Internet: la vicenda recente

1.1 - Le dimensioni della “rete di reti”

La fotografia di Internet a fine 2001 mostra un sistema di circa 150 milioni di “nodi” e di 2,5 miliardi di pagine Web, oltre a quasi un miliardo di mailbox elettroniche. Questa gigantesca piattaforma tecnologica e di comunicazione viene usata da circa mezzo miliardo di utenti domestici e dalla maggioranza delle imprese, piccole e grandi, nei paesi industriali. Nel complesso, nei primi 27 paesi industrializzati, secondo un recente sondaggio, condotto nella scorsa primavera dalla Tns (Taylor-Nelsen-Sofres) circa il 30% della popolazione ha almeno un accesso mensile, diretto o indiretto, ai servizi Internet. 

Secondo stime dell’Onu (pubblicate sul recente Human Development Report 2001) l’Internet è  però ancora “piccola”: comprende solo il 6% della popolazione mondiale. Soltanto negli Usa supera il 54% degli abitanti, mentre negli altri paesi Ocse ad alto reddito si colloca al 28%. Già in Europa dell’Est scende al 3%, per non parlare di Asia orientale e pacifico (2,3%), America Latina (3,2%), mentre nel resto del pianeta  (Asia del Sud, Africa sub sahariana, Stati Arabi) le percentuali varano tra lo 0,4 e lo 0,6%.

Proprio a causa di questi vasti spazi ancora vuoti la rete continua a crescere (secondo le  ultime rilevazioni Nielsen-NetRatings) al tasso annuo del 26% (30 milioni di utenti domestici aggiuntivi in aprile-giugno 2001 su 459 milioni stimati) soprattutto in aree “nuove” come i paesi industriali dell’Asia orientale (Corea, Taiwan, ma anche Cina Popolare) e l’America latina. Mentre gli Usa e l’Europa (escluso l’Est) hanno dinamiche allineate o di poco inferiori alla media globale.

Grafico 1. La crescita continua della rete

Il continente europeo, comunque, non vede sostanziali flessioni nel suo tasso di adozione. Dopo il nucleo scandinavo,  Norvegia, Danimarca e Svezia,  dove l’accesso alla rete supera il  50% della popolazione, sta il nucleo centrale dell’Unione Europea, con medie  generali di connessione (nella già citata accezione della Tns)  che oscillano intorno al 30-40 % del corpo sociale. E dove l’Italia mostra un netto recupero quantitativo negli ultimi dodici mesi, con un sostanziale allineamento alla media continentale.

Tutto ciò dà fondamento alla previsione secondo cui entro quattro anni si passerà quantomeno dai 100 milioni di abbonamenti Internet domestici europei stimati oggi a 150 milioni. Mentre i 250 milioni di utenze cellulari esistenti dovrebbero gradualmente acquisire funzionalità Internet.

In Italia, sesto paese al mondo per estensione di Internet (vedi il grafico 2)  si stimano due milioni di nodi di rete. La stima più conservativa, ma forse più affidabile, indica in 5-7 milioni gli utenti abituali di Internet, in un area sociale che accede saltuariamente  alla rete che si estende a 14 milioni di persone. Sul versante professionale, oggi mezzo milione di domini ha un suffisso “it” e si stimano almeno 600mila imprese dotate di collegamento, di cui oltre 50mila intranet con connessione a larga banda (Dsl, linee dedicate, fibra ottica). Ed è quest’ultimo segmento quello che appare, tra tutti, in maggiore crescita. [1]

Fonte: Internet Software Consortium

Grafico 2. Penetrazione di Internet nei primi dieci Paesi (luglio 2001, migliaia di host e di utenti stimati)

1.2 - Alla ricerca di una interpretazione

La  descrizione quantitativa, delineata fin qui,  non è, però una interpretazione di un fenomeno. Quest’ultima, a mio avviso, va cercata invece nella genesi, nella storia e (se esiste) nel principale codice genetico di questo evento. Che, al di là della fluviale pubblicistica ad esso dedicato, resta a mio avviso ancora poco indagato nelle sue linee di fondo.

