Secondo
i canoni correnti un Paese in cui gli utilizzatori di personal computer
sono meno del 5% e dove gli abitanti in grado di navigare su Internet
non arrivano al 3% fa parte della cosiddetta area del Terzo mondo
se non del Quarto - che comprende gli stati più poveri e arretrati
in termini di progresso. Tuttavia la nazione in questione è la
Cina e queste percentuali minime valgono da sole 65 e 35 milioni di
persone, ossia più di quante possono essere messe in campo da
qualsiasi altro Paese industrializzato o sviluppato, a eccezione di
Stati Uniti e Giappone.
Come capita sempre quando si parla della Cina, ci si trova inevitabilmente
a fare i conti con le sue due personalità: quella che richiama
ancora in larga misura la tradizione millenaria del Paese, a impronta
confuciana, e quella tesa invece a crescere e avvicinarsi agli standard
della società occidentale, pur essendo espressione da 55 anni
di un regime pressoché totalitario, esercitato da un partito
unico fortemente centralizzato.
SE 200 MILIONI SEMBRANO POCHI
L'elemento cardine di questa contrapposizione è
in effetti l'estrema rapidità con cui l'ex Impero di mezzo
sta trasformando la propria fisionomia attraverso un processo di crescita
a dir poco sorprendente. Nell'ultimo decennio del XX secolo la Repubblica
popolare è riuscita a raddoppiare il proprio reddito pro-capite
con una velocità finora sconosciuta: la Gran Bretagna aveva
impiegato 58 anni, gli Stati Uniti 47, il Giappone 33, l'Indonesia
17 e la Corea del Sud 11. E negli ultimi 20 anni precedenti il Duemila
l'import-export cinese è passato da 18 a 490 miliardi di dollari,
moltiplicandosi quindi di ben 27 volte, contro le 7 del Giappone e
le 8,5 degli Stati Uniti.
Nessun'altra nazione al mondo - nemmeno gli Usa durante la loro stagione
più produttiva del decennio che ha chiuso il Novecento - ha
inoltre conosciuto negli ultimi 15 anni un'espansione tanto impetuosa,
con aumenti del pil (prodotto interno lordo) superiori spesso al 10%
(per esempio 14,2% nel 1992 poi 13,9% e 13% dal 1993 al 1994) e che
dopo il 2000 hanno continuato ad oscillare ancora fra l'8 e il 9,1%
(dato del 2003).
Già ora la classe media è valutata in 400 milioni di
persone, e anche quando si prende in considerazione solamente chi
ha uno stile di vita del tutto simile a quello che per noi è
considerato "affluente", cioè da ricchi, e vive in
città che sembrano metropoli occidentali si parla pur sempre
del 15% della popolazione. E questa comunità comprende 200
milioni di persone, equivalente cioè a mezza Europa e pari
a due terzi degli Stati Uniti.
Proletarizzata fino agli anni Ottanta, la società si fa sempre
più articolata. Nel 2002 la popolazione urbana ha superato
quella extra-urbana e le città con oltre 1milione di abitanti
adesso sono 167. Di queste aree metropolitane ben 25 contano più
di 10 milioni di abitanti. In Europa, giusto per fare un confronto,
vi sono soltanto due comprensori (escludendo Mosca) così densamente
popolati: Londra e Parigi.
DOPO MARX E DOPO MAO
Un altro stereotipo datato riguarda l'immagine di un
Paese che produce ed esporta solo merce a basso costo e beni di scarsa
qualità come giocattoli (che coprono ormai il 75% della produzione
mondiale) o manufatti a basso contenuto tecnologico e quindi di trascurabile
valore aggiunto quali T-shirt e sandali. Dalla Cina invece escono
sempre più semiconduttori, display, telefonini e computer,
in quantità e qualità destinate a elevarsi col passare
del tempo. La quota di prodotti ad alta tecnologia in Cina
secondo la defìnizione dell'Unctad e della World
Bank - è salita dal 10% sul totale del 1997 al 25% dell'anno
scorso (mentre l'export italiano nello stesso settore, va detto a
titolo comparativo, rappresenta solamente il 10%). E in uno studio
recente l'Ifc - l'ente della Banca mondiale che finanzia il settore
privato - assegna all'elettronica cinese di qui al 2005 un
salto da 34 a 80 miliardi di dollari, ossia dall'8,1 al 14,3% dell'output
mondiale. Verrà superata l'Europa (che arriverà
a 73 miliardi) e saranno portate le prime insidie agli stessi Stati
Uniti.
