Giuseppe Caravita (www.airec.net)
Estratto da Internet come gioco a guadagno condiviso - Parti 1 | 2 | 3 | 4 | 5

5 - I giochi della Internet di massa
Ma i giochi a guadagno condiviso, le forme di cooperazione auto-alimentate non si fermano qui. Gran parte della vicenda di Internet, dell'Internet "vincente" degli ultimi anni si fonda su queste dinamiche. Anche oggi, in tempi di esplosione della "bolla" delle dot.com. I casi di E-bay , di Amazon e anche di Yahoo possono essere letti (in particolare il primo, autentica mosca bianca tra le dot.com, che si stacca da tutte le altre per la sua stabilità) secondo questa visuale. Vediamo come.

5.1 - E-Bay, il gioco del collezionismo
E-Bay è un posto di Internet che solo la rete, e tanta creatività, potevano creare. Un posto impossibile prima. E lo dimostra il fatto, incontestabile, che questa "mosca bianca" delle dot.com ha retto alla tempesta della bolla, l'ha attraversata immune e oggi vanta, unica o quasi, una quotazione sul Nasdaq comparabile ai vecchi tempi (di tre anni fa). Come si può notare E-Bay continua a rimbalzare, lungo tutto il 2001, su una quotazione elevata, mentre il Nasdaq perde quasi mille punti. Non è un consiglio borsistico. Me ne guardo bene, a differenza di tanti improvvisati analisti che hanno fin troppo calcato le scene. Si tratta soltanto del fenomeno di una dot.com che non è affatto crollata, grazie al suo peculiare modello di business. Ed è anche la constatazione che il mondo, nel bene o nel male, oggi pullula di individualità, di sviluppi personali resi possibili da un reddito che, nell'ultima generazione, ha liberato qualche risorsa e qualche spazio alla bruta fatica e al tempo incatenato alla sopravvivenza. Per tanti questo significa collezio nismo: l'arte di approfondire gli oggetti, di comprenderli, di assimilarne il valore e il significato. Di vivere percorsi di apprendimento, pezzi di storia, relazioni, transazioni tutte in prima persona, diverse, più autentiche. Un orologio tedesco trovato su E-bay da un cinese di Hong-kong. Un manifesto dell'Opera di Parigi di fine Ottocento. Una scatola di strumenti olandesi per tagliare i diamanti. Le vie dell'individualità sono infinite. E E-Bay le ha suscitate e organizzate. Grazie a un software di grande valore e tempestività (il primo robot di aste), grazie forse a un sensibilità femminile alla sua guida, grazie all'effetto di massa critica generato da interfacce e motori di ricerca appropriati (cosa bolle in pentola oggi?) che hanno progressivamente spiazzato tutti gli imitatori. Ma grazie soprattutto a un solido business model: E-Bay non vive primariamente di pubblicità (aleatoria) né di "pesante" logistica. Vive di commissioni elettroniche, piccole, su tanti e innumerevoli atti di individualità , gestiti fisicamente dagli stessi utenti (spedizione e pagamento dell'oggetto). Vive il meglio del virtuale, le conversazioni in rete via oggetti scambiati. Vive anche lei di un gioco a guadagno condiviso in cui tutti traggono benefici. Venditori e acquirenti dell'oggetto bramato, e E- Bay che ne incamera una piccola, ma reale, frazione. E' uno dei pochissimi casi di un robot, ben calibrato, che funziona. E che non ha bisogno di altro per vivere. E che ha progressivamente spiazzato tutti gli imitatori, secondo una legge di concentrazione e di massa critica sui maggiori marchi di Internet, che pare muoversi innanzitutto dal lato dell'utenza e del suo tam-tam (altrimenti detto marketing virale). E sull'effetto di "permanenza" che vede i costi di abbandono di una data comunità "efficiente" salire in funzione della sua dimensione e attrattività. Soprattutto E-Bay è rimasta sempre fedele a questa strategia. Quando Yahoo e altri, per farle concorrenza, avviarono nel 1999 iniziative per aste gratuite (prive delle essenziali commissioni) lei non perse la testa, e tenne duro sui micropagamenti. Oggi i fatti le danno ragione: gli altri, sull'asta gratuita, si sono ritirati o vegetano. Mentre lei continua a crescere. Lezione: La costellazione di eventi che ha portato allo sviluppo di E-bay ha creato un gioco a guadagno condiviso equilibrato (il valore viene creato e distribuito in modo soddisfacente tra venditori, acquirenti, utenti della comunità, gestore). Il modello poi è scalabile e presenta rendimenti crescenti di scala.

