5.1 - E-Bay, il gioco del collezionismo
E-Bay è un posto di Internet che solo la rete, e tanta creatività,
potevano creare. Un posto impossibile prima. E lo dimostra il fatto,
incontestabile, che questa "mosca bianca" delle dot.com ha
retto alla tempesta della bolla, l'ha attraversata immune e oggi
vanta, unica o quasi, una quotazione sul Nasdaq comparabile ai vecchi
tempi (di tre anni fa). Come si può notare E-Bay continua a rimbalzare,
lungo tutto il 2001, su una quotazione elevata, mentre il Nasdaq
perde quasi mille punti. Non è un consiglio borsistico. Me ne guardo
bene, a differenza di tanti improvvisati analisti che hanno fin
troppo calcato le scene. Si tratta soltanto del fenomeno di una
dot.com che non è affatto crollata, grazie al suo peculiare
modello di business. Ed è anche la constatazione che il mondo, nel
bene o nel male, oggi pullula di individualità, di sviluppi personali
resi possibili da un reddito che, nell'ultima generazione, ha liberato
qualche risorsa e qualche spazio alla bruta fatica e al tempo incatenato
alla sopravvivenza. Per tanti questo significa collezio nismo: l'arte
di approfondire gli oggetti, di comprenderli, di assimilarne il
valore e il significato. Di vivere percorsi di apprendimento, pezzi
di storia, relazioni, transazioni tutte in prima persona, diverse,
più autentiche. Un orologio tedesco trovato su E-bay da un cinese
di Hong-kong. Un manifesto dell'Opera di Parigi di fine Ottocento.
Una scatola di strumenti olandesi per tagliare i diamanti. Le vie
dell'individualità sono infinite. E E-Bay le ha suscitate e organizzate.
Grazie a un software di grande valore e tempestività (il primo robot
di aste), grazie forse a un sensibilità femminile alla sua guida,
grazie all'effetto di massa critica generato da interfacce e motori
di ricerca appropriati (cosa bolle in pentola oggi?) che hanno progressivamente
spiazzato tutti gli imitatori. Ma grazie soprattutto a un solido
business model: E-Bay non vive primariamente di pubblicità (aleatoria)
né di "pesante" logistica. Vive di commissioni elettroniche, piccole,
su tanti e innumerevoli atti di individualità , gestiti fisicamente
dagli stessi utenti (spedizione e pagamento dell'oggetto). Vive
il meglio del virtuale, le conversazioni in rete via oggetti scambiati.
Vive anche lei di un gioco a guadagno condiviso in cui tutti traggono
benefici. Venditori e acquirenti dell'oggetto bramato, e E- Bay
che ne incamera una piccola, ma reale, frazione. E' uno dei pochissimi
casi di un robot, ben calibrato, che funziona. E che non ha bisogno
di altro per vivere. E che ha progressivamente spiazzato tutti gli
imitatori, secondo una legge di concentrazione e di massa critica
sui maggiori marchi di Internet, che pare muoversi innanzitutto
dal lato dell'utenza e del suo tam-tam (altrimenti detto marketing
virale). E sull'effetto di "permanenza" che vede i costi di abbandono
di una data comunità "efficiente" salire in funzione della sua dimensione
e attrattività. Soprattutto E-Bay è rimasta sempre fedele a questa
strategia. Quando Yahoo e altri, per farle concorrenza, avviarono
nel 1999 iniziative per aste gratuite (prive delle essenziali commissioni)
lei non perse la testa, e tenne duro sui micropagamenti. Oggi i
fatti le danno ragione: gli altri, sull'asta gratuita, si sono ritirati
o vegetano. Mentre lei continua a crescere. Lezione: La costellazione
di eventi che ha portato allo sviluppo di E-bay ha creato un gioco
a guadagno condiviso equilibrato (il valore viene creato e distribuito
in modo soddisfacente tra venditori, acquirenti, utenti della comunità,
gestore). Il modello poi è scalabile e presenta rendimenti crescenti
di scala.