Soprattutto oggi è necessaria questa interpretazione. Internet è stata protago-nista, negli ultimi cinque anni, di un ciclo economico senza precedenti. Per la sua intensità, sia verso l’alto ,con uno sviluppo spontaneo entusiasmante di iniziative e di diffusione, dal 1994 al 2000. Sia, subito dopo, verso il basso, con la crisi verticale di circa diecimila nuove imprese internet,  le dot.com, nate  in preva-lenza sull’onda di  aspettative e scommesse sul  decollo imminente del commercio elettronico verso i consumatori e le imprese molto ambiziose, e, in breve volgere di tempo, rivelatesi infondate.

Questa crisi, questa falsa partenza, che non pochi economisti [2]   hanno paragonato alla fase di sovra-aspettative che terminò il periodo di industrializzazione innovativa degli anni ‘20, a sua volta ha innescato processi recessivi e demoltiplicativi a catena. Sui mercati finanziari, di fronte alla “delusione” delle dot.com, improvvisamente trovatisi sbilanciati nelle proprie elevate valutazioni dell’intero settore delle tecnologie dell’informazione e della comunicazione (ICT), motore portante della precedente fase espansiva delle economie occidentali. E quindi, per improvviso inaridimento delle fonti di capitale, sulle industrie infrastrutturali “grosse” sottostanti, telecomunicazioni e informatica, che scoprivano se stesse, da protagoniste di una crescita data per strutturale e inevitabile, di colpo sbilanciate in “avanti”, e vulnerabili di fronte a impegni di investimento e di espansione delle nuove tecnologie non sostenute da credibili prospettive di domanda pagante, quindi di profitto, di ritorno sugli investimenti stessi e di remunerazione dei massicci capitali investiti. Con un effetto demoltiplicatore, quindi, sulla fiducia degli investitori e sulle attività di investimento.

Questa crisi congiunturale, tuttora in atto (ma che già mostra i primi segnali di esaurimento, verso un riassestamento dell’intero settore), ha a mio avviso anche una sua radice “culturale”: il fallimento nell’interpretazione del fenomeno Internet.

Troppo facilmente la rete di reti è stata vista dal mondo finanziario e industriale, alla fine degli anni 90, soltanto (e ripeto soltanto) come un  potenzialmente sterminato nuovo campo per servizi nuovi o aggiuntivi (il cosiddetto “oro di Internet”, l’on-line). Come spazio d’impresa per crescite rapide, esplosive, sull’esempio (inaspettato) di nomi sconosciuti come Yahoo, Amazon, E-Bay che nel 1998 raggiungevano vertici ineguagliati nell’interesse del crescente “popolo della rete” e quindi nelle aspettative azionarie. Come area su cui istituire business più facili, meno costosi, maggiormente produttivi, finanziariamente auto-sostenuti. Di conseguenza “automaticamente” attraenti per la domanda.

Dal 1996 al 2000 le aspettative si sono così moltiplicate su se stesse, inflazionandosi. I primi (ma instabili)  segnali di successo delle nuove iniziative (valgono le tre citate, le maggiori e più “simboliche”, si veda la sezione 2.5) inducevano non pochi commentatori e interpreti a una generalizzazione ancora più ambiziosa. Che si riassumeva nello scenario di una bruciante rivoluzione attesa dell’economia mondiale, in cui i nuovi soggetti dot.com avrebbero spodestato i vecchi leader industriali, generando nuovi paradigmi di mercato, persino una nuova economia (New Economy) , fondata sulla crescita rapida e indefinita della produttività indotta dalla rete stessa [3] .

Non è stato così, se non in parte. In particolare, e in positivo per le aziende tradizionali, che passata l’ondata delle dot.com, oggi usano Internet, più umilmente, come canale aggiuntivo, o come strumento complementare, integrato nelle organizzazioni esistenti. E anche per alcune tra le dot.com stesse che sono riuscite a trovare (vedi il caso E-Bay) un proprio pezzo dell’oro di Internet, ovvero una stabilità di modello dentro il Dna della rete.

Internet però si sta rivelando,  in generale, come un “business”  meno ricco e più “lento” (in termini economico-finanziari) rispetto alle attese entusiastiche di qualche anno fa. Anche se, nelle appropriate condizioni, produttivo e efficiente. Ma  l’oro della rete, il suo intrinseco e originale meccanismo di sviluppo, a mio avviso va cercato altrove.

