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L'Istituto
Educativo - Assistenziale è l'unica risposta
ad un bambino in difficoltà?
Negli
ultimi anni si è tentato in Italia di eliminare le istituzioni totali come
punti di segregazione e alienazione riferendosi soprattutto ai centri di
psichiatria e agli istituti per handicappati. Eppure è sconvolgente pensare
che attualmente, su tutto il territorio sono presenti centinaia di istituti
dove sono ospitati migliaia di bambini cosiddetti "normali".
Cerchiamo di comprendere quale è la logica che fa sì che un bambino venga
posto in un istituto educativo assistenziale. Si può presumere che egli
non possa ricevere nel suo ambiente assistenza ed educazione, e che queste
due realtà gli possano essere date in modo più soddisfacente in una istituzione
totale. Troppo facilmente è sancita la convinzione dell'incapacità del nucleo
familiare di origine del bambino ad essergli d'aiuto, e la validità e la
bontà del collegio nel compiere le funzioni educative.
Si pensa alla negatività di questi ricoveri solo quando vengono alla luce
casi eclatanti di maltrattamenti e aberrazioni, ma queste sono eccezioni,
infatti nella maggioranza dei casi i minori ricevono delle violenze fisiche
eppure le cicatrici della loro anima difficilmente si rimargineranno. E
a queste dovrebbero pensare gli operatori sociali quando "consigliano"
o "decidono" il ricovero di bambini come unica soluzione possibile
alle loro necessità.
Troppo spesso si considera dannosa l'istituzionalizzazione del bambino perché
tale, ma solo nella misura in cui l'istituto era mal organizzato e con personale
qualitativamente insufficiente. In realtà non esisterà mai un'istituzione
talmente perfetta da poter sostituire una famiglia, magari una famiglia
tutt'altro che perfetta. Gli avvenimenti che portano a far sì che un minore
varchi i cancelli di un istituto sono vari. Non sempre questo avviene solo
a bambini orfani e abbandonati. Molto spesso sono i genitori stessi a scegliere
questa soluzione.
Così un gran numero di bambini viene ricoverato per questioni economiche
e di lavoro della madre o per la mancanza delle strutture di base.
Si pensa così che non esista altro bisogno di quello di mangiare un po'
meglio, di avere spazi abitativi migliori, di avere una scuola e maggiore
sorveglianza. Come se tutto ciò risolvesse effettivamente ogni aspettativa
del minore.
Un altro motivo frequente di ricovero del bambino è la disgregazione della
famiglia; i genitori si separano e costruiscono altri nuclei dove il bambino
non riesce ad armonizzarsi e crea disturbo. Di conseguenza se non ci sono
nonni accoglienti, il collegio è l'unica via. Una volta la maggioranza dei
ricoverati proveniva dalle zone depresse del meridione d'Italia, mentre
ora un gran numero di ospiti è costituito da figli di immigrati comunitari
i cui genitori lavorano prevalentemente "a tutto servizio" e non
hanno un posto dove metterli.
In precedenza si parlava della mortificazione dell'anima di un bambino
che vive n collegio. Infatti proviamo ad immaginare cosa vuol dire la perdita
del proprio ruolo sociale precedentemente avuto (anche se in una famiglia
problematica), la perdita degli oggetti personali percepiti come "sostegno",
l'assunzione di uno stile di vita standardizzato, la mancanza di tempi e
spazi personali; l'impossibilità di avere ogni minima forma di autonomia,
non solo nell'azione, ma anche nell'espressione dei sentimenti. Si sviluppano
così atteggiamenti di passività e dipendenza dall'adulto che rappresenta
il potere, ma anche la stabilità e la sicurezza. Altresì verso i coetanei
si manifestano momenti di aggressività e di competizione; infatti gli altri
bambini potrebbero privarli del poco affetto che hanno a disposizione. Il
comportamento degli educatori non riesce a migliorare la situazione; alcuni
cercano di imporre rapporti efficienti ma distaccati per evitare "preferenze"
e "illusioni"; altri si atteggiano a genitori sostituendoli negli
affetti del nucleo originario, non favorendo di certo un eventuale reinserimento.
