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L’EFFICACIA DELLE PSICOTERAPIE

Nel periodo aprile-giugno 1987 si è tenuto a Milano un ciclo di incontri sul tema “che cosa guarisce in psicoterapia?”, organizzato dall’Istituto Alia in collaborazione con la Casa della Cultura e condotto da Alberto Melucci.
Questa iniziativa si colloca all’interno di una riflessione sui metodi clinici che l’Istituto Alia (Alia significa in latino “per altra via”) ha avviato ormai da diversi anni.
L’aumento della domanda di Psicoterapia è un fenomeno che riguarda oggi tutte le società avanzate: ad esso contribuiscono il diffondersi di bisogno riflessivi di identità e di autorealizzazione nei sistemi complessi; l’incremento del disagio e della Patologia individuali legati in particolare alla condizione urbana e alle molteplici pressioni della complessità sull’esperienza quotidiana; infine la stessa diffusione e penetrazione dei servizi di welfare, caratterizzati da una crescente medicalizzazione dei problemi sociali e individuali.
A fronte di questa diffusa domanda di trattamento e di sostegno psicologico si assiste, nel nostro come in altri Paesi, a una crescita e differenziazione dell’offerta, che corrisponde da un lato ai bisogni sempre più articolati, dall’altro rispecchia l’evoluzione interna della ricerca, della riflessione teorica e dell’esperienza clinica.
La pluralità degli approcci psicoterapeutici, che fanno riferimento a diversi contesti teorici e utilizzano tecniche diverse, appartiene dunque ormai in modo stabile al quadro sociale e culturale delle nostre società. Questa pluralità apre un inevitabile confronto sulle pretese di validità dei diversi orientamenti, che tendono spesso a sottolineare le reciproche differenze. Una notevole quantità di ricerche e di dati clinici mette però in evidenza una forte omogeneità dei fattori che favoriscono la riuscita o l’insuccesso del lavoro terapeutico, al di là della particolarità degli orientamenti. I processi di revisione critica che attraversano le scuole più consolidate e l’emergere di nuovi quadri riferimento per una pratica clinica in continua evoluzione stimolano d’altro canto l’esigenza di confronto e di comunicazione.
Il ciclo si è proposto dunque di rivolgere la domanda cruciale “che cosa guarisce la psicoterapia?” ad alcuni qualificati terapeuti di diversi orientamenti, invitandoli a interrogarsi sui loro successi e suoi loro fallimenti a partire dall’esperienza clinica. Nella forma piana di una conversazione con il conduttore e col pubblico ogni serata ha permesso un incontro con la persona di un terapeuta, oltre che con la sua teoria e con la sua clinica. La sessione finale del ciclo ha trattato le fila di queste testimonianze, confrontandole da un lato coi risultati delle ricerche sull’efficacia della psicoterapia, dall’altro col patrimonio terapeutico e con le pratiche di guarigione delle culture tradizionali.
Gli ospiti che hanno partecipato agli incontri sono stati: Giampaolo Lai, Mara Selvini Palazzoli, Silvia Montefoschi, Jean Ambrosi, Roger Gentis. Alberto Zucconi e Maurizio Viario hanno presentato e discusso le ricerche comparative sulle psicoterapie, Paolo Inghilleri ha proposto una riflessione sui metodi di guarigione nelle culture tradizionali, in particolare presso gli Indiani d’America.
Tre i diversi punti di vista sulla situazione terapeutica: quello “interno” del terapeuta, quello “esterno” della ricerca che indaga sui risultati e quello di un contesto culturale lontano dalla realtà contemporanea. La pluralità degli scenari emersi ha rivelato la differenza ma anche la sostanziale omogeneità dei problemi di fronte ai quali si trova chi incontra la sofferenza e il disagio psichico.
La situazione terapeutica è una situazione di ascolto e di accoglienza, uno spazio e un tempo in cui la sofferenza non viene negata ma riconosciuta. Roger Gentis ha ricordato questa fondamentale verità del momento terapeutico.