Nelle pagine che seguono cercherò quindi di fornire una diversa interpretazione del modello di sviluppo di questo straordinario ecosistema che tuttora cresce, come estensione (si vedano le cifre riportate nella nota 6) seguendo un suo cammino e una sua identità specifica. Per nulla riducibile soltanto (o in primo luogo) a un pur vasto sistema di servizi telematici (più o meno passivi). Per far questo dovrò sfrondare molto, e concentrare la mia interpretazione soltanto su un filo, ma non tenue, di esempi e di casi che ritengo cruciali.

La tesi è che, fondamentalmente, Internet tenda a muoversi peculiarmente, e a esprimere straordinarie traiettorie di crescita auto-moltiplicative, per “giochi a guadagno condiviso” (o giochi win-win) in cui tutti i partecipanti, coinvolti su un determinato progetto o attività (impossibile senza la rete stessa), riescono a creare, cooperando (e competendo) nuovo valore. Il quale a sua volta ricade, con i suoi benefici, sui partecipanti al gioco. Generando un feedback positivo, sia in termini di attrazione di nuovi partecipanti al gioco stesso che di permanenza dei giocatori e di stabilità delle attività. Questi giochi, ovviamente, sono “abilitati” dalle innovazioni proprie della frontiera digitale e retroagiscono positivamente con lo sviluppo qualitativo e quantitativo di Internet (intesa sia come campo di ricerche che come estensione di connettività e di servizi).

Questi giochi win-win non sono affatto in contrapposizione con i processi di sviluppo più tradizionali dell’on-line, delle infrastrutture, dei servizi e dei canali via rete. Anzi, vi è complementarietà, sinergia, beneficio reciproco. L’intera, massiccia e spontanea esplosione del Web dal 1994 in avanti, con il suo ecosistema in crescita di servizi informativi e transattivi ha creato una massa critica tale da attrarre  in rete centinaia di milioni di soggetti, individuali e organizzativi, che a loro volta hanno sviluppato nuovi servizi, contenuti, forme di cooperazione e di relazione. Questo ecosistema in  crescita cumulativa, visto globalmente, è interpretabile anch’esso come un massiccio “gioco a guadagno condiviso” (o come un collassare su una piattaforma comune, da cui si sprigiona nuovo valore che a sua volta alimenta il processo). Ma questo “gioco” globale è anche la risultante di miriadi di giochi “locali”, ciascuno con la propria identità, determinanti, profilo di evoluzione. Cominciare a metterli in evidenza e studiarli è scopo delle pagine che seguono. Sono il Dna, sia a livello locale che globale, di Internet.

Credo che questa interpretazione possa essere la chiave per una corretta  analisi anche delle cause del folgorante ciclo “boom-fallimento” a cavallo del passaggio di secolo. E di strategie diverse, utili a un autentico sviluppo di questo vasto “dominio di possibilità” rappresentato dalla Internet senza confini.

1.3 - Il meccanismo di una crisi

L’innesco spontaneo, dal 1994 in avanti, di una sorta di reazione a catena di multipli giochi win-win centrati sulla diffusione di massa della tecnologia internet sulla preesistente base globale di Pc ha generato un’ondata (peraltro ben comprensibile) di ottimismo. Che si è rapidamente propagata a neo-imprenditori, operatori finanziari, investitori, intellettuali tecnici e non, giornalisti e commentatori, aziende preesistenti e manager.

Da allora, fino al marzo del 2000, questo consenso crescente intorno alle fortune attese, alle aspettative su Internet, non ha fatto che crescere. Questa grande ondata oceanica auto-sostenuta, questo Tsunami, incontrava naturalmente sul suo cammino il sistema Usa del venture capital, ovvero del finanziamento di mercato all’innovazione, sviluppatosi nei due decenni precedenti sulla scia, in particolare, della nuova industria dei personal computer.