5.2 - Amazon, la comunità del sapere
Amazon. La prima volta che sentii parlare di questa azienda fu nel 1996, tramite una relazione di un analista dell'Ibm, che si provò a elencare i primi casi di successo sul Web. Accanto all'immancabile Cisco, la signora dell'infrastruttura Internet, c'era lei, presentata come primo esempio di fusione di successo tra la polarità di comunità virtuale e di sito di e-commerce. Amazon era "il" luogo su Internet in cui si potevano "valutare" le opere letterarie e saggistiche. Dove fluiva il "tam-tam" tra i lettori, dove le opinioni si incrociavano, dove persino gli autori partecipavano alla conversazione sul frutto della loro creatività. Siete mai entrati, al proposito, in una libreria Usa? Di solito è grande, se non enorme, con migliaia di testi ordinatamente allineati nei loro scaffali etichettati per genere. Puntate sui temi di vostro interesse e cominciate a guardare i titoli, nuovi o vecchi che siano. Tutti, nelle copertine patinate, rigurgitano di frasi di apprezzamento, spesso roboanti, di questo o quel quotidiano, rivista, esperto. Tutti belli, in apparenza, tutti da comprare. Dovete scegliere. E se non avete già in mente, ben chiari, i giudizi vostri o di qualche amico su precedenti letture, sull'autore, sulla collana o sul testo, è impossibile orientarvi. Il "libraio", negli Usa (e sempre più in Europa), semplicemente non esiste. C'è un commesso, spesso un giovane studente annoiato pagato a ore, capace al massimo di consultare un database sul suo Pc, e di dirvi dove e se quel tale libro è disponibile. Ma non di più. Il libraio specializzato di una botteguccia di Venezia o di Firenze spesso si fa vanto, a tutt'oggi, di aver letto o di conoscere ogni opera in vendita (e spesso alcune se le ristampa a sue spese). Il commesso delle catene librarie Usa alla sera magari studia, poi accende la tv e si vede il football. Amazon della prima ora, spontaneamente, fu l'inverso. Fu il valore del testo prima del suo codice a barre. Fu il dialogo tra apparenti sconosciuti, l'arricchimento reciproco tra opinioni, recensioni spontanee, critiche e apprezzamenti. Nella migliore tradizione cooperativa dell'Internet dei ricercatori. Fu il tam-tam amicale raggiungibile anche dai posti più sperduti del vasto continente Usa. Fu gioco d'acquisto e di appropriazione di cultura in cui tutti guadagnavano, utenti e gestori del sito (salvo ovviamente gli autori ed editori bocciati dalla comunità). Se non vi fosse stata Amazon qualcuno l'avrebbe comunque creata: punto focale di qualcosa che nella società Usa mancava, ma sempre più necessario a una grande nazione di ceto medio, che legge sempre di più (nonostante le apparenze), comunica e sempre meno accende l'ipnosi televisiva. Uno strumento di conoscenza collettiva, peraltro ben interpretato da Bezos che ci mise poco per organizzare visivamente, a punteggi e opinioni selezionate, il frutto delle conversazioni. E allo stesso tempo offriva un catalogo enorme, e prezzi radicalmente competitivi con le librerie tradizionali. Poi vennero le difficoltà, e i frutti avvelenati dell'iper-successo. Amazon scoprì il suo tallone d'Achille: la logistica ad alto volume. Costosa, manuale, snervante. Centinaia di migliaia di pacchi e pacchetti da spedire in ogni parte del mondo. Catene di montaggio delle spedizioni, stabilimenti old-economy popolati di lavoratori "flessibili" a contratto, lavoro ripetitivo e alienante quale quello alla Fiat negli anni `60. Un tergicristallo ogni quindici secondi; un pacchetto ogni dieci. Di qui la sindrome dell'e-commerce. Per ripagare la sua parte "fisica" (forse a torto ritenuta essenziale al successo economico dell'intera iniziativa) l'unica era quella di ripercorrere la via crucis della old economy: ovvero economie di scala sempre più alte, un catalogo prodotti più vasto. Non solo libri ma via via anche musica, oggetti elettronici, giocattoli, software. Qualsiasi cosa vendibile al ceto medio in rete: pacchetti più grandi e di valore, marchio Amazon conosciuto e apprezzato in Europa, Asia, Giappone. Gigantismo, multinazionalità. Ma anche "flessibilità", ovvero drastici licenziamenti quando, dopo il fatidico marzo 2000, il flusso di risorse dal Nasdaq si trasformò in rivolo. Ottimizzazione dura e rapida. Funzionerà oggi la rincorsa di Bezos fino all'agognato punto critico in cui i suoi volumi di vendite cominceranno a dare profitti veri? Il 22 gennaio del 2002 potrebbe essere stata, per Amazon, una data storica. Quando l'azienda ha annunciato, per la prima volta nella sua storia, un profitto netto di 5 milioni di dollari nell'ultimo trimestre del 2001, sorprendendo quasi tutti gli analisti. Un risultato ottenuto, secondo Amazon, sia sul fronte delle vendite che dei minori costi. Per quanto riguarda i primi va detto che l'ultimo trimestre dell'anno, a causa del periodo natalizio, è stagionalmente il più favorevole per chi vende beni di consumo (e quest'anno è stato inaspettatamente favorevole per le vendite on-line Usa). Per Amazon
