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RICORDI E RIFLESSIONI DI
60 ANNI DI PROFESSIONE

Dal 1927 ad oggi, ho esercitato la professione di psicologo. Ho fatto studi diagnostici sui bambini e dato suggerimenti per il trattamento dei loro problemi; ho scritto (nel 1928) una pubblicazione sul mondo interiore dell’infanzia che – (il cielo mi perdoni) – è ancora venduta a migliaia. Ho fornito consultazioni a genitori, studenti, altri adulti; ho condotto terapie intensive con individui disturbati, normali, nevrotici e psicotici; mi sono impegnato e ho promesso ricerche in psicoterapia e nel cambiamento della personalità. Ho formulato una rigorosa teoria terapeutica; ho avuto 40 anni di esperienza di insegnamento, ed ho incoraggiato l’apprendimento attraverso ambedue i canali: intellettivo ed esperienziale; mi sono impegnato in un personale sviluppo facilitativo attraverso l’esperienza di gruppi intensivi; ho cercato di mettere in chiaro i processi di entrambe le terapie: individuale e di gruppo per mezzo di registrazioni, films; ho provato a trasmettere la mia esperienza attraverso quelli che ora mi sembrano innumerevoli scritti, registrazioni e cassette; ho lavorato in associazioni professionali di psicologi; ho avuto una continua, varia, controversa e ricca vita professionale. Così mi è venuto in mente che valesse la pena di rispondere al quesito: “Quali conclusioni può trarre uno psicologo dopo mezzo secolo di studi e di lavoro?”. È a questa domanda che indirizzo i miei commenti. Qual è la mia prospettiva generale di questi anni, pensando alla mia vita professionale e ai suoi vari periodi di sviluppo e cambiamento?

UN IMPATTO SORPRENDENTE

Credo fermamente che la mia maggiore reazione quando ripenso al mio lavoro e alla sua accettazione è la sorpresa. Se io avessi detto, 35 o 40 anni fa, quale sarebbe stato il  mio influsso, sarei rimasto assolutamente incredulo.
Il lavoro che io e i miei colleghi abbiamo fatto, ha cambiato ed ha portato innovazioni, differenziazioni in molte aree, di cui ne menzionerò alcune. Esso ha rivoluzionato il campo del counseling. Ha aperto la psicoterapia alla pubblica investigazione ed alla ricerca. Ha reso possibili gli studi empirici di numerosi fenomeni soggettivi.  Ha aiutato a produrre qualche cambiamento nei metodi di educazione ad ogni livello. Ha contribuito a cambiare i concetti della leadership industriale (anche militare), dell’assistenza sociale, della pratica medica e paramedica, dell’assistenza spirituale. È stato responsabile di uno dei maggiori orientamenti nei movimenti dei gruppi di incontro. Ha, in piccola misura per lo meno, influito sulla filosofia della scienza. Sta iniziando ad avere qualche influenza nelle relazioni interculturali ed inter-razziali. Ha anche influenzato studenti di teologia e di filosofia. Il mio lavoro, per quanto mi risulta, ha cambiato l’orientamento ed il modo di vivere di persone residenti in Francia, Belgio, Olanda, Norvegia, Giappone, Italia, Australia, Nuova Zelanda, Sud Africa, in 12 nazioni straniere, i lettori possono trovare qualche mia opera nella loro lingua; se qualcuno desidera leggere la completa collezione di ciò che io ho scritto, la troverà in Giapponese! Io guardo attorno a questa lunga lista di asserzioni.