Il venture capital, ecosistema [4] a rete formato da operatori sostanzialmente piccoli e indipendenti, tende a muoversi anch’esso per “consenso”. E il “consenso” creatosi dal 1994 in avanti diceva che Internet era una galassia in rapidissima espansione, capace di catturare l’attenzione e gli sforzi di milioni di consumatori e di imprese, quindi di canalizzare (in forme nuove) pubblicità, commercio, servizi a valore aggiunto. Dove questo primo elemento (l’espansione rapida della galassia) avrebbe fatto premio in poco tempo su ogni altro: in particolare sugli effettivi ritorni economici delle nuove iniziative, le dot.com che comunque partivano all’avventura su un territorio di rete a basso costo (per l’utente finale), percepito come quasi-gratuito dai fruitori dei nuovi servizi.

Questo “consenso”, lungo la sua reazione a catena, si allargava poi sul vasto fronte del pubblico (Usa, ma non solo) dei risparmiatori.  Sospinti e “eccitati” dal sistema dei media (finanziari e non), i risparmiatori riversavano in massa le proprie risorse nell’acquisto dei titoli (in prima battuta nuovi, poi anche più tradizionali) ruotanti intorno alla novità della galassia Internet. Certi di ritorni crescenti, grazie anche a regole di fatto dei mercati azionari (in particolare il Nasdaq) che esprimono i guadagni azionari unicamente in termini di incremento di valore del titolo, e non di dividendi periodici commisurati ai profitti effettivamente conseguiti. E non selezionano in alcun modo, se non per violazione di normali regole di trasparenza, le imprese che intendono quotarsi.

Di qui un temporaneo e instabile, ma enorme e diffuso, gioco win-win: il “consenso” spingeva il venture capital a finanziare e quotare nuove dot.com a getto continuo, anche concepite sulla base di piani di business appena abbozzati. Questi titoli, sospinti dal “consenso” esterno (analisti finanziari, media e risparmiatori)  trovavano subito un entusiastico apprezzamento sul mercato, a prescindere da ogni valutazione  sul loro effettivo grado di rischio e concreta possibilità di profitto. Le quotazioni crescevano, in una corsa che sembrava senza limite, attraendo ulteriori risparmiatori nel gioco.

Lo stesso sistema del venture capital distorceva progressivamente le sue regole. Il periodo di incubazione di una nuova impresa nell’era pre-Internet (in particolare nell’era Pc degli anni ‘80-‘90) era di alcuni anni: dal momento della prima formazione della start-up, al raggiungimento di un profitto stabile, alla successiva espansione dell’impresa e quindi allo sbarco sul mercato azionario. Questa regola viene distorta, negli anni della corsa all’oro di Internet, e “curvata” a pochi mesi: formazione della dot.com, avvio dell’iniziativa sulla rete, prima ondata di interesse da parte degli utenti (su servizi generalmente gratuiti), sbarco immediato in borsa, pubblicizzato come “successo” appunto sulla base di questo volume (e ciò nel migliore dei casi…) di “interesse” generico (valutato in termini di “click” ottenuti, visite, etc.).

Tale accorciamento dei tempi consentiva ai venture capitalist di “rientrare” rapidamente sull’investimento effettuato sulla dot.com. I termini temporali del “lock-in” (il periodo iniziale in cui gli investitori di rischio sono tenuti a detenere, e non vendere sul mercato, le azioni della nuova azienda) veniva progressivamente accorciato prima da tre a un anno (dal 1996 al 1998) e  quindi a sei mesi (98-2000). Le attività di venture capital, quindi, nate come “gioco lungo” di investimento e di sviluppo di imprese innovative, assumevano sempre più connotati simili alla speculazione finanziaria a breve termine. In una corsa competitiva che accelerava, spinta dall’entrata costante di nuovi giocatori (nuovi fondi di venture capital, non di rado del tutto improvvisati), alla ricerca di ritorni quanto più immediati possibile.

Questo processo cumulativo ha un termine nel marzo 2000. Quando il mercato azionario, a partire dai media e quindi dai risparmiatori, comincia a fare i conti con la realtà di un sovrabbondante numero di dot.com quotate, e iper-valutate, ma senza effettivi riscontri in termini di fatturato e di profitti. Spesso tutte uguali, affollate su segmenti e idee di business quantomeno discutibili (quali la vendita di cibo per cani su Internet). E, dietro di loro, una intera filiera di erogatori di servizi e di infrastrutture (da grandi centri di gestione di siti, come l’Exodus  californiana – recentemente fallita – fino ai fornitori di computer, di apparati di rete, di connettività) gonfiata nelle proprie attività (quindi nei fatturati, nella crescita e nelle attese di profitti) proprio da tale sovrabbondanza di clienti dot.com.