5.2 - Amazon, la comunità del sapere
Amazon. La prima volta che sentii parlare di questa azienda
fu nel 1996, tramite una relazione di un analista dell'Ibm, che
si provò a elencare i primi casi di successo sul Web. Accanto all'immancabile
Cisco, la signora dell'infrastruttura Internet, c'era lei, presentata
come primo esempio di fusione di successo tra la polarità di comunità
virtuale e di sito di e-commerce. Amazon era "il" luogo su Internet
in cui si potevano "valutare" le opere letterarie e saggistiche.
Dove fluiva il "tam-tam" tra i lettori, dove le opinioni si incrociavano,
dove persino gli autori partecipavano alla conversazione sul frutto
della loro creatività. Siete mai entrati, al proposito, in una libreria
Usa? Di solito è grande, se non enorme, con migliaia di testi ordinatamente
allineati nei loro scaffali etichettati per genere. Puntate sui
temi di vostro interesse e cominciate a guardare i titoli, nuovi
o vecchi che siano. Tutti, nelle copertine patinate, rigurgitano
di frasi di apprezzamento, spesso roboanti, di questo o quel quotidiano,
rivista, esperto. Tutti belli, in apparenza, tutti da comprare.
Dovete scegliere. E se non avete già in mente, ben chiari, i giudizi
vostri o di qualche amico su precedenti letture, sull'autore, sulla
collana o sul testo, è impossibile orientarvi. Il "libraio", negli
Usa (e sempre più in Europa), semplicemente non esiste. C'è un commesso,
spesso un giovane studente annoiato pagato a ore, capace al massimo
di consultare un database sul suo Pc, e di dirvi dove e se quel
tale libro è disponibile. Ma non di più. Il libraio specializzato
di una botteguccia di Venezia o di Firenze spesso si fa vanto, a
tutt'oggi, di aver letto o di conoscere ogni opera in vendita (e
spesso alcune se le ristampa a sue spese). Il commesso delle catene
librarie Usa alla sera magari studia, poi accende la tv e si vede
il football. Amazon della prima ora, spontaneamente, fu l'inverso.
Fu il valore del testo prima del suo codice a barre. Fu il dialogo
tra apparenti sconosciuti, l'arricchimento reciproco tra opinioni,
recensioni spontanee, critiche e apprezzamenti. Nella migliore tradizione
cooperativa dell'Internet dei ricercatori. Fu il tam-tam amicale
raggiungibile anche dai posti più sperduti del vasto continente
Usa. Fu gioco d'acquisto e di appropriazione di cultura in cui tutti
guadagnavano, utenti e gestori del sito (salvo ovviamente gli autori
ed editori bocciati dalla comunità). Se non vi fosse stata Amazon
qualcuno l'avrebbe comunque creata: punto focale di qualcosa che
nella società Usa mancava, ma sempre più necessario a una grande
nazione di ceto medio, che legge sempre di più (nonostante le apparenze),
comunica e sempre meno accende l'ipnosi televisiva. Uno strumento
di conoscenza collettiva, peraltro ben interpretato da Bezos che
ci mise poco per organizzare visivamente, a punteggi e opinioni
selezionate, il frutto delle conversazioni. E allo stesso tempo
offriva un catalogo enorme, e prezzi radicalmente competitivi con
le librerie tradizionali. Poi vennero le difficoltà, e i frutti
avvelenati dell'iper-successo. Amazon scoprì il suo tallone d'Achille:
la logistica ad alto volume. Costosa, manuale, snervante. Centinaia
di migliaia di pacchi e pacchetti da spedire in ogni parte del mondo.