Quanto sia accelerata questa riconversione lo segnala il mercato delle
materie prime. La Repubblica popolare è il primo consumatore
al mondo di zinco e stagno, acciaio, gomma e cemento, oltre che di
rame, platino, antimonio e silicio per l'industria elettronica e informatica.
Lo è diventata anche per il titanio e la cosa può apparire
scontata, dal momento che è molto utilizzato per fabbricare
i telai delle biciclette di ultima generazione. Lo è meno se
si considera
che questo metallo ora ha come prima destinazione e principale utilizzo
la fabbricazione delle teste delle mazze da golf. I cinesi infatti
hanno cominciato ad appassionarsi proprio a questo sport.
Grazie alla crescita esponenziale della sua capacità produttiva,
Pechino oggi si colloca immediatamente alle spalle degli Usa nell'esportazione
globale di hardware. E anche il primo importatore mondiale di legname,
cotone e lana, compreso il cachemire di fascia superiore; è
inoltre il secondo per nickel, carta e cartone, alluminio e polipropilene.
Ed è proprio per sostenere questi flussi alimentati dalla domanda
cinese che le quotazioni dei noli navali e dei costi di trasporto
a livello internazionale negli ultimi 18 mesi sono triplicati.
LA LUNGA MARCIA DEGLI EREDI DI DENG
La rapidità con cui è venuto a maturazione
il processo di qualificazione industriale e commerciale può
indurre a pensare che si tratta del frutto di una scelta relativamente
recente e che fa parte della stessa strategia che ha prodotto altre
riforme. Per esempio il sempre più forte ridimensionamento
dell'impresa di stato; la creazione di un autentico libero mercato;
l'entrata in vigore della nuova legge che elimina il monopolio statale
in materia di assunzioni e licenziamenti; o, ancora, il trasferimento
tuttora in corso dei flussi produttivi e occupazionali dai settori
più maturi e a conduzione pubblica (siderurgia, cemento, materiali
da costruzione, veicoli, macchinari) a quelli
con migliori prospettive: tessili, abbigliamento, edilizia, alimentari
e soprattutto servizi, nel loro complesso. È il risultato invece
di una politica assai più lungimirante, che risale a quasi
20 anni fa e che apre a una lettura del tutto nuova la straordinaria
ascesa economica della Repubblica popolare. Una strategia successiva
alla svolta epocale con cui Deng Xiaoping tracciò il futuro
della Repubblica popolare nel 1979 (tre anni dopo la scomparsa di
Mao Tse-Tung), quando annunciò la cosiddetta politica delle
porte aperte; però precedente all'altrettanto fondamentale
svolta di undici anni fa quando - nel marzo 1993 - venne formalizzato
il concetto di "socialismo di libero mercato" introducendo
alcune importanti modifiche alla costituzione, emendata in otto dei
suoi 138 articoli. Si dimostra quindi - come si è potuto percepire
nel corso degli anni - che proprio la strategia per l'innovazione
costituiva un evidente e imprescindibile, ancorché implicito,
presupposto dell'approdo del Paese a quella fisionomia adesso nota
a tutto il mondo anche col nome di "socialismo dai colori cinesi".
Questa strategia venne infatti
enunciata con la "Decision on reform of the science and technology
management system", adottata già nel 1985 dal comitato
centrale del partito comunista e subito dopo attuata materialmente
dal governo.