le vendite hanno per la prima volta superato, in un trimestre, la soglia del miliardo di dollari, il 15% in più rispetto allo stesso periodo del 2000. Con una qualificazione importante. L'entrata a regime di quelle alleanze strategiche con catene distributive tradizionali, come Target, Circuit City, Toys r Us, ha da un lato aumentato i profitti netti (tramite i servizi di vendita forniti ai partner), dall'altro ridotto i cruciali costi logistici di consegna, ora in parte scaricati sulle reti distributive e di punti vendita degli alleati. Sul fronte dei costi, infatti, Amazon ha fatto registrare una riduzione del 17% nei puri costi di vendita sul 2000. E una significativa riduzione anche nei suoi costi generali. Secondo alcune stime soltanto il passaggio in toto dei suoi sistemi informativi su piattaforma Linux le ha consentito di tagliare del 25% le sue spese per l'It, ovvero una delle sue maggiori voci di uscite. Per il futuro l'obbiettivo è quello di stabilizzare la profittabilità di Amazon su tutto l'arco dei trimestri. Espandendo in particolare le attività di servizio per i partner esterni che si sono rivelate le più profittevoli, con ulteriori estensioni degli accordi con Target e Circuit City. Una lezione mi pare emerga. Il gioco a guadagno condiviso di Amazon, visibile e fondato per gli utenti, ha sull'altro versante, ovvero il valore che ne viene al gestore, un autentico tallone d'Achille: Amazon ha deciso, fin dall'inizio, di puntare sul commercio elettronico fisico e proprietariamente gestito. Invece di muoversi, come si è mossa E-bay (per sua natura) su un sistema di micro-pagamenti a fronte del servizio a valore aggiunto sviluppato in rete. In altri termini: Amazon è la più straordinaria avventura di marketing culturale degli ultimi decenni. Avrebbe potuto vendere "per conto" delle case editrici e delle catene librarie, ricavandone una commissione sulla transazione procacciata. In questo modo i suoi costi e la sua focalizzazione sarebbero state diverse. E il suo gioco a guadagno condiviso più equilibrato. Ora, a poco a poco, sta trovando questa strada. Ed è emblematica la tendenza agli accordi esterni, ai ritorni sui servizi, alla "rivirtualizzazione" dell'azienda.

5.3 - Yahoo, o dell'Internet a pagamento
Yahoo. Qui entriamo nell'occhio del ciclone di un altro, e enorme, gioco a guadagno condiviso con evidenti caratteri interni di "squilibrio" e di "vulnerabilità". Forse ancora più strutturali e inevitabili di quelli di Amazon. Il maggiore "nuovo media" di Internet, forse il suo figlio primogenito nella schiera delle dot.com, contiene in sé, nella sua storia e nel suo modello di business, tutte le glorie e tutta la fragilità delle scommesse sui cosiddetti portali. Nati in un certo senso da sé, trascinati dalla stessa prima esplosione della rete, fondati sulla evoluzione "storica" di Internet, di una realtà informativa e di servizi percepita dagli utenti come gratuita. E questo Dna di base fu evidente fin dall'aprile del 1994, quando nella prima ondata del Web, di questo ipertesto mondiale in veloce lievitazione, David Filo e Jerry Yang, due studenti di Stanford, avviarono quasi per gioco la "Jerry guide to the World Wide Web", un brioso elenco indicizzato, facilmente ricercabile, di quanto spuntava ogni giorno sulla rete, al ritmo di un milione e passa di nuove pagine al giorno. Un motore di ricerca nettamente competitivo con le apposite pagine del capostipite Mosaic, che elencavano i primi siti Web in modo sequenziale, non scalabile (con la diffusione-esplosione del Web), difficile e noioso per l'utente. Anche qui qualcosa di necessario che, se non vi fosse stato, sarebbe comunque stato creato. Uno dei primi grandi crocicchi della matrice, il punto informativo, di orientamento per quei milioni di nuovi utenti che si riversavano cercando di orizzontarsi nel nuovo ambiente. La tecnologia