Non c’è dubbio che il termine " volontariato " sia
divenuto molto attuale: i numerosi incontri e convegni sui tema lo
dimostrano. Tuttavia mi sembra che la frequenza
con cui il termine è adoperato non sia proporzionale alla chiarezza
dei suoi contorni. Gli equivoci di definizione
consentono operazioni di dubbia trasparenza, che rischiano di veder
raggruppate, sotto lo stesso titolo, attività molto diverse
e magari con finalità non ugualmente nobili.
1. Volontariato e partecipazione
Possiamo considerare partecipazione
quella attività dei cittadino tesa a contribuire alle decisioni
di istituzioni locali o statali, pubbliche o private. Il cittadino
che partecipa alle riunioni del Consiglio di Zona, agli organi collegiali
della scuola, alla vita di sezione dei partito o del sindacato, ad
assemblee, cortei, incontri e discussioni, non fa altro che esprimere
la sua vocazione di " animale politico " e realizzare un
suo preciso diritto-dovere. Possiamo dire che quando il cittadino
si limita ad offrire la partecipazione delle sue idee presso quegli
enti o servizi di cui è utente, diretto o indiretto, non si
configura un’azione di volontariato. La ragione di questa distinzione
può ricercarsi negli elementi di " dovere " collegati
allo status di cittadino o di utente: ciascuno ha il dovere di contribuire
con le sue idee alla vita della civitas o dei servizi.
1.1 La prima area è quella della partecipazione
all’attività politica e sindacale, come militante o quadro
non retribuito, o come delegato o rappresentante. Costoro non solo
espletano un diritto-dovere di partecipazione, ma si accollano carichi
di responsabilità ed operatività eccedenti rispetto
a quelli dei normali cittadini: e fanno questo come servizio volontario
alla - comunità.
1.2 La seconda area è quella dei cittadini
che partecipano a titolo gratuito ad enti, gruppi, associazioni
di cui non sono utenti né diretti né indiretti. Appartengono
a quest’area coloro che fanno parte del direttivo di una società
sportiva, che promuovono gruppi di iniziativa culturale o ricreativa,
che dirigono associazioni giovanili ecc.
1.3 Infine possiamo identificare un’area
intermedia fra partecipazione e volontariato, in quelle
prestazioni di cittadini che non si limitano alle idee ma arrivano
ad attività operative. Per esempio, i genitori che collaborano
manualmente alla costruzione di un campo-giochi nei giardino della
scuola; o i cittadini che collaborano attivamente ad una campagna
di sensibilizzazione. Insomma credo che laddove non esista l’elemento
dei dovere civico, ogni attività si può definire volontariato.
2. Volontariato e lavoro
Capita di sentir parlare di volontariato
a tempo pieno. Questa idea mi sembra sottenda una confusione fra volontariato
e lavoro in senso proprio. Ciò che caratterizza il lavoro è
l’elemento necessità. Ogni attività svolta per sopravvivere
e remunerata con un corrispettivo anche modesto, si può definire
come lavoro o professione. Il volontariato a tempo pieno si può
trovare solo nei casi in cui il soggetto volontario abbia altrove
le proprie fonti di sostentamento. Se definiamo come volontaria un’attività
da cui si trae sostentamento, allora rischiamo di omologare al volontariato
ogni attività lavorativa. Anche coloro che operano in cooperative
o associazioni, se lo fanno a titolo remunerato, e non dispongono
di altre fonti di sostentamento, non si possono definire altro che
come lavoratori.
Non esiste alcuna differenza fra chi
presta la propria opera retribuita per una cooperativa o per una società
per azioni o per un ente locale.
Associazioni, gruppi, enti che attraverso
convenzioni con enti locali appaltano un servizio, non sono distinguibili
dalle comuni società commerciali. L’assenza di scopi di lucro
che solitamente caratterizza le associazioni, non riguarda i singoli
operatori che sono in ogni caso lavoratori salariati. La convenzione
costituisce una diversità solo nel caso in cui il corrispettivo
versato dall’ente locale fosse molto al di sotto della prestazione
effettuata dall’associazione. Questo caso si configura più
come un contributo che come una convenzione, e rischia di assumere
connotati di lavoro nero, come vedremo nel paragrafo 4.
3. Volontariato fra pubblico e privato
Spesso si cataloga il volontariato come
" privato " in opposizione al " pubblico ".