Catene di montaggio delle spedizioni, stabilimenti old-economy popolati
di lavoratori "flessibili" a contratto, lavoro ripetitivo e alienante
quale quello alla Fiat negli anni `60. Un tergicristallo ogni quindici
secondi; un pacchetto ogni dieci. Di qui la sindrome dell'e-commerce.
Per ripagare la sua parte "fisica" (forse a torto ritenuta essenziale
al successo economico dell'intera iniziativa) l'unica era quella
di ripercorrere la via crucis della old economy: ovvero economie
di scala sempre più alte, un catalogo prodotti più vasto. Non solo
libri ma via via anche musica, oggetti elettronici, giocattoli,
software. Qualsiasi cosa vendibile al ceto medio in rete: pacchetti
più grandi e di valore, marchio Amazon conosciuto e apprezzato in
Europa, Asia, Giappone. Gigantismo, multinazionalità. Ma anche "flessibilità",
ovvero drastici licenziamenti quando, dopo il fatidico marzo 2000,
il flusso di risorse dal Nasdaq si trasformò in rivolo. Ottimizzazione
dura e rapida. Funzionerà oggi la rincorsa di Bezos fino all'agognato
punto critico in cui i suoi volumi di vendite cominceranno a dare
profitti veri? Il 22 gennaio del 2002 potrebbe essere stata, per
Amazon, una data storica. Quando l'azienda ha annunciato, per la
prima volta nella sua storia, un profitto netto di 5 milioni di
dollari nell'ultimo trimestre del 2001, sorprendendo quasi tutti
gli analisti. Un risultato ottenuto, secondo Amazon, sia sul fronte
delle vendite che dei minori costi. Per quanto riguarda i primi
va detto che l'ultimo trimestre dell'anno, a causa del periodo natalizio,
è stagionalmente il più favorevole per chi vende beni di consumo
(e quest'anno è stato inaspettatamente favorevole per le vendite
on-line Usa). Per Amazon le vendite hanno
per la prima volta superato, in un trimestre, la soglia del miliardo
di dollari, il 15% in più rispetto allo stesso periodo del 2000.
Con una qualificazione importante. L'entrata a regime di quelle
alleanze strategiche con catene distributive tradizionali, come
Target, Circuit City, Toys r Us, ha da un lato aumentato i profitti
netti (tramite i servizi di vendita forniti ai partner), dall'altro
ridotto i cruciali costi logistici di consegna, ora in parte scaricati
sulle reti distributive e di punti vendita degli alleati. Sul fronte
dei costi, infatti, Amazon ha fatto registrare una riduzione del
17% nei puri costi di vendita sul 2000. E una significativa riduzione
anche nei suoi costi generali. Secondo alcune stime soltanto il
passaggio in toto dei suoi sistemi informativi su piattaforma Linux
le ha consentito di tagliare del 25% le sue spese per l'It, ovvero
una delle sue maggiori voci di uscite. Per il futuro l'obbiettivo
è quello di stabilizzare la profittabilità di Amazon su tutto l'arco
dei trimestri. Espandendo in particolare le attività di servizio
per i partner esterni che si sono rivelate le più profittevoli,
con ulteriori estensioni degli accordi con Target e Circuit City.
Una lezione mi pare emerga. Il gioco a guadagno condiviso di Amazon,
visibile e fondato per gli utenti, ha sull'altro versante, ovvero
il valore che ne viene al gestore, un autentico tallone d'Achille:
Amazon ha deciso, fin dall'inizio, di puntare sul commercio elettronico
fisico e proprietariamente gestito. Invece di muoversi, come si
è mossa E-bay (per sua natura) su un sistema di micro-pagamenti
a fronte del servizio a valore aggiunto sviluppato in rete. In altri
termini: Amazon è la più straordinaria avventura di marketing culturale
degli ultimi decenni. Avrebbe potuto vendere "per conto" delle case
editrici e delle catene librarie, ricavandone una commissione sulla
transazione procacciata. In questo modo i suoi costi e la sua focalizzazione
sarebbero state diverse. E il suo gioco a guadagno condiviso più
equilibrato. Ora, a poco a poco, sta trovando questa strada. Ed
è emblematica la tendenza agli accordi esterni, ai ritorni sui servizi,
alla "rivirtualizzazione" dell'azienda.