E fa capire come e quanto ( e soprattutto da quanto tempo) la nomenklatura
di Pechino fosse cosciente che il progresso della ricerca scientifica
e la promozione dell'innovazione tecnologica occupano un ruolo chiave
nell'attività dell'esecutivo, in quanto costituiscono la prima
condizione e necessità sia per avviare il reale sviluppo di
tutto il Paese sia per rendere sostenibile e costante nel tempo la
sua crescita. Ma costituisce soprattutto l'esemplificazione paradigmatica
di tutto il programma politico elaborato e seguito negli ultimi 25
anni dai leader
cinesi, oltre che del profondo pragmatismo con cui ogni linea del
piano è stata tradotta in interventi. Abbandonando il modello
di stampo sovietico a pianificazione centralizzata - che aveva prodotto
pochi investimenti nella ricerca, un ritardo tecnologico assai pesante
e in particolare gravi inefficienze economiche - venne messo a punto
in effetti un disegno molto articolato, riassumibile tuttavia in tre
voci guida, secondo la sintesi tracciata dall'economista Yasheng
Huang (Selling China: foreign direct investment during the reform
era; Cambridge University Press-NewYork):
- sfruttare e utilizzare le conoscenze dei Paesi
sviluppati, incentivando gli investimenti esteri
e i trasferimenti di tecnologia e favorendo la for mazione di studenti
e ricercatori all'estero;
- promuovere la ricerca di base (praticamente inesistente
nel periodo precedente) e incoraggiare
la creazione di legami tra le istituzioni di ricerca e le imprese;
- assecondare la localizzazione di imprese ad alta
tecnologia tramite la creazione di zone a
forte incentivazione per favorire un modello di innovazione distrettuale
QUALE CAMBIAMENTO OLTRE LA MURAGLIA
Come risulta chiaro dai suoi principi chiave, questa Decision
contiene già tutti gli elementi costitutivi della Cina moderna
e della sua economia. È prima di tutto responsabilità
del solo governo progettare i sistemi d'intervento in ogni settore
(a cominciare dal sistema organizzativo tecnologico e scientifico)
e il suo ruolo è attivo in tutte le fasi. Tale coinvolgimento
è diretto fino alla creazione di un libero mercato, mentre
diventa di semplice controllo nel momento in cui l'iniziativa privata
lo rende operativo e funzionante.
Per raggiungere questo obiettivo è considerato essenziale,
in seconda istanza, realizzare lo spostamento delle produzioni dai
settori ad alta intensità di lavoro verso quelli manifatturieri
ad alta intensità di tecnologia e a elevato valore aggiunto.
Assolutamente decisiva per il successo di tutto il processo è
poi, in terzo luogo, la consapevolezza di dover attrarre i gruppi
internazionali più sviluppati e avanzati (cioè fare
molto di più che aprire semplicemente loro le frontiere) e
di porsi in grado di "assorbire" e assimilare al meglio
in quantità, qualità e rapidità - le loro
conoscenze e le loro capacità produttive (ossia non solo copiando
comportamenti e prodotti, ma riproducendone
per intero natura, carattere, pensieri e azioni, infine organizzazione
costituzionale).
Si tratta di linee-guida che possono essere accolte appieno analizzando
le varie iniziative attraverso le quali sono state attuate, a partire
dalle due più importanti, i fondamentali 863 Program e Torch
Program.
Dal momento che per avere successo questa politica deve basarsi sul
contestuale miglioramento delle infrastrutture, la Cina si è
comunque preoccupata di adeguare nel frattempo anche uno strumento
basilare come il sistema scolastico e universitario. Attraversato
da una ventata di aggiornamenti, oggi mette in luce una "produzione"
sbalorditiva di 465 mila studenti che, a ogni anno accademico, si
laureano in scienze e ingegneria. Sono tutte giovani leve la cui formazione
culturale e preparazione tecnica viene arricchita, per forza di cose,
di influenze e contenuti
occidentali.
Nel contempo il governo di Pechino, nel corso degli ultimi 20 anni,
ha permesso di perfezionarsi e aggiornarsi nei Paesi occidentali a
oltre 600 mila giovani, che una volta tornati in patria e diventati
professori hanno formato milioni di allievi. Oggi, quelli in possesso
di un permesso di soggiorno con la qualifica di student sono ben 60
mila in Inghilterra e 40 mila in Irlanda, mentre negli Stati Uniti
sembrano essere (non si hanno dati ufficiali) oltre 10 mila. In Italia
- va detto per inciso - sono soltanto 600. Più recentemente,
accanto alle strategie di promozione all'istruzione, sono stati pure
adottati con ottimo esito incentivi al rimpatrio per ricercatori e
tecnici cinesi, che in alcuni casi
possono ottenere in patria remunerazioni analoghe a quelle ricevute
nei Paesi (leggi Usa e Giappone) di emigrazione.
Questo programma è tuttora valido e continua
a essere applicato, anche se negli anni Novanta la Cina si è
orientata verso un approccio ancora più completo allo sviluppo
strategico della ricerca con la creazione di un Sistema di innovazione
nazionale che coinvolge tutti i principali attori -scienziati, ricercatori
e aziende - stabilendo legami che ne assicurano l'interazione, a partire
da quella tra imprese e istituzioni che costituisce il focus primario,
attraverso ad esempio il cosiddetto modello delle University Affiliated
Enterprises.
