensieri e azioni, infine organizzazione costituzionale).
Si tratta di linee-guida che possono essere accolte appieno analizzando le varie iniziative attraverso le quali sono state attuate, a partire dalle due più importanti, i fondamentali 863 Program e Torch Program.
Dal momento che per avere successo questa politica deve basarsi sul contestuale miglioramento delle infrastrutture, la Cina si è comunque preoccupata di adeguare nel frattempo anche uno strumento basilare come il sistema scolastico e universitario. Attraversato da una ventata di aggiornamenti, oggi mette in luce una "produzione" sbalorditiva di 465 mila studenti che, a ogni anno accademico, si laureano in scienze e ingegneria. Sono tutte giovani leve la cui formazione culturale e preparazione tecnica viene arricchita, per forza di cose, di influenze e contenuti
occidentali.
Nel contempo il governo di Pechino, nel corso degli ultimi 20 anni, ha permesso di perfezionarsi e aggiornarsi nei Paesi occidentali a oltre 600 mila giovani, che una volta tornati in patria e diventati professori hanno formato milioni di allievi. Oggi, quelli in possesso di un permesso di soggiorno con la qualifica di student sono ben 60 mila in Inghilterra e 40 mila in Irlanda, mentre negli Stati Uniti sembrano essere (non si hanno dati ufficiali) oltre 10 mila. In Italia - va detto per inciso - sono soltanto 600. Più recentemente, accanto alle strategie di promozione all'istruzione, sono stati pure adottati con ottimo esito incentivi al rimpatrio per ricercatori e tecnici cinesi, che in alcuni casi
possono ottenere in patria remunerazioni analoghe a quelle ricevute nei Paesi (leggi Usa e Giappone) di emigrazione.

Questo programma è tuttora valido e continua a essere applicato, anche se negli anni Novanta la Cina si è orientata verso un approccio ancora più completo allo sviluppo strategico della ricerca con la creazione di un Sistema di innovazione nazionale che coinvolge tutti i principali attori -scienziati, ricercatori e aziende - stabilendo legami che ne assicurano l'interazione, a partire da quella tra imprese e istituzioni che costituisce il focus primario, attraverso ad esempio il cosiddetto modello delle University Affiliated Enterprises.
Chiunque pensa che la Cina sia oggi un temibile concorrente, perché da dieci anni a questa parte ha saputo mettere una struttura dei costi di produzione pressoché imbattibile al servizio di una spregiudicata appropriazione dei campionari delle industrie occidentali, rischia in sostanza di ricavare un quadro assai riduttivo e sostanzialmente superficiale della realtà. Essa appare invece molto più complessa e ricca di implicazioni: negative se non comprese; positive se valutate in relazione alla ricchezza di prospettive e opportunità che gli straordinari margini di evoluzione del nascente mercato cinese apre a chi ne accetta la sfida.
II cammino della Repubblica popolare è ben illustrato dairisultati conseguiti sul fronte delle esportazioni classificate high tech. Alla fonte vi è una spesa in R&S cresciuta moltissimo nell'ultimo decenni e che nel solo periodo fra il 1995 e il 2000 è raddoppiata, fino a toccare la quota di 11 miliardi di dollari. Nel 2001 gli investimenti lordi erano pari all'11% del pil, esattamente come in Italia.Ma con una differenza rilevante: mentre la prospettiva italiana è statica, i cinesi continuano a farla crescere e confermano di poter arrivare ali'1,5% nel 2005. Con oltre 60 miliardi di dollari, in termini di parità di potere d'acquisto, la Cina occupa già oggi la terza posizione al mondo per spesa in R&S, dopo Stati Uniti e Giappone e prima della Germania.