5.3 - Yahoo, o dell'Internet a pagamento
Yahoo. Qui entriamo nell'occhio del ciclone di un
altro, e enorme, gioco a guadagno condiviso con evidenti caratteri
interni di "squilibrio" e di "vulnerabilità". Forse ancora più strutturali
e inevitabili di quelli di Amazon. Il maggiore "nuovo media" di
Internet, forse il suo figlio primogenito nella schiera delle dot.com,
contiene in sé, nella sua storia e nel suo modello di business,
tutte le glorie e tutta la fragilità delle scommesse sui cosiddetti
portali. Nati in un certo senso da sé, trascinati dalla stessa prima
esplosione della rete, fondati sulla evoluzione "storica" di Internet,
di una realtà informativa e di servizi percepita dagli utenti come
gratuita. E questo Dna di base fu evidente fin dall'aprile del 1994,
quando nella prima ondata del Web, di questo ipertesto mondiale
in veloce lievitazione, David Filo e Jerry Yang, due studenti di
Stanford, avviarono quasi per gioco la "Jerry guide to the World
Wide Web", un brioso elenco indicizzato, facilmente ricercabile,
di quanto spuntava ogni giorno sulla rete, al ritmo di un milione
e passa di nuove pagine al giorno. Un motore di ricerca nettamente
competitivo con le apposite pagine del capostipite Mosaic, che elencavano
i primi siti Web in modo sequenziale, non scalabile (con la diffusione-esplosione
del Web), difficile e noioso per l'utente. Anche qui qualcosa di
necessario che, se non vi fosse stato, sarebbe comunque stato creato.
Uno dei primi grandi crocicchi della matrice, il punto informativo,
di orientamento per quei milioni di nuovi utenti che si riversavano
cercando di orizzontarsi nel nuovo ambiente. La tecnologia di base,
del resto, ovvero i servizi di ricerca su database, era presente
da anni su Internet. Si trattava di applicarla al Web distribuito,
e renderla facilmente utile. E Yahoo, con un misto di manualità
e di tecnologia, ci riuscì prima degli altri. Riuscendo anche a
trasformare la sua apparente debolezza (l'intervento umano nella
redazione dei cataloghi di siti "ricercabili") in uno straordinario
punto di forza, che in pochi mesi si tradusse in "intervento umano"
non solo sul servizio di ricerca, ma sulla continua creazione di
altri servizi aggiuntivi, legati alla ricerca e non, e sulla differenziazione
e facilità d'uso delle sue pagine Web. Insomma lo sviluppo rapido
di un "portale", adatto a indirizzare milioni di utenti neofiti,
ma anche di trattenerli sul sito con servizi locali via via sempre
più evoluti. Nel 1996, quando si quotò al Nasdaq, Yahoo superava
i 15 milioni di utenti registrati. E già offriva, accanto alla suo
"motore" per categorie di siti, servizi personalizzati, elenchi
internazionali, guide cittadine, quotazioni azionarie, informazioni
sui viaggi e sullo shopping in rete. Insomma quella configurazione
poi chiamata "portale", ovvero di un sito che, tramite accordi con
migliaia di partner fornitori di informazioni (entusiasti di "essere"
su Yahoo) e il continuo sviluppo di nuovi servizi utili all'utente
finale (casella postale personale sul web, agenda, chat, pagine
personali...) riusciva a formare una massa critica concentrata di
utilità su un solo nodo di Internet. Ovviamente tanto più appetibile
per gli investitori pubblicitari, a mano a mano che le cifre di
utenti registrati crescevano, a 25 milioni nel 1988 e poi oltre
i cinquanta l'anno dopo. Il sogno apparente, in quegli anni divenuta
(provvisoria) realtà, della quadratura del cerchio di Internet.