Il riaggiustamento è stato rapido, doloroso, ed è tuttora in corso (anche se i primi segnali di ritorno alla stabilità cominciano timidamente a mostrarsi). Il Nasdaq, che era giunto a un vertice di capitalizzazione complessiva, nel corso dei primi mesi del 2000, di circa 6 triliardi di dollari (milioni di miliardi) dopo un anno e mezzo, a fine 2001, pare stabilizzato su un terzo di questa cifra. Quattro milioni di miliardi di dollari sono la dimensione approssimativa della “bolla finanziaria” nata intorno alle aspettative “capitalistiche” su Internet. Ed ad essa va aggiunto il costo umano, imprenditoriale, macroeconomico di un evento di tale portata (aspetto su cui sarebbe necessario uno specifico studio).

Grafico 3.  Prima e dopo l’esplosione della bolla dot.com negli Usa

Alla radice di tutto questo, però, sta l’effetto dimostrativo iniziale dei “giochi a guadagno condiviso” che Internet ha creato nella sua storia, amplificatisi dal 1994 ad oggi (e che tuttora continuano, a dispetto della crisi). Ed è la natura sfuggente di tali giochi, la loro apparente facilità, ma in realtà la loro difficilissima replicazione, a mio avviso la vera determinante della crisi nata intorno alla “bolla”. Un esercito di nuovi imprenditori vi ha scommesso, senza riuscire a innescarli [5] .       

1.4 - La faccia più oscura della rete

Benché si riscontri un crescente interesse da parte dei ricercatori ad indagare i giochi win-win di rete (o giochi a guadagno condiviso) nessuno ha ancora indagato, con sufficiente sistematicità questi fenomeni, chiarendone le leggi, le determinanti, i meccanismi che li istituiscono in una determinata popolazione di soggetti, come essi permangono e evolvono. Dall’ecosistema Internet erompono in apparenza in modo casuale, imprevedibile. Poi, a una più attenta lettura di ciascuno di essi, si scopre che ogni “gioco” ha dietro di sé una esigenza sociale insoddisfatta, che solo la rete abilitante, e l’interazione-cooperazione tra soggetti, può risolvere, generandovi ulteriore valore.

Così è per la necessità di una infrastruttura telematica efficace tra le università e i centri di ricerca (2.2.1). Per uno strumento hardware (il Pc) a misura dell’esplorazione personale (2.2.2). Per l’uso di questa tecnologia nello sviluppo di nuove forme di comunicazione e interazione comunitarie (2.3). Per la disponibilità di software evoluto effettivamente aperto a tutti (2.4).  E poi, nell’internet divenuta di “massa”, per l’evidente “deficit culturale” sottostante al fenomeno Amazon (2.5.2.), per il gioco globale del collezionismo di E-bay (2.5.1), per l’orientamento su Internet offerto da Yahoo (2.5.3). E quindi per un “linguaggio” comune all’intero Web su cui fondare più alti livelli di produttività delle applicazioni e delle informazioni (2.6).

Questi otto grandi “giochi win.win” sono forse i più appariscenti nella traiettoria di Internet. E offrono anche un percorso di lettura di questo fenomeno straordinario. Anche per indicare dove ulteriormente si dovrebbe scavare ancora. 

E per avanzare una tesi: che la crisi della cosiddetta New Economy non sia stata affatto un “fallimento” di Internet, come infrastruttura globale (tuttora in crescita) e come campo di sviluppo di nuove attività (anch’esse tuttora in crescita, lungo i binari dell’innovazione “aggiuntiva” delle imprese e dei servizi “tradizionali”). La crisi invece, anche quella delle dot.com, è piuttosto nata intorno a una errata percezione del fenomeno Internet. Come fenomeno “veloce” anziché lento (o relativamente lento, nei tempi dell’evoluzione umana e non nei tempi “apparenti” della tecnologia e delle propagazioni iniziali dei nuovi servizi di rete); come fenomeno diffusivo vasto ma governato da sue leggi di stabilità. Violate da una rapida, sovrabbondante,  superficiale ondata di tentativi di innesco di giochi win-win supposti a tavolino o  non equilibrati e auto-perpetuati nel tempo.