NUOVI EQUILIBRI DALLA CRESCITA
Ovviamente, come tutte le evoluzioni, anche quella scientifica e tecnologica in corso nella Repubblica popolare presenta luci e ombre. Dalla comparazione dei risultati con gli standard mondiali la R&S cinese rivela, per esempio, ancora alcune arretratezze e debolezze. Innanzitutto la maggior parte degli investimenti -piuttosto che generare innovazioni - è dedicata allo lo sviluppo di tecnologie già esistenti (il 78%). Inoltre il livello di intensità della R&S delle imprese, ovvero la spesa R&S sul fatturato, si attesta a una quota vicina allo 0,5%, cioè molto bassa se
confrontata con la percentuale dei Paesi sviluppati, che varia dall' 1 al 3%. Per i settori ad alta tecnologia la differenza è ancora più ampia: a fronte di una media del 35% di intensità di ricerca nel settore dei produttori di computer per i Paesi Ocse, la Cina registra tuttora un impegno inferiore al 10% (Kathleen Walsh: Foreign high-tech Rà-D in China: risks, rewards, and implications for U.S. -China relations. Thè Henry L. Stimson Center, Washington).
Occorre anche sottolineare che, proprio a causa della strada intrapresa, una parte considerevole della crescita dei settori ad alta tecnologia si mantiene legata alla dipendenza diretta dagli investimenti e dalle risorse tecniche e scientifiche estere.
Secondo gli ultimi dati disponibili del ministero del Commercio cinese, nel 2003 le imprese straniere contavano addirittura per l'84,6% delle esportazioni high tech, mentre sul fronte delle importazioni di tecnologia la Cina presenta verso l'estero un deficit commerciale superiore a 2 miliardi di dollari.
Questo significa che l'apporto degli investimenti e delle innovazioni occidentali rimane un fattore imprescindibile per la continua crescita dell'high tech cinese, che rimane strettamente vincolato in particolare agli Stati Uniti, dai quali proviene il contributo in assoluto più significativo e consistente. Rilevante appare infine l'impatto delle trasformazioni avviate. Come noto, l'introduzione di nuovi apparati e procedimenti tecnologici produce sempre cambiamenti nella società, perché mentre la tecnologia conosce tradizionalmente un'accelerazione molto rapida, il cambiamento sociale non procede con la stessa andatura. Fra le due evoluzioni - definibili come yin e yang - c'è una
distanza crescente, ma nel caso della Cina (che affonda le sue radici nel confuscianesimo) il problema rischia di creare scompensi strutturali. Di qui nasce la difficoltà di consolidare quell'esperienza che nel mondo occidentale è ormai nota come high touch; ossia dare valore al processo, consentire una sufficiente assimilazione culturale delle nuove scoperte e dare alla società il tempo e lo spazio necessari per percepirne l'utilità, il senso e la diffusione.
Tanto è vero che all'interno della stessa leadership cinese - come rileva il ricercatore Giacomo Boati in un recente studio, Innovazione e High Tech in Cina, condotto per l'Ispi di Milano - è in atto un confronto su due diversi percorsi di sviluppo per il prossimo futuro. Da un lato si preferirebbe continuare ad acquisire tecnologia dall'estero nel minor tempo possibile; dall'altro si tenderebbe ad allentare la spinta in R&S per consolidare le conoscenze acquisite e adottare un percorso in grado di favorire un maggiore impiego di forze endogene.

PECHINO E L'INIZIATIVA PRIVATA
I progetti della dirigenza cinese restano in ogni caso ambiziosi. Il decimo piano quinquennale 2001-2005 (l'ultimo, perché anche questo dettato costituzionale è stato ora abolito) ha come obiettivo l'inserimento entro il 2010 della Cina tra le dieci nazioni maggiormente competitive in campo scientifico e tecnologico. E la lunga marcia delle riforme procede con interventi che continuano ad aprire sempre più il terreno all'innovazione.
Il principale riguarda il definitivo riconoscimento della proprietà privata, con la proposta di emendamento della carta costituzionale varata dal plenum del Comitato Centrale conclusosi a metà ottobre del 2003. Gli imprenditori privati, che nel 1998 erano solamente 100 mila, difatti si sono moltiplicati in misura eccezionale e sono diventati 2,5 milioni. Così oggi l'iniziativa privata contribuisce per più del 60% al prodotto nazionale lordo, mentre oltre il 50% di tutto l'export è alimentato da società a capitale straniero.

Subito dopo si colloca per importanza il rinnova mento del Fdi (Foreign direct investment), la disciplina che regola l'afflusso annuo degli investi menti stranieri e che ha consentito di attrarre in misura crescente risorse finanziarie dall'estero: da una quota di 10 miliardi di dollari nel 1992 e 23 nel 1993 si è arrivati a 40 nel 1996, a 41 l'anno seguente, a 43 nel 1998 e poi ancora su fino a 52,7 nel 2002 e a quasi 59 miliardi nel 2003. Il target per il 2005 rimane fissato addirittura a 100 miliardi di dollari.
Pur senza dimenticare il varo del software red flax linux per l'informatizzazione di tutta le rete amministrativa ministeriale e statale, l'ultimo intervento in ordine di tempo risale agli inizi del marzo scorso e ha aperto a capitali privati e operatori stranieri tutto il settore dei media (televisioni comprese), ossia quello in assoluto più delicato e sensibile — per qualsiasi regime — fra tutti i comparti d'attività.

QUALE CINA È PIÙ VICINA
Non si rivela in verità facile prevedere lo sbocco di tanti "lavori in corso", i loro condizionamenti reciproci e gli assetti che alla fine scaturiranno. È però opinione diffusa fra i più autorevoli osservatori e analisti internazionali che il trendi di crescita rimarrà molto elevato e che in futuro non lontano la Cina conquisterà un ruolo di primo piano nei settori ad alto contenuto tecnologico, non solo per le produzioni derivanti da investimenti esteri ma anche per le produzioni nazionali.
C'è in questa visione un elemento essenziale: il successo già raggiunto dalla Repubblica popolare in una competizione dove i livelli di eccellenza appaiono indiscutibili: quella aerospaziale. La Cina infatti è l'unico Paese, dopo Stati Uniti e Russia (o, se si vuole, l'ex-Urss) ad avere finora realizzato una missione nello spazio con un astronauta a bordo della propria navicella. E punta a fare sempre meglio. Il nuovo target è l'invio di un uomo sulla luna entro il 2010 e visto l'impegno con cui Pechino persegue ogni obiettivo lo si può considerare, più che un'ipoteca, una specie di garanzia sul futuro prossimo venturo.

George SHAFFER, giornalista e scrittore inglese. Autore del libro "New Technology Development in China".