La rete di reti, nata gratuita e cooperativa (salvo la sua componente
di accesso, ma comunque a basso costo) che, di fronte al suo nuovo
carattere di massa, riusciva a mantenere il suo Dna "aperto" di
base e allo stesso tempo generava una ricchezza di servizi senza
precedenti, in un processo competitivo-emulativo che vedeva anche
decine di altri portali sulla stessa traiettoria (Excite, Lycos,
Altavista, Virgilio, Wanadoo, Tiscali On-line, tanto per citare
anche qualche nome di casa nostra). Il tutto poggiato su un modello
di business indiretto sostenuto da tre pilastri: da un lato le entrate
pubblicitarie, gli accordi estremamente favorevoli con i partner
esterni (che facevano a gara per farsi conoscere sui portali di
massa) e il mercato azionario, che nel `98-`99 riconosceva a Yahoo
un valore da General Motors, o da Ibm. Anche qui un gioco win-win,
in cui tutti guadagnavano. Esteso a un network di migliaia di soggetti
d'impresa, e di milioni di utenti, convergenti sulla focalizzazione
personalizzata del portale. Poi, anche per lei (e per gli altri)
il "grande inizio" dell'Internet di massa finì. I pilastri, dal
marzo del 2000 in avanti, furono rapidamente erosi dai venti impetuosi
e freddi della disillusione cumulativa. Le aziende iniziarono, dopo
due anni di investimenti a fondo perduto, a valutare l'effettiva
produttività dei "banner" pubblicitari in rete, le dot.com in difficoltà
cominciarono a tagliare sui budget promozionali, il Nasdaq, anche
per Yahoo e compagni, divenne selettivo, serrò le chiuse a quello
spensierato afflusso di capitali su un valore atteso che pareva
inesauribile. Persino per gli utenti l'utilizzo del portale, con
la sua straordinaria parte finanziaria (ovviamente centrata sul
Nasdaq) degna di una Reuters, divenne meno pressante, di fronte
al continuo calo degli indici. La fiammata esplosiva del "trading
on-line" si esaurì, stabilizzandosi. E poi l'aspetto interno del
cambiamento. Come tante altre dot.com anche Yahoo basava (e basa)
le sue retribuzioni e i suoi incentivi sulle stock-options ovvero
sulla distribuzione di azioni ai manager e ai dipendenti secondo
la formula delle opzioni esercitabili entro un dato periodo a prezzo
prefissato. Un equilibrio sempre più difficile da mantenere di fronte
alla caduta degli incentivi provenienti dal Nasdaq. Di qui l'emorragia
nel gruppo dirigente (quasi tutti divenuti plurimiliardari) e tra
gli artefici della spettacolare crescita degli anni d'oro. Ora per
Yahoo, come per tanti altri, si pone il problema dei problemi. Forzare
il muro della gratuità nei servizi e nei contenuti su Internet oppure
rassegnarsi al declino, oppure ancora divenire forse parte di qualche
solido gruppo mediatico old economy, come Disney. E' sicuro che
Yahoo sarà in prima linea, in questi mesi, sulle offerte di nuovi
servizi a pagamento, innanzitutto negli Usa. Così come Napster e
tanti altri che ci stanno provando. D'altro canto il caso di E-Bay
che vive (anche) di proprie commissioni sulle aste, testimonia di
un equilibrio azionario e d'impresa di un ordine di grandezza superiore
a ogni altra dot.com. Le operazioni sono in pieno corso. Così come
America On Line, con la sua acquisizione di Time Warner sta sviluppando
servizi multimediali a pagamento, giocati sui punti di entertainment
di maggiore interesse, così Yahoo vede oggi il suo futuro lungo
la rotta che porta a Hollywood. Il suo nuovo amministratore delegato,
Terry Semel (venti anni alla Warner Bros) è del resto un vecchio
del mestiere. Che ha subito aperto un'area per gli Studios, dalla
prevendita delle visite alle prenotazioni dei posti nelle sale cinematografiche.