L’ascolto tende a favorire l’espressione del disagio psichico, ad assecondarne la voce, anche quando questa viene percepita come minacciosa per il terapeuta e per il paziente.
La teoria è allora un appiglio, un’ancora di salvezza per le paure del terapeuta. Per questo è difficile realizzare quell’ ”ascolto senza rete” di cui parla Giampaolo Lai, altro ospite del ciclo: un ascolto che non è imprigionato dal riferimento alla teoria e alla volontà di cambiare il paziente. La psicoterapia  è un rapporto che si realizza tra due persone consenzienti e senza questa libertà e questa presenza non esiste situazione terapeutica, come ha ricordato con forza Jean Ambrosi. La psicoterapia può realizzarsi solo se da una parte c’è una persona che vuole liberamente, ma anche se nello stesso tempo esiste l’altro polo della relazione, il terapeuta. È ancora Lai a mettere in evidenza, in modo provocatorio, l’importanza degli obiettivi di quest’ultimo: la “felicità” del terapeuta è infatti per lui l’unico criterio verificabile di intervento e l’unica misura dei risultati. Ciò che sembra verificarsi in ogni caso è quello che Silvia Montefoschi, a partire da un approccio junghiano, ha indicato come il punto di arrivo attuale del suo percorso di riflessione sulla pratica clinica: il processo terapeutico è una via di cambiamento della coscienza, che permette alla persona di riconoscersi collocata nell’esistenza e di assumere la responsabilità per il proprio posto nel mondo (per il proprio posto nell’ “essere”, in tutte le sue dimensioni fisiche, affettive, mentali espirituali).
È del resto così che nelle culture tradizionali si definisce la malattia e la guarigione (lo ha ricordato nel ciclo Paolo Inghilleri). L’individuo è situato all’interno di un ordine (fisico-biologico, sociale e cosmico-spirituale) di cui la “malattia” segnala sempre una rottura in qualche punto. La “guarigione” si realizza soltanto ristabilendo l’equilibrio e riattivando il circuito che lega l’individuo al cosmo.
Ma perché questo avvenga occorre una ristrutturazione del campo, occorre che muti la percezione e la definizione della situazione in cui la persona si trova e che produce la sofferenza attuale. È dunque questa ristrutturazione che l’intervento terapeutico tende a produrre.
Sul terreno clinico non esiste probabilmente una situazione in cui ciò sia così evidente come nella patologia familiare. Mara Salvini Palazzoli ha ricordato che l’intervento terapeutico, con la rivelazione a volte anche drammatica, dei giochi familiari rende confessabile l’inconfessabile e permette ai singoli di giocare altri giochi.
Per tornare alla domanda iniziale, le ricerche sull’efficacia della psicoterapia sono raramente conclusive in termini di concreti assoluti, hanno ricordato Alberto Zucconi e Maurizio Viario; sono tuttavia molto esplicite nell’indicare la relazione come chiave cruciale del processo terapeutico. Le ricerche mostrano che i fattori di successo della psicoterapia sono essenzialmente legati alla qualità della relazione.
Sul versante del terapeuta emergono come fattori significanti la sua autenticità (potremmo dire la sua vicinanza a se stesso, o con i termini di Lai la consapevolezza della sua felicità/infelicità); la capacità di accettazione dell’altro (cioè, diremmo noi, l’assenza di una volontà onnipotente di sostituirsi all’altro); la capacità di ascolto (che non significa altro che  la capacità di fare spazio e di dare tempo alla “parola” della malattia).
Sul versante del paziente operano per il successo terapeutico la capacità di affrontare la propria debolezza e di assumere il cambiamento come possibile e desiderabile: questa “forza della debolezza”, questa possibilità di fidarsi di un altro contando contemporaneamente su di sé, sembra essere il fattore decisivo di un percorso terapeutico.

Anna Fabbrini