UN TENTATIVO DI SPIEGAZIONE

Perché un tale influsso è stato così esteso? Certamente non attribuisco questo fatto a qualche mio speciale talento, e sicuramente non a qualche fantastica visione da parte mia. Ringrazio e apprezzo i miei colleghi più giovani per la loro espansione ed approfondimento del mio pensiero e lavoro, i loro sforzi non spiegano questa estesa influenza. In molti campi testé menzionati né io né i miei colleghi abbiamo lavorato e siamo stati in qualche modo coinvolti, eccetto che nei nostri scritti. Come tento di capire il fenomeno, mi sembra che, senza conoscerla, ho espresso un’idea della quale il tempo mi ha dato ragione. È, come se in uno stagno completamente calmo, fosse gettato un sasso: si vedrebbe incresparsi l’acqua in superficie più lontano, ed avrebbe un’influenza che non potrebbe essere capita guardando il sasso. O, per usare un’analogia chimica, come se una soluzione liquida fosse diventata molto satura, così che l’aggiunta di un minuscolo cristallo ha iniziato la formazione di cristalli da un capo all’altro dell’intera massa. Che cosa era questa idea, questo sasso, questo cristallo? Era l’ipotesi, formata e sostenuta in maniera graduale, che l’individuo ha in se stesso vaste risorse per la propria comprensione, per modificare il concetto di sé, i suoi atteggiamenti e il suo comportamento auto-diretto e che queste risorse possono essere sollecitate solo se può essere fornito un determinato clima di facilitazione psicologica. Questa ipotesi, così nuova e tuttavia così vecchia, non è stata una teoria arcaica. Essa è derivata da un graduale numero di stadi.
Primo. Ho imparato attraverso esperienze difficili e frustranti che ascoltare semplicemente il cliente con attenzione e provare a comunicare questo interesse, era una potente forza per il cambiamento terapeutico individuale.
Secondo. Io e i miei colleghi abbiamo capito che attraverso questo ascolto empatico si aprono le nebulose finestre della psiche umana penetrandone i misteri profondi.
Terzo. Dalle nostre osservazioni deduciamo solamente un basso livello di ingerenze e abbiamo formulato ipotesi attendibili. Avremo potuto scegliere di effettuare ingerenze ad alto livello sviluppando in astratto teorie elevate e difficilmente provabili, ma penso che il mio grossolano retroterra agricolo mi abbia impedito di fare ciò. (I pensieri freudiani hanno scelto questa seconda direzione, e queste indicazioni, secondo la mia valutazione, sono una delle differenze fondamentali tra il loro approccio e l’approccio centrato sulla persona).
Quarto. Esaminando le nostre ipotesi, abbiamo fatto delle scoperte riguardanti le persone e le relazioni fra le persone. Tali scoperte e la teoria che le comprende, sono state modificate in continuazione come le nuove scoperte fatte, e questo processo continua a tutt’oggi.
Quinto. Poiché le nostre scoperte hanno a che fare con gli aspetti fondamentali del modo in cui le persone possono essere realizzate, e con il modo in cui le relazioni possono favorire o bloccare tale cambiamento auto-diretto, è stato scoperto che hanno vasta applicabilità.
Sesto. Le situazioni che coinvolgono le persone, il cambiamento nel loro comportamento e gli effetti delle differenti qualità delle relazioni interpersonali, sono presenti in quasi tutte le azioni umane.
Da qui altri hanno cominciato ad intuire che forse le ipotesi verificabili della forza di questo approccio, hanno un’applicazione quasi universale, o possono essere riverificate o riformulate per essere usate in un’infinita varietà di situazioni umane. Questo è il mio tentativo di spiegare una imponente e altrimenti incomprensibile divulgazione delle idee che è cominciata con una semplicissima domanda: “Posso io, osservando e valutando attentamente la mia esperienza coi miei clienti, imparare ad essere più efficace nell’aiutarli a risolvere i loro problemi di angoscia personale, di comportamento auto-frustrante e delle relazioni interpersonali autodistruttive?” Chi potrebbe aver supposto che i  brancolamenti e i tentativi di risposta avrebbero condotto così lontano?

