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“DOTTORI DELLA MENTE” E “SELVAGGI”

Mi ha colpito una battuta, che l’articolista firmatario del pezzo – Floridio Bozicchi – attribuisce a Diego Napolitani: “E’ un mestiere non regolamentabile. Qualsiasi legge che volesse inquadrarlo sarebbe fatta per essere evasa. Mi dica, è possibile incamiciare con delle leggi un pastore d’anime?”.
Credo che tutto il problema stia qui. Voglio dire: se un professionista del calibro e dell’esperienza di D. Napolitani ha questa convinzione, ciò significa che tanto più la possono avere persone meno preparate professionalmente di lui. E non dubito che tutti siano in buona fede!
 L’unico problema che mi pare rilevare riguarda la possibilità di valutare sia le persone che le azioni che riguardano la psicoterapia o la psicoanalisi: come si fa a distinguere un “pastore d’anime” da un incompetente? Forse qualcuno potrebbe essere tentato di sostenere che è  l’associazione scuola di appartenenza che “garantisce”. Ma la domanda successiva è: quale? Poiché neppure su questo esiste un accordo. C’è chi sostiene che solo le cosiddette Scuole Classiche hanno il diritto all’imprimatur. Ma anche qui si può aprire un dibattito, anche sulla base del fatto che lo stesso Freud considerava i suoi ex-allievi degli eterodossi.
Non si parla neppure poi di tutte le altre scuole che formano psicoterapeuti che si basano su teorie successive e comunque diverse da quella freudiana. Un’altra possibile via di soluzione potrebbe essere individuata se si potessero individuare alcune regole di fondo cui si potessero o dovessero attenere tutti gli psicoterapeuti e gli psicoanalisti indipendentemente dal tipo di terapia o pratica su cui fondano la loro professione.
Ma anche questa via pare sbarrata dal momento che sempre più pare diffondersi – anche fra gli analisti più ortodossi – l’abitudine di considerare le regole procedurali degli “optionals” che sono di relativa importanza nel contesto. Si potrebbe forse adottare una soluzione drastica, tesa ad “estirpare il male fin dalla radice”: sostituire il terapeuta-analista con un computer: pare che i paziente con una macchina abbiano più facilità a parlare che con un essere umano. Vergogna, sensi di colpa, timidezza, antagonismo vengono superati facilmente col risultato che tutte le informazioni raccolte dalla macchina sono più numerose che quelle ottenute da un essere umano. Ma è pur vero che il computer non può scegliere dove approfondire il discorso; è vero che fa solo domande che riprendono discorsi del paziente e che chiedono semplicemente di motivare quanto detto; che la sperimentazione attuale – negli USA – parla per ora in particolare di tests che vanno a sostituire le interviste preliminari degli  psicologi  non si tratta dunque di trattamenti veri e  propri neppure brevi. Pare dunque che anche in questo caso una soluzione richieda per lo meno altro tempo per il perfezionamento dello strumento tecnico, che comunque attualmente resta molto più inadeguato di qualsiasi professionista “umano”.
Mi viene un’idea: e se l’unica soluzione possibile fosse quella di impedire le situazioni di disagio e sofferenza moltiplicando gli interventi di prevenzione primaria tesi a migliorare la qualità della vita e ad aumentare la soddisfazione personale degli esseri umani?

Margherita Sberna