Una violazione da un lato dei canoni essenziali dell’economia d’impresa (Porter [6] ), ignorati dallo Tsunami dot.com (salvo il quasi fortuito caso di E-Bay, descritto nella sezione 5.1, autentica mosca bianca che però conferma l’assunto).

Molti dei pionieri di Internet, sia .com che aziende tradizionali - scrive Porter [7] - hanno spesso adottato un modello competitivo che contravveniva a tutte le regole proprie di una buona strategia. Piuttosto che concentrarsi sui profitti, si sono focalizzati sulla massimizzazione dei ricavi e della quota di mercato, sforzandosi di catturare clienti in maniera indiscriminata attraverso sconti, prezzi ridotti, promozioni e incentivi; il tutto completato da spropositati investimenti pubblicitari.

Dall’altro la “violazione” è a avvenuta, come nel seguito apparirà chiaro, anche per la mancanza di un corpo di conoscenze e di pratiche ottimali sui giochi a guadagno condiviso in rete, sulla loro prevedibilità, meccanismi di innesco, tenuta nel tempo a massa critica, perpetuazione in termini di modello stabile e auto-riproduttivo.



[1]   E’ il caso, anche per gli scopi della presente pubblicazione, di accennare  anche al quadro globale dell’e-government. Seguendo la fotografia scattata dalla Tns (Taylor Nelson Sofres) nell’estate 2001 con un  sondaggio in 27 Paesi su un campione di circa 30mila intervistati in Usa e Canada, 17 Paesi europei e otto dell’Asia-Pacifico.

Obbiettivo del sondaggio fare il punto sull’effettivo livello d’uso e sulla curva di adozione dei servizi pubblici in rete. Comparando le parallele stime sul popolo globale di Internet (si veda «Il Sole-24 Ore New Economy» del 18 luglio 2001) ai risultati specifici in tema di e-government.

Ne emerge, innanzitutto, un quadro complessivo piuttosto positivo. Nei 27 Paesi (l’Italia non è stata inclusa nel campione) la media generale d’uso di Internet, rilevata nella primavera-estate 2001, raggiunge il 31% della popolazione. L’e-government è però solo cinque punti sotto, al 26%. Un livello piuttosto elevato, quindi. Anche se dentro vi è compreso un po’ di tutto: quasi metà degli utenti (il 12%), infatti, si limita alla sola ricerca di informazioni sui siti pubblici; un altro 4% in più scarica formulari in formato elettronico che poi verranno inviati via posta o fax; in pari percentuale chi anche fornisce alle Amministrazioni dati personali o familiari. E infine il 6% degli utenti compie regolarmente transazioni complete (tasse, rinnovo patenti, multe...). Può sembrare piccola, quest’ultima percentuale (relativa allo stadio più evoluto dei servizi di e-government). Ma se si compara agli indici di acquisti on-line (pari al 15% degli utenti Internet rilevati da Tns nella primavera 2001) si scopre che l’uso dell’e-government è persino superiore, dato che questo 6% si traduce, in quota di utenti Internet, in un 19%. Si "vendono"  quindi in rete più servizi pubblici, in altri termini, di cd musicali, abiti, prodotti digitali. Soprattutto in Paesi come gli Usa, il Canada, l’area scandinava e Hong Kong dove la quota di utenti di e-government supera il 30%. L’Italia invece, secondo uno studio dell’Accenture risultava, quantomeno nei primi mesi del 2001, come il fanalino di coda europeo, più arretrata della Spagna e del Messico. Una posizione negativamente anomala (al di là di alcuni singoli servizi realizzati, come la dichiarazione dei redditi on-line) e caratterizzata dall’assoluta prevalenza dei siti informativi (o peggio siti-brochure delle Amministrazioni) sui processi transattivi. Ed è probabilmente questo il motivo per cui la Tns non ha ritenuto significativo il caso italiano nell’indagine sulle medie mondiali, che invece appaiono abbastanza elevate.