AMBIVALENZA DELLA PSICOLOGIA

Puoi aver osservato una omissione nell’elencare delle aree di contatto del mio lavoro. Non ho detto che io e i miei colleghi abbiamo spacciato per accademica o così detta psicologica “scientifica” questa teoria. Non è stata una svista. Credo che una sincera asserzione dovrebbe essere che noi abbiamo avuto scarsa influenza nella psicologia accademica, nelle letture universitarie, nei libri di testo e nei laboratori. Questa è una citazione transitoria del mio pensiero, delle mie teorie o del mio approccio terapeutico, ma penso profondamente di essere stato un fenomeno penosamente imbarazzante per uno psicologo accademico. Io non mi adatto. Sono stato sempre più in accordo con questo giudizio. Lasciatemi spiegare meglio.
La scienza e la professione di psicologia hanno, io credo, sentimenti profondamente ambivalenti verso di me nei confronti del mio lavoro. Sono considerato – e qui mi devo riferire soprattutto ad una diceria – come un tranquillo uomo poco scientifico, troppo disinvolto con gli studenti, pieno di strani e confusi entusiasmi verso cose effimere come il sé, gli atteggiamenti terapeutici e gli incontri di gruppo. Ho diffamato i più sacri segreti accademici – la lezione in cattedra e l’intero sistema di valutazione – certamente dagli anni dell’ABC al desiderato cappuccio di toga del dottorato. Posso essere citato nel modo migliore in molte opere di psicologia in un paragrafo come l’ideatore di una tecnica – “la tecnica non direttiva” –. Non sono decisamente uno dei “baroni” dell’accademia degli psicologi. L’altro aspetto dell’ambivalenza è, comunque, ancora più sensazionale. La psicologia nell’insieme – scienza e professione – mi ha coperto di onori – molti di più di quanto pensi di meritare. Con mia meraviglia mi hanno assegnato una delle 3 ricompense  per il contributo scientifico – e questo avveniva già nel 1956 quando ero molto più controverso di oggi. Ero stato eletto presidente dell’Associazione Americana di Psicologia Applicata. Fui eletto presidente dell’Associazione Americana di Psicologia. Sono stato designato ed eletto presidente di importanti comitati, di divisioni, e tutti questi onori mi hanno spesso commosso. Tuttavia, mai ero stato così colto dall’emozione quando ho avuto un riconoscimento per il contributo scientifico accompagnato da una citazione. Quando venivo eletto ad una carica, in parte era dovuto alla mia ambizione – io ero ambizioso di emergere nella mia professione, ma questo riconoscimento era  per me, in un certo senso, “il più schietto” che avevo mai ricevuto. Per anno ho dovuto lottare per portare consapevolezza in un potenziale campo scientifico e nessun altro sembrava esservi interessato. Non era ambizione e neppure speranza di qualche ricompensa che mi ci hanno spinto. Nelle stesse ricerche empiriche c’era un piccolo desiderio di provare qualcosa agli altri più chiaramente, non un traguardo scientifico. Ma nella fase iniziale del lavoro – l’osservazione accurata, le interviste registrate, i sospetti e le ipotesi, lo sviluppo della teoria grezza – ero molto più vicino a diventare un vero scienziato come sempre spero di essere. Ma era chiaro – pensavo – che i  miei colleghi ed io eravamo proprio gli unici che sapevamo di esserci, i soli a preoccuparsi. Così, quando sono stato chiamato davanti alla convenzione nel 1956 per ricevere, con Wolfang Kohler e Kenneth Spence, il primo dei riconoscimenti  per un contributo scientifico alla psicologia, la mia voce si è soffocata ed ho pianto. Questa era una  prova lampante che gli psicologi non erano soltanto sconcertati da me, ma per qualche mio orgoglioso aspetto. Aveva un significato personale più importante di tutti gli onori che da allora in poi sono seguiti, compreso il primo riconoscimento per il contributo professionale, ottenuto lo scorso anno. Ero felice per la citazione, specialmente per l’onestà dell’affermazione che io ero una persona “irritante” per la professione – solo ora tale dichiarazione mi promuove allo stato di “tafano degno di rispetto”. Mi piaceva tale espressione d’ambivalenza.

C.R. ROGERS