di base, del resto, ovvero i servizi di ricerca su database, era presente da anni su Internet. Si trattava di applicarla al Web distribuito, e renderla facilmente utile. E Yahoo, con un misto di manualità e di tecnologia, ci riuscì prima degli altri. Riuscendo anche a trasformare la sua apparente debolezza (l'intervento umano nella redazione dei cataloghi di siti "ricercabili") in uno straordinario punto di forza, che in pochi mesi si tradusse in "intervento umano" non solo sul servizio di ricerca, ma sulla continua creazione di altri servizi aggiuntivi, legati alla ricerca e non, e sulla differenziazione e facilità d'uso delle sue pagine Web. Insomma lo sviluppo rapido di un "portale", adatto a indirizzare milioni di utenti neofiti, ma anche di trattenerli sul sito con servizi locali via via sempre più evoluti. Nel 1996, quando si quotò al Nasdaq, Yahoo superava i 15 milioni di utenti registrati. E già offriva, accanto alla suo "motore" per categorie di siti, servizi personalizzati, elenchi internazionali, guide cittadine, quotazioni azionarie, informazioni sui viaggi e sullo shopping in rete. Insomma quella configurazione poi chiamata "portale", ovvero di un sito che, tramite accordi con migliaia di partner fornitori di informazioni (entusiasti di "essere" su Yahoo) e il continuo sviluppo di nuovi servizi utili all'utente finale (casella postale personale sul web, agenda, chat, pagine personali...) riusciva a formare una massa critica concentrata di utilità su un solo nodo di Internet. Ovviamente tanto più appetibile per gli investitori pubblicitari, a mano a mano che le cifre di utenti registrati crescevano, a 25 milioni nel 1988 e poi oltre i cinquanta l'anno dopo. Il sogno apparente, in quegli anni divenuta (provvisoria) realtà, della quadratura del cerchio di Internet. La rete di reti, nata gratuita e cooperativa (salvo la sua componente di accesso, ma comunque a basso costo) che, di fronte al suo nuovo carattere di massa, riusciva a mantenere il suo Dna "aperto" di base e allo stesso tempo generava una ricchezza di servizi senza precedenti, in un processo competitivo-emulativo che vedeva anche decine di altri portali sulla stessa traiettoria (Excite, Lycos, Altavista, Virgilio, Wanadoo, Tiscali On-line, tanto per citare anche qualche nome di casa nostra). Il tutto poggiato su un modello di business indiretto sostenuto da tre pilastri: da un lato le entrate pubblicitarie, gli accordi estremamente favorevoli con i partner esterni (che facevano a gara per farsi conoscere sui portali di massa) e il mercato azionario, che nel `98-`99 riconosceva a Yahoo un valore da General Motors, o da Ibm. Anche qui un gioco win-win, in cui tutti guadagnavano. Esteso a un network di migliaia di soggetti d'impresa, e di milioni di utenti, convergenti sulla focalizzazione personalizzata del portale. Poi, anche per lei (e per gli altri) il "grande inizio" dell'Internet di massa finì. I pilastri, dal marzo del 2000 in avanti, furono rapidamente erosi dai venti impetuosi e freddi della disillusione cumulativa. Le aziende iniziarono, dopo due anni di investimenti a fondo perduto, a valutare l'effettiva produttività dei "banner" pubblicitari in rete, le dot.com in difficoltà cominciarono a tagliare sui budget promozionali, il Nasdaq, anche per Yahoo e compagni, divenne selettivo, serrò le chiuse a quello spensierato afflusso di capitali su un valore atteso che pareva inesauribile. Persino per gli utenti l'utilizzo del portale, con la sua straordinaria parte finanziaria (ovviamente centrata sul Nasdaq) degna di una Reuters, divenne meno pressante, di fronte al continuo calo degli indici. La fiammata esplosiva del "trading on-line" si esaurì, stabilizzandosi. E poi l'aspetto interno del cambiamento. Come tante altre dot.com anche Yahoo basava (e basa) le sue retribuzioni e i suoi incentivi sulle stock-options ovvero sulla distribuzione di azioni ai manager e ai dipendenti secondo la formula delle opzioni esercitabili entro un dato periodo a prezzo prefissato. Un equilibrio sempre più difficile da mantenere di fronte alla caduta degli incentivi provenienti dal Nasdaq. Di qui l'emorragia nel gruppo dirigente (quasi tutti divenuti plurimiliardari) e tra gli artefici della spettacolare crescita degli anni d'oro. Ora per Yahoo, come per tanti altri, si pone il problema dei problemi. Forzare il muro della gratuità nei servizi e nei contenuti su Internet oppure rassegnarsi al