Con una grossa eccezione, però: la sicurezza. Circa un terzo degli intervistati, nei 27 Paesi, ritiene ancora pericoloso inviare propri dati sensibili (quali i numeri di carta di credito o le coordinate bancarie) ai siti della Pubblica Amministrazione. I Paesi in cui il rischio percepito è maggiore sono la Germania, il Giappone, la Francia, gli Usa. I più tranquilli invece la Finlandia, Hong Kong, la Danimarca, il Canada. Nel complesso l’area europea sembra soffrire in modo abbastanza marcato di questa crisi di fiducia. per esempio, in Germania, su un 51% di popolazione con uso regolare di Internet, la quota di utenti che si valgono di servizi pubblici on-line crolla al 17%, in Gran Bretagna al 34% corrisponde l’11%, in Francia 33% contro 18%. Ne risulta una vera e propria barriera all’utilizzo dell’e-government. Infatti il 76% di coloro che si limitano alla sola ricerca di informazione sui web pubblici ritengono troppo insicura ogni attività transattiva. E altrettanto vale per il 62% di coloro che stanno alla larga da ogni servizio di e-government. Ma anche presso coloro che li utilizzano la quota dei "diffidenti" oscilla intorno al 60%. Percentuali, peraltro, superiori a quelle rilevate nel caso del commercio elettronico, dove il fattore sicurezza solleva dubbi nel 46% delle risposte. Questa barriera, però, vale di meno laddove l’e-government è più consolidato e diffuso. Per esempio in Norvegia, che con il 19% della popolazione che ha compiuto nei precedenti 12 mesi almeno una transazione completa sui servizi pubblici ha il primato mondiale in questo campo. Ma quote vicine possono esibirle anche altre nazioni dell’area scandinava come la Finlandia (17%), l’Estonia (16%), la Danimarca (15%) e il Canada (10%). C’è quindi una precisa correlazione positiva tra maturità dei servizi pubblici on-line, sicurezza percepita e effettivo uso della rete per i processi transattivi. In un processo evolutivo che sembra essere legato più all’esperienza effettiva e alla qualità dei servizi che ai pregiudizi.

[2] Paul Krugman per primo, ma poi anche due premi Nobel come Paul Samuelson e Robert Solow in alcuni editoriali comparsi nella primavera del 2000. Si veda di Paul Krugman, Requiem for  the New Economy, comparso su Fortune del 10-11-97, nel pieno della fase euforica

[3] Il tasso di crescita della produttività dell’economia Usa, negli ultimi cinque anni, ha comunque registrato un aumento, dall’1,4% della prima metà degli anni novanta al 2,5% nel periodo 1995-2000. Sull’esatta stima di questi dati e soprattutto sulla loro interpretazione (in termini di settori protagonisti dell’incremento e di strutturalità tendenziale dell’incremento) è in corso da più di due anni un vasto dibattito tra economisti, centri di ricerca, policymakers del calibro della Federal Reserve e del Dipartimento del Commercio Usa. Per una ultima e ampia ricerca sull’argomento si veda uno studio della McKinsey: http://www.mckinsey.com/knowledge/mgi/reports/Productivity.asp

[4] Uso qui il termine ecosistema perché mi sembra il migliore per descrivere, in una parola, l’organizzazione a rete e evolutasi spontaneamente nel tempo che caratterizza il settore del Venture Capital. Dove le relazioni interpersonali tra gli investitori, di norma esperti veterani dell’industria High Tech, sono fondamentali , in una sorta di reticolo-comunità che ha la cruciale funzione di attutire e distribuire i rischi degli investimenti innovativi. Ecosistema, inoltre, rende bene l’immagine di un comparto non statico, ma in continuo mutamento, in cui soggetti muoiono e nascono, adattandosi alle mutevoli condizioni tecnologiche e di mercato. Il termine biologico-ecologico mi pare quindi appropriato.