Questo equivoco va di pari passo con quello che
identifica il pubblico con il comunale e lo statale. Allo stato attuale
delle cose nel nostro Paese, sarebbe più giustificata un’equivalenza
opposta. Per esempio, io statale ed il municipale, nell’attuale regime
partitocratico e quasi corporativo, è assai più spesso
gestito come privato (nel senso di sottratto alla collettività)
che come pubblico. Ogni tipo di volontariato vero, inteso come servizio
disinteressato e " non doveroso ", è
pubblico in quanto a beneficio della collettività o di sue
componenti. Il volontariato nasce certamente da spinte e motivazioni
personali, ma è pubblico dal momento che si prefigge di rendere
un servizio alla collettività; il pubblico (statale o municipale
che sia) nasce da motivazioni collettive, ma è spesso privato,
nel senso di strumentalizzato a fini personali o categoriali. Tuttavia
se è lecito attribuire al volontariato il carattere di servizio
pubblico, è assai pericoloso ridurre il concetto di servizio
pubblico nell’area del volontariato. Esistono molti servizi ed operatori
pubblici che si sforzano continuamente di operare come un vero servizio
alla collettività; come esistono molti volontari che operano
in un’ottica privatistica. Occorre dunque sfuggire a pericolose dicotomie.
Il lavoro sociale, sia pubblico che privato, sia volontario che professionale,
deve essere sempre finalizzato alla fornitura di servizi alla comunità
o a sue componenti.
Nei decennio ‘70-’80 l’area sociale
privata, cioè né statale né municipale, è
stata demonizzata; sarebbe sciocco demonizzare, nel prossimo decennio,
tutto ciò che è statale. Se si è rivelata assurda
ed insostenibile l’ipotesi del Welfare State, cioè di uno Stato
protettivo dalla culla alla tomba, non è meno assurdo il ripescaggio
di uno Stato di tipo liberale ottocentesco, basato sul " lasciar
fare " ai privati.
4. Il volontariato
equivoco
Una forma assai diffusa di volontariato
è quello che nasce da motivazioni di apprendimento o di inserimento
al lavoro. Medici, avvocati, architetti, ma anche psicologi, assistenti
sociali, infermieri, insegnanti, sono soggetti a lunghi periodi di
tirocinio prima, e di precariato poi. Spesso si tratta di riti di
iniziazione molto pesanti, imposti da corporazioni potenti ed elitarie;
spesso invece si tratta di serio addestramento " sul campo ".
Troviamo cosi laureati in psicologia
che fanno i volontari presso Ospedali Psichiatrici; medici che fanno
i volontari in corsia; ricercatori volontari all’Università;
maestre volontarie presso soggiorni estivi per minori. Il termine
volontario viene usato in questi casi per sottolineare la totale o
parziale gratuità della prestazione; l’assenza di un vincolo
contrattuale di lavoro; la possibilità permanente di espulsione.
Dietro questo uso del termine di volontario
si nascondono cioè situazioni di precariato, di addestramento
o addirittura di lavoro nero. Questa situazione equivoca non solo
danneggia il singolo operatore, ma anche l’immagine del volontariato
in genere: essa nasconde una realtà di vero e proprio sfruttamento.
Sfruttamento che non viene operato solo da individui od organizzazioni
private, ma sancito anche dallo Stato, come nel caso degli insegnanti,
degli assistenti universitari o degli infermieri. Il vero volontariato
organizzato dovrebbe lottare con fermezza contro queste situazioni
ambigue ed inquinanti.
Il problema del rapporto fra volontariato
e lavoro nero è particolarmente delicato ed apre due fronti
di problemi.
4.1 Il primo fronte è quello relativo allo
sfruttamento dei soggetti volontari. Possiamo dire che un’attività
è davvero volontaria quando non deve ragionevolmente essere
retribuita, cioè quando è accessoria e non sostitutiva.
I volontari che lavorano al posto di operatori pubblici;
quelli che prestano servizi al posto di servizi pubblici inesistenti;
quelli che accettano convenzioni molto lontane dai normali livelli
retributivi: possono essere definiti " volontari dello sfruttamento
".
Poco importa se dal punto di vista soggettivo costoro
riportano dal loro servizio qualche gratificazione d’ordine morale,
qualche beneficio di status, o qualche vantaggio perverso. In fondo
nessun lavoratore sfruttato è del tutto privo di questi vantaggi
soggettivi, che sono appunto la sola contropartita all’accettazione
dello sfruttamento. Essi sono oggettivamente sfruttati nel senso
che l’ente presso cui prestano la loro opera, ottiene dal loro lavoro
dei benefici economici, di prestigio o di potere che non retribuisce.
Occorre disoccultare attentamente queste situazioni anche laddove
non appare un beneficio (Marx direbbe un plusvalore) economico.