Chiunque pensa che la Cina sia oggi un temibile concorrente, perché
da dieci anni a questa parte ha saputo mettere una struttura dei costi
di produzione pressoché imbattibile al servizio di una spregiudicata
appropriazione dei campionari delle industrie occidentali, rischia
in sostanza di ricavare un quadro assai riduttivo e sostanzialmente
superficiale della realtà. Essa appare invece molto più
complessa e ricca di implicazioni: negative se non comprese; positive
se valutate in relazione alla ricchezza di prospettive e opportunità
che gli straordinari margini di evoluzione del nascente mercato cinese
apre a chi ne accetta la sfida.
II cammino della Repubblica popolare è ben illustrato dairisultati
conseguiti sul fronte delle esportazioni classificate high tech. Alla
fonte vi è una spesa in R&S cresciuta moltissimo nell'ultimo
decenni e che nel solo periodo fra il 1995 e il 2000 è raddoppiata,
fino a toccare la quota di 11 miliardi di dollari. Nel 2001 gli investimenti
lordi erano pari all'11% del pil, esattamente come in Italia.Ma con
una differenza rilevante: mentre la prospettiva italiana è
statica, i cinesi continuano a farla crescere e confermano di poter
arrivare ali'1,5% nel 2005. Con oltre 60 miliardi di dollari, in termini
di parità di potere d'acquisto, la Cina occupa già oggi
la terza posizione al mondo per spesa in R&S, dopo Stati Uniti
e Giappone e prima della Germania.
NUOVI EQUILIBRI DALLA CRESCITA
Ovviamente, come tutte le evoluzioni, anche quella
scientifica e tecnologica in corso nella Repubblica popolare presenta
luci e ombre. Dalla comparazione dei risultati con gli standard mondiali
la R&S cinese rivela, per esempio, ancora alcune arretratezze
e debolezze. Innanzitutto la maggior parte degli investimenti -piuttosto
che generare innovazioni - è dedicata allo lo sviluppo di tecnologie
già esistenti (il 78%). Inoltre il livello di intensità
della R&S delle imprese, ovvero la spesa R&S sul fatturato,
si attesta a una quota vicina allo 0,5%, cioè molto bassa se
confrontata con la percentuale dei Paesi sviluppati, che varia dall'
1 al 3%. Per i settori ad alta tecnologia la differenza è ancora
più ampia: a fronte di una media del 35% di intensità
di ricerca nel settore dei produttori di computer per i Paesi Ocse,
la Cina registra tuttora un impegno inferiore al 10% (Kathleen Walsh:
Foreign high-tech Rà-D in China: risks, rewards, and implications
for U.S. -China relations. Thè Henry L. Stimson Center, Washington).
Occorre anche sottolineare che, proprio a causa della strada intrapresa,
una parte considerevole della crescita dei settori ad alta tecnologia
si mantiene legata alla dipendenza diretta dagli investimenti e dalle
risorse tecniche e scientifiche estere.
Secondo gli ultimi dati disponibili del ministero del Commercio cinese,
nel 2003 le imprese straniere contavano addirittura per l'84,6% delle
esportazioni high tech, mentre sul fronte delle importazioni di tecnologia
la Cina presenta verso l'estero un deficit commerciale superiore a
2 miliardi di dollari.
Questo significa che l'apporto degli investimenti e delle innovazioni
occidentali rimane un fattore imprescindibile per la continua crescita
dell'high tech cinese, che rimane strettamente vincolato in particolare
agli Stati Uniti, dai quali proviene il contributo in assoluto più
significativo e consistente. Rilevante appare infine l'impatto delle
trasformazioni avviate. Come noto, l'introduzione di nuovi apparati
e procedimenti tecnologici produce sempre cambiamenti nella società,
perché mentre la tecnologia conosce tradizionalmente un'accelerazione
molto rapida, il cambiamento sociale non procede con la stessa andatura.
Fra le due evoluzioni - definibili come yin e yang - c'è una
distanza crescente, ma nel caso della Cina (che affonda le sue radici
nel confuscianesimo) il problema rischia di creare scompensi strutturali.
