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L’ISOLA MISTERIOSA
un laboratorio sui confini

Gli scampati al naufragio cominciarono a raccogliersi sulla riva dell’isola. Grave era stato il pericolo al quale erano scampati, ma ormai la memoria s’era persa. Incombe ora il disagio della terra sconosciuta, la paura dell’ignoto, la nostalgia della terra natale, la solitudine ed anche uno strano desiderio, non manifesto neanche a sè stessi, di avventurarsi curiosi di cui si possono immaginare meraviglie e paventare pericoli.
Erano in dodici, più due dell’equipaggio. Si guardarono in faccia, si misurarono in silenzio, si dissero i loro nomi, e ciascuno cercò di ritrovarsi rifugio in un ruolo, quello che per anni, nella loro città, aveva costituito una sicurezza e un’ancora.
Scoprirono ben presto che tutte le certezze erano naufragate insieme alla nave. Ora erano lì, seduti in cerchio nel primo posto apparso sicuro. Antiche domande, da sempre presenti dentro di loro, emersero simultaneamente. Bisogni creduti da tempo superati pressavano inderogabilmente, e le paure e le angosce cominciarono ad avere un volto, insieme ai meccanismi di difesa, pronti a scattare per non morire.
Si fa il punto della situazione. Sull’isola sono naufragate altre navi, e altra gente da sempre vi abita. Chi sono? Come sono? Amici, nemici, pacifici, violenti? Che terra è questa? Quali le sue leggi? Che lingua parlano? Curiosità, paura, reazione; aggressività, possesso; passività, attività; io contro tutti, io nonostante tutti, io più forte, io più bravo, io più debole, io sottomesso, io estraniato e nostalgico, io uomo, io donna, io grande, io troppo giovane, io troppo vecchio. Io più di te uguale noi, noi gruppo, alla ricerca di un’identità. Ma è difficile definirsi. Dipendenza e autonomia, figlio e madre, adulto e bambino convivono. Il linguaggio è incerto, quasi un balbettio. Le lacrime hanno il posto delle parole, i lunghi silenzi dicono la paura di esistere per sé e per gli altri, da soli o con gli altri.
Il gruppo madre contiene tutto in una sorta di autarchia, dove i bisogni primari vengono quasi ignorati per paura che, aprendosi verso l’esterno, le poche sicurezze date da un rapporto inter-simbiotico possono volatilizzarsi. Poi il gruppo comincia a darsi delle regole, si costituisce come padre, i vari componenti formulano le leggi e si impegnano a rispettarle. Solo ora possono muoversi coscientemente verso l’esterno, uscire dalla sicurezza del proprio alveo costituisce quasi un trauma.
Altri gruppi, all’esterno, vivono dinamiche analoghe.
Ciascuno ha paura: perdere l’identità così faticosamente conquistata è un rischio troppo grosso. Ogni gruppo parla una lingua diversa, l’unico linguaggio comune è costituito da quella paura, e la paura si esprime con l’aggressività, la violenza, la prevaricazione, il potere. La comunicazione come scambio è complessa. Appare impossibile attuarla all’esterno di se stesso. Il confine tra le varie parti di Sé ha mura ben fortificate, anche se spesso ignote. Mettere in comunicazione le varie ricchezze presenti entro un gruppo composto da varie persone è un lavoro arduo. Aprire i confini a gruppo via via più ampi al di là delle dinamiche di conquista rimane un sogno o un progetto per un uomo e una società più liberi e più adulti.

FRANCA MAISETTI MAZZEI