Spesso si tratta di benefici di potere o di prestigio, per le organizzazioni
o per i capi. Per esempio, l’uso di volontari sfruttati nell’università,
non offre guadagni materiali a nessuno, ma consente una diminuzione
della conflittualità studentesca, una maggiore pace sociale,
e quindi una maggiore forza dei burocrati degli atenei o del ministero.
La non retribuzione del plasma offerto dai donatori
di sangue, consente una labilità dei controlli sul mercato
del plasma offrendo possibilità di speculazioni economiche
o di potere da parte dei gruppi preposti alla distribuzione. (Qualcuno
si è scandalizzato di fronte a questa affermazione, sostenendo
che, retribuire il sangue, potrebbe incentivare un vile mercato;
tuttavia questo problema potrebbe essere risolto attraverso retribuzioni
collettive per zona, da destinare ad iniziative socialmente utili).
In sostanza direi che volontaria è solo quella attività
che completa, si aggiunge, arricchisce un servizio sociale attrezzato
per funzionare a livelli normali di efficacia. Laddove il volontariato
sostituisce, vicaria, sta al posto di servizi sociali inesistenti
o inefficaci, dobbiamo parlare di sfruttamento. Volontarie sono
quelle attività senza le quali una collettività avrebbe
un funzionamento normale e civile. Se il servizio volontario diventa
necessario, si equipara al lavoro, che, se non è retribuito,
è definibile come nero.
4.2 Il secondo fronte di problemi, connesso al primo,
è quello che riguarda la copertura delle inadempienze
pubbliche.
Questo rischio appare evidente nelle situazioni convenzionate.
Le aree di bisogno della comunità sono infinite per numero
e per quantità, ed il livello di consapevolezza dei bisogni
è un processo che si evolve storicamente. Le istituzioni
pubbliche, di governo o di servizio, in una società civile
e moderna, hanno il dovere di rispondere ai bisogni che emergono
a consapevolezza presso larghi strati sociali, a livelli ragionevoli
di efficacia, pur in base a criteri economici.
Affermare questo, con decisione, significa riconoscere
allo Stato moderno un ruolo preciso di responsabilità, di
solidarismo e di servizio.
Non vorrei che dietro tutto questo entusiasmo per
il riflusso, il privato, il " fai da te ",
l’aiutiamoci a vicenda, si nascondesse una nostalgia
per uno Stato che si limiti a riscuotere le tasse, offrendo in cambio
qualche guerra ogni tanto. Il crescente interesse mostrato da molti
Ministeri italiani per il volontariato odora fin troppo di tentazione
abdicataria. Uno Stato che ha fallito nello scorso decennio l’ipotesi
del Welfare State, sembra ora molto interessato ad una ristrutturazione
del sociale basata sull’auto aiuto collettivo. Magari con tanto
interesse per una ripetizione del modello delle scuole religiose.,
le quali, ricche come sono di volontariato, consentono allo Stato
un enorme risparmio per le spese d’istruzione.
Di fronte a questo tentativo tanto più seducente
quanto più si presenta come " liberale ",
occorre ribadire che uno Stato moderno e civile
non serve affatto a tutelare i confini minacciati, battere moneta
e punire la devianza, ma serve soprattutto a fornire adeguati servizi
(educativi, sanitari, assistenziali, ecc.). I servizi sono adeguati
quando rispondono con ragionevole efficacia ai bisogni consapevoli
in larghi strati. Lo Stato non deve, né può, dare
tutto; ma deve fornire ai cittadini i servizi essenziali ad una
vita civile.
Da questa impostazione emerge chiaro il confine operativo
del volontariato.
5. Il confine operativo del volontariato
Esso deve agire in quelle aree di bisogno
che non hanno ancora raggiunto la coscienza di larghi strati di popolazione,
oppure deve agire per integrare, perfezionare, ampliare quei servizi
che sono già ragionevolmente efficienti.
5.1 I " bisogni di
frontiera", territorio elettivo del volontariato.
Dieci anni fa il problema della tossicodipendenza
era agli albori, toccava infime minoranze giovanili, non sfiorava
affatto la coscienza della popolazione: era insomma una nuova frontiera
di bisogno.
Il volontariato si è impegnato con enormi meriti
in questo settore e legittimamente, in quanto sarebbe stato prematuro
chiedere alla collettività di farsi carico istituzionalmente
del problema. Oggi il problema è enorme sia sul piano quantitativo
(migliaia di individui ne sono coinvolti) sia su quello qualitativo
(ne è coinvolta un’intera generazione giovanile); inoltre
è ben presente all’opinione pubblica, alla stampa, alle organizzazioni
di massa, alla coscienza collettiva. Che lo Stato sia così
assente da questo problema anche oggi, è semplicemente scandaloso;
questo riporta il nostro Paese in condizioni da Medioevo. Che dei
volontari se ne occupino, rischia di essere una pericolosa copertura.