Di qui nasce la difficoltà di consolidare quell'esperienza
che nel mondo occidentale è ormai nota come high touch; ossia
dare valore al processo, consentire una sufficiente assimilazione
culturale delle nuove scoperte e dare alla società il tempo
e lo spazio necessari per percepirne l'utilità, il senso e
la diffusione.
Tanto è vero che all'interno della stessa leadership cinese
- come rileva il ricercatore Giacomo Boati in un recente studio, Innovazione
e High Tech in Cina, condotto per l'Ispi di Milano - è in atto
un confronto su due diversi percorsi di sviluppo per il prossimo futuro.
Da un lato si preferirebbe continuare ad acquisire tecnologia dall'estero
nel minor tempo possibile; dall'altro si tenderebbe ad allentare la
spinta in R&S per consolidare le conoscenze acquisite e adottare
un percorso in grado di favorire un maggiore impiego di forze endogene.
PECHINO E L'INIZIATIVA PRIVATA
I progetti della dirigenza cinese restano in ogni caso ambiziosi.
Il decimo piano quinquennale 2001-2005 (l'ultimo, perché anche
questo dettato costituzionale è stato ora abolito) ha come
obiettivo l'inserimento entro il 2010 della Cina tra le dieci nazioni
maggiormente competitive in campo scientifico e tecnologico. E la
lunga marcia delle riforme procede con interventi che continuano ad
aprire sempre più il terreno all'innovazione.
Il principale riguarda il definitivo riconoscimento della proprietà
privata, con la proposta di emendamento della carta costituzionale
varata dal plenum del Comitato Centrale conclusosi a metà ottobre
del 2003. Gli imprenditori privati, che nel 1998 erano solamente 100
mila, difatti si sono moltiplicati in misura eccezionale e sono diventati
2,5 milioni. Così oggi l'iniziativa privata contribuisce per
più del 60% al prodotto nazionale lordo, mentre oltre il 50%
di tutto l'export è alimentato da società a capitale
straniero.
Subito dopo si colloca per importanza il rinnova mento del Fdi (Foreign
direct investment), la disciplina che regola l'afflusso annuo degli
investi menti stranieri e che ha consentito di attrarre in misura
crescente risorse finanziarie dall'estero: da una quota di 10 miliardi
di dollari nel 1992 e 23 nel 1993 si è arrivati a 40 nel 1996,
a 41 l'anno seguente, a 43 nel 1998 e poi ancora su fino a 52,7 nel
2002 e a quasi 59 miliardi nel 2003. Il target per il 2005 rimane
fissato addirittura a 100 miliardi di dollari.
Pur senza dimenticare il varo del software red flax linux per l'informatizzazione
di tutta le rete amministrativa ministeriale e statale, l'ultimo intervento
in ordine di tempo risale agli inizi del marzo scorso e ha aperto
a capitali privati e operatori stranieri tutto il settore dei media
(televisioni comprese), ossia quello in assoluto più delicato
e sensibile per qualsiasi regime fra tutti i comparti
d'attività.
QUALE CINA È PIÙ VICINA
Non si rivela in verità facile prevedere lo sbocco di tanti
"lavori in corso", i loro condizionamenti reciproci e gli
assetti che alla fine scaturiranno. È però opinione
diffusa fra i più autorevoli osservatori e analisti internazionali
che il trendi di crescita rimarrà molto elevato e che in futuro
non lontano la Cina conquisterà un ruolo di primo piano nei
settori ad alto contenuto tecnologico, non solo per le produzioni
derivanti da investimenti esteri ma anche per le produzioni nazionali.
C'è in questa visione un elemento essenziale: il successo già
raggiunto dalla Repubblica popolare in una competizione dove i livelli
di eccellenza appaiono indiscutibili: quella aerospaziale. La Cina
infatti è l'unico Paese, dopo Stati Uniti e Russia (o, se si
vuole, l'ex-Urss) ad avere finora realizzato una missione nello spazio
con un astronauta a bordo della propria navicella. E punta a fare
sempre meglio. Il nuovo target è l'invio di un uomo sulla luna
entro il 2010 e visto l'impegno con cui Pechino persegue ogni obiettivo
lo si può considerare, più che un'ipoteca, una specie
di garanzia sul futuro prossimo venturo.
George SHAFFER, giornalista e scrittore inglese.
Autore del libro "New Technology Development in China". |
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