declino, oppure ancora divenire forse parte di qualche solido gruppo mediatico old economy, come Disney. E' sicuro che Yahoo sarà in prima linea, in questi mesi, sulle offerte di nuovi servizi a pagamento, innanzitutto negli Usa. Così come Napster e tanti altri che ci stanno provando. D'altro canto il caso di E-Bay che vive (anche) di proprie commissioni sulle aste, testimonia di un equilibrio azionario e d'impresa di un ordine di grandezza superiore a ogni altra dot.com. Le operazioni sono in pieno corso. Così come America On Line, con la sua acquisizione di Time Warner sta sviluppando servizi multimediali a pagamento, giocati sui punti di entertainment di maggiore interesse, così Yahoo vede oggi il suo futuro lungo la rotta che porta a Hollywood. Il suo nuovo amministratore delegato, Terry Semel (venti anni alla Warner Bros) è del resto un vecchio del mestiere. Che ha subito aperto un'area per gli Studios, dalla prevendita delle visite alle prenotazioni dei posti nelle sale cinematografiche. E soprattutto uno spazio per l'accesso a banda larga ai clip dei film più attesi, primo fra tutti "Pearl Harbour" della Disney. E alleanze a ripetizione: dopo Disney con Sony, per la distribuzione (ovviamente a pagamento) del loro contenuto multimediale. E ora, in dirittura d'arrivo anche con Vivendi Universal. Ma non solo il portale multimediale, a valore aggiunto e a pagamento, di Hollywood. Anche il maggiore sito mondiale per i videoclip musicali, nei piani di Semel, con connessa corona di alleati nel settore discografico. Questo per dare solo un esempio. A poco a poco Yahoo lancerà servizi a "valore aggiunto" in pratica su ogni area del suo portale. Dalla finanza all'orientamento agli acquisti. Cercando di mantenere e coinvolgere i partner di contenuti dentro accordi contrattuali meno aleatori di quelli del passato. Anche qui una dose di scetticismo mi sia concessa: mentre Aol, con la sua base di abbonamenti paganti e soprattutto con la sua grande comunità può valersi di un terreno controllato e favorevole per il progressivo sviluppo, con le sue risorse di contenuti derivanti da Time-Warner, di un "pacchetto" di servizi a pagamento, Yahoo deve tentare questa operazione in "mare aperto", contando solo sulla qualità delle nuove proposte. Un salto difficile, anche se non impossibile. Lezione: anche Yahoo, come Amazon, è un gioco a guadagno condiviso fragile, innanzitutto sul lato gestore. Qui il valore creato dai "numeri" dell'audience (sostenuti dai servizi del portale) dovrebbe tradursi, nella formula originaria, nei redditi "indiretti" derivanti dalla raccolta pubblicitaria. Il modello della televisione commerciale, in altri termini, trasposto su Internet. Ma funziona la pubblicità su Internet? A questa domanda non mi pare, stando almeno alla mia esperienza di osservatore-partecipante alla rete, che emerga ancora una risposta certa. Il modello "indiretto" appare invece altamente ciclico. La disillusione seguita all'esplosione della bolla dot.com ha generato due effetti negativi sul modello Yahoo (o, in generale, dei portali). Il crollo della pubblicità "di lancio" delle dot.com stesse. E il parallelo ripensamento degli investitori pubblicitari old economy. Ciò si è tradotto in un rapido calo di introiti che, nei fatti, ha generato la paralisi, la crisi e in qualche caso il crollo di molti portali concorrenti, a livello globale e locale (Excite, Altavista, in Italia difficoltà di Kataweb, Jumpy, chiusura di Punto, perdite di bilancio per Virgilio....). Yahoo, come leader globale riconosciuto in questo campo, ha risentito un po' meno degli altri. Ma ha comunque dovuto porsi, e radicalmente, il problema della stabilità economica del suo modello, capace di innescare parzialmente giochi a guadagno condiviso, ma non di ricavarne un flusso di valore sufficientemente stabile. Di qui l'alternativa dei servizi a pagamento, in un contesto di una Internet che sta diventando, tramite abbonamenti a banda-medio larga, estesa al multimediale e soprattutto "always on". Ogni conclusione su questa strategia è ovviamente prematura. Resta però un fondo di scetticismo: le esperienze passate in questo senso (come @Home, recentemente fallita) che proponeva sulla larga banda un pacchetto di servizi onnicomprensivo e "chiuso", sono state negative. Trasformarsi in un media a pagamento, in un ambiente qual è Internet, può persino apparire come un ritorno al passato.

Continua.....parte 5