Non si deve giudicare malamente gli educatori, ma è proprio il concetto
di grande istituto che risulta innaturale per un equilibrato sviluppo della
personalità. Proprio i minori che sembrano molto bene adattati alla vita
dell'istituto presentano già dei fattori di alienazione. È innegabile che
ci sono delle situazioni per cui un bambino è impossibilitato a crescere
in famiglia: allora è un vero obbligo da parte degli operatori sociali trovare
qualcosa che assomigli seppur vagamente ad una famiglia, ma questa soluzione
non è certo un istituto educativo-assistenziale. Dagli anni '80 esiste la
legge dell'affido, ma come pratica è quasi sconosciuta sia all'opinione
pubblica alle istituzioni sociali.
Le persone che si offrono per questa accoglienza molto spesso sono
aiutate e sostenute, anzi vengono accusate di voler aggirare l'ostacolo
per ottenere rapide adozioni.
I genitori del bambino preferiscono metterli in istituto, quasi per
un senso di possesso, nel timore di perdere il loro affetto: "meglio
che non amino nessuno se non possono amare nessuno". Gli assistenti
sociali non riescono a preparare adeguatamente entrambe le parti e così
l'istituto diventa un modo inadeguato ma sbrigativo per risolvere il problema.
Naturalmente nessuno ascolta il minore, soprattutto su quali siano i suoi
sentimenti mentre vive in collegio. Il ricovero in istituto è veramente
un colpo fortissimo al legame madre-figlio, molto più che se il bimbo o
l'adolescente vivesse in un nucleo affidatario, perché da una parte di sviluppa
il rancore e dall'altra il senso di colpa. La quasi totalità delle madri
esprime una valutazione positiva sulle possibilità dell'istituto di soddisfare
i bisogni fondamentali del bambino. Sarebbe interessante verificare se tale
convinzione sia reale, se non il frutto del bisogno di coprire, più o meno
consapevolmente, sensi di colpa e angosce per la separazione dal figlio
e non osino esprimere una valutazione negativa per paura delle conseguenze
che ciò potrebbe portare nei rapporti con l'istituto.
Uno dei motivi addotti per il ricovero dei minori è la possibilità
di frequentare in modo regolare la scuola; cosa che a volte è problematica
per la scarsa presenza dei genitori in casa e per il loro basso livello
di istruzione. Ormai è bene documentata l'insufficiente capacità delle scuole
italiane a fornire un insegnamento individualizzato che tenga conto delle
possibilità di ogni alunno e si prefigga la stimolazione dei meno istruiti
affinché possano ricevere dalla scuola ciò che gli spetta.
È evidente come l'inserimento del bambino in un istituto garantisca la sua
frequenza scolastica, ma non l'apprendimento e un'adeguata preparazione
al futuro. La percentuale di ripetenze è infatti elevata e questo accade
soprattutto per le problematiche affettive che il ricovero comporta.
In molti collegi la scuola è esterna in modo che permetta una socializzazione
con gli altri coetanei. Che questo avvenga è anche impossibile, perché i
bambini devono rispettare l'organizzazione dell'istituto e quindi ad esempio
non possono andare a trovare gli amici a casa oppure fare compiti e passeggiate
insieme alla sorveglianza degli educatori. Lo stesso modo di vestirsi o
scegliere i quaderni è diverso da quello dei coetanei, e si sa quanto, soprattutto
per gli adolescenti, siano importanti questi dettagli.
L'ultimo punto da evidenziare è l'eccessiva influenza ideologica sull'educazione
all'interno del collegio. Spesso la religione d'origine specialmente per
gli stranieri, non viene rispettata nelle pratiche culturali ed alimentari
e per gli altri la religione diventa pratica obbligatoria e di routine.
In conclusione, non bisogna ricordarsi dei bambini in istituto solo a Natale
gli si portano i giocattoli o quando, una volta alla settimana, si va a
"fargli fare i compiti", ma bisogna premere per rendere più agili
le pratiche per l'affido e l'adozione, affinché una persona non debba trascorrere
tutto l'infanzia e l'adolescenza in istituto in attesa di qualcuno che forse
non verrà mai a prenderla.
Gaia Valmarin