[5] I primi segnali dell’esaurimento della fase depressiva seguita all’esplosione della bolla dot.com  cominciano però già a manifestarsi. E compaiono proprio nell’epicentro del ciclone abbattutosi nel 2000-2001 sul sovraffollato, nascente, immaturo settore delle imprese virtuali: l’area del commercio elettronico verso i consumatori dove si concentrava, un anno e mezzo fa, il grosso delle scommesse, anche delle più strampalate, della New Economy.

Il primo segnale proviene dagli Usa. Dove la tradizionale campagna di acquisiti natalizi 2001 ha mostrato, per le vendite on-line, tassi di crescita sorprendentemente alti (rispetto alle previsioni,  divenute piuttosto pessimistiche). Secondo la Score Research nella settimana conclusasi il 2 dicembre (la prima della fase “natalizia”) le vendite ondine hanno toccato un record di 1,5 miliardi di dollari, e lasciano prevedere un trimestre finale d’anno a 10 miliardi, il 12% in più sul livello raggiunto l’anno precedente. Secondo un altro centro di analisi specializzato, la BizRate  (che misura le vendite di circa 2000 siti di

e-commerce) su base d’anno il 2001 potrebbe far registrare crescite anche superiori, al 31 per 33,3 miliardi di dollari.

Certo, in proporzione al complesso delle vendite al dettaglio negli Usa questa cifra equivale al solo 2% del totale. Siamo quindi molto lontani da alcune previsioni iper-ottimistiche che, già nel 1998-99, presagivano crescite esponenziali oltre la soglia del 10% già per i primi anni del decennio 2000 (Forrester, Idc, Yankee Group….). Non solo: in termini di tasso di crescita, nel 2001, vi è un rallentamento sui precedenti dodici mesi. Ma il segno positivo non si è affatto invertito, anzi mostra chiari sintomi di rafforzamento.

Un dato: se circa un terzo degli statunitensi adulti acquista via rete, in particolare nel segmento del ceto medio-alto, la composizione del popolo dell’e-commerce appare in veloce evoluzione. L’anno scorso la quota di donne sul totale degli acquirenti era del 39%, quest’anno raggiunge il 60%. Che significa? Probabilmente vuol dire che l’e-shopping, favorito dalla detassazione voluta da Clinton nel 2000 come “esperimento” per quattro anni e dall’evoluzione-concentrazione su siti più affidabili e gradevoli, sta entrando nel “core” delle famiglie Usa. Conviene (soprattutto in un periodo recessivo qual è quello che gli Usa stanno attraversando), è facile, permette (in particolare per i regali natalizi, molto legati alla moda) di valutare subito le novità sul mercato, e di acquistarle rapidamente.

Questo buon andamento “inatteso” sta consentendo anche alle dot.com sopravvissute di iniziare un recupero positivo. Meno assillate da una crescente folla di concorrenti possono vendere senza dover ricorrere a distruttive (per i profitti) formule promozionali, quali consegne gratuite o super-sconti. Un inizio di riassestamento che potrebbe preludere al tanto agognato raggiungimento del profitto, per molti di loro (in primo luogo Amazon mentre la sua grande rivale E-bay, come si vedrà non soffre di questo problema). Ma è ancora presto per esserne certi.

Di sicuro, anche in questo caso, è la rete dal basso che ha decretato il risveglio del commercio elettronico. Su cifre più ragionevoli e su tracciati di crescita meno esplosivi. Ma di sicuro più stabili e predicibili. Insomma, anche qui un  inizio di “gioco win-win” deciso dalla rete. Come sempre sorprendente, in controtendenza, per molti aspetti spontaneo.

[6] Si veda la serie di articoli di Michael Porter pubblicati su “Il Sole-24 Ore-New Economy” a partire dal 18-10-2001 (Quando il Web fece saltare tutti i meccanismi ) e poi  il  24-10-2001 (un cuore digitale per il vecchio business), il   31-10-2001 (quei miti che hanno tagliato le ali a Internet), il 7-11-2001 (se il marketplace è competitivo),  il 14-11-2001 (l’obbiettivo dell’efficacia operativa), il 23-11-2001 (troppi errori strategici nella corsa delle dot.com), il 28-11-2001 (Internet non stravolge le attività tradizionali), il 7-12-2001 (la grande rete non basta più: ora bisogna imparare a usarla)

[7] Troppi errori strategici nella corsa delle dot.com, op cit..