E soprattutto uno spazio per l'accesso a banda larga ai clip dei
film più attesi, primo fra tutti "Pearl Harbour" della Disney. E
alleanze a ripetizione: dopo Disney con Sony, per la distribuzione
(ovviamente a pagamento) del loro contenuto multimediale. E ora,
in dirittura d'arrivo anche con Vivendi Universal. Ma non solo il
portale multimediale, a valore aggiunto e a pagamento, di Hollywood.
Anche il maggiore sito mondiale per i videoclip musicali, nei piani
di Semel, con connessa corona di alleati nel settore discografico.
Questo per dare solo un esempio. A poco a poco Yahoo lancerà servizi
a "valore aggiunto" in pratica su ogni area del suo portale. Dalla
finanza all'orientamento agli acquisti. Cercando di mantenere e
coinvolgere i partner di contenuti dentro accordi contrattuali meno
aleatori di quelli del passato. Anche qui una dose di scetticismo
mi sia concessa: mentre Aol, con la sua base di abbonamenti paganti
e soprattutto con la sua grande comunità può valersi di un terreno
controllato e favorevole per il progressivo sviluppo, con le sue
risorse di contenuti derivanti da Time-Warner, di un "pacchetto"
di servizi a pagamento, Yahoo deve tentare questa operazione in
"mare aperto", contando solo sulla qualità delle nuove proposte.
Un salto difficile, anche se non impossibile. Lezione: anche Yahoo,
come Amazon, è un gioco a guadagno condiviso fragile, innanzitutto
sul lato gestore. Qui il valore creato dai "numeri" dell'audience
(sostenuti dai servizi del portale) dovrebbe tradursi, nella formula
originaria, nei redditi "indiretti" derivanti dalla raccolta pubblicitaria.
Il modello della televisione commerciale, in altri termini, trasposto
su Internet. Ma funziona la pubblicità su Internet? A questa domanda
non mi pare, stando almeno alla mia esperienza di osservatore-partecipante
alla rete, che emerga ancora una risposta certa. Il modello "indiretto"
appare invece altamente ciclico. La disillusione seguita all'esplosione
della bolla dot.com ha generato due effetti negativi sul
modello Yahoo (o, in generale, dei portali). Il crollo della pubblicità
"di lancio" delle dot.com stesse. E il parallelo ripensamento degli
investitori pubblicitari old economy. Ciò si è tradotto in un rapido
calo di introiti che, nei fatti, ha generato la paralisi, la crisi
e in qualche caso il crollo di molti portali concorrenti, a livello
globale e locale (Excite, Altavista, in Italia difficoltà di Kataweb,
Jumpy, chiusura di Punto, perdite di bilancio per Virgilio....).
Yahoo, come leader globale riconosciuto in questo campo, ha risentito
un po' meno degli altri. Ma ha comunque dovuto porsi, e radicalmente,
il problema della stabilità economica del suo modello, capace di
innescare parzialmente giochi a guadagno condiviso, ma non di ricavarne
un flusso di valore sufficientemente stabile. Di qui l'alternativa
dei servizi a pagamento, in un contesto di una Internet che sta
diventando, tramite abbonamenti a banda-medio larga, estesa al multimediale
e soprattutto "always on". Ogni conclusione su questa strategia
è ovviamente prematura. Resta però un fondo di scetticismo: le esperienze
passate in questo senso (come @Home, recentemente fallita) che proponeva
sulla larga banda un pacchetto di servizi onnicomprensivo e "chiuso",
sono state negative. Trasformarsi in un media a pagamento, in un
ambiente qual è Internet, può persino apparire come un ritorno al
passato.