Su questo tema il volontariato ha oggi il dovere di muovere una
seria lotta allo Stato e agli Enti locali, rifiutando convenzioni
da elemosina o da sfruttamento. In altre parole, il volontariato
ha come territorio elettivo quello dei bisogni di frontiera, ma
deve evitare, se non vuole colludere con le vergognose abdicazioni
dello Stato, di agire in territori che di frontiera non sono più.
Questo non significa lasciar morire per le strade
i giovani tossicodipendenti, ma semmai dare al volontariato una
connotazione di lotta politica pressante.
Temi simili a questo, che da temi di frontiera sono
divenuti centrali, sono molti altri: la tutela ambientale, l’assistenza
agli handicappati fisici e mentali, l'analfabetismo, ecc.
Fra i temi ancora di frontiera se ne possono indicare
a decine, e tutti possono considerarsi territori del volontariato:
i problemi del bambino ospedalizzato o del parto non traumatico;
quelli delle donne mastectomizzate; l’educazione popolare permanente;
i problemi del nomadismo e così via.
5.2 Il secondo grande territorio del volontariato
è quello della integrazione dei servizi già ragionevolmente
efficienti.
È. ovvio che il termine " ragionevolmente
" è dinamico, cioè suscettibile di cambiare in
base alla situazione storica concreta di un Paese. Esso è
la sintesi dialettica fra bisogni e risorse, fra valori e mezzi
disponibili. Per esempio, nel 1980 il valore di dignità riconosciuto
ad ogni persona è tale da far considerare necessaria una
assistenza ad individui handicappati: essi devono disporre di servizi
collettivi di riabilitazione e di assistenza e di servizi personalizzati
di sostegno. Tuttavia il bisogno reale di certe forme di handicap
è quello di una assistenza personalizzata, qualificata e
continuativa: il che in astratto vuole dire 4 o 5 operatori
per ogni individuo handicappato. Questo mi sembra che vada oltre
le risorse disponibili nel nostro Paese attualmente. Perciò
il volontariato può legittimamente operare verso gli handicappati
forme di assistenza o di sostegno, ad integrazione di servizi di
per sé efficaci.
Il servizio pubblico non può essere del tutto
personalizzato e non potrà mai fornire servizi accurati e
completi ad individui o minoranze. Allora il volontariato può
occuparsi dell’integrazione e del perfezionamento di certi servizi,
accanto ed in collaborazione con gli operatori dei servizi.
Questo però non significa sostituire
nei cronicari un personale inesistente o inefficiente; vicariare
il deserto delle comunità alternative; tappare i buchi di
una scuola dell’obbligo inadempiente.
Per concludere, il volontariato deve
rifiutare di fungere da coperchio alle numerose contraddizioni
sociali e da forza di riserva di uno Stato incapace di essere civile.
6. Conclusioni
Seguendo il filo del discorso possiamo
concludere che il volontariato da una parte è ovunque, dall’altra
è bene che operi in territori delimitati e transitori.
Dicendo che il volontariato è
ovunque sottolineiamo che ogni azione umana, finalizzata a un
servizio collettivo e svincolata dal carattere di dovere, è
un’azione di volontariato. Non è volontariato il solidarismo
reciproco, per un familiare o il vicino di casa. Non è volontariato
la partecipazione alla vita civile e politica. Né lo sono il
tirocinio, il precariato, l’apprendistato, o peggio ancora il lavoro
nero. Ma è volontariato il lavoro straordinario gratuito dell’assistente
sociale che segue un caso; l’impegno del delegato di reparto; il lavoro
del genitore nella scuola; l’assistenza psicologica verso cronici
o handicappati. Così inteso il volontariato è un’azione
collettiva e diffusissima, sia essa organizzata o individuale.
Dicendo che il volontariato è
bene che operi in territori delimitati e transitori, intendiamo
dire che esso deve agire o in settori integrativi di servizi già
ragionevolmente efficaci o in settori di frontiera. In questi casi
è importante che il volontariato si autodelimiti con precisione
costringendo il servizio pubblico ad occupare lo spazio che gli compete
senza abdicazioni; e che si prepari a lasciare il territorio di frontiera
occupato, o trasformandosi in professione o diventando integrativo.
Insistere con forza sui carattere
non doveroso ed integrativo del volontariato, significa intenderlo
inestricabilmente connesso ad un’azione di lotta politica. Il volontariato
cioè sarà tanto più se stesso quanto più
lotterà per essere accessorio ad un’organizzazione pubblica
che si assume le sue responsabilità.
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